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Partito Comunista Internazionale |
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(1989) |
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1. ‑ Tipi storici di guerre – 2. ‑ Inevitabilità della guerra imperialista – 3. ‑ Evitabilità della guerra imperialista – 4. ‑ Da riformismo proletario a tradimento borghese – 5. ‑ Il movimento comunista di fronte alla crisi e alla guerra – 6. ‑ La lunga guerra non favorisce la rivoluzione – 7. ‑ Compiti del partito nelle diverse situazioni – 8. ‑ Difesismo e intermedismo – 9. ‑ Il disfattismo rivoluzionario – 10. ‑ Contro l’indifferentismo – 11. ‑ Tesi sulla tattica. |
Il marxismo scarta la valutazione astratta e insufficiente di pacifisti e anarchici per cui, le guerre essendo omicide e bestiali, vanno tutte avversate e, in conformità alla dottrina rintracciata da Lenin sul filo rosso da Marx ed Engels, fa discendere la giustificazione o la condanna di una data guerra dal suo significato storico fondamentale. Il rifiuto di imbracciare il fucile, come espressione di lotta contro il militarismo e la guerra in generale, è idealistico e metafisico. L’essere contro la guerra è per noi motivato storicamente, non moralmente. La stessa abolizione della guerra è parola non nostra. La guerra è uno dei fatti determinanti le tappe del ciclo capitalista nella sua ascesa e declino: abolire la guerra non vuol dire nulla se non fermare quel ciclo prima che giunga la soluzione rivoluzionaria.
L’epoca aperta dalla grande rivoluzione francese del 1789 può essere suddivisa schematicamente in periodi a ciascuno dei quali corrisponde un tipo diverso di guerra e un diverso atteggiamento da parte marxista.
Primo periodo: dalla rivoluzione francese fino alla Comune di Parigi, 1871. È il periodo delle guerre nazionali di liberazione, cui carattere essenziale fu abbattere il giogo feudale, assoluto o straniero. Sono state guerre di progresso e l’appoggio marxista non discese dal fatto d’essere guerre difensive o patriottiche quanto piuttosto dalla loro natura rivoluzionaria, utili alla diffusione della moderna organizzazione capitalistica: guerre di aggressione a paesi feudali, come quelle napoleoniche, furono storicamente progressive.
Al 1871 si ha il grande svolto storico di cui prende atto Marx: “i governi nazionali sono tutti confederati contro il proletariato”. In Europa il periodo delle guerre di sistemazione nazionale si chiude con la Comune di Parigi. Possono ancora esserci oggi guerre progressive e quindi giustificabili? Nel 1951 affermavamo che si, potrebbero forse essercene ancora ma fuori d’Europa e, con Lenin, precisavamo che il criterio per stabilire il tipo di guerra e se una guerra è giusta è, in ogni caso, quello sociale, non quello giuridico dell’aggressione o difesa, invasione o resistenza, conquista o liberazione.
Il secondo periodo va dal 1871 al 1914 con lo scoppio della Prima Guerra mondiale e il crollo della Seconda Internazionale, ma altra data emblematica indicata in testi di Lenin e nostri è il 1905 che, con la rivoluzione russa e col divenire imperialista del capitalismo, apre un terzo periodo di guerre e rivoluzioni. È quello del cosiddetto sviluppo pacifico del capitalismo, del completo dominio della borghesia e della sua decadenza, dell’accentramento del potere economico e politico nel capitale finanziario; vi è assenza di assalti rivoluzionari, il movimento socialista prepara e raccoglie gradualmente le sue forze, guadagna in estensione, sorgono i grandi partiti europei. Somma preoccupazione per i marxisti in questo periodo è il consolidare e lo sviluppo di tale processo e l’atteggiamento nei riguardi della guerra deriva dalle sue possibili conseguenze sull’andamento di quello. Engels sostituisce al precedente criterio, di appoggio alle guerre progressive borghesi, la difesa del partito del socialismo, minacciato dalla vittoria della Russia feudale. Non vi è più alleanza con la borghesia nazionale, ma aiuto condizionato dato, in piena indipendenza, dal movimento socialista alla guerra, che dovrebbe esser condotta con "mezzi rivoluzionari", e i socialisti, a tal fine, non esiterebbero, potendolo, a prendere il potere.
Agli inizi dell’ultimo decennio del secolo ancora Engels, prevedendo la guerra generale, auspica un ritardo della sua deflagrazione per l’immaturità del movimento: dalla guerra difficilmente potrebbe sorgere la rivoluzione, anche perché incombe ancora la Russia, grande riserva di ogni reazione europea, pronta a soffocare sul nascere qualsiasi tentativo rivoluzionario, in alleanza con le borghesie ormai conservatrici. Le migliori possibilità in caso di guerra sarebbero legate alla sconfitta della Russia, seguita colà da una rivoluzione che spazzi via il regime feudale: tanto si verificherà in modo conseguente con l’Ottobre del 1917.
La guerra del 1914 ha carattere totalmente diverso e cade nel tipo guerre imperialiste, guerre non più tra Nazioni ma tra Stati capitalistici per la spartizione di schiavi salariati e mercati. Nell’imperialismo la parabola del capitalismo (rivoluzione - riforma progressiva - reazione) è stata percorsa fino in fondo. Non vi sono più per il marxismo interessi nazionali da difendere da reazioni feudali e il nemico da battere è solo quello interno. Nel 1914 la Russia zarista è un rimasuglio storico ma, pur auspicandone la sconfitta, non per questo la socialdemocrazia può appoggiare il governo borghese tedesco e la consegna deve essere: lavorare per farli cadere entrambi. I comunisti rivoluzionari devono guidare la lotta diretta del proletariato contro tutti i governi, per la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, per la presa rivoluzionaria del potere.
A questi due tipi (borghesi progressive e imperialiste) Lenin ne aggiunge un terzo: guerra rivoluzionaria, guerra tra uno Stato in cui la rivoluzione proletaria ha vinto e Stati in cui domina ancora il capitalismo. Il marxismo non solo non esclude una tale guerra, ma la ritiene progressiva e necessaria: essa potrà sorgere come guerra di difesa per invasione da parte di uno Stato capitalistico o come guerra di attacco contro uno Stato ancora borghese per sostenervi o fomentarvi la rivoluzione comunista. In entrambi i casi non deve cogliersi, pena il precipitare in nefaste posizioni retroverse, l’aspetto nazionale (anche se lo Stato proletario è uno solo) ma quello internazionalistico dello scontro militare tra eserciti di classi nemiche, in quanto una tale guerra è parte della guerra civile mondiale fra proletariato e borghesia.
Due guerre imperialiste hanno devastato il mondo e in entrambi i casi i socialtraditori ne hanno dato al proletariato una spiegazione "marxista" per spingerlo a schierarsi sotto bandiere altrui. Chiamarono così "difensiva" la Prima Guerra. Sono le frazioni di sinistra internazionali, con Lenin, Liebknecht e la Sinistra italiana, a ribattere che con la parola guerra di difesa i marxisti, già prima del 1870, indicavano in effetti guerre di sviluppo della forma capitalistica, mentre quella del 1914 era guerra imperialista tra capitalismi in pieno sviluppo ed era tradimento parlare di difesa della patria in qualunque paese. Hanno gabellato la Seconda Guerra come guerra del primo tipo, di liberazione nazionale, e come guerra del terzo tipo, rivoluzionaria proletaria, implicitamente vedendo nei regimi borghesi democratici i diffusori del socialismo e i suoi difensori nei confronti dei tedeschi.
