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Il l° settembre 1939, dopo un decennio di continue crisi politiche, economiche, sociali, scoppiava la seconda guerra imperialista, dal cui duro lunghissimo calvario il proletariato mondiale, nonostante ogni suo sforzo è uscito polverizzato come classe rivoluzionaria e aggiogato con pesanti catene al carro degli imperialismi.
La critica scientifica del marxismo ha posto assai bene in luce l’involversi disgregativo della società capitalista (contrasto insanabile fra le forze produttive e rapporti di produzione) caratterizzato, oltre che dalle continue lotte degli strati sociali antagonisti, dai conflitti e dagli urti formidabili che la sfrenata concorrenza capitalistica per la conquista dei mercati di smercio e di sfruttamento, il vorticoso moto accentratore dei mezzi di produzione ed il loro elefantiaco sviluppo, hanno prima attuato su scala nazionale ed ora, nell’epoca dei grandi blocchi super-statali, tragicamente pongono su scala intercontinentale. Studiando tale antitesi sorge marxisticamente la previsione dell’ineluttabilità di un terzo conflitto mondiale se il proletariato non tornerà ad avere piena coscienza dei suoi interessi e del compito rivoluzionario che la storia gli ha affidato. Soltanto una decisa azione di classe potrà infatti deviare il vorticoso fiume del divenire storico verso una opposta foce.
Sono trascorsi non più di due anni dalla formale cessazione delle ostilità e già profondi contrasti tra i vincitori lasciano prevedere nuovi spaventosi urti di carattere militare. Già si assiste alla mobilitazione ideologica dei popoli, già si sbandierano nuove sante crociate in nome di mille falsi ideali «democratici» o «socialisti». Alla classe operaia si presenta ancora una volta la possibilità di salvare se stessa da una spaventosa conflagrazione e dal capitalismo, nella misura in cui, avvantaggiata dalle recenti esperienze storiche, tornerà a scendere apertamente in lizza per la costruzione dei suoi organismi internazionali di lotta e contro la marea montante della reazione. Se queste prospettive risultassero fallaci, se la polverizzazione e l’assopimento del proletariato permettessero al capitalismo «democratico» o (non ridete) «socialista» di scatenare un nuovo conflitto, assisteremo invece ad uno spaventoso dissanguamento delle classi lavoratrici ed a una più feroce oppressione elevata sulla schiena degli operai dalla ferocia padronale. Tutto questo è già avvenuto nella guerra del 39-45. Noi vogliamo ora, a distanza di otto anni, ricordarlo agli operai.
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Nei primi mesi del 1938, in Spagna la «resistenza» al falangismo dava gli ultimi guizzi. Che cosa ha rappresentato per i proletari la lezione spagnuola? Nel 1936 l’acuta crisi economica che travagliava la Spagna fin dal I dopoguerra e che si era venuta acutizzando dopo il 1931, sfociava in sommovimenti e in disordinate rivolte degli operai iberici, decisi istintivamente a spazzare via in maniera radicale la classe sfruttatrice. Le forze sociali di guida del proletariato erano rappresentate, oltre che dai tradizionali partiti stalinista e socialdemocratico, da forti raggruppamenti anarco-sindacalisti appoggiati da una numerosa organizzazione sindacale. Conquistata una formale libertà di azione, le masse operaie e contadine guidate dalle formazioni anarchiche iniziavano un caotico processo di collettivizzazione delle grandi e piccole aziende, dei servizi pubblici e dell’agricoltura. Era un procedere spontaneo ed entusiasta, guidato in modo del tutto inadeguato da elementi politicamente ribelli e quindi privi di solide e chiare vedute politiche.
La borsa fu chiusa e l’edificio saccheggiato ma tutto l’apparato burocratico venne lasciato in piedi, il potere politico reso vacante, gli organi borghesi accantonati ma non distrutti. Poche settimane dopo i partiti politici di «sinistra» e di destra, pedine più o meno legate agli imperialismi stranieri o senza una chiara fisionomia di classe, approfittando della mancanza di una solida organizzazione rivoluzionaria strozzavano il moto operaio appena nascente e confuso, irreggimentavano le masse nell’alveo di una guerra che, abbandonate le forme (appena, delineate) e l’essenza della lotta civile, veniva tramutandosi in contesa imperialistica mentre il paese diveniva il primo «banco di prova» degli opposti capitalismi per saggiarvi le loro forze e i loro mezzi bellici. L’esperienza di Spagna ha chiaramente provato l’impossibilità di una guida anarchica capace di condurre il proletariato alla completa vittoria di classe. In realtà l’anarchismo è frutto della ribellione istintiva del corpo sociale causata dai disagi brutalmente materiali che creano insofferenza e violenza cieca contro ogni ostacolo. Nella rivolta anarchica predomina una forma rudimentale di coscienza negativa tendente semplicemente ad abbattere senza scelta di mezzi, procedendo contro tutto e tutti, non considerando le proprie possibilità, non risparmiando colpi a ciò che forse potrebbe giovare, lasciando quello che andrebbe radicalmente distrutto. Così in Spagna gli anarchici non indirizzarono minimamente il proletariato verso la conquista del potere politico e la distruzione dei gangli di difesa borghese, accontentandosi di smantellarne le più appariscenti soprastrutture e procedendo caoticamente alla collettivizzazione. I «più radicali» negatori dello Stato si dimostrarono in realtà i suoi più strenui ed ingenui difensori, disinteressandosene e trascurando prima, coadiuvando poi al suo rafforzamento, tramite i... «ministri libertari». Tale atteggiamento permise alle sinistre socialiste e staliniste di conquistare il potere, di intralciare o soffocare ogni ritorno alla vera lotta di classe trascurando o prendendo posizione sfavorevole verso i tentativi collettivistici in atto. Chi studia la legislazione di carattere economico posta in vigore dal governo repubblicano durante la guerra civile, noterà con stupore la completa assenza di ogni radicale provvedimento sociale in favore delle classi lavoratrici, carenza alla quale si aggiungeva l’aperto sabotaggio della vecchia burocrazia statale, padrona come non mai.
A questo governo tipicamente borghese davano il loro condizionato appoggio i «comunisti» spagnoli. Fernandez, segretario del P.C. di Spagna, così si esprime sul programma che avrebbe difeso: «Il blocco democratico antifascista dovrà radunare intorno a sé tutti i sinceri repubblicani di ogni fede religiosa e politica (...) Noi comunisti siamo decisamente contrari alle collettivizzazioni poiché crediamo sinceramente che la proprietà privata industriale debba avere possibilità di nuovi sviluppi. Non si pone ancora il problema del socialismo bensì della vittoria della democrazia». Gli operai iberici non combattevano per i loro interessi, per il socialismo la democrazia borghese e il regime della proprietà privata e dello sfruttamento dovevano essere salvati.
Né poteva essere altrimenti. Fin dal 35 il VII congresso dell’Internazionale aveva lanciato la parola del blocco indiscriminato anti-fascista. Le prime dure esperienze furono riservate alla Spagna. L’unione con gli strati borghesi, socialdemocratici e perfino cattolici tramutò nel giro di pochi giorni la lotta di classe in urto internazionale ed a causa di ciò il proletariato si trovò impotente a contrastare il fascismo. Tragica fu in quegli anni la carenza di un partito rivoluzionario, centinaia di migliaia di operai caddero in una guerra che non era la loro, illusi, traditi anche quando inutile si dimostrava ogni resistenza ed il popolo era restio a continuare la sterile lotta; sacrificato e spinto a combattere con la forza dagli stalinisti (Madrid 1938) poiché lo Stato russo era ancora per il blocco anti-fascista, anche se privo di senso e di speranza.
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Il patto russo-tedesco scoppiava improvviso sull’orizzonte politico internazionale. In Francia, in Polonia, in Inghilterra, i socialdemocratici perseverarono nella loro posizione sciovinista e guerrafondaia di «Unione sacra» con il capitalismo per la salvezza della Patria. Il vecchio Blum continuò a predicare e a benedire la crociata antitotalitaria, il laburismo appoggiò il governo conservatore, mentre il socialismo polacco si legava strettamente al regime reazionario dei «colonnelli». Ed i partiti stalinisti? Il brusco e cinico cambiamento di fronte dell’URSS impose loro una «capriola», tattica delle più sorprendenti. In soffitta il blocco anti-fascista e la guerra al fascismo. In Polonia il proletariato «comunista» non si opponeva all’avanzata tedesco-russa, in Francia la situazione per lo stalinismo è delle più critiche. Tutta la sua campagna nazionalista, tendente ad avvicinarsi alla destra radicale e guerrafondaia, crolla come un castello di carta, il partito è costretto a vivere nella semi-legalità, e l’illogicità, la non chiarezza, il carattere controrivoluzionario della sua linea politica provocano non solo le dimissioni in massa di molti militanti, ma anche il completo disorientamento della classe operaia che, non guidata, confusa, non si oppone minimamente allo scatenamento della guerra. Così da una parte i regimi fascisti e dall’altra le borghesie democratiche ed i partiti operai giuocano il medesimo ruolo di becchini del proletariato condotto supinamente al macello.
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Maurice Thorez il 21 novembre 1938 ad una riunione del Comitato Centrale del P.C.F. affermava: «I dittatori di Roma e di Berlino vogliono isolare la nostra Patria per annientarla. Coloro che gridano ’piuttosto la rivoluzione che la guerra... oppure sciopero generale e non mobilitazione generale’ sono completamente al di fuori del marxismo. Nelle presenti condizioni di minaccia hitleriana queste frasi rappresentano un crimine contro la classe operaia... Di quale impudenza sono armati i trotskisti spioni che pretendono di far riecheggiare la parola d’ordine di Liebknecht ’il nemico è nel nostro paese’! Noi dobbiamo denunciare come appoggio diretto al fascismo le calunnie contro l’Unione Sovietica e la menzognera affermazione trotskista che tutti gli imperialismi si equivalgono ponendo così sullo stesso piano la dittatura fascista e le democrazie occidentali amanti della pace».
Il nazionalista Thorez ed il P.C.F. avevano nei mesi seguenti assunto posizioni via via più decise riecheggiando perfino i concetti di «Unione sacra» e della vecchia «révanche» fin de siècle.
Di punto in bianco tutto questo armamentario ideologico crollò in pezzi. Il P.C.F. scoprì (alfine) che la guerra non era altro che una lotta imperialistica e lanciò i suoi anatemi contro le «democrazie occidentali». Thorez edizione 1939 smentì di fatto tutte le sue precedenti affermazioni coprendosi così di ridicolo e di vergogna. E fu portato ad agire formalmente su un piano assai vicino a quello dei... «trotskisti spioni».
Il governo Daladier verso il quale spesso erano andate le speranze dello stalinismo, rispose con le persecuzioni più feroci. Pochi mesi dopo il proletariato francese, stanco dei continui tradimenti perpetrati ai suoi danni dai partiti «operai» rifiutò di battersi, e, causa la mancanza di una forte guida rivoluzionaria, si acquietò in una passività sconcertante o diede vita a moti spontanei e slegati. La Francia venne facilmente occupata dalle divisioni tedesche.
L’esempio francese ha dimostrato ancora una volta che se il proletariato rifiuta di battersi per la propria «Patria» la borghesia crolla senza opporre resistenza alcuna ai colpi esterni... I grandi industriali, le caste terriere, i generali «depositari dell’onore militare» della III Repubblica, di fronte alla resistenza passiva della classe operaia si dibatterono impotenti: il guerrafondaio socialista Blum ebbe in seguito a dichiarare: «Si attraversarono momenti orribili. Vi erano moltissimi scioperanti. Gli scioperi si estendevano da una località all’altra...» Né questo basta. I soldati non vollero più sacrificarsi e morire sotto una disciplina spesso disumana per interessi che non erano quelli della loro classe. I disordinati moti economici non raggiunsero, naturalmente, risultati concreti, mentre la borghesia, forte del regime di dittatura militare instaurato nel paese. si affrettò ad abolire definitivamente con un tratto di penna le poche concessioni economiche strappate dagli operai durante decenni di lotte sindacali. Fu così nuovamente provato il carattere effimero delle conquiste graduali, ed il ruolo sostanzialmente antioperaio giocato dal vacuo riformismo di ogni gradazione.
Se nel paese fosse invece esistito un movimento rivoluzionario, la sua azione sarebbe stata, condotta sul terreno della più decisa ed intransigente lotta di classe all’interno contro il governo borghese prima, sulla base del disfattismo rivoluzionario e della disgregazione dell’esercito occupante poi. Quale fu invece l’atteggiamento dei partiti di «sinistra» dopo l’occupazione? Le correnti socialscioviniste continuarono blandamente nell’illegalità a predicare la lotta per la difesa nazionale in unione con l’Inghilterra, dove la «unione sacra» del laburismo e dei conservatori celebrava i suoi saturnali dopo la caduta del gabinetto di Chamberlain. Contemporaneamente si sviluppava in Francia una forte tendenza politica socialista al pacifismo più spinto e perfino alla collaborazione con il nazismo. Tale socialfascismo che faceva capo al «Midi Socialiste» considerava possibile la graduale «lotta» per gli interessi economici della classe operaia e per determinate riforme di struttura nell’ambito dello stato moderno totalitario. Era codesta la forma più... conseguente del socialriformismo il cui errore storico fu sostanzialmente quello di non avere identificato sé stesso nei movimenti riformisti del fascismo. Ed il Partito Comunista Francese? A Parigi occupata dai nazisti il P.C.F. nel primo periodo dell’occupazione veniva tollerato dal comando tedesco, l’«Humanité» veniva venduta per le vie della capitale con il tacito consenso della «Kommandantur» presso la quale erano in corso trattative per la legalizzazione del giornale. Redattori comunisti collaboravano al settimanale «France au Travail» sindacalista collaborazionista.
Questa condizionata libertà dello stalinismo era dovuta sia agli stretti vincoli che allora univano l’Unione Sovietica al III Reich, sia alla linea politica del partito, che aveva abbandonato tutte le sue parole d’ordine antinaziste. In sostanza l’atteggiamento dell’«Humanité» di quegli anni si presentava nettamente contrario al governo Pétain da un lato; a De Gaulle, all’emigrazione, e all’imperialismo britannico dall’altro. Pochissime e blande le critiche ai regimi fascisti. «Ni Pétain, ni De Gaulle»... ma neppure disfattismo rivoluzionario in seno all’armate di Hitler, non sabotaggio della produzione, non ritorno alla lotta di classe. Il P.C.F. assisterà assai spesso inerte alle prime deportazioni in massa di operai verso la Germania.
Parve ad alcuni che il nuovo atteggiamento «intransigente» dello stalinismo preludesse ad un sostanziale ritorno alla lotta di classe ed all’azione leninista. In realtà, per comprendere appieno la linea politica del nazional-comunismo non si deve assolutamente prescindere da una approfondita analisi dello Stato russo cui si ispirano i partiti stalinisti del mondo. E solo convincendosi del carattere non socialista dell’Unione Sovietica e della sua conseguente posizione imperialistica che risulterà possibile non alimentare pericolose illusioni e vane speranze. D’altro canto la «tattica» di un partito non si presenta come qualcosa di empirico, di slegato e di inconseguente. In altre parole, gli atteggiamenti dello stalinismo nel 1940-41 dovevano essere analizzati soprattutto alla luce di tutta la sua politica collaborazionistica ed era così facile giudicare come massimaliste illusorie ed anti-operaie le parole d’ordine che gli avvenimenti avevano «bon grè mal gré» imposte. Nei Paesi Bassi la situazione si andava evolvendo nello stesso senso: assai forti si presentavano anche qui alcune correnti socialiste che difendevano un pacifismo piccolo-borghese di supina acquiescenza all’oppressione. Nei Balcani, dopo la rapida vittoria dell’Asse in Iugoslavia i comunisti non dettero vita ad alcuna azione di classe; saranno invece le bande del reazionario Michailovich ad iniziare la «lotta all’invasore» chiamando a raccolta i lavoratori in nome naturalmente, della Monarchia e del vecchio stato autocratico. Così in tutta Europa, fino al 1942, da un lato regimi fascisti irreggimentano le masse e le conducono spietatamente al macello sottoponendo operai e contadini ad un tenore di vita dei più orribili tramite i sindacati di stato ed il corporativismo, dall’altro i capitalisti «democratici» e i loro tirapiedi della Seconda Internazionale lanciano il proletariato quasi disarmato contro le divisioni corazzate naziste, mentre lo stalinismo cinicamente sacrifica durante le sue virate tattiche decine di migliaia di militanti.
Nei paesi occupati le deportazioni, i rastrellamenti si susseguivano ininterrottamente; il proletariato veniva travolto da ogni parte. Mentre la reazione imperversava sul mondo contro tutte le classi lavoratrici, nel Messico veniva assassinato dagli agenti dello stalinismo Leone Trotski. Si volle colpire in lui una delle figure più rappresentative (anche se delle più discusse e discutibili) delle avanguardie coscienti del proletariato, che tra difficoltà immense, nonostante la passività e l’ostilità delle grandi masse, già sottoponevano al vaglio della critica marxista le terribili esperienze del conflitto.
Thorez e Duclos, gli intemerati campioni dell’antifascismo, parlavano dalla radio nazista di Stoccarda agli operai francesi mentre i loro sicari, tacitamente spalleggiati dal capitalismo mondiale, assassinavano «il provocatore» Trotski, «spia del nazismo».
«L’assassinio e la menzogna sono le armi preferite dagli sfruttatori e dagli oppressori». Non siamo noi a dirlo, è lo stalinista Maurice Thorez, che lo ha scritto.
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Mentre il continente europeo, conquistato in meno di due anni dagli eserciti nazisti veniva inquadrandosi nell’organizzazione produttiva dello «spazio vitale» tedesco ed il proletariato confuso ed oppresso si dibatteva fiaccamente, in Inghilterra e negli USA il movimento operaio di fronte alla cruda realtà di una nuova guerra imperialistica non trovò la forza di opporsi ai propri governi reazionari, mentre i suoi partiti ufficiali aderivano «toto corde» al movimento «democratico di guerra ai totalitarismi»
Tutto ciò non poteva stupire.
In realtà in Inghilterra, dopo i cartismo, fenomeno rivoluzionario di un proletariato poco numeroso (e quindi non ancora cosciente dei suoi interessi e del compito profondamente rinnovatore che la dinamica storica gli assegnava) non ebbero a sorgere o quanto meno ad assumere una notevole importanza organizzazioni rivoluzionarie. E infatti il laburismo democratico riformista tipicamente borghese affonda salde radici nel terreno sociale della nazione britannica, mentre l’esile partito comunista non vi ha mai rappresentato neppure nel periodo d’oro della III Internazionale, una forza reale.
La Gran Bretagna appartiene a quella piccola cerchia di stati che grazie alla loro potenza economica, costituiscono i pilastri giganteschi dell’imperialismo ai quali sono strettamente soggette le piccole nazioni a potenziale industriale poco sviluppato, spinte spietatamente dal processo storico verso il rango di terre di sfruttamento di paesi coloniali. La gigantesca ricchezza dei grandi paesi imperialistici (ottenuta per mezzo dei monopoli e del colonialismo) permette ai capitalisti di largire qualche briciola agli strati meno rivoluzionari della classe operaia, creando così categorie privilegiate che vengono dividendosi e differenziandosi dalla grande massa dei proletari.
Tale scissione rinforza l’opportunismo, provoca un ristagno del moto operaio, permette il consolidamento dello stato borghese, trascina larghi strati della classe sfruttata verso un fronte unico che sanzioni la politica brigantesca della propria borghesia allentando così i vincoli della solidarietà internazionale che legano i proletari di tutti i paesi. Specie nei periodi di rigoglio economico la classe sceglie a suoi capi gli agenti e le organizzazioni politiche legate a doppio filo al capitalismo imperialistico. In Inghilterra è il caso dal «Labour Party» che alla vigilia del passato conflitto si muoveva su un piano verbalmente sinistroide avendo in H. Laskj il suo esponente massimo. Nazionalizzazione delle banche, delle assicurazioni, dell’edilizia, di poche industrie siderurgiche, controllo ed intervento statale nel commercio estero e in parte degli scambi interni; questo il programma economico del «socialismo progressivo».
