|
|||
Partito Comunista Internazionale |
|||
(1951) |
I
Ogni lotta di classe è una lotta politica (Marx).
La lotta che si limita ad ottenere una diversa
ripartizione
dei guadagni economici, in quanto non sia diretta contro la struttura
sociale
dei rapporti di produzione, non è ancora una lotta politica.
Lo sconvolgimento dei rapporti di produzione propri
di un’epoca sociale e del dominio di una determinata classe è lo sbocco
di una lotta politica prolungata e spesso alterna, la cui chiave è la
questione dello Stato, il problema: chi ha il potere! (Lenin).
La lotta del proletariato moderno si manifesta e
si generalizza come lotta politica con la formazione e l’attività del
partito
di classe. La caratterizzazione specifica di questo partito risiede
nella seguente tesi: il fatto dello spiegamento completo del sistema
capitalista
industriale e del potere della borghesia, discendente dalle rivoluzioni
liberali e democratiche, non solo non esclude storicamente ma prepara
ed
acuisce sempre più la svolgersi del contrasto fra gli interessi di
classe
in guerra civile, in lotta armata.
III
Nella fase storica successiva alla dispersione
dell’apparato
di dominio capitalista, il compito del partito politico operaio rimane
ugualmente fondamentale, poiché la lotta fra le classi continua,
dialetticamente
rovesciata.
La linea caratteristica della teoria comunista sullo
Stato e la rivoluzione esclude anzitutto l’adattamento del meccanismo
legislativo ed esecutivo dello Stato borghese alla trasformazione
socialista
delle forme economiche (socialdemocratismo). Ma esclude ugualmente la
possibilità
di identificare in una breve crisi violenta la distruzione dello Stato,
ed il mutamento dei rapporti economici tradizionali che fino all’ultimo
ha protetto (anarchismo) o l’abbandono del processo di generazione
della
nuova organizzazione produttiva all’azione spontanea e sparpagliata dei
raggruppamenti di produttori per azienda o per mestiere (sindacalismo).
Ogni classe sociale il cui potere è stato
rovesciato,
anche col terrore, sopravvive a lungo nel tessuto dell’organismo
sociale,
e non abbandona la speranza di rivincita ed i tentativi di
riorganizzazione
politica, di restaurazione violenta ed anche mascherata. È passata da
classe dominante a classe vinta e dominata, ma non è scomparsa di colpo.
Il proletariato, che con l’organizzazione del
comunismo sparirà a sua volta come classe, e con ogni altra classe, nel
primo stadio dell’epoca postcapitalista si organizza esso stesso in
classe dominante
(Manifesto). È, dopo la distruzione del vecchio
Stato, il nuovo Stato proletariato, è la dittatura del proletariato.
Per andar oltre il sistema capitalista, prima
condizione
era il rovesciamento del potere borghese e la distruzione del suo
Stato.
Per la trasformazione sociale profonda e radicale che si inaugura, la
condizione
è la creazione di un apparato di Stato nuovo, proletario, capace come
ogni Stato storico di impiegare la forza e la costrizione.
La presenza di un simile apparato non caratterizza
la società comunista, ma la sua fase di costruzione. Assicurata questa,
non esiste più classe né dominazione di classe. Ma l’organo per la
dominazione di classe è lo Stato, e lo Stato non può essere altro.
Perciò lo Stato proletario preconizzato dai comunisti – ma la cui
rivendicazione
non ha affatto il valore di una credenza mistica, di un assoluto,
di un ideale – sarà uno strumento dialettico, un’arma di
classe,
e si dissolverà lentamente (Engels) attraverso la stessa realizzazione
delle sue funzioni, man mano che, in un lungo processo,
l’organizzazione
sociale si trasformerà da un sistema sociale di costrizione degli
uomini
(com’è stato sempre dopo la preistoria) in una rete unitaria,
scientificamente
costruita, di esercizio delle cose e delle forze naturali.
IV
Molte differenze fondamentali si presentano nel
ruolo
dello Stato in rapporto alle classi sociali ed alle organizzazioni
collettive,
così come si presenta nella storia dei regimi sorti dalla rivoluzione
borghese e come si presenterà dopo la vittoria proletaria.
a) L’ideologia borghese rivoluzionaria, prima
della lotta e della vittoria finale, presentò il suo futuro Stato
post-feudale
non come uno Stato di classe, ma come lo Stato popolare,
fondato
sulla soppressione di ogni ineguaglianza davanti alla legge, ciò che si
pretende corrisponda alla libertà ed alla uguaglianza di tutti i membri
della società.