Furono ben lungi quindi i socialsciovinisti del 1914 e gli
arciopportunisti
del 1939 e del 1941 dallo spogliarla dagli orpelli patriottici,
nazionalistici o falsamente rivoluzionari, per marxisticamente
classificarla
nel tipo guerra imperialista. Tanto li avrebbe necessariamente
condotti, come fu per i socialisti conseguenti, all’unica tattica
ammissibile
e propugnabile: quella del disfattismo rivoluzionario su tutti i
fronti.
2. INEVITABILITÀ DELLA GUERRA IMPERIALISTA
Da quando si è formato il mercato mondiale, da quando sfere di vita e cerchie di influenza ristrette, proprie del precapitalismo, si sono dissolte nel magma economico unico della produzione e vendita dei prodotti, da quando sono saturati i mercati di tutto il mondo e gli ultimi arrivati stanno stretti nella loro area di smercio, da quando si è entrati nell’epoca dell’imperialismo guerre di usurpazione, di rapina, di brigantaggio da ambo le parti, per la spartizione dei mercati, per una suddivisione e nuova ripartizione delle sfere di influenza del capitale finanziario e conseguente sottomissione di Stati e nazioni alle grandi potenze, sono inevitabili.
Potrebbero i governi borghesi e i loro capi impedire la guerra? Essi non hanno la possibilità né di provocarla né di impedirla. Anche ammesso che, personalmente non vogliano che la guerra scoppi o che non trovino opportuno affrettarla, le loro intenzioni hanno scarso effetto: la oligarchia dell’alto capitalismo che essi rappresentano e da cui dipendono è costretta ad operare nella produzione, nell’industria, nel commercio, nella finanza secondo inesorabili leggi economiche che conducono alla guerra. La guerra non è una politica di un certo strato o partito borghese, è una necessità economica.
Potrebbero d’altro canto impedire la guerra i movimenti pacifisti interclassisti, i "partigiani della pace", le "colombe" di ogni risma? Questi movimenti non proletari esprimono soltanto il gretto desiderio piccolo-borghese di mantenere i vantaggi che ancora il capitalismo è in grado di offrir loro a spesa del proletariato, europeo e soprattutto extraeuropeo. La storia insegna che tali movimenti si dissolvono in caso di guerra per abbracciare le false giustificazioni della propria borghesia: impugnare le armi e combattere il "nemico", per... difendere e ripristinare la Pace!
Nell’ambito del modo di produzione capitalistico e con gli strumenti
offerti dal ordine politico che su di esso poggia, la guerra
imperialista
non può essere evitata. Solo una controforza storica
che si
opponga
a tale ordine, quella della classe proletaria guidata dal suo partito,
può costituire l’unica possibilità di impedimento. Solo
se
verrà rasa al suolo la struttura mondiale del potere
capitalistico
potranno essere risparmiati all’umanità i suoi orrori, primo fra
tutti la guerra: in un mondo socialista, in una società non
mercantile,
non capitalista, non statale, primo vero inizio della storia umana,
essa
non avrà più ragione di essere.
3. EVITABILITÀ DELLA GUERRA IMPERIALISTA
Se nell’ambito del capitalismo la guerra permane inevitabile e non finirà con la Pace Universale spacciata da sprovveduti, mistificatori e traditori, con Marx e Lenin affermiamo che la guerra tra uomini finirà soltanto con la rivoluzione di classe supernazionale che, abolendo le cause della guerra abolirà la guerra stessa.
Lenin e noi, dunque, quando affermiamo che la guerra è inevitabile non intendiamo che essa lo è in senso assoluto, ma che essa non può essere evitata da un movimento vagamente ideologico di proletari e classi povere e medie, su cui passerebbe come un turbine senza trovare resistenze. La guerra generale è storicamente evitabile, ma alla sola condizione che le si opponga un movimento della pura classe salariata e che questo l’attenda non per surrogarla con la pace, ma per abbattere, con essa neonata possibilmente, il vecchio infame capitalismo.
Quando Lenin stabilì che la tappa, ultima, imperialista del
capitalismo
conduce alla guerra, egli non credeva ancora ad una serie successiva di
guerre mondiali, ma attendeva che al delinearsi della Prima il
proletariato,
almeno in Europa, si levasse in piedi e la fermasse. La sua formula fu:
trasformare la guerra imperialista in guerra civile. I socialisti della
Seconda Internazionale l’avevano accolta ma non l’applicarono e si
illusero
di impedire la guerra solo con il pacifico dispiegarsi dello sciopero
generale
contro la mobilitazione da tutte le parti delle frontiere. Ma neppure a
tanto si arrivò (e sarebbe stato insufficiente) poiché
tutti
i partiti operai marciarono con la guerra nazionale. Doveva specificare
Lenin – senza ricredersi e senza confessioni d’errore, poiché
nel
campo della valutazione sui tempi del verificarsi di eventi storici fin
da Marx ha ruolo non secondario l’ottimismo rivoluzionario, non
sognatore,
ma basato sulle reali possibilità – che non una sola, ma una
serie
di guerre imperialiste poteva realizzarsi: non ne indicò un
termine
ultimo, ma fissò le condizioni necessarie per ribaltare il carattere
della guerra: da imperialista a civile e rivoluzionaria proletaria.
Sferzò
la pretesa di potere con uno sciopero, seppure generale e ad oltranza,
fermare la guerra: ben altro ci voleva e ci vuole, a partire da
una radicata organizzazione nel proletariato e nell’esercito, emanante
dal partito di classe esteso ed influente, basato su salde posizioni
teoriche,
programmatiche, tattiche, unico organismo che possa dirigere la presa
proletaria
del potere col fine di abbattere la putrida società del
capitale.
4. DA RIFORMISMO PROLETARIO A TRADIMENTO BORGHESE
In tutti i casi di crisi acuta della società capitalistica gli opportunisti di ogni colore si schierano immancabilmente e apertamente dalla parte degli interessi borghesi, rivelando ogni volta senza pudori né pentimenti il loro ruolo storico di infiltrati nel movimento proletario allo scopo di realizzare il programma della conservazione borghese, camuffato da programma di emancipazione della classe operaia.
Il fallimento della Seconda Internazionale fu causato dal prevalere dell’opportunismo nel partito. Tale fallimento fu preparato negando la rivoluzione socialista e sostituendo ad essa il riformismo borghese; negando la lotta di classe e la necessità di trasformarla in determinati momenti in guerra civile e predicando la collaborazione di classe; cedendo allo sciovinismo in nome del patriottismo e della difesa della patria; ignorando e negando la base fondamentale del socialismo, già enunciata nel Manifesto Comunista, che gli operai non hanno patria; allineandosi all’ipocrisia piccolo borghese nella lotta contro il militarismo, invece di riconoscere la necessità della guerra rivoluzionaria dei proletari di tutti i paesi contro la borghesia di tutti i paesi; trasformando la ammissibile, allora, utilizzazione del parlamento e della legalità borghese, nel feticismo di questa legalità e dimenticando la necessità delle forme illegali di agitazione e di organizzazione in periodi di crisi.