Unità (indiscriminata) della classe operaia con gli strati piccolo borghesi intellettuali e naturalmente con alcune correnti della borghesia; azione politica che tenga conto della tradizione imperiale della Gran Bretagna, tali le direttrici politiche di marcia propugnate dal Laskj e seguite da numerose correnti della socialdemocrazia inglese. Controllo e pianificazione, unione di vasti strati della popolazione su un piano comune di azione, conseguente aumento degli interventi statali; tutto ciò gabellato per azione «socialista», ma tale, vogliamo aggiungere, il programma sociale della quasi totalità delle multiformi correnti politiche nell’attuale fase critica del capitalismo. Non potrebbe essere altrimenti: il recente sviluppo del capitalismo, raggiunta la fase «intermedia» del monopolio privato, per le interne necessità di conservazione della società borghese si avvia in tutto il mondo a grandi passi verso la completa statizzazione dei mezzi di produzione. Questo procedere alla ricerca di forme più moderne di reazione porta al parossismo i contrasti di classe imponendo ai partiti che non si pongono come obiettivo lo scardinamento del sistema sociale capitalistico, fini politici sostanzialmente identici in tutti i paesi mentre i mezzi di coercizione materiale ed ideologica atti al raggiungimento dei fini stessi possono variare a seconda dell’evolversi delle situazioni e dei rapporti di forza tra le classi nei singoli stati.
In America, in Inghilterra, in Germania, nella Russia stessa gli economisti borghesi, enunciando durante la passata guerra scopi e programmi per l’avvenire, palesavano negli opposti campi una identità di vedute veramente commovente unita ad una volontà (degna di miglior causa) di imbrigliare le masse operaie irreggimentandole nelle maglie dei nuovi complessi super statali, che sarebbero sorti dopo il conflitto. Perfino nel campo della propaganda la borghesia, sotto la spinta del divenire storico, ha creato nuove variopinte etichette di cui si servono indifferentemente fascisti e stalinisti, democratici e reazionari: vengono così progressivamente gettati a mare gli slogan sulla piena libertà individuale e rimpiazzati dalle nuove formule dello stato il quale «espressione massima del popolo» ne interpreta (a piacer suo) gli interessi e i desideri. Si intacca la libera iniziativa e si ciancia di nazionalizzazioni. Al principio di nazionalità e di stato nazionale che filosofi e poeti avevano circonfuso di una aureola di misticismo e di etica metafisica, sotto la spinta di necessità politiche imprescindibili, vengono sostituite le «teorie» dei grandi blocchi continentali (europeismo, germanesimo, americanismo).
Il binomio «dovere e lavoro» è conclamato ai quattro venti e la parola «socialismo» (la parola... naturalmente) è scritta a grosse lettere sulle bandiere degli imperialismi contrapposti.
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La fiducia riposta nelle citate ricette e formule miracolistiche e nelle tradizionali organizzazioni politiche condusse anche il proletariato inglese ad una guerra spaventosa accettata con entusiasmo spesso senza limiti.
Dopo i primi rovesci in Polonia, il laburismo si stringe decisamente intorno al governo conservatore ponendosi nelle officine e nei campi alla testa del proletariato, creando in esso una psicosi guerresca senza precedenti. Né questo basta. All’atto dell’invasione tedesca in Occidente, quando cioè alla classe operaia venivano richiesti sacrifici economici e di sangue senza precedenti, il grande capitale finanziario di Londra si vide costretto ad invocare l’aiuto «socialista». Attlee e Greenwood entrarono nel ministero dell’Unione Sacra senza peraltro dirigere dicasteri chiave né subordinando minimamente la loro collaborazione a richieste di riforme strutturali nel campo industriale ed agricolo. Una tregua che si estese perfino alle agitazioni rivendicative di carattere economico venne accettata dal «socialismo» inglese. Furono infatti proprio i ministri laburisti i più feroci avversari degli scioperi minerari ed industriali che si verificarono nel paese durante il conflitto. Nessuna differenza politica dividerà durante la guerra i conservatori dai loro colleghi di sinistra, mentre identificando nel nazismo il proletariato e il popolo tedesco, il governo e i tirapiedi socialisti conclameranno la necessità dello smembramento della Germania, della distruzione dei suoi complessi industriali, dei suoi impianti marittimi, palesando involontariamente gli scopi imperialistici della seconda conflagrazione mondiale. Centinaia di operai ed organizzatori rivoluzionari furono gettati nei campi di concentramento dal governo di Sua Maestà, mentre il capitale finanziario britannico, nonostante i rudi colpi inferti dal fascismo, consolidava le sue posizioni di privilegio nei confronti della classe operaia con il prezioso aiuto della Trade Unions i cui capi si dimostrarono i sabotatori più energici degli scioperi svolgendo un ruolo del tutto favorevole al padronato.
D’altro canto i comitati di fabbrica sorti durante il conflitto in tutto il paese, se si eccettuino rare spiegabili eccezioni, seguirono pedissequamente la politica collaborazionista di unità nazionale. Tutto questo mentre i prezzi raggiungevano indici altissimi e la crisi alimentare e l’offesa esterna sottoponevano la classe a sacrifici senza precedenti. Più di un milione di morti e feriti per stenti ed offese aeree, milioni di senza tetto, intere cittadine e quartieri operai distrutti. Questi i sacrifici sopportati dagli operai inglesi durante una guerra che non era la loro...
Negli S.U. d’America dopo la rielezione alla presidenza della Repubblica avvenuta nel 1940 di F. Delano Roosevelt ed il nuovo impulso al New Deal, la politica bellicistica dei circoli finanziari ebbe il completo appoggio delle tradizionali organizzazioni sindacali statunitensi se si eccettui la corrente scissionista di J. Lewis che diede vita durante il conflitto a grandi scioperi minerari contro le proibizioni governative fatte in nome dell’Unità Nazionale e della «difesa della civiltà» pur mantenendo la lotta su un terreno esclusivamente riformistico e riconciliandosi in definitiva con il governo: Lewis fu, in sostanza, la valvola lasciata aperta all’ebollizione della massa operaia. Quanto al partito comunista, che oggi lancia fulmini all’imperialismo americano, esso si sciolse per assumere la pacifica fisionomia di una associazione di cultura e collaborare in accordo fino all’ultimo col governo di Wall Street, liquidando le timide resistenze di qualche nostalgico.
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Il 20 giugno del 1941 le armate naziste traversarono il confine orientale dall’estremo Nord finlandese al Mar Nero iniziando la lotta contro la Russia.
Dopo il patto tedesco-russo (Mosca 1939: Ribbentropp-Molotoff) i rapporti tra le due potenze si erano conservati cortesi nonostante la lenta marcia verso occidente delle armate di Stalin (occupazione della Lettonia, Estonia, Lituania, di regioni strategiche finlandesi, della Bessarabia e della Bucovina Rumena) ed il III Reich aveva ricevuto dall’URSS secondo il trattato commerciale stipulato forti quantitativi di merci necessari alla sua economia duramente impegnata nella guerra. Ma gli interessi dei due mastodontici mostri statali, nonostante le profonde collusioni, non potevano alla lunga non venire in conflitto.
Per il capitalismo di stato russo erano di vitale importanza i giacimenti petroliferi della Rumenia, le miniere di Petsamo, i prodotti e le basi navali bulgare, trampolino di lancio per la marcia verso occidente. La ferrea logica della storia assume spesso un carattere di tragica ironia. L’impero feudale-borghese degli Zar, durante la prima guerra mondiale, si batté per i medesimi obiettivi, per le stesse conquiste, che 25 anni dopo dovevano essere meta di un regime «socialista» che pur si vanta diretto erede di una rivoluzione (questa sì, veramente socialista ed operaia) affermatasi in netta antitesi con la politica brigantesca di tutte le nazioni.
Anche la Germania non aveva fatto mistero delle sue mire imperialistiche verso i Baltici e il Mar Nero avendo lo stesso Hitler esplicitamente dichiarato nel suo «Mein Kampf» che i giacimenti ed il suolo ucraino rappresentavano delle necessità vitali per le industrie e la superpopolazione tedesca.
I precedenti diplomatici gettano una chiara luce sulla natura del conflitto tedesco-russo. Durante l’ultimo viaggio di Molotoff a Berlino, fu palese che la Russia era pronta ad una strettissima collaborazione con le potenze dell’Asse, ed in ispecie con la Germania, se da parte tedesca si fosse acconsentito ad alcune sue fondamentali richieste.
Molotoff ebbe in quell’occasione a dichiarare: «La Russia si sente di nuovo minacciata dalla Finlandia. Siamo decisi a non tollerare ciò. Inoltre è la Germania disposta ad acconsentire che la Russia invii truppe sovietiche in Bulgaria e in Romania, con l’esplicita garanzia che dette forze non detronizzeranno il re e non muteranno il regime interno del paese? La Russia ha bisogno di occupare importanti basi nei Dardanelli e sul Bosforo. La Germania è d’accordo?»
Il brigante nazista non poteva certamente «essere d’accordo» di fronte a tali esose pretese. Le frasi di Molotoff provano di quale natura sia stata la guerra scatenata ad Oriente. L’URSS come il suo ministro degli esteri ebbe esplicitamente a dichiarare, non avrebbe per nulla mutato gli stati e i governi delle nazioni occupate... La sua non sarebbe stata una marcia rivoluzionaria, bensì imperialista.
Se una intesa fosse stata possibile, avremmo visto lo stalinismo internazionale accentuare la sua campagna di disgregazione e di tradimento tra la classe operaia in favore dell’Asse e del Tripartito!! Sul piano dei conflitti imperialistici avvenne il cozzo bellico. La guerra, questa cruda necessità della società borghese, divorava altri paesi ed altri popoli.
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Lo sviluppo straordinariamente rapido dell’industria sovietica durante i piani quinquennali aveva provocato un aumento vertiginoso del proletariato. Alla vigilia del 1939 la classe operaia contava nell’URSS circa 30 milioni di lavoratori industriali, ai quali dovevano aggiungersi le grandi masse agricole delle aziende collettive. Quali le condizioni di vita di questo sterminato esercito di lavoratori? La differenziazione delle paghe si presentava terrificante all’inizio della seconda guerra imperialistica. Il salario di un operaio non qualificato era dalle 20 alle 23 volte inferiore a quello dei dirigenti delle industrie, dei più quotati tecnici delle alte gerarchie burocratiche, statali, militari e del partito. Né i profondi dislivelli vennero colmandosi durante il conflitto. Accadde invece nettamente il contrario.
Tale stato di cose fu sancito informa ufficiale dallo stesso Stalin che nel 1938 affermava: «Il segreto dell’efficienza delle industrie sta in un divario delle ricompense. Le paghe devono essere corrisposte secondo il lavoro fatto e non secondo i bisogni del lavoratore». Ed ancora: «L’eguaglianza delle remunerazioni si presenta come un indice di reazionarismo borghese e di degenerazione capitalista».
Non è quindi strano che il professor Mitin dell’Accademia di Scienze di Mosca sintetizzi le «teorie» staliniste nella formula «il socialismo è ineguaglianza». Inoltre lo sfruttamento veramente scientifico del lavoro per mezzo dello stakanovismo, delle sanzioni economiche, del cottimo progressivo, dimostravano i reali rapporti di forza fra gli strati sociali che, dopo il 1925, si erano venuti sviluppando in quel paese.
Era naturale che la propaganda bellica della stampa, della radio, del partito riflettesse l’evoluzione dei rapporti sociali esistenti in Russia.
I motivi ideologici del conflitto riecheggiavano, sulla falsa riga delle ideologie borghesi, i concetti di «difesa della Patria», «della santa terra russa». «Le grandi tradizioni gloriose» degli Zar, dei generali, furono propinate come oppio ideologico alle masse operaie. Il «passato imperiale della Patria» venne esaltato per aumentare lo spirito nazionalista del popolo. Furono posti su di uno stesso piano i proletari tedeschi anch’essi vittime della guerra, con i grandi industriali, i banchieri, i politici nazisti. Non è perciò stupefacente che il massimo scrittore russo Slia Ehremburg lanciasse in quegli anni la terribile parola d’ordine: «Uccidete senza scrupoli ogni tedesco... non vi sono dei buoni tedeschi tranne quelli già uccisi».
E la «Pravda» di rincalzo: «Uccidere senza pietà per far scomparire dalla terra fin l’ultimo rappresentante di questo popolo maledetto». La lotta contro l’invasore fu quindi presentata come lotta razzista, tentando così di risvegliare i sentimenti di odio più profondi ed atavici. Queste furono le bandiere ideologiche di combattimento dello «stato socialista»!
Recentemente si è tentato di giustificare in vari modi tali formule propagandistiche. Vana giustificazione... Durante la rivoluzione e negli anni eroici della guerra civile, agli operai ed ai contadini di Russia furono necessarie, per lottare contro tutti gli stati capitalisti ed i nemici interni, le sole parole d’ordine rivoluzionarie ed internazionaliste. Tutto ciò, dopo una guerra perduta per la non volontà di battersi. La «Pravda» del 1917 non si compiaceva per il massacro dei proletari tedeschi in uniforme, ma così esortava i proletari russi: «Contadini e operai soldati, basta con la guerra, fraternizzate con i vostri compagni tedeschi al di sopra delle frontiere contro tutte le borghesie».
Ma molta acqua era passata sotto i ponti della Neva dagli anni eroici della rivoluzione: dispersi i marinai di Kronstadt la rossa, disperse le guardie rosse delle officine, perseguitata e dispersa la vecchia guardia leninista, ridotta a macabro burattino impotente l’Internazionale che pur era stata una terribile arma di offesa nelle mani del proletariato. Il sostanziale abbandono del marx-leninismo non fa che sancire una nuova realtà incontrovertibile: la degenerazione della Russia stalinista. I principii leninisti non potevano e non dovevano servire per la lotta di uno stato che di socialista non aveva che il nome.
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La guerra all’Est provocò, come era prevedibile, profondi mutamenti politici in tutta Europa.
In Francia l’iniziativa della «Resistance», dopo la disfatta del giugno, era stata assunta dal gen. De Gaulle, cui si erano entusiasticamente affiancati i socialsciovinisti. Al movimento gaullista avevano aderito parte dei ceti medi, gli ufficiali e strati borghesi tra i più reazionari e nazionalisti. Il proletariato francese, al contrario, pur tra le mille incertezze, non riponeva alcuna speranza nell’attesa di una sedicente liberazione gaullista, mentre si faceva faticosamente strada la giusta convinzione che solo con la lotta contro tutti gli imperialismi i problemi vitali dei lavoratori sarebbero giunti ad una concreta soluzione.
Lo stesso P.C.F. contribuì in quei mesi in maniera non indifferente alla creazione di una psicosi contraria a De Gaulle. In realtà la funzione del gaullismo era senza dubbio delle più losche ed interessate, presentandosi come il parallelo del governo Pétain-Laval della cosiddetta «France Libre». I motivi che dividevano De Gaulle dalla «Cagoule» (fascismo francese) non vertevano su questioni di programma e di metodo, ché la funzione delle due forze politiche era sostanzialmente la medesima. Soltanto le valutazioni circa i mezzi per raggiungere lo scopo si presentavano diverse. Tutto ciò riconobbe lo stesso De Gaulle che a Londra ebbe esplicitamente a dichiarare ad alcuni suoi collaboratori: «La reazione nazionale è un’ottima cosa. Ciò che rimprovero a Pétain è di essersi appoggiato alle baionette tedesche per realizzarla... Quello invece è il mezzo migliore per farla fallire...» La frase, assolutamente autentica, dimostra, se ve ne fosse bisogno, il ruolo reazionario della «Resistance» ed del «grande democratico».
Pedina in mano agli imperialismi di Occidente, becchino del popolo francese il «generale», nonostante ogni suo sforzo, non era riuscito a mobilitare la classe operaia nella guerra clandestina. Contro di lui lo stalinismo aveva lanciato fin dall’agosto del ’40 una violenta campagna.
Due giorni prima dell’attacco tedesco all’URSS l’«Humanité» in un articolo di tre colonne si scagliava con veemenza contro De Gaulle: «Si sente ripetere che Vichy fa ammazzare francesi per la Germania, ma che dire di De Gaulle, del servo De Gaulle, che ha condotto al macello migliaia di nostri fratelli per la Gran Bretagna?...» e via di questo passo. Il proletariato per natura diffidente verso le caste militari, non accordò credito al generale emigrato. Furono i colpi di cannone che rimbombarono all’est a favorire la reazione gaullista in Francia, e le caste militari nel Belgio. Complici indispensabili gli stalinisti... naturalmente.
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Nel giugno 1941 la linea politica «internazionalista» e di «lotta di classe» dei nazionalisti si palesò come una tattica accettata burocraticamente e senza alcuna convinzione. Quarantotto ore dopo l’attacco tedesco all’URSS lo stalinismo francese lanciava, di punto in bianco, le nuove parole d’ordine imposte dall’alto che erano in stridente contraddizione con le precedenti affermazioni: «Viva l’Inghilterra...» ed ancora: «la classe operaia francese trarrà la forza dalle tradizioni gloriose della Patria per la lotta contro il popolo tedesco...» Non era forse l’Inghilterra bollata a fuoco fino a poche settimane prima, come potenza guerrafondaia ed imperialista? Non si predicava sulle colonne dell’Humanité il superamento del concetto di patria? Né questo basta: «Gli operai e i contadini realizzeranno l’unità nazionale di tutte le forze antifasciste. L’unione di De Gaulle e dei comunisti rappresenta una vitale necessità per la vittoria della Patria».
Il becchino del popolo francese, il militarista De Gaulle fu elevato sugli scudi dai «comunisti» i cui fogli clandestini diedero contemporaneamente fiato alle trombe in onore «delle nazioni democratiche di occidente», dell’America («culla della libertà»), degli uomini più rappresentativi di quel paese, Roosevelt e Truman, dei sistemi di vita sociale esistenti nell’USA ed in Inghilterra. La guerra non era stata classificata dagli stessi nazionalcomunisti come una contesa brigantesca tra imperialismi? La borghesia francese non era stata forse accusata a fondo per il suo sciovinismo?
Di punto in bianco anche questo armamentario ideologico crollò a pezzi. Venne infatti propugnato con tutte le forze un fronte unico mentre si esortava con tutti i mezzi il proletariato a correre in soccorso di quella borghesia una volta classificata come la «più retriva e reazionaria».
Il 20 giugno del 41 De Gaulle era ancora un traditore, due giorni dopo i redattori dell’Humanité coniavano per lui il titolo di «grande democratico».
Soltanto ora, a distanza di tre anni dalla fine della guerra, lo stalinismo lancia palle di fuoco contro il gaullismo e la cagoulle poiché i due movimenti politici si battono sulle opposte trincee dell’imperialismo internazionale. I proletari coscienti di Francia e del mondo non hanno però dimenticato l’appoggio entusiasta ed incondizionato fornito a De Gaulle durante la guerra e dopo l’armistizio dalle sinistre francesi.
Conseguenza immediata della svolta stalinista fu il rincrudirsi all’estremo della guerra clandestina mentre il «paese del socialismo» (verso il quale la borghesia francese aveva guardato con apprensione via via meno acuta) fu d’un tratto elevato alle stelle perfino dalle forze cattoliche e nazionaliste. Un’orgia propagandistica ingannatrice si abbatté in quegli anni sulla Francia. Si creò una psicosi barricadiera senza precedenti, ci si batté per la democrazia, per la «Patria» e perché no? Per il «socialismo». I pochi screzi che si aprirono nelle file della «Resistance» furono presto sanati, ed appena ultimato il nuovo schieramento politico la lotta clandestina raggiunse il massimo della violenza.
Su quali basi, con quali intenti si svolgevano le azioni del «maquis»? Abbiamo fugacemente accennato ai motivi propagandistici dello stalinismo, vogliamo ora far rilevare che in quei mesi perfino le gazzette gaulliste si lasciavano trascinare dall’entusiasmo e dallo spirito dell’«embrasson-nous» cianciando di nazionalizzazioni e pianificazioni mentre il venerando Populaire (socialista) amava farneticare sugli «Stati Uniti d’Europa» fondati su di un socialismo... «profondamente rinnovato e rinnovatore»!! L’insipienza, l’irrazionalità di tali argomentazioni risultano evidentissime e contribuiscono a svelare il ruolo sostanzialmente anti-operaio della politica di «resistance». Il «maquis» ha trascinato nel fango di una contesa tra stati borghesi il proletariato francese, ed è riuscito non solo a sfruttare gli stessi moti di classe quali armi nel grande macello imperialistico ma, deviandoli dal loro naturale terreno e dal loro reale obiettivo, ha concorso in maniera determinante al consolidamento del regime capitalistico. Questa duplice funzione riservata dalle borghesie occidentali alle forze clandestine fu espletata con convinzione ed ardore; duplice quindi il tradimento perpetrato dalle «estreme» verso la classe. Decine di scioperi, sintomi della vitalità rivoluzionaria delle masse lavoratrici francesi, furono tramutati in vacui e scialbi episodi di «guerra al popolo tedesco» mentre attraverso una propaganda pervertitrice il proletariato si convinse di dover combattere a fondo non per i suoi problemi più urgenti e vitali bensì per il trionfo delle Nazioni Unite. La lotta si sviluppò così su di un piano nazionalistico secondo i desideri e gli interessi della borghesia che vedeva con soddisfazione polarizzarsi il malcontento e l’istinto di classe dei lavoratori verso degli obiettivi non rivoluzionari ed a lei favorevoli.