La teoria proletaria proclama apertamente che il
suo Stato avvenire sarà uno Stato di classe, cioè uno strumento
maneggiato,
finché le classi esisteranno, da una classe unica. Le altre saranno, in
principio non meno che di fatto, messe fuori dello Stato e «fuori
legge».
La classe operaia, pervenuta al potere, «non lo dividerà con nessuno»
(Lenin).
b) Dopo la vittoria politica borghese, sulla
tradizione
di una campagna ideologica tenace, si proclamarono solennemente nei
diversi
paesi come base e fondamento dello Stato delle carte costituzionali o
dichiarazioni
di principio considerate come immutabili nel tempo, come espressione
definitiva
delle regole immanenti, infine scoperte, della vita sociale. Da quel
momento,
tutto il gioco delle forze politiche avrebbe dovuto svolgersi nel
quadro
invalicabile di questi statuti.
Lo Stato proletario non è affatto annunciato,
durante
la lotta contro il regime attuale, come una realizzazione stabile e
fissa
di un insieme di regole dei rapporti sociali dedotte da una ricerca
ideale
sulla natura dell’uomo e della società. Nel corso della sua vita, lo
Stato operaio evolverà incessantemente fino a disperdersi: la natura
dell’organizzazione
sociale, dell’associazione umana, cambierà in modo radicale secondo
le modificazioni della tecnica e delle forze di produzione, e la natura
dell’uomo si modificherà altrettanto profondamente allontanandosi
sempre
più da quelle del bue da lavoro e dello schiavo. Una costituzione
codificata
e permanente da proclamare dopo la rivoluzione operaia è un assurdo,
non
può figurare nel programma comunista; tecnicamente converrà adottare
regole scritte che non avranno però nulla di intangibile e manterranno
un carattere «strumentale» e transitorio, facendo a meno delle facezie
sull’etica sociale ed il diritto naturale.
c) La classe capitalista vittoriosa, conquistato
e perfino spezzato l’apparato feudale di potere, non esitò a impiegare
la forza dello Stato per reprimere i tentativi controrivoluzionari e di
restaurazione. Tuttavia, le misure più risolutamente terroristiche
furono
giustificate come dirette non contro i nemici di classe del
capitalismo,
ma contro i traditori del popolo, della nazione, della patria,
della
società civile, identificando tutti questi concetti vuoti con lo Stato
medesimo, ed in fondo col governo e col partito al potere.
Il proletariato vincitore, servendosi del
suo Stato «per schiacciare la resistenza inevitabile e disperata della
borghesia» (Lenin), colpirà gli antichi dominatori ed i loro ultimi
partigiani
ogni volta che si opporranno, nella logica difesa dei loro interessi di
classe, ai provvedimenti destinati a sradicare il privilegio economico.
Questi elementi sociali manterranno, di fronte all’apparato di potere,
una posizione estranea e passiva: quando cercheranno di uscire dalla
passività
loro imposta, la forza materiale li piegherà. Non saranno partecipi di
alcun «contratto sociale», non avranno alcun «dovere legale o
patriottico». Veri e propri prigionieri sociali di guerra
(come del resto furono, per la borghesia giacobina, in linea di fatto,
gli ex-aristocratici ed ecclesiastici) non avranno nulla da tradire,
perché non si sarà chiesto loro alcun ridicolo giuramento di lealtà.
d) Appena dissimulati dal bagliore storico
delle assemblee popolari e delle convenzioni democratiche, lo Stato
borghese
ebbe subito dei corpi armati ed una guardia di polizia per la lotta
interna
ed esterna contro le forze dell’antico regime; si affrettò a sostituire
la forca con la ghigliottina. Questo apparato esecutivo incaricato di
amministrare
la forza legale, sul grande piano storico come contro le violazioni
isolate
delle regole di attribuzione e di scambio proprie dell’economia
privatista,
agisce in modo perfettamente naturale contro i primi movimenti
proletari
che minacciano, anche solo per istinto, le forme di produzione
borghese.
La realtà imponente del nuovo dualismo sociale fu coperta dal gioco
dell’apparato
«legislativo» che pretendeva di realizzare la partecipazione di tutti
i cittadini e di tutte le opinioni di partito allo Stato e alla sua
direzione
in un equilibrio perfetto di pace sociale.