Lenin parla di fallimento dell’opportunismo e, in apparente contraddizione, di trionfo di esso. Il fallimento della Seconda Internazionale fu il fallimento, dottrinario e tattico, dell’opportunismo: il benessere per tutti con le riforme non fu raggiunto e la pace non fu salvaguardata; la Seconda Internazionale aveva esaurito il compito storico che si era dato nel periodo cosiddetto "pacifico" di sviluppo capitalistico. Nel 1914 essa fu sottoposta alla prova storica della guerra imperialista: forze sane vi erano presenti e i presupposti, anche tattici, per trasformare la guerra imperialista in guerra civile erano stati sanciti nei congressi internazionali di Stoccarda, Copenaghen e Basilea, ma la direzione era in mani opportuniste e il partito affondò, dando dimostrazione storica tragica e definitiva della fallacia della via riformista. Il tradimento fu giustificato con argomenti pseudo-socialisti e con infame escamotage teorico, specie da parte dell’influente partito tedesco: guerra giusta perché condotta ai fini dell’abbattimento dello zarismo.
Non seguì però l’immediata riorganizzazione in una Internazionale rivoluzionaria, processo che richiese, purtroppo, anni e in ciò fu il trionfo dell’opportunismo: le masse proletarie marciarono a sostegno delle proprie borghesie e non si ebbe rivoluzione in Europa. Alla rotta in teoria corrispose vittoria pratica perché i proletari, non ancora diretti dall’Internazionale Comunista, furono divisi e spinti a scannarsi gli uni contro gli altri dai governi e dalle borghesie di tutti i paesi, ben fiancheggiati dai socialisti traditori che, da zelanti patrioti, repentinamente si erano infilati nelle uniformi militari.
Alla Seconda Guerra imperialista nuovamente si ha: vittoria teorica del marxismo, sconfitta teorica dell’opportunismo e suo trionfo pratico. Nel dopoguerra e nel fetido attuale interguerra il proletariato è incatenato al carro borghese. Carcerieri subdoli, che gli prospettano non tanto di spezzare quelle catene ma una prigione appena meno dura o non peggiore, miraggio ingannevole avente solo lo scopo di volgere le energie proletarie alla salvezza dell’economia nazionale oggi, della patria un domani non lontano, sono quei partiti figli degeneri del già degenere stalinismo, che avendo fatto gettito di teoria, programma e tattica marxista, si adornano ancora, sepolcri imbiancati, dell’attributo di comunisti.
Il crollo definitivo dell’opportunismo, ineluttabile e imposto dal
suo
fallimento teorico già sancito dalla storia, avverrà non
da sé, ma soltanto quando il proletariato ritornerà
potente
sulla scena della lotta di classe, organizzato, guidato dal suo
partito:
i rinnegati si ergeranno allora apertamente a difesa della borghesia e
quel muro dovrà essere il primo ad essere abbattuto nello
sviluppo
del processo rivoluzionario.
5. IL MOVIMENTO COMUNISTA DI FRONTE ALLA CRISI E ALLA GUERRA
L’atteggiamento comunista di fronte alla guerra imperialista deriva dalla sua posizione generale verso il capitalismo: vuole di questo la soppressione totale. Crisi economiche, e le guerre che ne conseguono, sono leve che possono essere impugnate per rovesciarlo. Non vede il marxismo pace e benessere capitalistici perpetui: l’una e l’altro costituiscono le premesse necessarie di crisi sempre più profonde e di guerre sempre più distruttrici. ll comunismo vuole la pace, certo, ma non quella effimera mantenuta con eserciti contrapposti armatissimi come mai, pronti ad essere scagliati l’uno contro l’altro o contro proletari insorti all’interno di ciascun paese; vuole quella vera, organica, possibile nella società senza classi conquistata con la rivoluzione internazionale.
La crisi economica è attesa dal marxismo. Essa, o la ripresa che la segue, provocando un peggioramento delle condizioni della classe lavoratrice, può spingerla a reagire e ad organizzarsi sul piano sindacale e sollecitare la sua combattività; può creare anche le condizioni per una crescita quantitativa del partito e per un’estensione della sua influenza sulla classe operaia. Proprio perché implica la possibilità di un ritorno sulla scena storica dell’unica classe antagonista al capitalismo, la crisi economica è dal partito accolta con letizia; a differenza dei borghesi, che la temono sia per la possibile rivolta proletaria sia per la rovina delle loro mezze classi.
La guerra imperialista è anch’essa prevista dal marxismo. Alle sue origini vi è il perdurare insanabile e non più tollerabile della crisi economica internazionale, che non permette più altra soluzione all’interno del modo di produzione capitalistico per uscire dal cappio della sovrapproduzione che le immani distruzioni di merci e di proletari. La guerra imperialista azzera i conti in rosso del capitalismo, stabilisce, seppure temporaneamente, un nuovo equilibrio e una nuova partizione dei mercati mondiali e sulle sue rovine permette l’inizio euforico di un nuovo ciclo semisecolare di rapina.
Il partito rivoluzionario cercherà di approfittare
delle
crisi
economiche come delle crisi belliche per tentare di abbattere il
capitalismo;
e ciò nelle sue vari fasi: periodo di preparazione, scoppio,
sviluppo,
immediato dopoguerra.
6. LA LUNGA GUERRA NON FAVORISCE LA RIVOLUZIONE
Dalla terza guerra scaturirà la rivoluzione se prima del suo scoppio sarà risorto il movimento di classe. O comincia e si sviluppa la guerra degli Stati, o scoppia la guerra civile, la borghesia è rovesciata e la guerra non "scatta".
Alle suddette indicazioni, valutazioni e prospettive sullo sviluppo storico futuro il nostro movimento era giunto nel bilancio seguito all’esperienza di due guerre mondiali. All’appuntamento con la Prima il partito mondiale del proletariato giunse portando ancora nel suo seno influenze opportuniste, vigorosamente combattute dalle minoranze di sinistra ma che per essere smascherate davanti alla classe dovettero attraversare la fornace bellica, nella quale gradualisti e riformisti si rivelarono macellai della patria borghese. Il proletariato fece ciò che poté, nei vari paesi, a volte eroicamente, ma ciò fu insufficiente per la mancanza di guida politica.
Vittoria vi fu in Russia, ma l’Ottobre nacque dal sommarsi di due condizioni singolari: la sopravvivenza di un regime feudale e la serie di disfatte militari, più il presupposto necessario per la riuscita della rivoluzione: l’esistenza di un partito che, forte dell’esperienza del 1905, prova generale del 1917, ben saldo sulle sue basi marxiste, seppe applicare la giusta tattica approfittando della situazione di guerra e delle sconfitte dell’esercito zarista, propugnando il disfattismo rivoluzionario. Vi fu vittoria, ma isolata perché in Europa non si compì il ciclo che avrebbe dovuto restringersi in troppo pochi anni: condanna e sconfitta dei partiti socialtraditori, riscatto del proletariato dall’aver aderito alla guerra fratricida, ripresa del movimento nelle capitali storiche, abbattimento delle borghesie imperiali, vinte o vincitrici.