Così in Francia, in Belgio, in Olanda e nella Scandinavia.
Il ruolo che stalinisti e socialdemocratici giocarono in favore di questa manovra reazionaria fu di primaria importanza poiché in loro riponeva fiducia la classe lavoratrice e senza di loro il capitalismo non avrebbe potuto irreggimentare il proletariato.
In Iugoslavia i nazionalcomunisti parteciparono alla lotta clandestina subito dopo l’inizio del conflitto russo-tedesco. Recentemente (prima conferenza del Cominform) Kardeliss ha dichiarato che solo difficoltà di organizzazione pratica (e non ragioni di carattere politico internazionale) impedirono l’immediato inizio della guerra partigiana. Pur volendo trascurare la... strana coincidenza della guerra all’Est e dell’insurrezione balcanica, dobbiamo rilevare che non solo in Iugoslavia ma (come abbiamo visto) in tutti i paesi lo stalinismo, fino al giugno del 1941, non intraprese azioni offensive di sorta contro la reazione nazista. La lotta si sviluppò cruenta, favorita dalle accidentalità del suolo, dalla proverbiale animosità slava, e dal vivo fermento sociale che regnava nel paese: Tito e il suo stato maggiore nonostante l’opposizione di alcune frazioni di sinistra riuscirono ad imporre la loro linea politica al partito e al Fronte di Liberazione pur vedendosi costretti dall’istinto rivoluzionario delle masse ad usare un linguaggio spesso intransigente ed a promulgare provvedimenti «radicali» rimasti però lettera morta e privi di contenuto.
Tutto questo in Europa. Oltre Atlantico, negli USA, il nazionalcomunismo desiderando provare la sua fedeltà alle Nazioni Unite, giunse perfino a sciogliere volontariamente le sue organizzazioni tramutandosi in una serafica associazione di carattere culturale. «Noi sciogliamo il partito per un periodo indefinito, siamo decisi a sostenere con lealtà l’attuale sistema di iniziativa privata (monopolio, capitale finanziario, ecc.) ed a non avanzare proposte che possano minacciare l’unità nazionale. Adopereremo tutta la nostra influenza per la pacificazione tra le classi sociali. Aiutiamo ed aiuteremo a frenare gli impulsi verso movimenti di sciopero tra gli operai; noi sosteniamo la repubblica non desiderando un disastro bellico anche se avesse come risultato il socialismo».
Questi i difensori del proletariato americano ed internazionale: gli operai non dovevano in nessun modo conquistare il socialismo!! La borghesia di tutti i paesi poteva con tranquillità, grazie ai sabotatori stalinisti, continuare la guerra e preparare (come infatti è avvenuto) la più bieca reazione dopo il conflitto.
Perfino recentemente Browder esponente del nazionalcomunismo in America, ha dato alle stampe un volume esaltante la politica collaborazionistica tra Stati Uniti ed Unione Sovietica e di pacificazione di classe.
Se in questi mesi i proletari di Europa e d’America sentono pesare sulle loro schiene il dominio brigantesco degli Stati Uniti, devono ricordare che complici di Wall Street furono quegli stessi stalinisti che oggi timidamente promuovono una... crociata pacifista ed... interclassista (naturalmente) contro il fascismo americano consolidatosi in tutto il mondo grazie al loro prezioso aiuto!!
Mentre in America si celebravano (auspice il nazionalcomunismo) la pacificazione, la collaborazione di classe e «l’unità nelle lotte per la civiltà», gli stessi capitalisti statunitensi rifornirono fino al 1944 Hitler di petrolio e preziose materie prime attraverso la compiacente Spagna fascista. Una volta di più fu così provata la doppiezza degli imperialismi e la vera natura del conflitto scatenato soltanto per i profitti del grande capitale.
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Nel luglio 1943, con un tratto di penna, la burocrazia sovietica scioglieva la III Internazionale fondata da Lenin per il rovesciamento del capitalismo in tutti i paesi. Si tentò di seppellire sotto il peso dell’Unità nazionale e della «Resistenza partigiana» le aspirazioni rivoluzionarie dei lavoratori di tutto il mondo.
In realtà il Comintern, dopo i primi rovesci seguiti alla morte di Lenin, si era tramutato nell’internazionale della sconfitta e dei tradimenti perpetrati ai danni del proletariato (Germania, Cina, Francia, Spagna). Ma decretandone la morte, la burocrazia stalinista recideva definitivamente anche l’ultimo legame formale che ancora la legava all’Ottobre.
L’Internazionale era morta avvelenata dall’opportunismo; in Italia, in Francia, in America i piccoli gruppi di Sinistra Comunista già lavoravano alla sua rinascita.
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Durante gli ultimi mesi del conflitto, quando la vittoria delle democrazie poteva considerarsi acquisita, furono costituiti nei paesi «liberati» i nuovi governi della «Resistenza». Alla borghesia trionfante, una volta superati i contrasti imperialistici, urgeva far fronte con decisione agli eventuali moti rivoluzionari che la situazione di grave crisi sociale lasciava prevedere. Nel 1919 i partiti socialisti, avvelenati dall’opportunismo, tramite la loro azione di governo, si palesarono i difensori più audaci e preziosi del regime economico capitalistico e dello stato. L’esperienza del primo dopoguerra, pur sortendo un esito favorevolissimo, risentì, sotto l’incalzare degli eventi, di improvvisazioni, errori e dissonanze. Nel 1945, al contrario, la tattica della borghesia si presentò generalizzata e profondamente perfezionata. La fine della guerra trovò in piena funzione i governi di coalizione democratica di cui erano «magna pars» stalinisti e socialsciovinisti. L’impeto delle masse fu deviato dai suoi naturali obiettivi attraverso una illusoria girandola di parole d’ordine prive di senso e di contenuto, mentre i «compagni ministri» in Italia, in Francia, in Belgio... tramite i dicasteri degli interni rinforzavano alacremente le forze armate e la polizia, reprimendo con la violenza le dimostrazioni del proletariato. In nome della «ricostruzione nazionale» e della «unità» furono boicottati con tutti i mezzi (legali ed extralegali) scioperi giganteschi.
Le masse, fuorviate da una falsa propaganda, illuse dalle schiaccianti vittorie elettorali delle «sinistre», fiduciose nel mito velenoso dello «stato socialista», permisero il rinsaldamento dei pilastri difensivi del capitalismo ed il parziale rafforzamento del suo apparato produttivo. In pieno conflitto la classe si era battuta su un terreno di sostanziale difesa della borghesia, ad armistizio concluso aveva continuato a lavorare per la ricostruzione economica e politica della società borghese. Apostoli ferventi di queste sconfitte, che incideranno profondamente sul corso storico dei prossimi anni, furono i Thorez e i Togliatti, difensori ad oltranza dell’«unità di tutte le forze di ogni fede religiosa e politica per la rinascita della Patria...».
La loro politica riformista e di graduale progresso corrispose pienamente alle reali esigenze del capitalismo, che in determinati periodi critici si vede costretto ad usare una tattica elastica di conciliazione e di concessioni parziali per avere il tempo di ricostruire (tramite i servi sciocchi delle sinistre) i suoi mezzi offensivi di coercizione.
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La guerra è il fenomeno più terribile, la tara più spaventosa della società borghese; essa si presenta come il nemico irriducibile del debole e dell’indeciso, come il distruttore implacabile di stati e di imperi di lunga tradizione e di partiti, organizzazioni operaie e sindacati. Le crisi armate degli ultimi trenta anni hanno infatti provocato la morte di due internazionali.
In realtà il capitalismo genera il conflitto bellico quando si vede impossibilitato a resistere alla pressione di classe con i mezzi difensivi normalmente a disposizione. È quindi comprensibile che uno degli obiettivi di ogni contesa militare sia la polverizzazione degli organismi internazionali e nazionali di lotta del proletariato o (quanto meno) il loro pervertimento per scopi controrivoluzionari.
Soltanto una forza politica proletaria animata da una incrollabile volontà di lotta, guidata da una realistica impostazione tattica non disgiunta da una ferrea intransigenza è nelle condizioni di superare le temibili tempeste militari senza venir meno ai suoi postulati ed al suo carattere rivoluzionario. La frazione bolscevico-leninista del 1915 ce ne fornisce l’esempio classico. Non così possiamo dire della IV Internazionale trotskista».
In Francia, dopo l’occupazione nazista il primo giornale stampato alla macchia fu l’organo dei trotskisti: La Verité. Nei primi mesi della lotta, fino al giugno del 1941, il trotskismo pur abusando di parole d’ordine illusorie (fronte unico con lo stalinismo quando erano note le collusioni del PCF con l’occupante nazista; il governo operaio e contadino, formula trapiantata meccanicamente dal particolare ambiente sociale russo del primo ’900 in un paese di grande sviluppo capitalistico e in piena contesa militare) si batté decisamente contro le deportazioni in massa degli operai francesi, ponendosi alla testa degli scioperi economici che scoppiavano continuamente nel paese. Contro l’atteggiamento collaborazionista e filotedesco dello stalinismo, la La Verité rivendicò il carattere internazionalista e rivoluzionario del proletariato spiegando agli operai il loro compito di lotta classista contro tutti gli imperialismi. Ma le tare opportunistiche della IV Internazionale non tardarono però a palesarsi. La natura intermedista, confusa, indecisa della linea politica trotskista, se si presenta deleteria nei periodi di stasi sociale assume caratteri di tragico opportunismo in fasi critiche o di conflitto bellico. Il 21 giugno 1941 (attacco tedesco all’URSS) mentre si verificava un profondo rovesciamento delle posizioni staliniste, la IV Internazionale, prendendo le mosse da una errata e superficiale analisi dello Stato Russo, scivolò senza rimedio sul piano inclinato del difesismo e di una sostanziale collaborazione.
Di fronte alla nuova deviazione nazionalcomunista sorgeva la necessità di lanciare una parola d’ordine chiarificatrice alla classe operaia, adoperandosi con tutti i mezzi contro la manovra borghese tendente a trascinare il proletariato nel conflitto. La stampa trotskista invece esortò alla «difesa incondizionata dell’URSS» sostituendo al disfattismo rivoluzionario le nuove formule di appoggio allo stato operaio (sia pur degenerato) ed ai pretesi caratteri «socialisti» (sic!) dell’Economia russa. Mentre nei primi mesi della guerra numerose furono le esortazioni ai proletari di Inghilterra e degli USA di sabotare la produzione bellica e di scioperare contro il padronato, dopo il giugno 1941 la propaganda trotskista spinse gli operai di quei paesi ad intensificare la produzione fino alle estreme possibilità. «Armi per l’esercito Rosso»! così esortava la La Verité, in questo caso opportunista e difesista.
Non neghiamo però che gli accenti propagandistici della IV Internazionale divergessero talvolta profondamente dalla propaganda guerrafondaia dell’Humanité. Mai i fogli trotskisti eccitarono il proletariato francese all’odio contro il popolo tedesco, si iniziò anzi attraverso sforzi pericolosi, spesso pagati a caro prezzo, un lavoro di fraternizzazione con soldati e marinai germanici. Vedremo così il trotskismo assumere via via atteggiamenti contraddittori nonostante l’onestà rivoluzionaria dei suoi militanti; la La Verité esorta la classe operaia a partecipare alla guerra borghese pur non risparmiando critiche a tutti gli imperialismi; il trotskismo difende con «tutti i mezzi» (anche borghesi) lo stato russo pur ponendo spesso l’accento sulla necessità di una politica rivoluzionaria ed esortando gli operai a difendere i propri interessi e non quelli della borghesia. La IV Internazionale continuò per anni questa altalena indecisa se inquadrarsi nelle maglie difensive del capitalismo o se riprendere la bandiera della lotta contro di esso. Tale nebulosità, aggravata dalla morte di Trotski, tramutò la IV Internazionale nella retroguardia di un esercito arresosi a discrezione di fronte al nemico.
Sul trotskismo incombe il pericolo di tramutarsi nell’ala sinistra della socialdemocrazia e dello stalinismo. Solo una crisi ideologica profonda, un rinnovamento dell’armamentario tattico ed una rivalutazione dei metodi organizzativi potrebbero salvare davanti al tribunale della storia la IV Internazionale dal fallimento: ma ciò significherebbe sfasciarsi come organismo consolidato e rinascere su basi integralmente diverse. Il che può essere un sogno, ma non può essere la realtà.
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Se la degenerazione dello Stato Russo ha influito in maniera determinante sulla sconfitta ideologica e politica del proletariato, non dobbiamo però dimenticare un altro principale fattore della crisi: il fascismo.
Il movimento fascista ha non solo battuto in breccia più e più volte l’apparato politico difensivo e di offesa della classe, ma ne ha di riflesso sgominato spesso e disorientato sempre i cardini ideologici. Gli stessi partiti comunisti della III Internazionale furono costretti fin dal 1922 a subire i rudi colpi della reazione fascista e si dimostrarono disorientati ed indecisi nell’analisi interpretativa di questa nuova forza politica e nella ricerca di appropriati mezzi tattici di combattimento. Anche in Italia forti correnti del partito non riuscirono a comprendere pienamente il ruolo e la natura del movimento fascista, e causa l’impostazione analitica inesatta, operarono sul piano tattico attraverso una politica di fronti unici con quegli stessi movimenti che avevano rappresentato l’involucro migliore nel quale il fascismo era sorto e si era sviluppato, e dal quale aveva tratto forza, vigore ed appoggio per la scalata al potere. L’impostazione aclassista dell’Aventino portò il Partito Comunista sullo stesso piano dei partiti politici borghesi falsamente antifascisti che «credevano» (?) di poter risolvere la crisi reazionaria non mobilitando il proletariato attraverso scioperi e sommovimenti, bensì con l’intervento della «Corona», della stampa e del... Parlamento. L’esito disastroso della lotta diede ragione all’analisi della Sinistra Italiana che dimostrava come il fascismo, lungi dall’imporre alla classe un ritorno alle forme di lotta per le «libertà democratiche», rappresentasse in realtà un superamento storico della democrazia, sicché la guerra a fondo contro di esso avrebbe dovuto assumere aspetti sempre più rivoluzionari ed intransigenti. Il congresso di Lione del 1926, l’uscita della sinistra italiana dal Partito costituitasi autonomamente a Pantin, furono i risultati di un lungo travaglio ideologico durante il quale vennero profondamente sviscerati i problemi più scottanti che la dinamica politica porgeva alla critica conseguente dei marxisti. Il ruolo dello Stato Russo, il fascismo ed i suoi rapporti con la democrazia, la crisi della III Internazionale, la negazione dei principi tattici errati, la riaffermazione critica degli schemi organizzativi, furono altrettanti problemi affrontati con decisione ed in parte risolti, dalla sinistra italiana in Francia.
Lo scoppio della II guerra mondiale pur travolgendo, come era prevedibile, la leggera ossatura organizzativa della frazione, non poté impedire che i germi ideologici di essa, favoriti dalla crisi bellica, si sviluppassero non solo in Francia e in Belgio ed altrove, ma anche nel nostro paese dove la situazione precipitava militarmente e socialmente. Nel 1942 infatti, la sinistra comunista in Italia, pur sotto il peso dei rudi colpi inferti dal fascismo, iniziò la sua nuova attività politica tra le continue persecuzioni della polizia e della milizia.
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Esiste in Italia una storiografia «ufficiale» sugli eventi che condussero alla caduta del fascismo ed alla «guerra di liberazione», storiografia di valore assi dubbio, notevolmente lacunosa e superficiale, apologetica nelle conclusioni. In realtà le più appariscenti soprastrutture del vecchio stato crollarono non per l’attività del generico «antifascismo democratico», ma per i rudi colpi ricevuti in campo militare, e sotto il pericolo di un violento accentuarsi della pressione di classe i cui prodromi significativi furono gli scioperi scoppiati nel Nord d’Italia nel marzo del 1943. La borghesia italiana, avventuratasi imprudentemente in un conflitto intercontinentale di gigantesche proporzioni, vistasi militarmente perduta, timorosa di un vigoroso risveglio della lotta di classe, fu costretta ad abbandonare la camicia nera ormai lacera ed inservibile per un estremo tentativo di salvezza. Con l’armistizio del 1943 grazie ad un rapido e «machiavellico» voltafaccia, il nostro capitalismo operava l’ultimo tentativo di salvaguardare (almeno in parte) i suoi interessi sul piano delle contese tra stati borghesi, schierandosi in cobelligeranza col blocco dei vincitori. Né questo basta. I circoli capitalistici e finanziari italiani compresero perfettamente che soltanto spalleggiati e protetti dagli imperialismi trionfanti avrebbero potuto rapidamente resistere agli eventuali moti rivoluzionari, sia con la forza, sia polarizzando il malcontento della classe verso l’occupante tedesco e le residue organizzazioni fasciste e promuovendo una sedicente guerra di liberazione, durante la quale fu per essi assai facile rifarsi una verginità «democratica» dopo il più che ventennale connubio con i totalitarismi.
Il proletariato, cui difettava una coscienza politicamente avvertita, non comprese la manovra borghese e l’intrigo che il capitalismo ordiva ai suoi danni gettandolo nella lotta per la «liberazione». Il partigianesimo proletario deve essere considerato come il tentativo istintivo e confuso dei lavoratori di tornare sul terreno di una conseguente lotta di classe attraverso una manifestazione di forze rivoluzionarie tendenti a schiacciare il nemico borghese.
Tali conati generosi, dettati anche dalle precarie condizioni di vita della classe, non erano il risultato di una approfondita e realistica analisi della situazione storica nazionale ed internazionale, analisi che condussero a termine solo sparuti gruppi marxisti rivoluzionari distaccati generalmente dalle grandi masse causa la profonda crisi politica della III Internazionale e la stagnante situazione reazionaria che solo allora andava lentissimamente evolvendosi. Il partigianesimo fu così sfruttato e potenziato dalla classe dominante «offrendo ai lavoratori un motivo plausibile per dimenticare nell’ubriacatura dell’Unione sacra la via maestra della conquista del potere, per fraternizzare con il nemico di classe, per spianare le strade alla ricostruzione di un nuovo stato borghese e per la vittoria di un imperialismo sull’altro». Nonostante le sue manovre e gli sforzi propagandistici, il capitalismo non avrebbe avuto la, possibilità di salvarsi e consolidarsi se gli fosse mancato Ì’appoggio entusiasta ed incondizionato dei partiti dell’opportunismo e del tradimento.
Nel Sud i primi nuclei comunisti che venivano sorgendo dopo il luglio e il settembre, si muovevano, seppur confusamente, su di un terreno di istintiva intransigenza e di lotta a fondo contro le vecchie classi dirigenti. Fu solo l’arrivo da Mosca dei santoni dello stalinismo e il rafforzamento burocratico dell’«apparato», che compressero dapprima ed affogarono poi definitivamente nel «mare magnum» della «tattica», i tentativi non conformisti della base. La grande influenza politica giuocata in quel periodo dalle «sinistre democratiche» era conforme ai reali interessi della borghesia che poteva essere difesa solo da quei partiti cui il proletariato concedeva piena fiducia.
Il nazionalcomunismo, infatti impose alle masse agricole del Sud ed agli operai del Nord di subordinare ogni loro esigenza e necessità alla lotta armata, fianco fianco con il fascismo americano. Al congresso di Bari dei partiti antifascisti, stalinisti e socialdemocratici promossero la costituzione in tutta Italia dei C.N.L., organi della collaborazione di classe con gli esponenti e gli strati più retrivi del cattolicesimo, del radicalismo e del decrepito liberalismo. Crediamo inutile il ricordare atteggiamenti, parole d’ordine, dichiarazioni degli esponenti dei partiti «operai» in quel periodo tutte informate allo spirito dell’«embrasson-nuos». «Noi combattiamo concordemente alla destra cristiana, organizzazione democratica dei ceti progressivi cattolici e con le gloriose forze del liberalismo che hanno creato l’Italia» - Togliatti. «Vi sono dei buoni monarchici, insieme a loro potremo fare molta strada» - Togliatti. «ll governo costituitosi a Roma ringrazia per l’appoggio prezioso le grandi democrazie americana e inglese» - Togliatti.
Subito dopo l’armistizio, la monarchia dei Savoia, squalificata agli occhi dell’occupante e del popolo italiano non avrebbe in nessun modo avuto la possibilità di rimanere come forma istituzionale ai vertici dello stato. Nessuna organizzazione politica borghese avrebbe potuto osare di collaborare con essa, fu solo l’atteggiamento collaborazionista delle sfere dirigenti del PCI che salvaguardò per due anni la Corona. «Nessuna pregiudiziale di monarchia o repubblica; il nostro compito è uno: l’unità degli italiani» (L’Unità).