Lo Stato proletario, dotato dei caratteri manifesti
di dittatura di classe, non conterrà questa distinzione fra i due
stadi,
esecutivo e legislativo del potere, che saranno esercitati dagli stessi
organi, poiché tale distinzione è propria del regime che dissimula la
dittatura di una classe e la protegge sotto una struttura esterna
policlassista
e polipartitista. «La Comune non fu una corporazione
parlamentare,
fu un organismo di lavoro» (Marx).
e) Nella sua forma classica, lo Stato borghese,
coerente a una ideologia individualista che la finzione teorica estende
nella stessa misura a tutti i cittadini, riflesso mentale della realtà
dell’economia di proprietà privata monopolio di una classe, non volle
ammettere fra il suddito isolato ed il centro statale legale altre
organizzazioni
intermedie che le assemblee elettive costituzionali. Tollerò i club e
i partiti politici, necessari nella fase insurrezionale, in forza
dell’affermazione
demagogica del libero pensiero e come puri raggruppamenti confessionali
ed agenzie elettorali. In una seconda fase la realtà della repressione
di classe costrinse lo Stato a tollerare le organizzazioni degli
interessi
economici, i sindacati operai, di cui diffidava come di uno «Stato
nello
Stato». Infine, il sindacato da una parte divenne una forma di
solidarietà
adottata dai capitalisti per i loro fini di classe e dall’altra lo
Stato
intraprese, sotto il pretesto di riconoscerli legalmente,
l’assorbimento
e la sterilizzazione dei sindacati operai, privandoli di ogni autonomia
per impedirne la direzione ad opera del partito rivoluzionario.
Nello Stato proletario – dato che sussistano in
quanto sopravvivono datori di lavoro, o almeno esistono aziende
impersonali
i cui operai sono sempre dei salariati pagati in danaro – i sindacati
di lavoratori vivranno per proteggere il livello di vita della classe
lavoratrice,
la loro azione essendo, in questo, parallela all’azione del partito e
dello Stato. I sindacati delle categorie non operaie saranno proibiti.
In realtà, sul terreno della distribuzione dei redditi con le classi
non
proletarie o semiproletarie, il trattamento dell’operaio potrebbe
essere
minacciato da considerazioni diverse dalle esigenze superiori della
lotta
generale rivoluzionaria contro il capitalismo internazionale. Ma questa
possibilità, che sarà a lungo presente, giustifica il ruolo di
second’ordine
del sindacato in rapporto al partito politico comunista, avanguardia
rivoluzionaria,
internazionale, formante un tutto unitario coi partiti che lottano nei
paesi ancora capitalisti ed avente come tale la direzione dello Stato
operaio.
Lo Stato proletario non può essere animato che
da un solo partito, e non ha alcun senso che vada oltre la congiuntura
concreta la condizione ch’esso organizzi nei suoi ranghi e riceva nelle
«consultazioni popolari», vecchia trappola borghese, l’appoggio di
una maggioranza statistica. Fra le possibilità storiche c’è l’esistenza
di partiti politici che sembrano composti di proletari ma che subiscono
l’influenza delle tradizioni controrivoluzionarie o dei capitalismi
esterni.
Non si può ridurre la soluzione di questo contrasto, il più pericoloso
di tutti, a diritti formali o a consultazioni in seno ad una astratta
«democrazia
nella classe».
Sarà anche questa una crisi da liquidare
sul terreno del rapporto di forza. Non v’è gioco statistico che possa
assicurare la buona soluzione rivoluzionaria; questa dipenderà
unicamente
dal grado di solidità e chiarezza del movimento rivoluzionario
comunista
nel mondo. Ai democratici ingenui di un secolo fa in occidente e di
mezzo
secolo fa nell’impero zarista, i marxisti ebbero ragione di contestare
che i capitalisti ed i proprietari sono la minoranza e quindi il solo
vero
regime di maggioranza è quello dei lavoratori. Se la parola democrazia
significa potere dei più, i democratici dovrebbero mettersi dalla
nostra
parte di classe. Ma la parola democrazia, sia in senso letterale
(«potere
del popolo») che per lo sporco uso che sempre più se ne fa, significa
«potere non appartenente a una classe ma a tutte». Per questo motivo
storico, come respingiamo con Lenin la «democrazia borghese» e «la
democrazia
in generale», dobbiamo escludere politicamente e teoricamente la
contraddizione
in termini di una «democrazia di classe» e di una «democrazia operaia».
La dittatura preconizzata dal marxismo non rischierà
d’essere confusa con le dittature di uomini e gruppi di uomini che
abbiano
assunto il controllo governativo e si sostituiscono alla classe
proletaria,
appunto perché proclamerà apertamente di essere necessaria in quanto
l’unanimità della sua accettazione è impossibile, e che la maggioranza
dei suffragi, se fosse seriamente constatabile, non sarebbe una
condizione
in mancanza della quale la dittatura avrebbe l’ingenuità di abdicare.