La Seconda Guerra giunse, non certo inaspettata dalla nostra Frazione, ma dopo la dura sconfitta del movimento proletario, con degenerazione dal 1926 della Terza Internazionale e vittoria dello stalinismo e della controrivoluzione mondiale. In tali condizioni non solo non si arrivò a concentrare e dirigere le energie proletarie, ma queste furono addirittura spinte al servizio di un fronte borghese contro l’altro, come nei famigerati blocchi partigiani.
Le crisi dei due dopoguerra si accompagnarono a condizioni storiche che impedirono lo sviluppo in senso rivoluzionario di lotte proletarie pur generose. Il congresso di fondazione della Terza Internazionale si ha al 1919; il secondo, ancor più significativo per gli attestamenti teorici e programmatici, è dell’anno successivo, quando la formazione delle sezioni comuniste nazionali doveva ancora completarsi: tardi, non soltanto rispetto alla possibilità di sfruttare lo stato di guerra ai fini rivoluzionari, ma rispetto anche a quell’immediato dopoguerra denso ancora di crisi e fermenti sociali. Le borghesie dei vari paesi ebbero tutto l’agio di affrontare scioperi e sommosse direttamente e tramite il braccio socialtraditore, mentre l’Armata Rossa non riusciva a prendere Varsavia, evento che probabilmente avrebbe appiccato l’incendio rivoluzionario nel centro Europa. L’Unione Sovietica rimase isolata e la rivoluzione ripiegò internazionalmente.
La situazione alla fine della Seconda Guerra fu ancor meno favorevole per l’accentuarsi degli atteggiamenti, comportamenti e decisioni a fini controrivoluzionari sia del nemico di classe sia degli opportunisti: le borghesie vincitrici decisero l’occupazione militare dei paesi vinti, incatenando prima del suo nascere la rivoluzione comunista, e mancarono forti avanguardie in grado di ripudiare i blocchi politici, mentre toccava il fondo la degenerazione dei partiti figli di un’Internazionale non più comunista.
Lo scoppio della guerra deve quindi trovare un movimento proletario già risorto e un partito ben saldo sulle sue posizioni marxiste: queste sono le migliori condizioni che la storia può mettere a disposizione e toccherà al proletariato saperne approfittare.
La guerra che non abbia innescato al suo "scatto" o nei suoi primi sviluppi l’incendio della rivoluzione vittoriosa, potrà più facilmente svilupparsi e andare a termine ridando nuovo vigore al capitalismo agonizzante: al cadavere, il sistema capitalistico, che ancora cammina deve essere assestata la mazzata definitiva prima che nuovo sangue gli venga trasfuso dalle vene proletarie, prima cioè che trovi nuova giovinezza nelle immani distruzioni della guerra e nella conseguente ripresa economica delle "ricostruzioni".
La guerra risolve in sé crisi e rinascita del capitalismo. In quanto massima espressione di crisi dovuta alle contraddizioni insite nel capitalismo, che scuote dal profondo i sistemi unitari di produzione che sono gli Stati nazionali, può costituire una spinta decisiva nel senso della rivoluzione. In quanto unica possibilità offerta ai mostri imperiali di superare le condizioni di stagnazione e dare una raddrizzata alla curva tendenzialmente calante del saggio del profitto, in un violento riordino del mercato internazionale a tutto vantaggio dei vincitori, ma anche dei vinti, costituisce la soluzione per la conservazione del presente modo di produzione. Non altre sono le prospettive.
In principio potremmo ammettere anche la possibilità della distruzione totale della specie umana, il che ci sarebbe ancor più di sprone nella preparazione del comunismo.
Ecco perché affermammo che la guerra il proletariato dovrà cercare di stroncarla al suo inizio; la lunga guerra ci caccia indietro oggettivamente e soggettivamente; più la guerra si sviluppa, minori saranno le possibilità di contrastarla con la rivoluzione.
Tale valutazione di tipo generale non ha nessuna implicazione nella tattica, che rimane quella del disfattismo rivoluzionario in ogni paese e su ogni fronte.
Il partito persevererà nella sua propaganda e nella sua azione, nei limiti consentiti dai rapporti di forza tra le classi antagoniste, persevererà nella tattica disfattista, nel lavoro legale ed illegale nell’esercito, cercando di sfruttare al meglio quelle possibilità che, comunque, il decorso della guerra potrà offrire. Anche nel dopoguerra di rigenerazione capitalistica non escludiamo infatti situazioni di instabilità internazionale tra vinti e vincitori e di crisi sociale interna, specie nei paesi vinti, che il partito saprà utilizzare per l’assalto proletario.
Come sempre il marxismo non dà profezie sul futuro, ma ne enuncia le condizioni. La scienza è la registrazione delle leggi che legano gli eventi fra loro, senza pretesa che non possano spaziare in un vasto campo di variabilità; in tal senso si applica agli eventi passati come ai futuri, e può sbagliare per i secondi come tante volte sbaglia per i primi. Se diverse saranno le condizioni, diversi saranno gli eventi.
Il partito ha sempre, in ogni caso, il dovere di indicare tra le diverse reali possibilità, quella più favorevole. Il nostro auspicio, più che profezia, del 1956, rimane immutato. Scrivevamo: «Il decennio postbellico di avanzata della produzione capitalistica mondiale continui ancora alcuni anni. Poi la crisi di interguerra, analoga a quella che scoppiò in America nel 1929. Macello sociale delle classi medie e dei lavoratori imborghesiti. Ripresa di un movimento della classe operaia mondiale, reietto ogni alleato. Nuovissima vittoria teorica delle sue vecchie tesi. Partito comunista unico per tutti gli Stati del mondo. Verso il termine del ventennio, l’alternativa del difficile secolo: terza guerra dei mostri imperiali – o rivoluzione internazionale comunista. Solo se la guerra non passa, gli emulatori morranno!» (Il Programma Comunista, n.10, 1956).
Il ventennio postbellico si è raddoppiato per la minore
velocità
nell’andamento catastrofico della produzione capitalistica mondiale, ma
l’alternativa che si pone verso il termine di questo "difficile secolo"
rimane la stessa.
7. COMPITI DEL PARTITO NELLE DIVERSE SITUAZIONI
Il partito auspica che si realizzino condizioni, tempi e modi del precipitare della crisi capitalistica – che conduce inevitabilmente alla guerra – tali da permettere l’estensione della sua influenza su un proletariato sempre più combattivo. In relazione a questa possibilità potrebbe essere più favorevole un ritardo nello scoppio della guerra, ma tale considerazione non ci spingerà tra le braccia del pacifismo umanitario e interclassista. Anche Engels espresse speranze simili. Allora uno sviluppo in senso rivoluzionario del movimento proletario non era, in principio e in prassi, in contrasto con la presenza di legati parlamentari socialisti e con azioni da svolgersi anche nel tempio della democrazia borghese, per costringere lo Stato a scelte meno sfavorevoli alla classe lavoratrice, ma soprattutto per usare il parlamento come tribuna di propaganda rivoluzionaria. Una guerra contro la Germania, sede dei reparti più avanzati del socialismo mondiale, avrebbe potuto rallentare tale sviluppo. Non era riformismo: Engels ammoniva apertamente lo Stato borghese tenendo desta nel proletariato la coscienza che le barricate, a tempo debito, si sarebbero erette.