Se il nazionalcomunismo, e per esso Togliatti, si fosse guardato dall’assumere tali posizioni, la questione istituzionale non sarebbe mai sorta e la monarchia avrebbe cessato automaticamente di esistere. Tutto ciò, a ben guardare, non rispondeva però alle mire strategiche del capitalismo che una volta cessato il conflitto, poté convogliare passioni e coscienze proletarie nella lotta per la forma istituzionale dello stato, guadagnando del tempo prezioso per il rafforzamento dei suoi mezzi oppressivi, ed aggiogando alla difesa della nuova repubblica (graziosamente largita) le masse popolari tramite la colossale mistificazione elettorale del 2 giugno. Promotori di tale manovra lo stalinismo e la socialdemocrazia.
All’inquadramento politico controrivoluzionario doveva di necessità seguire quello sindacale. Nell’attuale fase estrema dell’imperialismo i sindacati vengono di necessità spinti nell’apparato difensivo della società borghese, quali preziosi ed indispensabili strumenti atti a salvaguardare gli interessi delle classi dominanti; fianco a fianco con la magistratura, il clero, la polizia.
Il patto di Roma sancì l’unità sindacale in nome della guerra e della ricostruzione nazionale. A questi principi obbedirono ed obbediscono gli organismi sindacali. Chi non ricorda la politica dell’aumento ad ogni costo della produzione e le ciance unitarie in nome della ricostruzione della patria? Tutto ciò diede adito ai tradizionali partiti della destra borghese di rinforzarsi in attesa di riprendere il ruolo di guida dell’apparato statale.
La mobilitazione bellica dell’Italia centro-meridionale fu condotta a termine grazie ad una propaganda senza precedenti, sfruttando motivi nazionalistici della più frusta retorica risorgimentale, propinando al proletariato una serie di parole d’ordine mussolinistiche. «Costituente, riforma industriale ed agraria» gracidavano i megafoni dell’antifascismo democratico... «Repubblica sociale, socializzazione, difesa della Patria...» rispondevano dal Nord gli ultimi macabri fantocci in camicia nera... Gli uni e gli altri si battevano in nome degli stessi principii formali e per il medesimo obiettivo sostanziale: trascinare nella loro guerra le masse operaie per dissanguarle e pervenire i moti spontanei di lotta classista.
Al gioco borghese si prestarono (occorre dirlo?) perfino... i terribili campioni del... rivoluzionarismo più «intransigente»: gli anarchici. Il carattere non storicistico ma volgarmente volontaristico della loro dottrina, la particolare «forma mentis» passionale, confusa, spesso illogica, la superficialità delle loro analisi, portarono questi «ribelli»... cavalieri dell’ideale, nelle file del C.N.L. fianco a fianco (o fulmini di Bakunin !) con preti, mazziniani e borghesi. Le candide menti degli anarchici non furono minimamente sfiorate dal dubbio che la guerra che essi combattevano rientrasse nel novero delle contese imperialistiche, aderendo al C.N.L: i «più radicali negatori di ogni forma di governo» non sospettarono minimamente di dare il loro appoggio ai nuovi organismi dello stato borghese che essi «abbattono definitivamente»... in teoria, e consolidano in pratica con tutti i mezzi, esclusa la confusione delle loro povere menti in piena... «anarchia» intellettuale e la loro prassi di astratta negazione.
Una triste nemesi storica ha voluto che il primo e l’ultimo atto della tragedia bellica (Spagna ed Italia) vedessero gli anarchici scendere a patti (ministri, liberatori, CLN) con il capitalismo, contribuendo a rendere veramente totalitaria la sconfitta della classe operaia.
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Nel novembre 1943, all’indomani delle tragiche giornate dell’armistizio, la sinistra italiana costituitasi in partito, lanciava al proletariato le parole d’ordine della ricostruzione dei suoi tradizionali organismi di lotta ed in primo luogo del Partito rivoluzionario. La guerra che tra le sue rovine travolgeva gli spiriti e le coscienze dei proletari confondendole e pervertendole, trovò nel partito il nemico più implacabile e deciso.
«Alla guerra imperialista il partito deve opporre la ferma volontà di raggiungere i suoi obiettivi storici». I comunisti internazionalisti furono i soli a combattere la rude difficile battaglia di classe contro il fascismo tramutatosi in «nazionalsocialista» e contro i sei partiti della coalizione democratica. Di pari passo con la lotta contro la guerra, procedeva il lavoro di chiarificazione ideologica tra le masse operaie.
Il problema russo, l’essenza e le forme della guerra imperialistica, la natura degli organismi di massa, furono altrettanti problemi dibattuti e divulgati dai fogli clandestini del Partito. Né poteva essere altrimenti. Ogni movimento politico che vuole reagire in senso antiformista all’opportunismo ed al tradimento, deve necessariamente sottoporre ad una profonda rivalutazione ed affermazione i principii teorici pervertiti e smussati dal riformismo scoprendo e denunciando nello stesso tempo le ragioni politiche e sociali che determinarono l’abbandono o il fraintendimento dei cardini rivoluzionari della teoria. Negli anni della prima guerra mondiale, tale compito fu assunto dalla frazione bolscevica di cui ci rimangono, patrimonio preziosissimo, gli scritti sull’imperialismo di monopolio, sullo «Stato e la Rivoluzione», sulla necessità per i marxisti di procedere «contro corrente» cioè contro l’Unione sacra e lo sciovinismo. «La difesa della collaborazione fra le classi ’a rinuncia alle idee della rivoluzione socialista ed ai metodi rivoluzionari, l’adattamento al nazionalismo borghese, il feticismo della legalità, l’abdicazione dal punto di vista di classe per paura di inimicarsi la massa della popolazione (leggi piccola borghesia), queste sono incontestabilmente le basi dell’opportunismo. La guerra ha dimostrato che nei momenti di crisi, un’imponente massa di opportunisti passa al nemico, tradisce il socialismo, manda in rovina la classe operaia... Gli opportunisti comodamente installati nel partito operaio, sono dei nemici borghesi della rivoluzione proletaria che in tempo pace compiono nell’ombra la loro opera di penetrazione e in tempo di guerra si rivelano alleati della classe capitalista e del blocco borghese, dei conservatori, dei radicali, degli atei, dei clericali. Chi non capisce questo dopo gli avvenimenti che viviamo, s’inganna e inganna gli operai» (Lenin).
Questi principi condussero alla vittoria dell’Ottobre ed alla nascita della III Internazionale. Gli stessi principii, a trenta anni di distanza, riprese il P.C.Int., nella lotta a fondo contro le nuove deviazioni. Senza pietà e con decisione il Prometeo clandestino affrontò il problema russo e forte di vecchie e recenti esperienze, denunciò alla classe operaia italiana il fallimento e la politica imperialistica dell’Unione sovietica pur rivendicando il valore storico formidabile di quella esperienza, e facendo propri i vitali insegnamenti della rivoluzione del ’17: «La Russia che amiamo e difendiamo sul piano delle conquiste rivoluzionarie è quella del proletariato e del contadiname povero che sotto la guida di Lenin, hanno osato spezzare l’impalcatura della feudalità politica e del capitalismo e porre la propria dittatura di classe, esperienza transitoria del potere proletario sullo stato, la cui meta avrebbe dovuto essere la distruzione dello stesso stato e della stessa classe. La Russia che amiamo e difendiamo è quella che ha dato al suo proletariato e a quello internazionale la coscienza della sua forza e del suo ruolo rivoluzionario, la dimostrazione organica del nuovo mondo del lavoro che nel «Soviet» ha il fulcro creativo. Non è questa la Russia cara al cuore di tutto il radicalismo internazionale ma è la Russia della nostra battaglia antiborghese, della nostra immutata passione rivoluzionaria» (Prometeo cland. n. 2)
I nostri fogli clandestini posero anche l’accento sulla necessità della edificazione della nuova internazionale, pur premettendo che essa non sarebbe di certo sorta per volontà di singoli o per virtù magiche, ma sarebbe scaturita dall’accumulazione di nuove esperienze negli strati più coscienti della classe operaia, dal ritorno alla lotta di classe, da un processo di chiarificazione ideologica. Fu anche smascherata, di contro alle superficiali analisi dello stalinismo, l’essenza intima del fascismo e della democrazia rilevandone le sostanziali collusioni, e ponendo in chiaro che il fascismo, come realtà storica, deve essere combattuto in blocco dalle sue basi sociali alle sue soprastrutture politiche.
Il capitalismo, causa il suo evolversi verso forme statali totalitarie in economia, abbandona sul terreno politico i principii «democratici» dell’800 ed assume un contenuto sempre più apertamente fascista. È solo combattendo la società borghese nei suoi gangli economici che ci si potrà difendere innanzi tutto contro il capitale che al fascismo ha dato anima e corpo, gli ha trasfuso tutto l’odio che la paura folle della perdita del privilegio può ispirare e gli ha armato la mano per farne l’esecutore cieco, bestiale delle sue vendette...
Non al solo campo ideologico si limitò il lavoro del Partito nei duri anni della clandestinità. Contro il partigianesimo barricadero e piccoloborghese che convogliava verso le montagne centinaia di giovani operai, i comunisti internazionalisti affermarono la necessità che il proletariato combattesse nelle fabbriche la sua battaglia contro il nemico capitalistico. Gli scioperi che punteggiarono quel travagliato periodo storico videro il Partito attivissimo nelle officine di Torino, di Milano, dell’Italia settentrionale, nel guidare il movimento e nel ricordare agli operai che i loro problemi economici potevano essere radicalmente risolti solo imperniando la lotta sul terreno politico in antitesi con l’imperialismo e la guerra per la rivoluzione.
«I capitalisti ed il governo fascista, responsabili del conflitto, sono incapaci di risolvere la crisi economica della nazione, di sfamare gli operai e le loro famiglie costringendoli ancora a fabbricare cannoni. Operai, solo unendovi contro la guerra, contro il capitale, contro gli sfruttatori, solo spostando la vostra azione dal terreno economico a quello politico riuscirete a spezzare le catene che ancora vi imprigionano...». Queste parole d’ordine furono divulgate con tutti i mezzi anche tra i raggruppamenti partigiani, nonostante le difficoltà obiettive.
Il Partito esile organizzativamente, fu costretto a muoversi tra mille difficoltà combattendo con coraggio ma con mezzi scarsi i due blocchi politici.
«Contro il fascismo che vuole la continuazione della guerra tedesca e contro il Fronte Unico dei sei partiti, che sono per il macello democratico, gli operai si organizzino sul posto di lavoro in un fronte unico proletario per difendere i loro stessi interessi e per la lotta decisiva contro la guerra». La nuova parola d’ordine smentiva categoricamente le accuse di settarismo e di astratta intransigenza lanciata da molte parti all’indirizzo politico del P.C.Int. I comunisti internazionalisti erano per il fronte unico che non partisse dai vertici, che non fosse concordato tra gli esecutivi dei partiti in nome della guerra; i comunisti internazionalisti erano per il fronte unico nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, erano per un vasto moto spontaneo che, ponendo in secondo piano alcune marginali divergenze interpretative, convogliasse operai e contadini «di tutte le correnti politiche e senza partito» contro i due fronti borghesi, contro la «teoria» del male minore, contro l’arbitrarismo barricadero, per legare le agitazioni economiche alle guerre di classe. Su tali basi gli operai avrebbero dovuto organizzarsi sul posto di lavoro per aumentare e centuplicare le forze destinate a battersi sulle barricate di classe contro la guerra, La parola d’ordine, causa la propaganda bellicista che aveva intossicato gli ambienti operai, non ottenne che scarsi risultati anche perché il Partito la lasciò cadere e non si batté disperatamente e con tenacia per essa, in nome di una valutazione rigidamente deterministica del momento politico.
Durante le giornate di aprile i comunisti internazionalisti furono fatti segno ai colpi della nuova reazione del C.N.L., reazione che non sfaldò minimamente il partito, rafforzando anzi la volontà di lotta dei suoi militanti. La fine della guerra permise il ricongiungimento del Partito con i gruppi delle Frazioni di sinistra dei comunisti e socialisti che, nel sud si muovevano su di un piano sostanzialmente identico. Con la «pace» si iniziava un altro periodo della storia del movimento operaio, periodo non ancora concluso e che tutti noi comunisti viviamo intensamente.
Con i nostri articoli abbiamo voluto sottoporre all’attenzione dei proletari le peripezie del movimento operaio durante la seconda guerra mondiale. A distanza di tre anni dalla fine del conflitto il pericolo della guerra torna ad incombere. La lotta politica in Italia non è che il riflesso della contesa dei blocchi d’Oriente e d’Occidente che sfocerà prima o poi in un nuovo conflitto. Noi siamo però fermamente convinti che la classe, forte delle recenti esperienze storiche, non si lascerà ingannare nuovamente e pecorilmente. Oggi come quattro anni or sono noi comunisti gridiamo agli operai: «sabotate e disertate la guerra: sabotatela e disertatela sotto qualunque maschera vi si presenti».
Contro i fronti popolari o nazionali, contro i fronti borghesi di destra
e di sinistra gli operai hanno una sola arma di lotta: il fronte rivoluzionario
nelle officine e nei campi contro la guerra, sotto la guida del partito
di classe.
Indice:
I documenti che seguono non hanno, come a prima vista potrebbe sembrare, una origine eterogenea, anche se sono frutto di elaborazione teorica o indicazioni di azione pratica date da organizzazioni distinte. Se altri possono scorgervi indirizzi e valutazioni non collimanti, noi li rivendichiamo in toto, compresi gli «errori», con orgoglio per come, in tale tempesta di guerra e di tradimento e spesso a prezzo della vita di compagni, si seppe continuare ad indicare alla classe l’esatto nord comunista.
II ventennio di dittatura fascista aveva violentemente scompaginato la sezione italiana dell’Internazionale Comunista, all’interno della quale l’elaborazione teorica marxista e l’applicazione della tattica rivoluzionaria aveva raggiunto i più alti risultati.
Dove il fascismo non poté arrivare, in questa azione distruttiva, venne sostituito ed affiancato dalla organizzazione stalinista che in Russia procedeva ad eliminare fisicamente i compagni italiani assieme ai dissidenti russi ed ai sinistri di tutti gli altri paesi ed in Italia passava al «braccio secolare» mussoliniano gli eretici riconosciuti tali dalla «Santa inquisizione» rossa.
Contemporaneamente i rappresentanti del vecchio e del nuovo opportunismo (2° e 3° Internazionale degenerata) procedevano allo smantellamento totale dell’impalcatura dottrinaria comunista ed aggiogavano il proletariato, istintivamente rivoluzionario e perfino disposto al sacrificio eroico, agli interessi imperialistici dei vari paesi.
A tutto ciò dobbiamo aggiungere un altro fattore di confusione che apportò soltanto disorientamento e sbandamento nel campo del marxismo rivoluzionario. Questo fu il trotskismo con la sua volontà di forzare una situazione oggettivamente controrivoluzionaria nell’illusione che, attraverso artifici e spregiudicate manovre, questa congiuntura potesse essere capovolta. Dicendo questo non vogliamo minimamente sminuire i grandi meriti passati del capo dell’Armata Rossa, e neppure vogliamo sostenere che l’ultimo Trotski abbia rinnegato la rivoluzione; ma ciò non toglie che lui e, a maggior ragione, la sua corrente ebbero un effetto deleterio che portò solamente confusione e divisione nell’Opposizione di Sinistra.
La guerra, con i suoi fronti militari, le leggi eccezionali e tutte le altre limitazioni connesse, aggravò ancor di più la possibilità di collegamento e di confronto organico, purtuttavia organizzazioni semilegali, illegali e clandestine, che si richiamavano alla tradizione della Sinistra comunista, rinacquero un po’ ovunque, anche se con nomi differenti, ignorando perfino l’esistenza degli altri gruppi analoghi.
Nel Sud dell’Italia invasa dalle armate anglo-americane si organizzò la «Frazione di sinistra dei Comunisti e Socialisti Italiani» con gli organi di stampa «La Sinistra Proletaria» e «Il Proletario». Nell’Italia del Nord occupata dall’esercito tedesco operava il «Partito Comunista Internazionalista» con il foglio «Prometeo». La «Faction Italienne de la Gauche Communiste» si trovava in Francia e probabilmente anche altre organizzazioni similari erano nate altrove.
Ebbene, tutti questi gruppi, più o meno estesi, con più o meno influenza tra le masse lavoratrici, che avevano avuto esperienze differenti (tra i loro militanti c’era chi era stato espulso dal PCI negli anni ’20, chi veniva dalla Frazione, chi formalmente si trovava ancora inquadrato nelle file del partito togliattiano) erano comunque accomunati dal riferimento all’indirizzo dottrinario della Sinistra Comunista e collimavano nelle valutazioni caratteristiche della Sinistra.
In questi scritti i compagni ed i lettori potranno ritrovare l’interpretazione che fu nostra e di Lenin della guerra come scontro interimperialistico alla quale il proletariato deve opporsi per trasformarla in guerra civile per la conquista del potere. I gruppi della sinistra mettevano quindi in guardia i proletari dal non cadere vittime dell’insidia del partigianesimo per non divenire strumento di uno dei due blocchi imperialisti in guerra. La classe operaia avrebbe dovuto organizzarsi nelle fabbriche per ricostituire i propri organi di difesa classista che, in una situazione rivoluzionaria, sarebbero stati suscettibili di conquista da parte del Partito. I compagni mettevano contemporaneamente in guardia gli operai dal non cadere nel trabocchetto del CLN che con l’abuso inconsulto dello sciopero gettavano, coscientemente, la classe operaia nelle braccia della reazione usandola come carne da cannone a scopi puramente militari.
La Sinistra faceva anche una netta differenziazione tra partigianesimo e partigiani, proletari che a causa di eventi al di fuori della loro volontà si erano ritrovati alla macchia. A questi compagni si indicava, `quando possibile’ il ritorno alla fabbrica per condurre la diuturna lotta di classe nei luoghi di lavoro.
Contemporaneamente veniva ribadita la primaria necessità della fraternizzazione tra i proletari appartenenti ai diversi eserciti e quindi veniva messo in evidenza l’altro aspetto caratteristico della guerra imperialista, cioè la crociata antiproletaria. Illuminante a questo proposito è l’articolo sulla Comune di Varsavia dove, ripetendo i nefasti di Parigi 1871, la sedicente Armata Rossa interruppe ogni attività bellica per dare modo all’esercito di Hitler di scannare gli operai insorti, operai che Stalin definiva «pugno di criminali». Ironia della sorte, i pochi superstiti del ghetto insorto dovettero arrendersi ai tedeschi, che promisero loro un trattamento secondo le convenzioni militari, per sfuggire alla sorte ben peggiore che avrebbe riservato loro Stalin.
La propaganda di fraternizzazione e la denuncia della crociata antiproletaria portavano, di conseguenza, a dover chiarire la nostra posizione nei confronti del proletariato tedesco in divisa. Questo aspetto della questione venne incessantemente dibattuto ed approfondito dai nostri compagni che mettevano in luce la necessità, al fine della ripresa della lotta di classe, del contributo determinante del proletariato tedesco.
Dato che la Russia era entrata nella guerra imperialista da potenza
imperialista e con finalità imperialistiche; dato che, inoltre, vedi Varsavia
’44, contribuiva in modo diretto al massacro del proletario, i vari gruppi
facenti riferimento alla sinistra proclamarono l’inderogabile necessità
della ricostituzione del partito a livello mondiale su basi genuinamente
marxiste rivoluzionarie.
La crisi scoppiata fulminea su la scena politica italiana dopo venti anni di regime fascista, ha posto in luce la gravità del malessere sociale che investiva ormai in pieno non solo la responsabilità di questo o quell’uomo politico, questo o quell’organismo, ma il sistema intero nella sua classe dirigente, nelle sue istituzioni e nella sua struttura economica e politica. Era cioè visibile anche all’occhio meno esperto nell’analisi dei fenomeni sociali, che l’ossatura capitalistica era stata colpita a morte, mentre le sue forze politiche andavano esaurendosi ignominiosamente in una spassosissima sequela di tradimenti, di viltà e corruzione.
Il proletariato sentiva finalmente ruinare attorno a sé l’impalcatura oppressiva dell’organizzazione borghese e vedeva, forse per la prima volta, spezzati i suoi centri nervosi quali l’esercito, la magistratura e la pubblica sicurezza! Sembrava la fine non solo del fascismo, ma del sistema economico che l’aveva reso possibile, eppure non si trattava che del primo atto di un dramma sociale nel quale il proletariato avrebbe infine potuto giocare il ruolo di grande protagonista vittorioso. Abbiamo detto sembrava, perché lo sfacelo abbattutosi sul nostro paese pur mostrando in atto quel processo di decomposizione e di sfaldamento, condizione prima ed essenziale alla ripresa dei conflitti di classe, tuttavia non esprimeva, né poteva esprimere sul piano politico la forza rivoluzionaria capace di sfruttare ai propri fini una evidente e pur così rara situazione di favore. E non poteva esprimerla non perché la crisi non fosse assai profonda e la situazione non sufficientemente rivoluzionaria, né perché facesse difetto il suo elemento soggettivo, cioè il proletariato con la sua forza fisica e la sua intelligenza e volontà di lotta, ma soltanto perché i rapporti di forza erano obiettivamente tutt’ora in netto favore dell’avversario di classe.