Alla rivoluzione occorre la dittatura, perché sarebbe ridicolo
subordinarla
al 100% o al 51%. Dove si esibiscono queste cifre, la rivoluzione è
stata
tradita.
Si conclude che il partito comunista governerà
solo, e non abbandonerà mai il potere senza combattere materialmente.
Questa dichiarazione coraggiosa di non cedere all’inganno delle cifre
e di non farne uso aiuterà a lottare contro la degenerazione
rivoluzionaria.
I sindacati si svuoteranno della loro ragione
d’essere
nello stadio superiore del comunismo, non mercantile, non monetario,
non
uni-nazionale, stadio che vedrà d’altronde la morte dello Stato. Il
partito come organizzazione di combattimento sarà necessario finché
esisteranno
nel mondo resti di capitalismo. Potrà, inoltre, aver sempre il compito
di depositario e propulsore della dottrina sociale, visione generale
dello
sviluppo dei rapporti fra la società umana e la natura materiale.
V
La nozione marxista di sostituzione dei corpi
parlamentari
con organi di lavoro non ci riconduce neppure ad una «democrazia
economica»
che adatti gli organi dello Stato ai luoghi di lavoro, alle unità
produttive
o commerciali ecc., eliminando da ogni funzione rappresentativa i
padroni
sopravvissuti e gli individui economici che ancora dispongono di una
proprietà.
La soppressione del padrone e del proprietario non definisce che la
metà
del socialismo; l’altra metà, e la più espressiva, consiste
nell’eliminazione
dell’anarchia economica capitalista (Marx). Quando la nuova
organizzazione
socialista sorgerà ed ingrandirà, il partito e lo Stato rivoluzionario
essendo in primo piano, non ci si limiterà a colpire soltanto i padroni
ed i loro contromastri di un tempo, ma soprattutto si ridistribuiranno
in modo affatto originale e nuovo i compiti e gli oneri sociali degli
individui.
La rete di imprese e di servizi, così come sarà
ereditata dall’ambiente capitalista, non potrà quindi essere posta a
base di un apparato di cosiddetta «sovranità», di delegazione di poteri
nello Stato e fino ai suoi organi centrali. È appunto la presenza dello
Stato uniclassista, e del partito solidamente e qualitativamente
unitario
ed omogeneo, ad offrire il massimo di condizioni favorevoli al
riordinamento
della macchina sociale, guidato il meno possibile dalla pressione degli
interessi limitati dei piccoli gruppi ed il più possibile dai dati
generali
e dal loro studio scientifico applicato al benessere collettivo. I
cambiamenti nell’ingranaggio produttivo saranno enormi; basti pensare
al programma di reversione dei rapporti fra città e campagna sul quale
Marx ed Engels hanno tanto insistito e che è in perfetta antitesi con
la tendenza attuale in tutti i paesi conosciuti.
La rete aderente ai luoghi di lavoro è dunque una
espressione
insufficiente che ricalca le antiche posizioni proudhoniane e
lassalliane
che il marxismo si è gettato da molto tempo alle spalle.
VI
La definizione dei tipi di collegamento con la
base
degli organi dello Stato di classe dipende soprattutto dagli apporti
della
dialettica storica, e non può essere dedotta dai «principi eterni»,
dal «diritto naturale» o da una carta costituzionale sacra e
inviolabile.
Ogni dettaglio in merito non sarebbe che utopistico. Non c’è un
granello
di utopia in Marx, dice Engels. La stessa idea della famosa delega di
potere
dell’individuo isolato (elettore) grazie a un atto platonico derivante
dalla libera opinione, quando l’opinione è in realtà un riflesso delle
condizioni materiali e delle forme sociali, quando il potere consiste
in
un intervento di forza fisica, deve essere abbandonata alle brume della
metafisica.
La caratterizzazione negativa della dittatura
operaia
è stabilita nettamente: borghesi e semiborghesi non avranno più diritti
politici, si impedirà loro con la forza di riunirsi in corpi di
interessi
comuni o di agitazione politica, non potranno mai alla luce del giorno
votare, eleggere, delegare altri a non importa che «posto» e funzione.
Ma neppure il rapporto fra lavoratore, membro riconosciuto ed attivo
della
classe che ha il potere, e l’apparato statale manterrà il carattere
fittizio ed ingannatore di una delega ad essere rappresentato
da
un deputato, da una lista, da un partito. Delegare è, in
effetti,
rinunciare alla possibilità di azione diretta, la pretesa funzione
«sovrana»
del diritto democratico non è che un’abdicazione, per lo più a favore
di un mariolo.