Nella situazione odierna la ripresa del movimento in senso rivoluzionario si ravviserà in un’estesa reazione difensiva proletaria, nella rinascita degli organismi sindacali classisti e in una sensibile influenza del partito sulla classe e sulle sue organizzazioni economiche, al fine di condurla a far gettito, prima di tutto, delle ideologie e programmi basati sull’azione democratica e sull’utilizzo delle istituzioni borghesi.
In queste condizioni storiche la preparazione o lo scoppio della guerra potrebbero offrire le maggiori possibilità rivoluzionarie. In una situazione diventata esplosiva economicamente e socialmente, la minaccia dell’invio al fronte dei proletari potrebbe accendere la guerra sociale.
Non per questo, ovviamente, il partito cesserebbe la sua opposizione alla guerra del capitale. Il grido "sparate per primi", rivolto da Engels ai borghesi, intendendo: vi sarà risposto con le armi per abbattervi, potrebbe in dati momenti essere da noi parafrasato nella sfida: fate il gesto della coscrizione e il proletariato si leverà, conquisterà il potere e fermerà la vostra guerra. Il processo sarebbe più complesso di quanto possa apparire dal grido di battaglia: la guerra imperialista verrebbe tramutata dove possibile in guerra civile, in alcuni paesi il potere passerebbe nelle mani del partito proletario, si aprirebbe l’epoca delle guerre rivoluzionarie.
Certo tale sfida oggi non potrebbe esser lanciata: se cartoline, e missili, partissero difficile sarebbe la prospettiva. Il partito però, per quanto ridotto oggi ai minimi termini, come da necessità storica, non si limiterebbe alla registrazione dei fatti e alla loro interpretazione, ma, come sempre, nel decifrarli si sforzerebbe di scorgere possibilità pur minime offerte da una terza guerra non impedita al suo nascere da un proletariato ancora non sufficientemente strappato ai traditori e organizzato.
Esempio di come il partito in tempo di guerra, pur sapendo inesistenti le condizioni oggettive e soggettive che rendono possibile la rivoluzione e la presa del potere, non rinunci ai suoi compiti in attesa di tempi migliori ma riproponga i cardini del programma e della giusta tattica, potenzialmente traducibile in parole d’ordine di azione non ambigue, lo si ritrova nella nostra Piattaforma del 1945, a guerra ancora in corso. Nella situazione di allora erano presenti forze proletarie armate, poche ma significative, al servizio però dell’opportunismo e del nemico di classe; le forze del partito erano disperse e nulla la sua influenza sui fatti storici. Esigenza primaria era la sua ricostituzione su salde basi teoriche e programmatiche: la Piattaforma aveva questo compito principale. Tuttavia, anche e soprattutto per evitare “incomposte ed inattese reazioni dell’ultima ora”, riferite puntualmente a situazioni “future”, non si esitò a porre quali capisaldi caratteristici anche quelli di orientamento tattico. Pur prevedendo l’andamento discendente della curva della lotta di classe, non era escluso in principio il processo: ricostituzione del partito, sua forte influenza sulla classe, cambiamento di indirizzo della lotta proletaria. Per questo il partito fissò punti tattici che si inquadravano inequivocabilmente nel disfattismo rivoluzionario, necessari, pur non avendo avuto pratica traduzione né nell’immediato né in quel ciclo postbellico, caratterizzato da un ferreo controllo poliziesco sui proletari dei paesi vinti degli eserciti vincitori e delle borghesie nazionali, coadiuvate dall’opportunismo stalinista.
Per la Prima Guerra, traendo bilanci del passato, giungemmo a stabilire non tanto che si trattò di aver perduto "autobus" storici, quanto piuttosto del fatto che l’autobus del potere proletario in occidente non era passato in quel fatidico arco d’anni che intercorre tra l’agosto 1914 e i primi anni venti. Cionondimeno la Sinistra, prima corrente, poi organizzata in frazione nel Partito Socialista, infine alla testa del Partito Comunista di Livorno non sbagliò per eccessivo ottimismo, o volontarismo, ammesso che di errori sia sensato discorrere, quando, conducendo la sua battaglia all’interno del Partito Socialista, indicava al partito e alle masse proletarie la retta via per dare l’assalto alla cittadella borghese, contrapponendo al "vecchio" antimilitarismo riformista il "nuovo" di classe e rivoluzionario, propugnando quella tattica che con Lenin sarà detta, con termine inequivocabile, disfattismo rivoluzionario.
Non cessò poi, in anni in cui era palese il riflusso dell’onda rivoluzionaria, di indicare, anche in posizione critica all’interno della Terza Internazionale, la giusta tattica da applicarsi nell’Europa pienamente capitalistica, traendo lezioni più dalle sanguinose sconfitte d’Occidente che dalla fulgida vittoria di Russia.
Nella terza guerra, se non si verificherà la prospettiva
più
favorevole – risposta rivoluzionaria che la precede o alle sue prime
manifestazioni
– il partito, rifuggendo ogni volontarismo, si porrà come forza
attiva, nei limiti imposti dalle condizioni storiche e dal rapporto di
forza delle classi, con la sua critica, la sua propaganda e le sue
indicazioni
sulla tattica da adottarsi, non mutevole, non "nuova" rispetto a
"nuovi"
avvenimenti, ma già prefissata e ben nota alla compagine
militante
del partito.
L’atteggiamento del nostro movimento di fronte alle guerre imperialistiche si inscrive nella tattica codificata dalla sinistra e da Lenin, che innanzitutto rifiuta parole d’ordine che sotto apparente aspetto rivoluzionario, o con la pretesa di conservare presunte conquiste socialiste, altro non sono che vie di conservazione dell’ordine borghese.
«L’aspetto “difesista” dell’opportunismo consiste nell’asserire che la classe operaia, nel presente ordinamento sociale, pure essendo quella che le classi superiori dominano e sfruttano, corre in cento guise il pericolo di veder peggiorate in modo generale le sue condizioni se certe caratteristiche del presente ordinamento sociale vengono minacciate. Così dieci e dieci volte abbiamo visto le gerarchie disfattiste del proletariato chiamarlo ad abbandonare la lotta classista per accorrere, coalizzata con altre forze sociali e politiche nel campo nazionale o in quello mondiale, a difendere i più diversi postulati: la libertà, la democrazia, il sistema rappresentativo, la patria, l’indipendenza nazionale, il pacifismo umanitario, ecc., ecc., facendo gettito delle tesi marxiste per cui il proletariato, sola classe rivoluzionaria, considera tutte quelle forme del mondo borghese come le migliori armature di cui a volta a volta si circonda il privilegio capitalista, e sa che, nella lotta rivoluzionaria, nulla ha da perdere oltre le proprie catene. Questo proletariato, trasformato in gestore di patrimoni storici preziosi, in salvatore degli ideali falliti della politica borghese, è quello che l’opportunismo “difesista” ha consegnato più misero e schiavo di prima ai suoi nemici di classe nelle rovinose crisi svoltesi durante la Prima e Seconda Guerra imperialistica».