Non si è voluto capire che, a somiglianza dell’episodio spagnolo, nella prima fase di questo cozzo di imperialismi il nostro paese si è trovato ad essere improvvisamente il banco di prova, l’arena tragica al secondo atto della stessa immane competizione. Era perciò vana illusione pensare alla eliminazione del fascismo con una congiura di palazzo rimanendo in piedi e in casa nostra il colosso tedesco.
Ogni ripresa di classe, ogni lotta per la libertà e l’emancipazione del proletario doveva necessariamente tener conto di questa dura realtà costituita da una parte dalle forze armate tedesche con bandiera fascista e dall’altra dalle forze armate alleate con bandiera democratica. Finzione in entrambi i casi e semplice espediente tattico necessario ai dominatori capitalisti per neutralizzare e conquistare masse sempre più vaste di proletari. La guerra moderna ha bisogno di braccia e coscienze come di carbone e di ferro.
Una condotta classista della lotta avrebbe dovuto condurre i partiti proletari, dopo una analisi approfondita della reale natura del presente conflitto, a porre sul piano ideologico e quindi politico la definizione di entrambi i belligeranti come facce diverse di una stessa realtà borghese, da combattere entrambi perché intimamente legati, ad onta delle apparenze, alla stessa ferrea legge della conservazione del privilegio capitalista e quindi lotta a fondo, mortale, contro il vero, comune nemico: il proletariato.
Invece che cosa è avvenuto? Perfettamente il contrario. Nel momento in cui era più evidente l’impossibilità per la borghesia nostrana di continuare la sua guerra, e si manovrava nelle alte sfere per evitare che la crisi aperta spingesse in primo piano il proletariato, ecco provvidenziale il blocco dei partiti antifascisti quale fattore decisivo per tre quarti consapevole, della manovra di aggiramento e di narcotizzazione. Gli assertori dell’internazionalismo si fanno banditori della difesa nazionale (ma solo contro i tedeschi!); gli esponenti della lotta di classe disposti a considerare l’imperialismo inglese quale alleato provvisorio del proletariato. Proprio come i socialisti del ’14 che Lenin bollò come traditori. Le masse attonite e sgomente hanno abboccato all’amo della crociata antitedesca obbedendo in parte alla voce atavica dell’odio contro l’oppressore tedesco, sedimento lontano e incosciente formatosi nell’animo di tanti italiani e che i rivoluzionari debbono però saper individuare e vincere, perché è proprio su di esso che tutte le reazioni hanno fatto fin qui leva per le loro guerre di rapina e di sterminio. Noi soli abbiamo osato andare contro corrente. Il nostro partito, già all’epoca della guerra civile spagnola, aveva analizzato quel moto partendo da premesse di classe, senza lasciarsi influenzare dal sentimento e da quel falso «atavismo» ribelle sempre ai limiti del pensiero marxista, che porta ad esaltare l’azione piegando all’opportunismo le idee e la teoria della rivoluzione. Solo il nostro partito riconobbe allora il carattere del moto spagnolo, destinato però ad esaurirsi se un partito rivoluzionario non fosse stato espresso a tempo della crisi stessa, e osò dire con rudezza che il tentativo repubblicano d’incanalare i combattenti sorti dalle barricate nelle file di un esercito repubblicano in contrapposizione a quello nazionale di Franco, significava snaturare il movimento, spostare cioè l’asse del conflitto armato dal suo terreno originario di classe a quello dell’imperialismo su cui si erano già più o meno apertamente schierate le forze fasciste da un lato e quelle anglo franco russe dall’altro. E il partito vide giusto allora, perché la sua critica e il conseguente suo atteggiamento si facevano forti e si facevano garantiti dalla giusta interpretazione del pensiero marxista.
Ma non a caso abbiamo accennato all’analogia tra la situazione odierna del nostro paese e quella spagnola.
Riteniamo infatti che lo sfacelo borghese del nostro paese, determinato dal!’andamento della guerra, non offra seria possibilità alla lotta finale del proletariato finché rimarranno sul nostro suolo truppe di occupazione qualunque esse siano, per le quali una eventuale soluzione rivoluzionaria della crisi, che tali forze controllano, significherebbe rinuncia allo sfruttamento economico e strategico del paese.
Riteniamo d’altro canto nostro compito urgente sganciare le masse dalle influenze ideologiche e sentimentali verso questo o quel belligerante, ciò che implica lotta aperta contro i partiti tradizionali socialisti e centrista, che del fermento antitedesco e antifascista ha fatto motivo di collaborazione imperialista e di tradimento del proletariato.
Anche ora siamo soli a combattere la rude e difficile battaglia di classe
e, fedeli alla intransigenza ideale e alla tradizione del movimento marxista
internazionalista, ci prepariamo alle lotte assai prossime apprestando
organi e spiriti per il trionfo del proletariato, lasciando ai rivoluzionari...
della difesa nazionale il compito ben più facile d’aspettare dagli inglesi
la vittoria sui tedeschi e sul fascismo e la tanto agognata ricompensa
di un governo popolare.
Non a caso la storia delle due ultime internazionali operaie è così indissolubilmente legata alla storia delle due grandi guerre imperialistiche. La II ha cessato praticamente di esistere all’atto dello scoppio del primo conflitto mondiale, anche se ha continuato a trascinare fino ad oggi un’esistenza d’ombra; la III, già svuotata del suo contenuto rivoluzionario nel periodo preparatorio all’attuale conflitto, ha trovato nella fase culminante di quest’ultimo la consacrazione anche formale del suo fallimento. Non a caso, perché la guerra mondiale – massacro reciproco dei proletari dei diversi paesi – è possibile solo a patto che si sia spezzata l’unità internazionale del proletariato, e, viceversa, l’Internazionale proletaria ha assolto il suo compito solo se ha saputo opporre a questo supremo tentativo di schiantare la rivoluzione, il blocco unito degli operai di tutto il mondo. O internazionale o guerra: ed è sullo scoglio della guerra che è naufragata la III Internazionale.
La III Internazionale era per noi irrevocabilmente morta prima ancora che nel giugno 1943 il neo-maresciallo Stalin ne firmasse l’atto ufficiale di decesso: era morta da quando, nel 1933, la sconfitta del proletariato tedesco apriva le porte trionfali all’hitlerismo. Quella vittoria non veniva a caso; era l’ultimo anello di una catena di errori e di disfatte che, attraverso la tattica della collaborazione, aveva gettato il proletariato tedesco, bulgaro, cinese, nelle braccia assassine dei partiti e dei governi borghesi. La parabola rivoluzionaria toccava il fondo: sconfitto su tutti i settori dell’arena internazionale, il proletariato cedeva quasi senza combattere, mal diretto e mal consigliato, l’ultima sua posizione. E, com’era stata la conclusione fatale di un processo di allontanamento dalle basi teoriche e pratiche dettate dal II Congresso di Mosca (1920), così quella sconfitta segnava l’inizio del definitivo distacco della Russia da quel proletariato mondiale a cui la III Internazionale non aveva più saputo indicare la via maestra del potere, e l’inizio, insieme, di una lunga crisi bellica.
Divenuta strumento di politica estera russa, l’Internazionale segue da allora le tappe del progressivo inserimento dell’URSS nel meccanismo della diplomazia borghese e, quindi, della guerra. La risposta alla vittoria hitleriana è data dal patto franco-russo, dall’ingresso dell’URSS nella Società delle Nazioni tipico strumento di conservazione borghese, del suo schieramento a fianco del blocco borghese democratico contro il blocco borghese fascista: sul piano politico, il riflesso di questa svolta si trova nella tattica del fronte popolare lanciato dal VII Congresso del 1935, accompagnata ben presto dall’esperimento collaborazionista in Francia e in Ispagna.
Già allora, la morte dell’Internazionale è insieme l’effetto e il preludio di un avvenimento fatale: la guerra. Già allora la sua paralisi è insieme la conseguenza diretta della mancata vittoria proletaria, e il punto di partenza di una nuova scissione in seno alla classe operaia mondiale. Quel che è avvenuto di poi non è stato che un graduale scivolare verso la corresponsabilità della guerra: dal momentaneo distacco dell’URSS dal blocco democratico, e avvicinamento a quello fascista, al successivo riagganciamento al blocco democratico, e dalla parola d’ordine dei fronti nazionali e dall’impegno a collaborare con tutti i partiti borghesi, all’«amicizia nei fatti, in spirito e nei propositi» della recente conferenza di Teheran. Prima ancora di sciogliersi, l’Internazionale non era più un organo di direzione e di guida della classe operaia mondiale contro ogni forma di dominazione del capitale, ma era essa stessa uno degli strumenti con cui il capitale inchiodava le forze del lavoro ad una guerra preparata e voluta per distruggere la vitalità rivoluzionaria. Perciò l’Internazionale è morta.
Siamo noi oggi, come durante l’altro conflitto Lenin e un manipolo di militanti internazionalisti, in presenza delle stesse parole d’ordine truffaldine con cui l’opportunismo cerca di avallare il suo tradimento (lotta per la democrazia, difesa della patria, ecc.), siamo noi oggi a gridare: La III Internazionale è morta, viva la IV Internazionale!
Il riconoscimento della necessità di questa Internazionale è coinciso per noi col riconoscimento della morte dell’altra. Ma diversamente da Trotski, non abbiamo mai creduto ch’essa potesse sorgere per un colpo di bacchetta magica, per un atto di volontà di individui. Perché una nuova Internazionale sorga sono necessarie alcune premesse storiche che l’arbitrio del singolo non crea. È necessario anzitutto che sia consumato senza residui e palesemente il processo di degenerazione del vecchio organismo; è necessario, in secondo luogo, che la crisi del mondo borghese getti nella lotta, sganciandola dalla guerra, l’avanguardia del proletariato; è necessario infine che sia giunto a maturazione completa un processo di inesorabile chiarificazione ideologica. Perciò, all’estero, la nostra frazione non ha indulto in facili e superficiali esperimenti di creazione di organismi prematuri, ma, poco prima dell’attuale conflitto, ha creato nel «Bureau International» un organismo di collegamento internazionale fra tutte quelle frazioni di sinistra comunista che accettavano la discussione sulla base di una assoluta intransigenza verso l’opportunismo centrista e verso la guerra. Oggi che la guerra ha spezzato quei legami ma ne ha messo ancor più in luce la necessità, a noi non è concesso che di porne il problema alla coscienza del proletariato e auspicare, quando le condizioni lo permettano, la convocazione di una conferenza che preluda alla fondazione delle nuove assisi della classe operaia.
Delle tre condizioni che abbiamo indicato, la prima si è già realizzata nei fatti e va imponendosi alle coscienze; la seconda è preannunciata dalla ripresa della lotta di classe in Italia e nel mondo; la terza matura nel travaglio della coscienza di classe proletaria. Queste stesse premesse che rendono possibile il sorgere di una nuova internazionale, la rendono anche necessaria. Come, sul piano nazionale, la vittoria del proletariato è possibile alla sola condizione che esista un partito di classe e, d’altra parte, lo sviluppo della lotta di classe crea le premesse di questo partito, così sul piano internazionale, la tempesta rivoluzionaria che l’evolversi della guerra preannuncia, getta le basi e crea l’urgente necessità di un organo politico, che sia la guida coordinatrice e l’insegna di battaglia del proletariato di tutto il mondo, nell’assalto alla cittadella borghese. Non c’è ripresa rivoluzionaria senza un organismo internazionale di guida della classe operaia.
È nel crogiolo di questa lotta che sorgerà la nuova internazionale, e potrà sorgere solo attorno alle posizioni ideologiche di quel raggruppamento politico che ha denunciato in tempo la degenerazione dell’Internazionale defunta e l’opportunismo socialista e centrista, e che non ha mai patteggiato con nessuna forma di guerra. Solo questo raggruppamento può offrire al proletariato tutta una scia di posizioni inequivocabili, tutto un bagaglio ideologico maturato nel travaglio di vent’anni di errori e di sconfitte. Nessun compromesso dovrà essere possibile in questa nuova Internazionale – come doveva essere nelle premesse della III Internazionale, sancite nel programma e negli attualissimi statuti del suo secondo congresso – con quegli uomini e con quei partiti sui quali cade la responsabilità dello smarrimento e della disfatta del proletariato mondiale.
Il centrismo che ha sepolto testé l’organismo da lui stesso ucciso
tenterà forse domani di ricostituirlo su basi demagogiche. Le masse sapranno
allora, illuminate dagli eventi, scegliere fra chi non ha cessato un istante
d’indicare loro la via giusta, e chi, col pretesto demagogico di un’opportunità
tattica le ha incamminate nel solco sanguinoso della guerra. E la vittoria
sarà nostra.
APPELLO AI PARTIGIANI
Proletari appartenenti alle formazioni partigiane!
Con la parola d’ordine disertate la guerra la sinistra comunista
vi aveva indicato un orientamento difensivo nei confronti del vostro nemico
di classe, il quale spingendovi alla guerra mirava al vostro annientamento.
A questa parola d’ordine il nostro Partito ne aveva aggiunta un’altra:
proletari,
sabotate la guerra. Rifiutando di rispondere all’appello guerriero
– e perciò controrivoluzionario – di Badoglio rappresentante della
monarchia e di Mussolini rappresentante del fascismo, voi avete realizzato
le condizioni iniziali per la lotta contro la guerra. Ma queste condizioni
sono nulle, e minacciano di rappresentare la vosta fine non solo fisica
ma anche politica e storica se non strappate immediatamente i legami che
vi tengono avvinti alla guerra capitalista attraverso gli organismi partigiani.
Proletari partigiani!
Avete disertato la guerra fascista, durante i 45 giorni di Badoglio
avete disertato la guerra monarchico-democratica. Il vostro dovere
di classe deve suggerirvi ora di completare la vostra posizione politica
disertando la guerra partigiana la quale è anch’essa una manifestazione
della guerra capitalista. Solo così voi potrete portarvi sulla stessa
linea di combattimento classista dei vostri fratelli che, nelle officine,
lottano sabotando quotidianamente il meccanismo bellico di Milano, Torino,
Genova. Napoli, Brindisi, Taranto, ecc. e preparando con questa tenace
lotta quotidiana le condizioni favorevoli alla presa del potere su tutto
il settore italiano.
Proletari partigiani!
State in guardia! La posizione in cui vi trovate oggi è già di per
sé una posizione anticlassista, giacché si muove in direzione della guerra.
Ma le cose potrebbero andare peggio ancora, se non prendeste coscienza
di questa vostra posizione: ricordatevi che il nemico di classe potrebbe
fare di voi un ordigno controrivoluzionario, agente sul terreno della repressione
antioperaia nel momento in cui la vostra classe avrà bisogno del vostro
braccio e del vostro coraggio.
Proletari partigiani!
Rompete al più presto lu disciplina partigiana; ritiratevi a piccoli
gruppi in luoghi geograficamente adatti per rimanere sulla difensiva; non
servite il gioco del capitalismo democratico, come non avete servito il
gioco del capitalismo fascista. Questa posizione di negazione della
guerra non è una posizione da vigliacchi e da attendisti,
come la propaganda guerraiola fascista e democratico-centrista vorrebbe
farvi credere. La negazione della guerra rappresenta il preludio della
riscossa proletaria armata contro il capitalismo borghese. Ai primi
albori della battaglia sociale, voi scenderete dai vostri rifugi e, col
vostro «mitra» raggiungerete i vostri compagni sulle strade e sulle piazze
d’Italia, con una sola parola d’ordine e di lotta: TUTTO IL POTERE AL PROLETARIATO!,
unica classe che ha il diritto, e il dovere e la capacità di dirigere
il timone del progresso verso le grandi mete del socialismo.
Viva la rivoluzione comunista italiana!
Viva la rivoluzione comunista mondiale!
Viva la dittatura del proletariato!
Il Comitato Federale Lombardo del Partito Comunista Internazionalista
(senza data)
Proletari!
La propaganda e i comandi militari democratici fanno appello alla popolazione
per la lotta armata contro i soldati tedeschi: a sua volta il feldmaresciallo
Kesselring minaccia in un suo manifesto (ed ha già messo in pratica) la
strage di intere popolazioni, la fucilazione di ostaggi, l’incendio, l’impiccagione
ed altre infamie nel caso che non venga accettata il suo invito di collaborazione
allo sterminio dei partigiani.
Lavoratori!
La sinistra comunista ha sempre cercato di illuminarvi sui pericoli
che la manovra del nemico capitalista rappresentava per voi. Guidata dai
concetti fondamentali della lotta di classe, essa può ancora una volta
mettervi in guardia contro la provocazione nemica sotto la triplice veste
fascista, democratica e centrista e indicarvi la giusta via della vostra
battaglia.
Proletari!
Il vostro atteggiamento politico non potrà mai orientarsi nel senso
di accettare l’uno o l’altro degli ammonimenti lanciati dai tristi ordigni
gallonati che il capitalismo mondiale sfrutta per il vostro sterminio.
Non potete rispondere all’appello del macellaio Alexander, poiché questo
vorrebbe dire per voi scendere sul terreno della provocazione e della guerra,
cioè della vostra morte e della lotta fratricida: non potete scendere
sul terreno controrivoluzionario che contrappone nazione a nazione e proletari
di un paese a proletari di altri paesi, e tradire così il principio della
vostra lotta: classe contro classe, proletariato contro borghesia.
Ma non potete neppure rispondere all’appello dell’impiccatore Kesselring, perché ciò vorrebbe dire scendere al livello di indicatori della polizia e collaborare al mantenimento di quell’ordine capitalista che rappresenta la vostra schiavitù e che voi potete infrangere solo attraverso un’azione di classe unitaria, e non con atti di terrorismo.
Proletari!
Rimanendo sordi al richiamo di Alexander e di Kesselring, voi darete
una risposta cosciente ai fautori della guerra, ai provocatori piccoli
e grandi, al capitalismo del mondo intero: prenderete posizione nella lotta
contro la falsa strada di quei proletari che agiscono sul piano del terrorismo
individuale e, inconsapevolmente, servono le mire provocatorie della classe
capitalista mondiale. Ma questa vostra posizione di duplice negazione della
guerra vi porta automaticamente sul terreno della lotta difensiva. Giacché
se partigianesimo e terrorismo individuale sono fenomeni germogliati nello
stesso ambiente della società borghese, le condizioni immediate non vi
permettono di distruggere questa società e di eliminare così per sempre
non solo gli atti individuali di delinquenza, ma quella forma massima di
delinquenza collettiva, scatenata contro il proletariato, che è la guerra.
(senza data)
I dirigenti cosiddetti comunisti (che noi chiamiamo giustamente voltagabbana, per il semplice fatto che hanno tradito l’idea base del partito sorto a Livorno nel 1921), si atteggiano a difensori dei partiti componenti il C. di L.N. (vedi Unità di domenica 17 giugno) i quali, essendo rappresentanti della classe borghese, sono di conseguenza i creatori del metodo fascista, il quale fu creato dalla borghesia per impedire la marcia trionfale del proletariato verso la presa del potere politico. Dire come è stato detto da un massimo esponente del centrismo: che il fascismo è stato un errore commesso dalla borghesia, è una menzogna a duplice portata, poiché da una parte si vorrebbe ridurre ad un semplice sbaglio (e perciò riparabile in sede giuridica) le grandi sofferenze ed il sangue versato dal proletariato in un quarto di secolo, e dall’altra negare la realtà di un periodo di dominazione capitalista sulla base dei propri interessi classisti di accumulazione di ricchezze e di mantenimento dell’autorità borghese nei confronti di un proletariato combattivo, ed infine negare il ruolo di avanguardia nella provocazione alla guerra, di quella guerra voluta del capitalismo poiché tutta la società capitalista mondiale era contaminata alle sue stesse basi. Il fascismo non è uno sbaglio ma bensì l’arma controrivoluzionaria che la borghesia sa servirsi in date situazioni, in dati settori del mondo capitalista.
PROLETARI !
Oggi sul settore italiano il metodo fascista ha finito il suo ruolo
di conservatore degli interessi di classe del vostro nemico, al suo posto
subentra un altro metodo che ha come base la demagogia, l’imbroglio e la
deformazione delle idee proletarie, anche questa volta la borghesia non
commette uno sbaglio, anzi per essa è una vera cuccagna di poter servirsi
di organismi ad etichetta proletaria per convogliare il proletariato al
carro della ricostruzione, vale a dire al carro dello sfruttamento, di
poter avere dei ministri di governo «comunisti». Quello che conta per
il capitalismo è una sola cosa: impedire al proletariato di trovare il
filo di congiunzione con le vecchie battaglie e continuare così il grande
cammino della lotta di classe verso la sua totale emancipazione economica
e politica.