I membri lavoratori della società si raggrupperanno
in organismi locali, territoriali, secondo la residenza, in certi casi
secondo lo spostamento imposto dalla loro partecipazione
all’ingranaggio
produttivo in piena palingenesi. Grazie alla loro azione ininterrotta,
senza intermittenze, si realizzerà la partecipazione di tutti gli
elementi
sociali attivi agli ingranaggi dell’apparato statale, e per ciò stesso
alla gestione e all’esercizio del potere di classe. Disegnare questi
ingranaggi prima che il rapporto di classe si sia concretamente
determinato
è impossibile.
VII
La Comune stabilì come criteri della più alta
importanza
(Marx, Engels, Lenin) la revocabilità in ogni momento dei suoi membri
e dei suoi funzionari, e la limitazione della mercede di questi al
salario
operaio medio. Ogni separazione fra produttori alla periferia e
burocrati
al centro è così soppressa mediante rotazioni sistematiche. Il servizio
dello Stato dovrà cessare d’essere una
carriera e perfino una
professione.
È certo che, in pratica, questi controlli creeranno difficoltà
insormontabili.
Lenin ha espresso da tempo il suo disprezzo per i progetti di
rivoluzione
senza
difficoltà! I conflitti inevitabili non saranno completamente
risolti
redigendo scartoffie regolamentari, costituiranno un problema storico e
politico, un rapporto reale di forza. La rivoluzione bolscevica non si
è fermata davanti all’assemblea costituente, e l’ha dispersa. I
consigli
di operai contadini e soldati erano sorti. Dal villaggio a tutto il
Paese
la formazione di questo tipo originale, apparso già nel 1905, di organi
di Stati per stadi sovrapposti di unità di territorio, nati
nell’incendio
della guerra sociale, non rispondeva a nessuno dei pregiudizi sul
«diritto
degli uomini» sul suffragio «universale, libero, diretto e segreto»!
Il partito comunista scatena e vince la guerra
civile,
occupa le posizioni-chiave in senso militare e sociale, moltiplica per
mille, in virtù della conquista di stabilimenti, edifici ecc., i suoi
mezzi di propaganda e di agitazione, forma senza perder tempo e senza
fisime
procedurali i «corpi di operai armati» di Lenin, la guardia rossa, la
polizia rivoluzionaria. Alle assemblee dei Soviet diventa maggioranza
sulla
parola d’ordine «tutto il potere ai Soviet!». È, questa maggioranza,
un fatto giuridico, un fatto freddamente e banalmente numerico? Niente
affatto! Chiunque, spia o illuso in buona fede, voti che il Soviet
deponga
o fornichi il potere conquistato col sangue dei combattenti proletari,
sarà buttato fuori a colpi di calcio del fucile dai suoi compagni di
lotta.
Ne ci si fermerà a calcolarlo nella «minoranza legale», colpevole
ipocrisia
di cui la rivoluzione fa a meno, la controrivoluzione si pasce.
VIII
Dati storici diversi da quelli russi del 1917 –
caduta recentissima del dispotismo feudale, guerra disastrosa, ruolo
dei
capi opportunisti – potranno determinare, sulle stesse direttive
fondamentali,
altre configurazioni pratiche della rete di base dello Stato. Da quando
si è buttato dietro le spalle l’utopismo, il movimento proletario
assicura
la propria via ed il proprio successo con l’esperienza esatta del modo
attuale di produzione, della struttura dello Stato presente e degli
errori
della strategia della rivoluzione proletaria, sia sul campo della
guerra
sociale «calda», sul quale i federati del 1871 caddero gloriosamente,
che «fredda», sul quale abbiamo perduto, dopo il 1917 e fino al 1926,
la grande battaglia di Russia fra l’Internazionale di Lenin e il
capitalismo
del mondo intero, sostenuto in prima linea dalla complicità miserabile
di tutti gli opportunisti.
I comunisti non hanno costituzioni codificate da
proporre. Hanno un mondo di menzogne e di costituzioni cristallizzate
nel
diritto e nella forza dominante da abbattere. Sanno che, mediante un
apparato
rivoluzionario e totalitario di forza e di potere, senza esclusione di
mezzi, si lotterà per impedire che i relitti infami di un’epoca di
barbarie
ritornino a galla, che il mostro del privilegio sociale risollevi la
testa,
affamato di vendetta e di servitù, lanciando per la millesima volta il
mentitore grido di libertà.