Parimenti respingiamo ogni “intermedismo”, «termine col quale vogliamo intendere la pretesa di indicare come obiettivo precipuo e pregiudiziale della forza e degli sforzi del proletariato rivoluzionario non l’abbattimento dei suoi oppressori di classe, ma la realizzazione di certe condizioni nei modi di organizzarsi della presente società, che gli offrirebbero terreno più favorevole a conquiste ulteriori». «Sotto l’aspetto complementare (al "difesismo") dello "intermedismo" la corruzione opportunista si presenta non più soltanto col carattere negativo della tutela dei vantaggi di cui la classe operaia godeva e che potrebbe perdere, ma sotto l’aspetto più suggestivo di conquiste preliminari che potrebbe realizzare – s’intende col compiacente e generoso aiuto di una parte più moderna ed evoluta della borghesia e dei suoi partiti – portandosi su posizioni da cui le sarà più facile spiccare un balzo verso le sue massime conquiste». «Il partito di avanguardia marxista, se ha per compito essenziale il decifrare accuratamente lo sviluppo delle condizioni favorevoli all’azione massima di classe, è quello che deve in tutto il corso storico dedicarsi a svolgere e condurre vittoriosamente quell’azione, non a costruirne le condizioni intermedie».
Nel caso della guerra il partito quindi, non considerando il
mantenimento
o il ripristino delle condizioni di pace fra gli Stati, ovvero la
vittoria
di un fronte militare sull’altro presupposto da difendere o gradino
intermedio
da conquistare sulla strada verso il socialismo, non sospenderà
finché ciò sia ottenuto la sua lotta classista né
su quegli obiettivi verrà ad alleanza alcuna con strati o
partiti
borghesi.
9. IL DISFATTISMO RIVOLUZIONARIO
«Il marxista distingue: ci sono state guerre progressive; ma al 1914, come al 1939, si è di fronte ad una guerra NON di progresso, ma ad un puro conflitto fra sfruttatori imperialisti: dovere di tutti i socialisti era di lottare contro TUTTI i governi in TUTTI i paesi; di più: il marxismo sancisce l’impossibilità di porre fine alle guerre senza l’abolizione della società di classi e senza la vittoria della rivoluzione socialista».
Quest’ultimo passo, tratto dallo schema di un nostro scritto del 1951, «è il primo della tesi sul pacifismo, ed è il più importante. Esso distrugge ogni possibile ospitalità nel marxismo-leninismo di movimenti che abbiano a finalità la soppressione della guerra, il disarmo, l’arbitrato o la eguaglianza giuridica tra le nazioni (Lega di Wilson, O.N.U. di Truman). Il leninismo non dice ai poteri capitalistici: io vi impedirò di fare la guerra, o io vi colpirò se fate la guerra; esso dice loro, so bene che fino a quando non sarete rovesciati dal proletariato voi sarete, che lo vogliate o meno, trascinati in guerra, e di questa situazione di guerra io profitterò per intensificare la lotta ed abbattervi. Solo quando tale lotta sarà vittoriosa in tutti gli Stati, l’epoca delle guerre potrà finire. Sostituire, dinanzi all’avvicinarsi di nuove guerre al criterio dialettico di Marx e Lenin – tanto nella dottrina quanto nell’agitazione politica – lo sfruttamento plateale della ingenuità delle masse nei riguardi della santità della Pace e della Difesa, non è altro che lavorare per l’opportunismo e il tradimento, contro i quali Lenin si dette a costruire la nuova Internazionale rivoluzionaria super hanc petram, su questa pietra: CAPITALISMO E PACE SONO INCOMPATIBILI. Dedichiamo ai pacifisti di oggi una lapidaria tesi del Terzo Congresso (33.ma, sul Compito dell’Internazionale Comunista): Il pacifismo umanitario antirivoluzionario è divenuto una forza ausiliaria del militarismo».
Ribadiamo che «noi siamo, è ben chiaro, per la piena validità attuale della dottrina di Lenin sulla guerra, la quale non è che la dottrina di Marx enunciata al suo nascere storico, dopo la guerra franco-prussiana e la Comune parigina, con cui si erano chiuse le guerre rivoluzionarie di sistemazione liberale: tutti gli eserciti nazionali sono ormai confederati contro il proletariato!».
Allo scoppio del conflitto europeo nel 1914 «si rispose ai
borghesi
che i proletari non hanno patria e che il partito proletario persegue i
suoi fini con la rottura dei fronti interni, cui le guerre possono
offrire
ottime occasioni; che non vede lo sviluppo storico nella grandezza o
nella
salvezza delle nazioni; che nei congressi internazionali era già
impegnato a spezzare tutti i fronti di guerra cominciando ove meglio si
poteva». «Le guerre potranno svolgersi in rivoluzioni a
condizione
che, qualunque sia il loro apprezzamento, che i marxisti non rinunziano
a compiere, sopravviva in ogni paese il nucleo del movimento
rivoluzionario
di classe internazionale, sganciato integralmente dalla politica dei
governi
e dai movimenti degli stati maggiori militari, che non ponga riserve
teoriche
e tattiche di nessun genere tra sé e le possibilità di
disfattismo
e di sabotaggio della classe dominante in guerra, ossia delle sue
organizzazioni
politiche statali e militari». «La tradizione propria
dell’ala
rivoluzionaria, che venne a convergere dopo la guerra nella
Internazionale
bolscevica, si ricollega all’indirizzo di non rinunciare alla lotta
contro
il potere della borghesia e le forze dello Stato anche quando queste
siano
impegnate in guerra e provate dalla disfatta, di tendere ad una
possibile
azione rivoluzionaria interna senza fare alcun conto della
possibilità
di spostare gli equilibri militari a favore del nemico».
«Lenin
lo dice esplicitamente: il nostro compito verrà giustamente
espletato
solo mediante la “trasformazione della guerra imperialista in
guerra
civile”». «Dai primi congressi internazionali del
secolo
presente, la guerra tra gli Stati capitalistici è vista dai
marxisti
non più come una fase di sviluppo che deve compiersi con
l’appoggio
dei socialisti, ove che sia, ma come “occasione per abbattere il
potere
borghese con la guerra sociale delle classi”. Tradito da tanti lati
questo concetto e questo impegno, Lenin martella e martella per
rimetterlo
in piedi, e con lui tutto il marxismo di sinistra. La guerra è tutta
imperialista;
non ha lati ed aspetti progressivi; in tutti gli Stati se ne
deve
predicare il sabotaggio proletario “dietro il fronte”».
«Come
nella Comune Parigi, anche in quella di Leningrado la rivoluzione ha
vinto
marciando in direzione apposta al fronte di guerra, non sparando sul
nemico
straniero nella lotta militare e nazionale, ma volgendo gli stessi
uomini
e le stesse armi contro il nemico interno, contro il governo della
capitale,
contro il potere di classe della borghesia; “volgendo la guerra
nazionale
in guerra civile”».
Il partito, nell’applicare ovunque la prassi disfattista e del “nemico interno”, stabilirà quale sia il male minore tra le varie possibilità, nel caso non si ponga storicamente di rovesciare il sistema con la rivoluzione (proletariato assente o sconfitto): intesa dei due gruppi imperialisti in guerra, vittoria dell’uno, vittoria dell’altro. Valutammo per la Seconda Guerra che il male minore sarebbe stato la rovina del mostro di Washington, capitalisticamente più forte e agguerrito. Le condizioni generali dei rapporti di forza inter-capitalistici non sono oggi di molto cambiate e, essendo condizione alla rivoluzione più favorevole, in epoca decadente del sistema capitalistico, quella derivante dalla sconfitta del gruppo di paesi più assestati e potenti, rimane ancora male minore, in caso di terza guerra, la sconfitta americana.