Lavoratori! Ieri con il fascismo, oggi con il C. di L.N., la borghesia continua a dominare e ad illudervi. Il centrismo dirigente ci chiama traditori? Noi rispondiamo che se si tratta di traditori della patria possono risparmiare il loro fiato, noi come tutti i proletari non abbiamo patria, abbiamo una classe che si chiama proletariato, se per traditori si vuole alludere alla nostra posizione contro la guerra e alla nostra parola d’ordine: proletari disertate e sabotate la guerra, ebbene per noi è un onore immenso di avere denunciato il massacro tra i proletari dei diversi paesi. Se infine noi siamo dei traditori perché non apparteniamo al C. di L.N. dichiariamo subito che questi insulti non ci toccano poiché si deve provare che il Partito Internazionale ha tradito la causa della classe proletaria e la sua rivoluzione, anzi denunciando al proletariato il C. di L.N. noi non facciamo altro che continuare a smascherare il mostro capitalista disposto a trasformarsi esteriormente in ogni situazione pur di mantenere intatto il suo metodo di prelevamento del sangue e dei sudori sul lavoro degli operai e lavoratori tutti. Noi non crediamo sia un insulto quello di dire che nel C. di L.N. si rintana il capitalismo nelle sue diverse spoglie, fascismo compreso, noi non crediamo sia un insulto dichiarare che il centrismo collabora con i peggiori nemici del proletariato, che ha rinunciato ad ogni principio classista accentuando i principi antiquati della borghesia patriottarda. Il vero insulto verso il proletariato è proprio quello di chiamarsi Comunista da parte di un partito il cui contenuto politico rappresenta tutto, salvo l’idea rivoluzionaria e classista,
Abbasso i disfattisti della rivoluzione proletaria:
Abbasso i collaboratori e conservatori del dominio borghese!
W la rivoluzione proletaria italiana e mondiale!
Il C. F. di Torino e Provincia del Partito Comunista Internazionale
(senza data)
OPERAI
La guerra che da quattro anni divora il vostro sangue e le vostre energie
stremate, questa guerra di cui si è promessa e vi si continua a promettere
la rapida fine, è giunta oggi ad un punto morto, che nessun impegno militare
sia in grado di superare. Mentre con le armi della minaccia e del terrore,
l’Italia va ricostituendo un esercito e rimettendo in piedi l’armatura
statale, mentre la Germania cerca di rimontare la crisi agitando agli occhi
della borghesia di tutto il mondo lo spettro del pericolo bolscevico, sul
fronte italiano lo sforzo bellico anglosassone si esaurisce in azioni locali
e sul fronte dell’est l’avanzata sovietica non riesce ancora a provocare
il crollo finale della resistenza tedesca. Da una parte e dall’altra della
barricata soffia nei discorsi dei dirigenti una ventata di ansie e di pessimismo.
Intanto, operai, ogni nuovo giorno esaspera una situazione di miseria, di fame di terrore che nessuna agitazione a sfondo economico potrà mai sanare. Soffocata nei primi anni di guerra, la lotta di classe si riaccende, illumina dei primi bagliori del riscatto proletario la scena insanguinata del mondo. Travagliata da sofferenze inaudite, la classe operaia cerca disperatamente una via d’uscita dal vicolo cieco in cui la guerra ed il regime capitalistico l’hanno gettata.
È proprio perché si rendono conto dell’impotenza a risolvere sul piano militare questa crisi del fermento sociale che dilaga nella città e nelle campagne, proprio per questo i belligeranti puntano la loro carta decisiva sul fronte interno. Mentre l’Asse cerca di dare un nuovo colpo di frusta alle energie ormai fiaccate degli operai promettendo una nuova giustizia sociale in cambio della mobilitazione delle forze del lavoro a favore della sua guerra, le potenze democratiche cercano un compenso alla delusione delle iniziative militari in intensificati bombardamenti aerei delle città industriali e, attraverso la propaganda dei vari partiti di coalizione, gettano il proletariato allo sbaraglio in una lotta impari perché sul corpo straziato degli operai passi, come su grande via aperta, la terribile macchina della guerra.
Per questo, operai, voi vedete oggi quegli stessi partiti che, fino a ieri, vi convocavano ad agitazioni di carattere puramente economico (come se una briciola strappata al grande bottino dei vostri padroni potesse cambiar forma e colore alla tragedia di un conflitto che si alimenta tutto dalla vostra carne), voi vedete oggi quegli stessi partiti chiamarvi allo sciopero generale politico e all’insurrezione armata, non perché la guerra finisca, ma perché voi diveniate un’arma attiva di guerra, non perché il proletariato dia finalmente la scalata al potere e, col regime borghese, uccida la stessa possibilità di nuovi conflitti, ma perché spiani la via col suo sangue ad una nuova forma di dominazione di classe.
Operai!
Voi vi trovate oggi fra l’incudine della guerra fascista ed il martello
della guerra democratica. Gettandovi nell’avventura dell’insurrezione armata
con la stessa noncuranza con cui l’ufficiale superiore manda al massacro
la sua truppa, le democrazie tentano di raggiungere lo stesso scopo che
il fascismo si ripromette dalla vostra mobilitazione nelle fabbriche e
sui campi di battaglia: sfruttarvi come carne da cannone per alimentare
di nuove energie una guerra che non trova via d’uscita, sviare dai loro
obiettivi storici le forze sociali che la guerra inevitabilmente scatena,
e stremare le vostre energie in agitazioni senza avvenire, prima che possiate
lanciarle nella battaglia finale per la rivoluzione comunista. Nemici sui
fronti di guerra, i due blocchi borghesi si ritrovano uniti contro di voi,
nemico comune di entrambi: il fascismo alza la scure, le democrazie spingono
sotto di essa il proletariato e, perché la manovra avvenga con la parvenza
di legalità democratica, affidano all’opportunismo socialista e centrista
il delicato ma essenziale compito di bendarvi gli occhi. Che importa a
loro, il massacro cui voteranno le masse, se questo serve a gettare sulla
bilancia della guerra una battaglia vinta, ad acuire gli odi nazionali
nelle terre occupate e, infine ad operare sul corpo della classe operaia
un salasso, dal quale non avrà il tempo di sollevarsi quando suoni l’ora
della grande crisi?
Operai!
Lo sciopero generale e l’insurrezione armata non sono armi con le quali
sia lecito scherzare. Esse si usano quando il nemico è colpito nei sui
gangli vitali, non quando ha ancora forze sufficienti per schiacciare l’avversario:
sono il colpo di mazza finale, le armi decisive della battaglia per la
presa del potere, non le armi occasionali della guerra e della politica
di guerra borghese.
La lotta del, proletariato è una lotta storica che ha le sue tappe necessarie nelle quotidiane battaglie di classe e il suo termine ultimo nella violazione rivoluzionaria. Guai a chi sfrutta questa violenza per fini che le sono estranei (la «guerra» nazionale, la «lotta antitedesca», l’instaurazione di governi di coalizione ecc., ecc.) e le consuma prima che la sua ora sia venuta! Per troppo tempo, operai, siete stati delle pedine nelle abili mani del nemico: la vostra carne è sacra.
La vostra via, operai, è un’altra. Si tratta in quest’ora decisiva, contro tutte le formazioni politiche che falsamente si richiamano ai vostri interessi, di cementare tutte le forze operaie intorno ad un obiettivo unico, che ha il nome di LOTTA CONTRO LA GUERRA. Questa lotta si esprime nella resistenza attiva e passiva alla guerra, nell’approfondimento dei conflitti di classe, nel potenziamento della difesa operaia contro la reazione, nella costituzione di organismi di massa che coordinino gli sforzi del proletariato contro la forma più spietata della dominazione borghese, e che diventino, nel corso di questa battaglia, le leve della rivoluzione proletaria. Per questo noi vi abbiamo lanciato, contro la demagogia barricadera dei sei partiti, la parola del fronte unico operaio contro la guerra. Per questo denunciamo oggi la manovra del vostro nemico di classe, e vi additiamo la via giusta, l’unica che i partiti sedicenti operai si rifiutano d’indicarvi, la via della preparazione cosciente, metodica, sicura della rivoluzione proletaria.
Questa stessa via continueremo ad indicarvi, accanto e in mezzo a voi, con energia instancabile, il giorno in cui, ad onta dei nostri sforzi per trattenerlo in tempo sull’orlo dell’abisso, il proletariato si lasci trascinare in una lotta che riteniamo folle per i fini cui serve e per le prospettive che le si offrono. Giacché, operai, il nostro posto è dovunque la massa operaia ingaggi la sua battaglia, per restituirle la sua inconfondibile impronta di classe e contrapporre alle parole d’ordine scioviniste e guerraiole dell’opportunismo centrista e socialdemocratico le parole d’ordine classiste e internazionaliste della lotta proletaria per il potere. Un partito di classe non esita ad assumere le proprie responsabilità. Noi, questo posto non lo diserteremo.
ABBASSO LA GUERRA!
VIVA LA RIVOLUZIONE PROLETARIA!
Il Partito Comunista Internazionalista
(marzo 1944)
OPERAI!
Il partito centrista staliniano, che ancora usurpa l’appellativo di
comunista, vi ha dato nei giorni scorsi per bocca del suo capo Palmiro
Togliatti (Ercoli) l’ultima più inconfutabile prova del tradimento della
vostra causa rivoluzionaria: l’appoggio del centrismo alla monarchia dei
Savoia. Legati mani e piedi al giogo della reazione borghese, al Badoglio
del 25 luglio, che vi massacrarono con le mitragliatrici e con i carri
armati dopo appena qualche ora di respiro dalla caduta del fascismo, i
centristi non si accontentano ora più di essere i servi e i paladini della
borghesia democratica antifascista, si fanno gli iniziatori più sfacciati
della repressione e dell’imperialismo.
Se ancor ieri potevate vedere su questi signori la maschera di un preteso sinistrismo antimonarchico e antibadogliano; se ancora vi si poteva presentare abilmente confezionato l’ormai ammuffito minestrone della tattica e dello strattagemma machiavellico di una sedicente politica di Comitato di liberazione nazionale che pur lontanissimo dalla vera tattica intransigente di ogni genuino rivoluzionario, tuttavia si atteggiava a difensore di una Italia nuova, libera dai legami con i venti anni di fascismo, oggi invece la maschera è gettata e la famosa tattica, raggiunto il culmine del suo vantato realismo, è divenuta, nell’alleanza col re, più che realista, regalista. Chi, di questo passo, oserà ancora definire realmente antifascisti costoro, i quali, per amore dell’agognata carriera della medaglietta non hanno esitato a porsi accanto ai fomentatori del fascismo ed a salvare quella casta di militaristi e di generali che il nominato Togliatti ha ritenuto altamente preziosi per la creazione di un futuro, poderoso esercito italiano? Di fronte al volgare tradimento centrista non avete che una scelta: una volta definita la natura reazionaria di quello che fu un giorno il vostro partito, rompere ogni legame con esso per salvare il vostro avvenire e, liberati dalla tenaglia guerrafondaia che vi incita alla lotta antinglese o antitedesca, schierarvi nelle file del PARTITO COMUNISTA INTERNAZIONALISTA, continuatore instancabile di Marx e di Lenin, per la trasformazione del conflitto imperialista in una guerra civile, in una lotta di classe, per la creazione di quelle premesse rivoluzionarie necessarie per la vostra vittoria di domani, che consistono oggi in una costante assidua opera di chiarificazione politica, ideologica, di preparazione di quadri, di creazione di fronti unici di base sotto la guida del nostro partito, di disfattismo contro la guerra ed i guerraioli di ogni colore, di sabotaggio, di diserzione.
OPERAI!
nessuno, né la Germania, né l’Inghilterra, né l’America e neppure
la Russia staliniana, vi porterà la rivoluzione. Voi soli, se avrete la
decisa volontà, sarete in grado di conquistare le vostre libertà.
Come i comunardi di Parigi del ’71, come gli operai di Pietroburgo e di Mosca del ’17, uniti nel vostro vero partito, iniziate la lotta decisiva per la vittoria del Comunismo che solo può nascere là dove l’oppressione e la guerra borghese sono combattute con l’arma vera del proletariato: la guerra di classe in tutti i paesi, all’interno dei fronti di battaglia, nelle città, nelle fabbriche, nelle campagne!
VlVA la Rivoluzione Comunista Internazionale!
Il Partito Comunista Internazionalista
(aprile 1944)
Gli operai che, dopo uno sciopero di una compattezza impressionante ed una solidarietà senza precedenti, hanno dovuto riprendere il lavoro a testa china, inappagati nelle loro rivendicazioni minime e in balia di una reazione trionfante, si chiedono oggi con un senso di delusione e di rancore a quali criteri e a quali finalità l’agitazione rispondesse. Avevano non una, ma cento ragioni di scioperare, gli operai: ragioni che si riassumevano nella rivendicazione fondamentale che questa terribile guerra finisse, e finissero con lei la fame, la persecuzione poliziesca, il terrore. Il fatto stesso che, a due mesi appena da un altro sciopero, la classe operaia si gettasse come un sol uomo nello sciopero, non dimostra forse che la ferita apertasi nella compagine borghese il 25 luglio sanguinava ancora, e che al proletariato si ponevano ormai problemi di vita o di morte, di definitivo riscatto? Ma la voce sicura dell’istinto di classe li avvertiva che lo sciopero generale è, soprattutto, in regime di guerra, un’arma troppo delicata perché vi si faccia ricorso senza la possibilità e la volontà di condurlo a fondo – l’atto finale dell’assalto proletario alla roccaforte borghese, non l’episodio isolato che si esaurisce in sé stesso. Da questa rivolta, per l’avventatezza e l’impreparazione tecnica con cui li si è buttati allo sbaraglio, nascerà negli operai una coscienza critica della vera natura delle forze politiche che ancora li dominano? L’abbattimento momentaneo sarà superato col distacco da ogni condizione borghese e col passaggio a rigide posizioni di classe?
Dalla risposta a queste domande dipende in buona parte il futuro immediato della classe operaia italiana.
Giacché, se alla massa proletaria e dal punto di vista dei suoi interessi permanenti di classe, quell’esperimento era assurdo, esso è perfettamente giustificato dal punto di vista dei partiti e delle formazioni politiche che l’hanno promosso e diretto. Esso non è, nel quadro della loro politica, arbitrario: esso è l’episodio premonitore di un’offensiva generale, che prelude il cozzo definitivo fra i due grandi fronti borghesi: fascista e democratico. Per gli uni e per gli altri, in mancanza di supreme decisioni militari e di sicure vittorie diplomatiche, il fronte interno passa in primo piano: il nazi-fascismo punta su questa carta per mobilitare tutte le forze del lavoro al superamento della sua grande crisi, le potenze democratiche per gettarlo come massa di manovra contro la caparbia strategia dell’avversario. La guerra che, nonostante i successi alleati, non esce da un eterno vicolo cieco, la schermaglia diplomatica che si traduce in almeno temporanei insuccessi (Turchia, Spagna, Argentina, ecc.) saranno vinte dietro il fronte, mobilitando come truppe d’assalto il gigantesco potenziale d’energie che cova nella massa operaia? Gli operai che hanno dimostrato di non voler combattere per la guerra fascista saranno spinti, sotto la parvenza fallace di una battaglia di classe, a combattere e a farsi dissanguare per la guerra democratica? Il gioco è chiaro: ed è per questo che, mentre il nazi-fascismo fa leva sulla demagogia della socializzazione, le potenze alleate puntano sui partiti dell’opportunismo operaio perché l’arma dello sciopero si trasformi, da arma di classe del proletariato per il raggiungimento dei suoi compiti, nell’arma che una frazione della borghesia rivolge contro l’altra per colpirla a morte, in un’operazione militare, insomma, nel quadro della strategia democratica.
Da questo punto di vista, che importa il successo o l’insuccesso di uno sciopero, nel senso finalista che la classe operaia gli attribuisce come una posizione conquistata d’assalto sulla via che conduce al potere? Lo sciopero non potrà mai essere, per le formazioni politiche borghesi, la stessa cosa che per il proletariato: è una battaglia come quelle che si combattono sui campi di guerra, un necessario bagno di sangue che esaurisce la sua funzione quando ha assolto il compito di minare la resistenza dell’avversario, di provocarne un’accentuata reazione e, di rimbalzo, un più vivace spirito di rivolta. Poco interessa la sorte presente o futura dei battaglioni lanciati all’assalto: meglio, anzi, che il proletariato si dissangui, e benedetta sia la scure fascista che lo colpisce se gli toglie fin d’ora la forza di porre sul tappeto il problema del potere!
Non dunque perché sia stata una battaglia perduta lo sciopero lascia all’operaio cosciente un senso di amarezza, ma perché è stato diretto e ispirato da criteri borghesi. Il calvario della classe operaia è seminato da battaglie perdute, spesso altrettanto feconde quanto le battaglie vinte. Ma nessuna battaglia si può considerare persa, finché la si combatte sotto la propria bandiera e su un terreno che è veramente nostro. Ora, la situazione italiana, mentre vede dilagare una crisi sociale profonda che la guerra e la reazione nazi-fascista esasperano e che spinge il proletariato alla lotta con accanimento crescente, è tutt’ora caratterizzata dall’effettivo prevalere delle forze politiche borghesi o gravitanti nell’orbita borghese. Il proletariato si trova nell’assurda e tragica situazione d’essere nello stesso tempo il vero protagonista della lotta attiva, e la pedina manovrata senza risparmio dalle forze che si muovono sul piano della guerra: di essersi insomma sganciato dal fascismo e di rimanere agganciato per l’intermediario dell’opportunismo socialista e, soprattutto, centrista, alla democrazia. In tali condizioni è chiaro che la democrazia borghese tenterà sulla pelle del proletariato non uno ma cento esperimenti del genere, e che questi esperimenti saranno condotti con tanto più spietata decisione e con tanto più fatale esito, quanto più la crisi si avvicina – come indubbiamente si avvicina – al suo punto estremo. E, se in seno al proletariato non avviene una salutare chiarificazione, il suo ruolo continuerà ad essere quello d’oggi: di unica forza attiva in una lotta non sua.
La democrazia ha posto, per i suoi fini, il problema dello sciopero generale e dell’insurrezione armata. È necessario che il proletariato le strappi di mano queste armi, per farne le armi della sua propria battaglia. La situazione della classe operaia si fa di giorno in giorno più tragica: è giusto e naturale che combatta contro la guerra, che scioperi, che insorga. Ma questa sua lotta sarà feconda alla sola condizione che sia diretta verso obiettivi di classe e che, nell’atto di negare la guerra, metta all’ordine del giorno il problema che la guerra rende per lei di una attualità palpitante: il problema della conquista del potere. In una lotta così impostata, che presuppone come sua premessa indispensabile la presenza e la guida fattiva di un partito di classe, ogni agitazione sociale ha il suo compito, e tutte rappresentano la catena delle tappe necessarie, il cui ultimo anello è l’insurrezione armata.
Nel quadro di questa strategia rivoluzionaria non hanno posto né lo sciopero per lo sciopero, né l’azione «dimostrativa», né l’insurrezione scatenata in un momento purchessia, «tanto per far qualcosa», ha posto soltanto quella forma di lotta che il rapporto delle forze permette e che il momento storico esige. Solo in questa strategia, con tutte le forme attive e passive di resistenza alla guerra e di potenziamento delle forze proletarie che oggi s’impongono, anche una battaglia perduta è una battaglia vinta.
L’unica risposta che la classe operaia possa dare all’avventura dello sciopero per lo sciopero e alle più ambiziose avventure a cui i fronti i borghesi la preparano, non è né la delusione né lo scoraggiamento, ma la precisa volontà di preparare ed affermare, nel momento culminante della crisi capitalistica, la conquista rivoluzionaria del potere. Ciò presuppone, come primo atto necessario, il distacco netto e radicale da tutte quelle formazioni politiche sedicenti operaie, che, sotto il manto di una tradizione marxista, o in nome di una presunta tattica leniniana, preparano la via ad una nuova disfatta proletaria.
La classe lavoratrice ha oggi la sua dura battaglia da combattere su
tre fronti: il fronte del fascismo, il fronte della democrazia, il fronte
del centrismo. E avrà vinto solo il giorno in cui su ognuno di
questi fronti, il nemico sarà stato irrevocabilmente sconfitto.
Operai, contadini, soldati!
Dopo quattro anni di guerra il bilancio del più spaventoso massacro
della storia vi si spiega d’innanzi nella sua tremenda crudezza. Gigantesco
rullo compressore, la guerra è passata e ripassata su ogni lembo d’Europa,
distruggendo quello che generazioni intere di lavoratori avevano costruito.
E per alimentarla la borghesia ha mobilitato quelle gigantesche ricchezze
di cui eta tanto avara quando chiedevate del pane, ha sacrificato quella
civiltà che le strappava lacrime cocenti quando lo spettro della rivoluzione
turbava i suoi sonni, ha santificato quella violenza che suscitava lo sdegno
ipocrita dei sui moralisti quando il proletariato minacciava di usarla,
con ben altro spirito e ben altre proporzioni, per difendere coi propri
diritti i diritti della società intera. A tutto ciò si è ricorso per
conservare i privilegi di classe: si è fatto appello alle risorse più
raffinate di una intelligenza che sembrava così povera d’inventiva nel
compito ben più fecondo di assicurarvi condizioni umane di vita; si è
giuocato con diabolica raffinatezza sugli istinti più bestiali, sui più
torbidi odi di razza e di nazione sul pervertimento di sentimenti più
nobili; si è invocata la protezione di un dio pronto a benedire i cannoni
di tutti gli eserciti; non si è esitato, per legittimare la carneficina,
ad agitare quelle stesse bandiere che in tempo di pace riempivano di sgomento
l’onesto borghese - libertà, giustizia sociale, socialismo...
E intanto, mentre la guerra sta per concludersi, voi intravedete i lineamenti di una pace che vi è promessa liberatrice da tutti i gioghi e rivendicatrice di tutti i vostri diritti. La stessa «pace» di sangue che avete sperimentato sotto i vessilli dell’Asse nei territori «protetti» dalla Germania, la vedete delinearsi in altre forme nei paesi che gli eserciti alleati rapidamente «liberano». Vedete gli appetiti imperialistici disputarsi questo o quel pezzetto di terra (salvo poi riconciliarsi tutti contro di voi); i popoli vinti, che non la loro volontà ma l’insaziabile ingordigia della classe dominante ha trascinato nel conflitto, ridotti a strumenti dei vincitori; gli armistizi accumulare su nazioni già stremate taglie e riparazioni; risorgere ancor più accese quelle ideologiche nazionaliste contro le quali si è preteso di combattere, e gli eserciti trasformarsi in tutori dell’«ordine» – di quell’ordine che solo dalla vostra classe può esser minacciato per costruire col socialismo una società più degna.
Operai, contadini, soldati!
Molti di voi hanno creduto che questa guerra fosse la loro guerra.
O non vi si era promesso da una parte e dall’altra che i frutti del conflitto
sarebbero stati vostri? Oggi – dopo di aver provato la durezza del bastone
nazista e la rabbia feroce del fascismo ribattezzatosi repubblicano sociale
– voi sapete di chi questi frutti saranno: Per legarvi alla guerra e
alle sue vicende immediate e lontane, due partiti operai hanno diviso col
nemico di classe la responsabilità della guerra stessa e del potere. «Si
combatte uniti contro il fascismo» hanno dichiarato nell’atto di mettere
le forze proletarie al servizio della democrazia borghese, come se mai
potesse esservi, fra proletariato e borghesia, nemico comune e a una frazione
della borghesia fosse lecito affidare il compito di sradicare per sempre
un bubbone che ha le sue origini nel dominio di classe della borghesia
medesima.
Avete visto i partiti che si vantano eredi di due internazionali predicare, non la lotta di classe, ma la caccia al tedesco, l’unione nazionale, l’ideologia della patria; li vedete fare di operai e contadini inquadrati nelle formazioni partigiane non l’armata della rivoluzione, ma uno strumento di guerra; spingervi al terrorismo individuale quando l’apparato repressivo è ancora in grado di «vendicare i suoi martiri» col massacro di un numero venti volte maggiore di vostri fratelli; preparare come a Varsavia e come a Parigi, l’insurrezione proletaria non già per assicurarvi il potere politico, ma per spianare la via al trionfale ingresso degli eserciti, e permettere alla belva nazi-fascista di esercitare ancora una volta sull’avanguardia proletaria, l’ultimo servigio reso in punto di morte al capitalismo, il tanto agognato mestiere del boia. Li vedete infine, nel momento in cui il declino della guerra schiuderebbe alle vostre energie combattive possibilità infinite, accettare di collaborare coi partiti borghesi alla... restaurazione della pace!
Operai, contadini, soldati!
Il crollo imminente degli esecrati regimi totalitari e la fine ormai
prossima della guerra segnano l’inizio di un periodo di crisi della società
borghese e di grandi agitazioni sociali. La borghesia può, con l’appoggio
dell’opportunismo socialcentrista, vincere la guerra: ma vincerà essa
la pace? Dominerà essa le forze di un dopoguerra di miseria e di fame,
con un apparato statale in sfacelo, con eserciti stanchi di combattere
e aperti al contagio rivoluzionario, con masse popolari che esigeranno
a giusta ragione il compimento delle promesse sulle quali si è costruita
la propaganda di guerra? Così, nel rapido maturare di giganteschi conflitti
sociali, l’avanguardia proletaria potrà trascinare nel vortice della rivoluzione
tutti i ceti minori che la guerra ha proletarizzato. Giacché questo sarà
allora il dilemma:
o una nuova era borghese, foriera di nuovi e ancor
più spaventosi conflitti, o, con la vostra rivoluzione, il socialismo.
Ma perché questo avvenga, perché le vostre forze non si consumino ancora una volta a vantaggio della classe dominante, occorre che la lotta senza quartiere contro la guerra, alla quale noi non abbiamo cessato di convocarvi, dilaghi in guerra civile; che, contro l’ideologia malsana che contrappone nazione a nazione, si levi in voi la coscienza dell’antitesi fondamentale che oppone classe contro classe; che il proletariato si stringa compatto sulla via maestra della conquista del potere attorno a un partito che non tema di additargli la meta; e, che, infine, al di sopra delle frontiere, si ristabiliscano fra le classi operaie di tutti i paesi quei vincoli di solidarietà rivoluzionaria, che un lungo periodo di opportunismo e di propaganda bellicista e cinque anni di guerra hanno fatalmente spezzato.
Per questo noi ci rivolgiamo a voi, e, attraverso voi, agli operai che lavorano oltre confine, a quelli stessi proletari che vestono oggi, in mezzo a voi, l’odiata casacca del militarismo nazista, e a quelli che verranno con voi, l’odiata casacca del militarismo anglosassone o russo, a difendere l’«ordine nuovo» perché non vi prestiate al gioco del capitalismo inseguendo i fantasmi della «guerra di liberazione» e della «democrazia progressiva» o cedendo agli allettamenti dell’insurrezione filodemocratica e tendiate tutte le forze verso quell’unica meta che la vostra coscienza di classe vi addita: la conquista rivoluzionaria del potere. Su questa dura via, saldamente uniti negli organismi di massa che dal travaglio della vostra lotta nasceranno, liberi dalla pesante catena del compromesso, guidati da un partito rivoluzionario al quale voi darete l’inestimabile apporto delle vostre energie più sane, c’è tutto un mondo da distruggere – il vecchio mondo della vostra servitù e del vostro massacro – c’è tutto un mondo nuovo da costruire.
Operai, contadini, soldati!
L’edificio della vecchia società capitalista barcolla. Chi v’invita
a combattere per una democrazia che solo la rivoluzione proletaria può
darvi l’aiuta a risorgere: chi vi invita a combattere non solo per l’abbattimento
del fascismo ma per la conquista rivoluzionaria del potere le dà l’ultimo
colpo di piccone. Scegliete!
Una dura lotta attende il proletariato. Si tratta di costruire i quadri ideologici e pratici della rivoluzione che un quindicennio di errori e di tradimenti ha sfasciato, di riprendere la via intrisa di sangue proletario della Rivoluzione d’Ottobre. Ma questa lotta, il proletariato d’Italia e del mondo, deve se vuol vincere, saperla coraggiosamente affrontare.
La guerra imperialista non può essere vinta che dalla rivoluzione proletaria: solo la conquista rivoluzionaria del potere può conquistare la vera pace, la pace di una società senza classi. Questa è la vostra bandiera: serrate intorno ad esse le vostre file!
Per l’unità internazionale del proletariato!
Per la distruzione della società capitalista e la conquista rivoluzionaria
del potere!
Contro la guerra borghese, contro la pace del capitalismo, viva
la rivoluzione proletaria.
Il Partito Comunista Internazionalista
(settembre 1944)
La spartizione dell’Europa in tre zone di influenza, decisa a Yalta dai tre big men degli imperialismi vincitori, traduce in pratica il disegno hitleriano della spartizione del mondo secondo la teoria degli spazi vitali. Ecco il significato recondito della democrazia progressiva propugnata indefessamente dal compagno Togliatti: addormentare il più possibile le masse affinché il giuoco degli imperialismi concorrenti della Germania Capitalista possa riuscire senza eccessivi sbalzi e senza troppi urti. Oggi come oggi, dopo sette anni di guerra, il proletariato europeo si trova innanzi alla più mostruosa macchinazione che il capitalismo abbia mai ordito ai danni del proletariato mondiale. Agendo dietro il paravento dell’antifascismo, che altro non è se non il retro di quella medaglia su cui i soliti padroni del mondo avevano pomposamente inciso l’effigie del Duce e del Führer, gli uomini più rappresentativi del Direttorio anglo-americano, tentato di rimettere in piedi una nuova Santa Alleanza, una Santa Alleanza a lunga scadenza garantita dal Patto Tripartito di Dumbarton Oaks e concepita non tanto contro i criminali di guerra (che sono stati e saranno, comunque e sempre, briganti imperialisti) quanto contro i proletari d’Europa e del mondo intero, chiamati non solo a fare le spese della guerra, ma anche a sottostare alle leggi che i vincitori crederanno utile imporre nelle rispettive zone di influenza. È così, per esempio, che gli operai italiani dovrebbero continuare a sopportare il regime di sfruttamento organizzato, con il beneplacito di Mosca, sotto i segni della croce sabauda, sol perché l’Italia, espressione geografica ricorrente nelle competizioni imperialistiche, ha avuto la mala ventura di essere stata dichiarata zona d’influenza inglese in quella famosa conferenza di Mosca che mise un termine alle velleità repubblicaneggianti e americanizzanti del Conte Sforza. È così che pur avendo oggi tutte le possibilità per gettare le basi di una confederazione europea, il direttorio anglo russo americano si guarda bene dal pronunciare la parola Stati Uniti d’Europa, relegata nel dizionario nittiano delle parole pericolose o per lo meno inutili. V’ha che la borghesia ha oggi veramente paura di mettere in agitazione le masse. Un qualsiasi movimento popolare potrebbe degenerare in rivoluzione. L’ELAS ammonisce. Però i militanti marxisti sanno che oggi, dopo l’espediente fascista, la dittatura della borghesia poggia su un piano inclinato. Un passo falso ed è la corsa verso il precipizio.
L’Opposizione di Sinistra non deve mollare, non mollerà in attesa dell’immancabile
passo falso che farà sdrucciolare il corpo adiposo del capitalismo, permettendo
ai rivoluzionari d’innalzare la bandiera di Lenin nell’Occidente europeo.
Giacché la guerra sembra giunta alle sue fasi conclusive e il bilancio del suo epilogo a svantaggio del cosiddetto «tripartito», almeno in Europa, in netto sfavore della Germania, la «Carta Atlantica» di buona memoria, sempre più e sempre meglio si specifica, attraverso Casa Bianca, Mosca, Teheran, nei progetti di Dumbarton Oaks.
Si odono pertanto voci sempre più marcate anche nel campo dei partiti operai e socialisti che si intonano ad una sempre più precisa responsabilità della Germania per lo scatenamento e la cannibalesca condotta della guerra. E ciò, e per quanto concerne la condanna del nazismo come fattore predominante nel gioco delle responsabilità di questa seconda guerra imperialistica, potrebbe anche apparire giustificato e quindi comprensibile, come altrettanto appare però né giustificato né comprensibile il tentativo ed il proposito dei rappresentanti delle classi lavoratrici di Inghilterra, America e Russia di coinvolgere nelle responsabilità il proletariato tedesco, quello italiano e quello giapponese.
Eppure a Londra, a Blackpool, le Trade-Unions, il Laburismo e il rappresentante dei sindacati russi, proclamano senz’altro nelle loro mozioni che la Germania è responsabile della guerra e, «dovrà pagare i danni ed indennizzare le vittime» come ugualmente «visto il largo appoggio dato dalla maggior parte del popolo tedesco alla guerra nazista, tutti indistintamente debbono essere ritenuti colpevoli» come «non deve più essere fatta distinzione fra nazisti e popolo».
A Mosca, nei discorsi ufficiali dei capi dello stato e membri del governo, non si nasconde affatto che, «dopo la disfatta della Germania essa sarà disarmata tanto economicamente quanto militarmente e politicamente», come ci fa sapere il giornalista sovietico Zarlavzki in un suo articolo su la «Pravda» del 23 novembre dove egli sostiene che «la punizione sarà severa, giusta e completa». E, «questa punizione dovrà togliere dalla testa dei tedeschi, e anche da altre teste, l’idea che i delitti commessi durante una guerra possano restare impuniti». E anche l’organizzazione internazionale delle Nazioni Unite «è stata costituita per la difesa della pace, della civiltà, della sicurezza mondiale, del trionfo dell’amore sulla oppressione fascista. E questa organizzazione deve disporre della forza necessaria per poter soffocare fin dall’embrione ogni tentativo di attirare sull’umanità nuove sventure», e per essere usata, novella Santa Alleanza, come afferma Roosevelt, non soltanto per reprimere ogni e qualsiasi aggressione, ma anche per placare eventuali agitazioni economiche e sociali nel mondo. Come del resto avviene già, in Belgio e più spiccatamente in Grecia.
Da dove si vede su quale fondo si cerca di ancorare la politica delle masse lavoratrici; quale impostazione si tenta di dare, da questi falsi capi, ai problemi, oggi come ieri, della guerra, oggi come domani, della pace; come viene concepita la solidarietà delle masse operaie, e la posizione delle classi operaie stesse di fronte alle classi borghesi imperialistiche criminali e guerrafondaie.
Nella rete dell’imperialismo, e quindi del più marcato sciovinismo, nel più egoistico nazionalismo si vuole imbrogliare ancora e sempre il proletariato di ogni paese.
Si vuole ricoprire la responsabilità dei propri governi e delle proprie
borghesie; si cerca di nascondere le fondamentali verità:
che di questa guerra come di tutte le guerre portano
la colpa e le responsabilità solo le classi capitalistiche ed i governi
di tutti i paesi;
che questa è guerra imperialistica per la conquista
di nuovi e più ampi mercati e la spartizione e la ripartizione delle ricchezze
della terra;
che la pace di Versaglia, come la pace futura, non
fu, e si vuole che non sia, atto di giustizia e di democrazia, ma solo
atto di imperio e di violenza;
che in tutti gli stati capitalistici permangono
e permarranno, e in quelli vincitori si accresceranno, gli appetiti e le
velleità imperialistiche;
che i trattati e le alleanze, attraverso gli intrighi
delle diplomazie furono e saranno sempre le basi e i preliminari di nuove
guerre;
che fino a tanto resterà in vita il capitalismo,
oramai decadente, permarranno gli attriti nazionali e quindi le guerre
sempre più micidiali;
che il proletariato e le masse lavoratrici di ogni
paese hanno fatto e sempre faranno le spese di ogni guerra, e che soltanto
la solidarietà, nei propositi e nelle azioni, del proletariato internazionale
potrà, eliminando il capitalismo, instaurare la vera pace e la vera giustizia
nel mondo.
Perciò noi diciamo, in contrario con i laburisti d’America e di Inghilterra e con gli stalinisti di ogni paese, che gli operai tedeschi come quelli italiani e giapponesi sono responsabili della guerra, del fascismo e del nazismo nella misura, se mai, che lo sono e lo sono stati quelli delle Nazioni Unite. E ciò per il fatto che né gli uni né gli altri hanno saputo e potuto opporsi alla guerra, alla preparazione della guerra; che gli operai americani, inglesi, francesi, ecc. non hanno potuto e saputo offrire quella necessaria solidarietà fattiva ed operante agli sforzi degli operai italiani prima e degli operai tedeschi dopo contro il fascismo ed il nazismo insorgenti e dominanti. E tutto ciò non per incapacità e per mancanza di senso classista, per l’assenza di impulsi di generosa solidarietà delle masse operaie stesse, ma per la incapacità e, peggio, per il tradimento, dei loro capi e dei loro partiti politici alleati ai dominanti imperialisti, legati a fil doppio alla loro politica nazionale.
Il nazismo e il fascismo, fenomeni imperialistici, sono fatti capitalistici e borghesi, che le masse operaie hanno incessantemente combattuto, come lo prova luminosamente il loro lungo martirologio. A confutare del resto la leggenda della responsabilità collettiva di tutto il popolo tedesco in questa guerra, ci piace riportare qualche dato, che ci fornisce di seconda mano, il compagno Silone, in un suo articolo: 600 mila anni di prigionia già nei primi tempi del nazismo; dal 1933 al 1938, 12 mila condanne a morte; nell’anno 1939: - 302.562 detenuti politici nelle carceri naziste; 2 milioni di iscritti contavano i registri della gestapo; 10 condanne a morte in media, si avevano ogni giorno nel 1942. Nel 1943, in un solo processo a Berlino si ebbero 310 condanne a morte per attività antinazista.
Con la «resa a discrezione», con la pretesa responsabilità in solido di tutti i ceti e classi sociali della Germania; con questo macchinismo di pace, in apparenza altamente moralizzante ed ispirato ad alti sensi di giustizia, si cerca e si vuole soffocare ogni slancio generoso di vera giustizia delle masse tedesche, si cerca di soffocare ogni impulso di vera e giusta vendetta degli operai contro il loro mortificante giogo, il nazismo, si vuole prevenire la logica e necessaria soluzione che le masse lavoratrici di Germania dovranno dare al loro problema, e, in stretta unità con gli altri proletari, a quello europeo.
Ai socialisti dei gruppi residuali della Seconda Internazionale che
si riuniscono a Londra per la prima volta da dopo lo scoppio della guerra;
ai laburisti inglesi ed americani specialmente noi diciamo: se volete veramente
rendere un servizio alle classi operaie di tutto il mondo non avete altro
da chiedere ed imporre alle vostre borghesie e ai vostri governi che essi
lascino gli operai tedeschi, italiani ed europei liberi e padroni dei propri
destini che venga fugata anche la più lontana ombra di sospetto per la
responsabilità della guerra e l’accusa insussistente di correità col
nazi-fascismo. Se volte veramente la pace, essa non sarà ottenuta altrimenti
che con l’organizzazione degli Stati Uniti Socialisti d’Europa che soltanto
le classi lavoratrici potranno instaurare.
I socialcomunisti dell’Unità e dell’Avanti! si sono guardati bene dal pubblicare l’ordine del giorno del generale Monter-Chrusciel, già comandante del settore di Zolibor, diramato alle ore 19,30 del 3 ottobre. E pour cause.
Essi però si sono affrettati a diffondere l’O.d.g. del sedicente Comitato di Liberazione polacco, residente a Mosca e addomesticato alla maniera staliniana. La ragione di questo inqualificabile atteggiamento? Non è difficile stabilirla. Basta leggere l’O.d.g. degli eroici difensori di Varsavia.
«Dopo sessanta giorni di aspra lotta, mancandoci gli aiuti necessari, la difesa non era più possibile. Avevamo due possibilità: o trattare con i tedeschi, oppure tentare di aprirci un varco verso le truppe sovietiche. Le autorità sovietiche non ci hanno assicurato di considerarci come soldati regolari. Si trattava quindi o di arrenderci alle truppe tedesche che tali qualità promisero di riconoscerci o di affrontare perfino la deportazione in Siberia».
La caduta di Varsavia avvenuta nelle condizioni oramai a tutti note è un avvenimento troppo importante perché possa essere passato sotto silenzio da noi che nella resa delle forze partigiane polacche vediamo l’effetto di una determinata volontà di non intervento da parte dei dirigenti moscoviti. Quali le ragioni essenziali che hanno indotto i russi a non portare aiuto agli eroici combattenti di Varsavia? E per qual motivo il comando russo ha rifiutato a questi strenui difensori delle libertà essenziali del popolo polacco il trattamento che è stato poi riservato loro dal Comando tedesco?
I funzionari del PCI e del PSI avranno un po’ di pena a rispondere a un quesito così imbarazzante. A meno che essi non vogliano annoverare i duecentomila caduti a Varsavia e i centomila prigionieri partigiani come membri della... Quinta Colonna! Ma l’interpretazione dell’avvenimento non può essere che unica ed irrevocabile. Anzitutto le autorità russe hanno valutato i partigiani polacchi per quello che essi sono realmente, cioè dei combattenti proletari senza padroni, dei combattenti autonomi della classe operaia, lottanti non per la libertà della Polonia dei capitalisti e degli agrari, bensì per l’emancipazione delle classi lavoratrici contro tutti i padroni dell’Est e dell’Ovest, del Nord e del Sud. È contro questo atteggiamento communard che i dirigenti russi hanno inteso reagire negando anzi tutto gli aiuti militari a questi combattenti del fronte proletario mondiale e permettendo in secondo luogo il massacro da parte dei nazisti di 200.000 uomini quasi tutti militanti del Bund socialista rivoluzionario di Varsavia.