Questa tesi non comporta alcuna ricaduta in intermedismi di altra natura: non si tratta affatto, come intendono i fautori dell’indifferentismo in tal campo, di premere sul tasto americano o su quello russo, rinunciando, potendolo, a premere sui tasti della rivoluzione mondiale. Il pomposo e vuoto indifferentismo tra le immani forze che si scatenano nelle guerre è stato sempre e decisamente condannato dai marxisti dell’ala rivoluzionaria da Marx a Lenin alla sinistra del comunismo italiano e internazionale. «Lenin sa benissimo che è un fatto che Marx ed Engels, condannando le guerre, si posero nondimeno continuamente dal 1854-55 fino al 1870-71 e dal 1876-77 dalla parte di un determinato belligerante una volta che la guerra era scoppiata». Tuttavia Lenin ricorda che fin da allora Bebel e Liebknecht, su consiglio di Marx ed Engels, votarono contro i crediti di guerra, a differenza dei loro successori del 1914 al Reichstag, che in piena epoca imperialistica bararono sul fatto che la Russia feudale era tuttavia ancora in piedi, e se ne doveva desiderare la caduta. Se ne doveva infatti desiderare la caduta, ma non per questo far lega a Berlino col Kaiser, mentre il rinnegato Plechanov faceva lega a Pietrogrado con lo Zar. Solo un borghese e un cretino, dice Lenin, non capiscono che in ogni paese i rivoluzionari lavorano alla sconfitta del proprio governo. E la storia ha dimostrato che questi possono cadere uno sull’altro.
Ed infatti è documentato anche che nella guerra imperialista del 1914 Lenin optò per una soluzione. Naturalmente quando egli, d’accordo con la legazione germanica, salì a Zurigo nel vagone piombato, per tutti era «il noto agente prussiano Valdimiro Lenin». Poi si capì se avevano visto bene gli agenti prussiani o l’agente rivoluzionario, e lo stesso si vide a Brest-Litovsk. Russia e Germania andarono a gambe per aria entrambe.
Dunque, come Marx coniò e noi, solito, copiammo soltanto, l’espressione di “miglior risultato” di una guerra, è Lenin che ci ha dettato quella di “minor male” nella soluzione delle guerre ed anche si capisce di quelle moderne e squisitamente imperialiste, in cui è tradimento palese l’appoggio ad un qualunque governo belligerante. In un testo per il partito russo egli il 28 settembre 1914 dice: «Nella situazione attuale non si può stabilire, dal punto di vista del proletariato internazionale, di quale dei due gruppi di nazioni belligeranti sarebbe un minor male per il socialismo la sconfitta. Dunque già sepolto l’indifferentismo: i due esiti della guerra, a cui da ambo i lati opponiamo disfattismo e rivoluzione, se restano in piedi i poteri attuali, avranno però diversi effetti sullo sviluppo storico ulteriore: quale la soluzione più favorevole dal punto di vista rivoluzionario? «Per noi socialdemocratici russi (il nome del partito non era ancora stato mutato) non può esservi dubbio che dal punto di vista della classe operaia e delle masse lavoratrici di tutti i popoli della Russia il minor male sarebbe la sconfitta del governo zarista».
Ricapitoliamo, dando per certa un momento la terza guerra. Guerre 1,
2 e 3. Da ambo i lati del fronte la consegna dei partiti comunisti
rivoluzionari
è sempre: nessun appoggio ai governi, tutto il disfattismo
praticamente
possibile. Guerra 1. Il migliore scioglimento per la rivoluzione
è
che vadano a gambe per aria la Russia e l’Inghilterra. Il primo punto
andò
bene, il secondo male; vittoria per il capitalismo. Guerra 2. Il
migliore
scioglimento è che vadano all’aria Inghilterra ed America.
Purtroppo
non si è avuto: stravittoria per il capitalismo. Guerra 3. Il
migliore
scioglimento è che vada a gambe all’aria l’America. Taluno
potrebbe
allineare argomenti per la tesi opposta, che è meglio salti la
Russia,
dato che, se l’America tiene il primato nel conservare capitalismo, la
Russia lo tiene nel distruggere comunismo rivoluzionario. La prima
dà
ossigeno al paziente, la seconda immobilizza il suo marxistico
“affossatore”.
La tesi evidentemente cretina è: non importa niente chi vince.
1) La tattica del partito di fronte alla guerra imperialista poggia
sulla dottrina del disfattismo rivoluzionario di Lenin, del sabotaggio
senza riserve della guerra, anche unilaterale, per
tramutarla
in guerra civile, contro il proprio governo, per la presa del potere e
l’instaurazione della dittatura proletaria. Riserve e condizioni furono
poste nelle
due guerre dagli opportunisti: con eguale effetto di spingere il
proletariato
al macello per la difesa degli interessi del nemico di classe.
Una di queste fu la simultaneità
dell’azione disfattista
sui fronti nemici, apparentemente posizione estrema, nei fatti
impossibile
da attuare, che divenne condizione per la rinuncia all’azione
rivoluzionaria
e per il sostegno alla guerra condotta dalla propria borghesia,
occorrendo
invece prevedere e preparare l’azione a favore della sconfitta del
proprio
governo anche in un solo paese.
Il partito, anche se valuterà
dall’andamento sfavorevole della
lotta di classe, l’impossibilità in generale dello
sbocco
rivoluzionario, non per questo muterà tattica, salvaguardando
con
essa il partito e la stessa possibilità di ripresa classista.
Tale
possibilità non è mai esclusa in assoluto, poiché
non si esclude il verificarsi di condizioni particolari e favorevoli,
che
potranno presentarsi in qualunque fase della guerra: preparazione,
inizio,
sviluppo, fine e immediato dopoguerra.
2) Il partito, che condanna in principio il pacifismo legalitario e anticipa al proletariato la sua impotenza e la certezza del suo futuro prostrarsi davanti agli idoli di Patria e Difesa, dovrà indirizzare al fine disfattista e rivoluzionario lo stato d’animo dei proletari e dei soldati contro gli effetti della guerra ed il movimento e le manifestazioni proletarie contro la guerra. Tenderà, direttamente e tramite la sua influenza sugli organismi economici difensivi di classe, nei quali è presente con la sua frazione, alla propaganda ed alla mobilitazione di classe contro la guerra ed i suoi effetti. È da escludersi per il partito e per i comunisti il partecipare insieme ad altri partiti ad organismi di tipo non strettamente economico difensivo, tipo comitati per la pace, il disarmo, l’amicizia fra i popoli o simili. Il partito non ingannerà il proletariato ammettendo che, senza movimento rivoluzionario, sia possibile mantenere la pace. La pace capitalistica verrebbe, certo, ma dopo che il suo ciclo bellico, con le sue devastazioni, stermini e rapine, si sarà concluso, portando già in sé i germi della futura guerra tra le classi dominanti dei vari paesi. La pace duratura potrà essere conquistata solo con la guerra civile contro il proprio governo e la propria borghesia e la guerra rivoluzionaria tra Stati a dittatura proletaria e Stati a dittatura ancora borghese.