Così mentre la storia del tradimento di Mosca perpetrato in Ispagna si è ripetuta a Varsavia, balza fuori preciso e netto quel carattere di classe che sta acquistando il movimento partigiano europeo, respinto fino ad oggi nell’ombra, in ragione della lotta contro il nazifascismo. Carattere che, bisogna precisarlo, è l’elemento classista progressivo scaturito dialetticamente dalla guerra imperialistica in cui la Russia giuoca un ruolo di primo piano.
La resistenza dei partigiani di Varsavia al ricatto politico di Mosca
ha perciò una impronta proletaria ben designata. E come tale essa rappresenta
una prima tappa verso la libertà d’azione delle classi lavoratrici dell’Europa
e del mondo intero.
Ormai da quasi cinque anni la guerra imperialista
infuria in Europa con il suo strascico di miseria, massacri, devastazioni.
Sui fronti russo, francese, italiano, decine di
milioni di operai e contadini si stanno sgozzando per gli esclusivi interessi
di un capitalismo sordido e sanguinario che obbedisce solo alle sue leggi:
profitto e accumulazione.
Nel corso di cinque anni di guerra, l’ultima, quella
della liberazione di tutti i popoli – come vi è stato detto – molti
programmi ingannevoli e parecchie illusioni sono scomparsi, facendo cadere
la maschera dietro la quale si celava l’odioso volto del capitalismo internazionale.
In ogni paese siete stati mobilitati dietro differenti
ideologie, ma con lo stesso scopo, con lo stesso risultato: gettarvi nella
carneficina, gli uni contro gli altri, fratelli contro fratelli di miseria,
operai contro operai.
Il fascismo, il nazional-socialismo, rivendicando
lo spazio vitale per le loro masse sfruttate, non fanno altro che nascondere
la loro feroce volontà di strapparsi dalla profonda crisi che li mina
alla base.
Il blocco degli anglo-russo-americani vorrebbe,
sembra, liberarvi dal fascismo per rendervi le vostre libertà, i vostri
diritti. Ma queste promesse non sono che l’esca. per farvi partecipare
alla guerra per eliminare, dopo averlo partorito, il grande concorrente
imperialista, il fascismo, ormai abbattuto quale modo di dominio e di vita
del capitalismo.
La Carta Atlantica, il progetto della nuova Europa,
non sono altro che veli dietro i quali si cela il vero significato del
conflitto: guerra di brigantaggio, con il suo sinistro seguito di distruzioni
e massacri dei quali la classe operaia subisce tutte le terribili conseguenze.
Proletari,
Vi si dice, vi si vorrebbe far credere che questa
guerra non è come tutte le altre. Vi ingannano. Finché vi saranno sfruttatori
e sfruttati il capitalismo è guerra, la guerra è capitalismo.
La rivoluzione in Russia del 1917 fu una rivoluzione
proletaria. Essa fu la prova evidente della capacità politica del proletariato
di ergersi a classe dominante e di indirizzarsi verso l’organizzazione
della società comunista. Essa fu la risposta delle masse lavoratrici alla
guerra imperialista del 14/18.
Ma i dirigenti dello Stato russo hanno, poi, abbandonato
i principi di questa rivoluzione, hanno trasformato i vostri partiti comunisti
in partiti nazionalisti, dissolto l’Internazionale comunista, aiutato il
capitalismo internazionale a gettarvi nella carneficina.
Se, in Russia, si fosse restati fedeli al programma
della Rivoluzione e dell’internazionalismo, se si fossero costantemente
chiamate le masse proletarie ad unificare le loro lotte contro il capitalismo,
se non si fosse aderito alla mascherata: la Società delle Nazioni, per
l’imperialismo sarebbe stato impossibile scatenare la guerra.
Partecipando alla guerra imperialista in accordo
ad un gruppo di potenze capitaliste, lo Stato russo ha tradito gli operai
russi ed il proletariato internazionale.
Proletari di Germania,
La vostra borghesia conta su di voi, sulla vostra
sottomissione, sulla vostra forza produttiva, per assumere il ruolo imperialista
di dominio del bacino industriale e agrario di Europa. Dopo aver fatto
della Germania una caserma, dopo avervi fatto lavorare quattro anni a ritmi
forsennati per preparare le macchine da guerra, siete stati gettati in
tutti i paesi d’Europa per portare ovunque, come in ogni conflitto imperialista,
rovina e disfacimento.
Il piano del vostro imperialismo è stato mandato
a vuoto dalle leggi di sviluppo del capitalismo internazionale che, dopo
il 1900, ha esaurito ogni possibilità di espansione della forma imperialistica
di dominio e, ancor di più, di ogni espressione nazionalista.
La crisi profonda che mina il mondo e in particolare
l’Europa è la crisi mortale, insolubile della società capitalista.
Solo il proletariato, attraverso la sua rivoluzione
comunista, potrà eliminare le cause di angoscia, di miseria delle masse
lavoratrici, degli operai.
Operai e soldati,
La sorte della vostra borghesia è ormai segnata
sul terreno degli antagonismi imperialisti. Ma il capitalismo internazionale
non può fermare la guerra, perché è in essa la sua unica possibilità
di sopravvivenza.
Le vostre tradizioni rivoluzionarie sono profondamente
radicate nelle lotte di classe del passato. Nel 1918, con i vostri capi
proletari Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, nel 1923, malgrado l’opportunismo
avanzasse già nell’I.C., voi avete impresso nella Storia la vostra volontà
e la vostra potenza rivoluzionaria.
Il nazional-socialismo di Hitler e l’opportunismo
della III Internazionale vi hanno fatto credere che la vostra sorte fosse
legata alla lotta contro il trattato di Versailles. Questa falsa lotta
non poteva che agganciarvi al programma del vostro capitalismo, il quale
si tradusse in uno spirito revanscista e nella preparazione dell’attuale
guerra.
I vostri interessi di proletari sono unicamente
legati agli interessi di tutti gli sfruttati d’Europa e del Mondo intero.
Voi occupate una posizione di prim’ordine per imporre
la fine della mostruosa carneficina. Seguendo l’esempio del proletariato
italiano dovete ingaggiare la lotta contro la produzione bellica, dovete
rifiutarvi di combattere contro i vostri fratelli operai. La vostra rivolta
deve essere una manifestazione della lotta di classe. Deve sboccare in
scioperi e agitazioni di massa. Come nel 1918, il destino della rivoluzione
proletaria dipende dalla vostra capacità di spezzare le catene che vi
avvincono al mostruosa macchina dell’imperialismo tedesco.
Operai, lavoratori in Germania,
Siate stati deportati per farvi costruire ordigni
di distruzione. Per ogni operaio che giunge, è un operaio tedesco che
parte per il fronte.
Qualunque sia la vostra nazionalità, voi siete
degli sfruttati. Il solo vostro nemico è il capitalismo tedesco e internazionale,
vostri compagni sono gli operai tedeschi e del mondo intero. Portate con
voi le tradizioni e le esperienze delle lotte di classe del vostro paese
e del monto intero. Voi non siete degli «stranieri». Le vostre rivendicazioni,
i vostri interessi, sono identici a quelli dei vostri compagni tedeschi.
Partecipando alla lotta di classe nelle officine, nei luoghi di lavoro,
contribuirete efficacemente a spezzare il corso della guerra imperialista.
Operai Francesi,
Durante gli scioperi del 1936, tutti i partiti hanno
brigato per trasformare le vostre giuste e legittime rivendicazioni di
classe in una manifestazione di adesione alla guerra che si preparava.
«L’era della prosperità» che i demagoghi del Fronte Popolare vi presentavano
come in pieno dispiegamento, in realtà era solo la crisi profonda del
capitalismo francese.
I vostri effimeri miglioramenti nelle condizioni
di vita e di lavoro non erano la conseguenza di una ripresa economica,
ma erano dettati dalla necessità di mettere in moto l’industria di guerra.
L’invasione della Francia è stata sfruttata da
tutti i responsabili del conflitto, di destra e di sinistra, per instillare
nel vostro animo una volontà di rivincita e di odio contro i proletari
tedeschi e italiani che, come voi, non hanno alcuna responsabilità nello
scoppio della guerra e, come voi, subiscono le terribili conseguenze di
un macello voluto e preparato da tutti gli Stati capitalisti.
Il governo Pétain-Laval vi parla della Rivoluzione
Nazionale. È il più volgare imbroglio. Il metodo più reazionario per
farvi subire senza esitare il peso della disfatta militare a esclusivo
vantaggio del capitalismo.
Il Comitato d’Algeri vi fa baluginare il ritorno
all’abbondanza, alla prosperità d’anteguerra. Qualunque, sia il colore
o la forma del governo di domani, le masse lavoratrici di Francia e degli
altri paesi d’Europa dovranno pagare un pesante tributo di guerra agli
imperialisti anglo-russo americani, oltre alle rovine e alle distruzioni
causate dagli eserciti in lotta.
Proletari Francesi,
Troppi di voi tendono a credere, a sperare in un
benessere portato dalle armate, siano esse inglesi, americane o russe.
Gli intrighi ed i contrasti che già si manifestano
in seno a questa «trinità» di ladroni riguardo alle future ripartizioni,
fanno presagire che le condizioni che verranno imposte ai proletari saranno
dure se voi non imboccate la via della lotta di classe.
Troppi di voi sono divenuti ausiliari del capitalismo,
partecipando alla guerra partigiana, espressione del più smaccato nazionalismo.
Vostri nemici non sono né il soldato tedesco, né
il soldato inglese o americano, ma il loro capitalismo che li spinge alla
guerra, alla strage, alla morte. Il vostro nemico è il vostro capitalismo,
sia esso rappresentato da Laval o da De Gaulle. La vostra libertà non
dipende né dal destino, né dalle tradizioni della vostra classe dominante,
ma dalla vostra indipendenza in quanto classe proletaria.
Voi siete i figli della Comune di Parigi e solo
ispirandovi ad essa a ai suoi principi potrete riuscire a spezzare i lacci
di una schiavitù che vi incatena al sorpassato sistema di dominio capitalistico:
le tavole del 1789 e le leggi della Rivoluzione borghese.
Proletari di Russia,
Nel 1917, con il vostro partito bolscevico e con
Lenin, voi avete rovesciato il regime capitalista per instaurare la prima
Repubblica dei Soviet. Il vostro magnifico gesto di classe ha aperto il
periodo storico della lotta decisiva fra le due società antagoniste: la
vecchia, borghese, destinata a scomparire sotto il peso delle sue contraddizioni;
la nuova, il proletariato che si innalza a classe dominante per dirigersi
verso la società senza classi, il comunismo.
Anche in quell’epoca la guerra imperialista colpiva
in pieno. Milioni di operai cadevano sui campi di battaglia del capitalismo.
Sull’esempio della vostra lotta risolutiva, sorgeva in seno alle masse
operaie la volontà di farla finita con l’inutile massacro. Spezzando il
corso della guerra, la vostra rivoluzione divenne il programma, la bandiera
di lotta degli sfruttati del mondo. Il capitalismo, roso dalla crisi economica
aggravata dalla guerra, tremò di fronte al movimento proletario che cresceva
in tutta Europa.
Accerchiati dalle armate bianche e da quelle del
capitalismo internazionale che volevano prendervi per fame, siete riusciti
a liberarvi dalla stretta controrivoluzionaria; grazie all’eroico apporto
del proletariato europeo e internazionale, che scendeva sul terreno della
lotta di classe, impedendo alla borghesia coalizzata di intervenire contro
la rivoluzione proletaria.
La lezione fu decisiva. Da allora la lotta di classe
si svilupperà sul terreno internazionale, il proletariato formerà i suoi
P.C. e la sua internazionale sul programma riaffermato dalla vostra Rivoluzione
Comunista. La borghesia si orienterà alla repressione del movimento operaio
e alla corruzione della vostra rivoluzione e del vostro potere.
La guerra imperialista attuale vi trova non col
proletariato ma contro di esso. Vostri alleati non sono più gli operai,
ma la borghesia. Non difendete più la costituzione sovietica del 1917,
ma la patria socialista. Non avete più compagni come Lenin e gli altri
a lui vicini, ma marescialli stivalati e decorati come in tutti i paesi
capitalisti, simbolo di un militarismo sanguinario, carnefice del proletariato.
Vi dicono che da voi non vi sia capitalismo, ma
il vostro sfruttamento e simile a quello di tutti i proletari, e la vostra
forza lavoro scompare nella voragine bellica e nelle casse del capitalismo
internazionale. La vostra libertà è quella di farvi ammazzare per aiutare
l’imperialismo a sopravvivere. Il vostro partito di classe è scomparso,
i vostri soviet sono stati cancellati, i vostri sindacati sono caserme,
i vostri legami con il proletariato internazionale sono stati recisi.
Compagni, operai in Russia,
Da voi, come dappertutto il capitalismo ha seminato
rovina e miseria. Le masse proletarie d’Europa, come voi nel 1917, aspettano
il momento favorevole per insorgere contro le terrificanti condizioni di
vita imposte dalla guerra. Come voi, si dirigono contro tutti i responsabili
di questo terribile massacro, siano essi fascisti, democratici o russi.
Come voi, essi cercheranno di abbattere quel sanguinario regime d’oppressione
che è il capitalismo.
La loro bandiera sarà la vostra bandiera del 1917.
Il loro programma sarà il vostro programma, che i vostri dirigenti attuali
vi hanno strappato: la Rivoluzione Comunista.
Il vostro Stato è coalizzato con le forze della
controrivoluzione capitalista. Voi sarete solidali, fraternizzerete con
i vostri compagni di lotta, i vostri fratelli; lotterete al loro fianco
per ristabilire in Russia e negli altri paesi le condizioni per la vittoria
della Rivoluzione Comunista Mondiale.
Soldati inglesi ed americani,
Il vostro imperialismo non fa che sviluppare il
suo piano di colonizzazione e schiavitù di tutti i popoli per cercare
di salvarsi dalla profonda crisi che avviluppa tutta la società.
Già prima della guerra, malgrado il dominio coloniale
e l’arricchimento della vostra borghesia, avete subito disoccupazione e
miseria, i disoccupati erano milioni.
Contro scioperi per legittime rivendicazioni, la
vostra borghesia non ha esitato ad impiegare il più barbaro mezzo di repressione:
i gas.
Gli operai di Germania, Francia, Italia e Spagna
hanno dei conti da regolare con le rispettive borghesie, responsabili allo
stesso titolo della vostra dell’immondo massacro.
Vi vorranno far svolgere il ruolo di gendarmi, scagliarvi
contro le masse proletarie in rivolta. Rifiutatevi di sparare, fraternizzate
con i soldati e i lavoratori d’Europa. Queste lotte sono le vostre lotte
di classe.
Proletari d’Europa,
Voi siete circondati da un mondo di nemici. Tutti
i partiti, tutti i programmi sono sprofondati nella guerra; tutti gioiscono
delle vostre sofferenze, tutti uniti per salvare dal crollo la società
capitalista.
Tutta la cricca di canaglie al servizio dell’alta
finanza, da Hitler a Churchill, da Laval a Pétain, da Stalin a Roosevelt,
da Mussolini a Bonomi, si pone sul terreno della collaborazione con lo
Stato borghese per predicarvi ordine, lavoro, disciplina, patria il che
si traduce nella perpetuazione della vostra schiavitù.
Malgrado il tradimento dei dirigenti dello Stato
russo, gli schemi, le tesi, le previsioni di Marx e di Lenin trovano nell’alto
tradimento della situazione attuale la loro strepitosa conferma.
Mai la divisione di classe tra sfruttati e sfruttatori
è stata così netta é così profonda.
Mai la necessità di farla finita con un regime
di miseria e di sangue è stata tanto perentoria.
Dopo le stragi sui fronti, dopo i massacri dei bombardamenti
aerei, dopo cinque anni di restrizioni, la fame fa la sua comparsa. La
guerra impazza su tutto il continente, il capitalismo non sa, non può
porre fine a questa guerra.
Non è aiutando l’uno o l’altro gruppo delle due
forme di dominio capitalistico che voi abbrevierete il conflitto.
Questa volta è il proletariato italiano ad indicarvi
la via della lotta, della rivolta contro la guerra.
Come fece Lenin nel 1917, non esiste altra alternativa,
altra via da seguire se non la trasformazione della guerra imperialistica
in guerra civile.
Finché esisterà il regime capitalista per il proletariato
non ci sarà né pane, né pace, né libertà.
Proletari comunisti,
Ci sono molti partiti, troppi partiti. Ma tutti,
fino ai gruppett del trotskismo, sono sprofondati nella controrivoluzione.
Manca un solo partito: il partito politico di classe
del proletariato.
Sola la Sinistra Comunista è restata con il proletariato,
fedele al programma del marxismo, alla Rivoluzione comunista. È solamente
su questo programma che sarà possibile ridare al proletariato le sue organizzazioni,
le sue armi adatte a condurlo alla lotta, alla vittoria. Queste armi sono
il nuovo partito Comunista e la nuova Internazionale.
Contro ogni opportunismo, contro ogni compromesso
sul terreno della lotta di classe, la Frazione vi chiama ad unire i vostri
sforzi per aiutare il proletariato a liberarsi dalla morsa del capitalismo.
Contro le forze coalizzate del capitalismo deve levarsi la forza invincibile
della classe operaia.
Operai e soldati di tuti i paesi!
Solo a voi è fermare il terribile massacro senza
precedenti nella storia.
Operai, bloccate in ogni paese la produzione destinata
ad uccidere i vostri fratelli, le vostre donne, i vostri figli.
Soldati, cessate il fuoco, abbassate le armi! Fraternizzate
al di sopra delle artificiali frontiere del capitalismo.
Unitevi nel fronte internazionale di classe.
Viva la fraternizzazione di tutti gli sfruttati!
Abbasso la guerra imperialista!
Viva la Rivoluzione Comunista Mondiale!
«PARTITO COMUNISTA ITALIANO
«Federazione Provinciale di Bari
«La Segreteria
«
«Bari, 18 agosto 45
«Al Partito (cosiddetto) Comunista Internazionalista
«Via Ceresio, 12 - Milano
«
«La risposta che merita la V/circolare dcl 21 u.s.
è questa: Siete schifosi. Non siete nemici del proletariato; siete traditori
e come tali bisogna trattarvi.
«
«W IL PARTITO COMUNISTA BOLSCEVICO
«MORTE AI CANI trotskISTI
«
«p. Il Segretario
«(A. Di Donato)»
La lettera che riportiamo in facsimile è un ennesimo
documento dei «metodi» usati dal centrismo contro chi continua la via
additata da Marx e da Lenin. Tanta è la miseria del suo contenuto che
non varrebbe la pena di pubblicarla, se essa non costituisse una nuova,
significativa prova della diretta responsabilità del PCI nell’assassinio
di Mario Acquaviva.
La lettera si riferisce alla nostra circolare del
21 u.s. che fu, com’è noto, indirizzata a tutti i partiti a base proletaria
e a tutte le sezioni della Camera del Lavoro per la costituzione di un
giurì proletario, il solo idoneo ad esaminare il nostro atto d’accusa
e i documenti inerenti al delitto Acquaviva.
Era logico che la circolare non venisse inviata
al PCI parte in causa. Come mai la federazione di Bari di questo degno
partito ci invia la lettera riprodotta, come se si trattasse di una risposta?
Evidentemente i signori centristi di Bari si sentono
«padroni» alla Camera del Lavoro e si arrogano il diritto di risponderci
direttamente, con un frasario degno dei più stupidi gerarchetti di provincia
del periodo mussoliniano.
Non più le sottili calunnie che volano nell’aria,
le accuse generiche contro il nostro partito, la subdola provocazione,
le minacce ai singoli compagni e il silenzio «ufficiale» intorno al Partito
Comunista Internazionalista. Il centrismo non esita ad assumere atteggiamenti
dittatoriali e ci dona, grazie all’incoscienza di uno dei suoi piccoli
funzionari, la «dichiarazione scritta» con la quale si riconosce implicitamente
responsabile dell’assassinio politico di Mario Acquaviva: Siete dei
traditori e come tali bisogna trattarvi.
Si calmino dunque i «compagni» della federazione
di Casale del PCI: se essi strisciano gesuiticamente per scaricarsi ogni
responsabilità di «mandanti» nell’assassinio di Acquaviva, i loro confratelli
di Bari hanno la faccia ed il coraggio di assumersela.
Eccellenza Togliatti, attenzione
a certi vostri servitori troppo zelanti e... troppo imprudenti!