3) Il partito denuncia come illusoria la richiesta del disarmo degli
Stati; sostituisce alla consegna della milizia di popolo quella di milizia
proletaria e ribadisce la necessità della preparazione
tecnica
militare della classe e del lavoro illegale e di infiltrazione
nell’esercito
borghese a fini insurrezionali.
Parola non nostra è quella del rifiuto
del servizio militare
come propugnato dai movimenti piccolo borghesi.
4) Lo sciopero e l’organizzazione sindacale sono strumenti
primordiali
e fondamentali della lotta di classe proletaria. Soltanto la lotta
economica,
soltanto la lotta per i miglioramenti economici immediati riesce a
scuotere
anche gli strati più arretrati della massa sfruttata, a dar loro
una reale educazione e, in periodo rivoluzionario, a trasformarli in
breve
tempo in esercito di combattenti rivoluzionari. Un esteso e combattivo
movimento difensivo operaio è fattore determinante il processo
insurrezionale,
il disgregarsi della disciplina e l’infiltrarsi della propaganda
comunista
fra i soldati.
Nelle rivoluzioni del 1905 e del 1917 in
Russia l’intreccio degli
scioperi
economici con quelli politici, lo stretto legame tra queste due forme
di
sciopero, garantì il successo al movimento. Perché il
proletariato
giunga ad esprimere compiutamente la propria forza di classe per la
presa
del potere politico occorre che vasti movimenti spontanei della classe,
di resistenza e di attacco, economici e politici, di civili e di
soldati
vengano disciplinati, controllati, diretti dal partito rivoluzionario,
che ne concentri le energie per l’urto contro l’obbiettivo supremo
della
presa del potere statale. È questa una complessa dinamica che
dovrà
essere studiata e preveduta dal partito, in tali frangenti
letteralmente
stato maggiore della rivoluzione. La questione è evidentemente
complicata
dal fatto che i vari aspetti parziali del moto si influenzano
vicendevolmente
e diversamente nel loro concrescere ed orientarsi; nessuno di essi di
per
sé è sufficiente al fine, se non nella saldatura del moto
generale della classe nella volontà e nelle certezze del
partito.
5) Il partito considera inadeguate anche al solo fine di scongiurare
la guerra e da elevare ed estendere a forme insurrezionali, le reazioni
istintive della classe contro la guerra, individuali o collettive, in
forma
di rifiuto del servizio militare, fuga, evasione, diserzione. Tali
reazioni,
di singoli o di masse, pur se spontanee, esprimono sì il rifiuto
proletario di avviare la propria carne al macello imperialista, ma di
per
sé possono condurre solo al gettito delle armi e alla
dispersione
di quelle forze proletarie che dovranno costituire il braccio armato
della
rivoluzione. Lo sfaldarsi dei reparti e l’abbandono del fronte saranno
vivamente favoriti dal partito al fine del passaggio di quelle forze
sul
fronte interno organizzato e disciplinato per la guerra civile contro
il
proprio governo. Nella sua attività e nella sua propaganda
inciterà
i soldati non a gettare le armi, ma ad impugnarle saldamente per
orientarle,
al momento opportuno, contro il nemico interno.
Solo con un intervento legale ed illegale
nell’esercito, mirante alla
organizzazione di nuclei comunisti, di reparti poi, potrà
verificarsi
il fenomeno del passaggio di parte dell’esercito borghese sotto le
bandiere
della rivoluzione o ad ottenerne la neutralità nello scontro
sociale.
In concomitanza potrà ingigantirsi il fenomeno, esteso e
spontaneo
nella Prima Guerra, della fraternizzazione tra soldati di eserciti
nemici,
che i comunisti devono tendere ad organizzare superando la sua prima
forma
di sciopero militare.
6) Altra posizione da rifiutare, derivante da errata interpretazione di classiche posizioni marxiste, è quella secondo cui, dalla valutazione, cui mai si rinuncia, di quale sia il ”male minore” tra le possibili soluzioni borghesi alla crisi bellica, dovrebbe discendere un corrispondente atteggiamento tattico attivo: se le condizioni sono giudicate all’immediato sfavorevoli per la riuscita della rivoluzione proletaria, il partito dovrebbe favorire o non ostacolare la vittoria dell’un fronte borghese sull’altro, affinché vi siano nel dopoguerra condizioni migliori per la ripresa della lotta di classe: è questa invece la via del tradimento, che sotto le più disperate forme di intermedismo conduce alla salvezza del sistema capitalistico.
7) In caso di guerra l’atteggiamento del partito nei confronti
dell’opportunismo
rimane immutato, anzi deve essere accentuata la battaglia contro di
esso
e le sue organizzazioni perché la guerra può permettergli
un miglior camuffamento di sinistra nel chiamare i proletari ad
aderire
alla guerra in difesa di traguardi già conquistati o addirittura
al fine di raggiungerne altri più avanzati sulla via del
socialismo.
La guerra, anche se rompe
quell’uniformità di atteggiamento
dell’opportunismo nei vari paesi, poiché ognuno si schiera con
la
propria borghesia e con il proprio blocco imperialista, non per questo
di per sé costituisce un indebolimento dell’opportunismo
stesso.
La sua influenza sulla classe operaia aumenterà o
diminuirà
in relazione all’andamento della lotta di classe e al minore o maggiore
seguito del partito comunista sulla classe. Tale nefasta influenza
sarà
ancora più pesante se riesce, come nella Seconda Guerra, il
gioco
di indirizzare forze armate proletarie contro il proprio governo, non
per
sostituirlo con la dittatura proletaria ma con un altro governo
borghese,
per la scelta della frazione spacciata per progressista di schierarsi
sul
fronte filo-russo o filo-americano.
Nella Prima Guerra la Seconda Internazionale,
nella quale dominava
l’opportunismo, crollò e la sinistra internazionale, con Lenin,
si orientò per la rifondazione dell’organizzazione proletaria
mondiale.
Non bastò però tale crollo organizzativo per eliminarne
la
bastarda influenza, poiché giunse tardi la fondazione della
Internazionale Comunista con le sue sezioni nazionali.
La Seconda Guerra scoppiava a partito marxista
rivoluzionario assente
dalla scena storica e l’opportunismo, all’ombra di Stalin, poteva
presentarsi
sotto false vesti comuniste e impunemente ordinare anche repentini
cambiamenti
di fronte trascinando il proletariato ancora una volta al sacrificio a
favore della classe nemica.
Ancora più netta, se possibile, di
fronte alla terza guerra
dovrà essere la distinzione nei confronti di organizzazioni
“centriste”
che inevitabilmente nei momenti cruciali arresteranno le loro
pendolazioni
e andranno ad ingrossare le file del patriottismo e dell’unione sacra.
8) Il partito prevede la necessità della guerra
rivoluzionaria
dopo la presa del potere in uno o più paesi. Ciò
significa
che suo compito sarà organizzare l’esercito rosso, in grado di
sconfiggere
le armate borghesi interne e di fronteggiare gli eserciti degli Stati
borghesi.
Sarà l’ora della guerra giusta per la difesa della
dittatura
proletaria e per l’estensione della rivoluzione nei paesi ancora sotto
il dominio del capitale, in stretta relazione con la lotta di classe
diretta
in quegli stessi paesi dal partito comunista mondiale.
Soltanto questa sarà l’ultima guerra
del ciclo millenario
dell’umanità
divisa in classi.
("Il Partito Comunista", n.181/1990).