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Il testo che segue ripropone all’attenzione dei lettori e proletari che seguono la nostra stampa il lavoro passato e presente del partito sulle lotte sociali, il processo di formazione degli Stati e le guerre fra questi che hanno interessato nell’arco dell’ultimo cinquantennio l’area medio-orientale, crocevia di tre continenti e inevitabile punto di contatto e di scontro dei contrapposti schieramenti imperialisti.
Il testo ripercorre il filo degli avvenimenti che brevemente riassumiamo.
Primo dopoguerra, crollo dell’impero Turco ed installazione degli imperialismi francese ed inglese nell’intera area, anche per la debolezza – non diciamo della borghesia araba, classe inesistente – dei legami tribali fra i vari sceriffi, principi e re arabi: panarabismo dalle polveri bagnate!
Negli anni Trenta, cresce enormemente l’immigrazione di ebrei in Palestina, allora sotto il mandato inglese, immigrazione risultato della crisi economica europea e mondiale e della politica antisemita di Germania e Russia. Gli ebrei internazionali incominciano l’esproprio prima economico poi anche armato delle popolazioni contadine arabe dagli arretrati sistemi di conduzione pre-borghese dei terreni: la proprietà borghese "ebrea" schiaccia le forme di proprietà "arabe" appena pre-borghesi.
Inevitabilmente – non solo per volere dell’imperialismo internazionale e di quello statunitense, nuovo signore dell’area – ma in quanto espressione del moderno capitalismo – nel secondo dopoguerra si forma lo Stato d’Israele, battendo con facilità gli Stati arabi, deboli, disuniti e per niente espressione di antimperialismo e rivoluzionarismo.
Nel secondo dopoguerra rinasce a vita effimera il panarabismo, profeta Nasser, ma le giovani borghesie arabe in mille modi legate e dipendenti dal mercato mondiale sono capaci solo di misere imprese "nazionali", impaurite dalle loro plebi povere e dal loro proletariato. Anche questa seconda ondata di panarabismo è un nulla di fatto.
L’espulsione forzata di popolazione araba dai territori d’Israele, la guerra del 1967 con una nuova grave sconfitta militare dei paesi arabi e l’espansione territoriale ed economica dello Stato di Tel Aviv, sono i fatti che concorrono a determinare quella che sarà chiamata "questione palestinese". Si costituisce l’OLP e le diane antimperialiste e barricadiere dei falsi gruppi di "sinistra" iniziano ad esaltare ed incensare i "combattenti fedayin". Il Partito fa argine ai facili pietismi come alle illusioni, di stampo guevarista e maoista, che l’imperialismo si possa battere alla periferia del suo sistema economico, nel "Terzo Mondo" e che questo compito lo possa assolvere il popolo; fin da allora venne scandito che la risoluzione del problema delle plebi povere arabe espulse dalla Palestina non era assolutamente alla portata dei fattori di nazione o di razza, ma di forze schiettamente di classe che ripudiassero ogni guerra ed ogni frontiera nazionale, etnica o religiosa.
Consegna questa che fu nettamente ripetuta pure di fronte alla terza guerra arabo-israeliana nel 1973.
D’intermezzo alle due guerre si ha – nel 1970 – il "settembre nero" con lo Stato arabo della Giordania che massacra i fedayin, arabi sì, ma nullatenenti. È la prova pratica che quello che andavamo scrivendo altro non era che la rappresentazione reale dei rapporti sociali e di classe: nazionalità e razza hanno compiuto il loro compito storico, il testimonio è alla classe!
Il massacro di plebi e di proletari del "settembre nero" verrà tragicamente ripetuto con accresciuta ferocia nel 1976: Tel El Zaatar, altra conferma tragica della fine di ogni spazio nazionale e razziale e di converso del ruolo controrivoluzionario che l’OLP deve svolgere, inevitabilmente, nella intera zona.
Gli ultimi avvenimenti sono conosciuti e purtroppo non apportano nessuna nuova lezione; sono solo ulteriori conferme di verità già rintracciate, già conosciute, sono quindi solo manifestazione di quanto la "controrivoluzione maestra" sia salda e grandeggiante. Ma se questa è l’innegabile forza dell’avversario, può il Partito Rivoluzionario disertare il posto di combattimento che la storia gli ha riservato? Mille volte no!
Gli avvenimenti del Medio Oriente non si leggono solo come un periodico e puntuale ripresentarsi della potenza controrivoluzionaria dell’imperialismo internazionale, dello Stato d’Israele, degli Stati arabi, della stessa OLP, ma anche come manifestazione della incapacità da parte di tutti i singoli attori del dramma di neutralizzare le forze sociali da loro stessi evocate e provocate: guerre, crisi economica, miseria e sfruttamento bestiale hanno alimentato ed alimentano rabbia e disperazione di plebi povere e proletarie, oggi arginate con i miti di nazione e di religione, ma che minacciano di costituire domani il grande esercito dei senza riserve che travolgerà nazionalismi, frontiere e Stati progressivi e reazionari.
Ciò sarà possibile alla sola condizione che il Partito della Rivoluzione Comunista mantenga fede, senza deflettere, al compito proprio di studiare e propagandare quelle che sono – nostra vecchia posizione – le "lezioni della controrivoluzione", di ribadire con nettezza e vigore tutte le consegne organizzative e tattiche della Sinistra. Questo studio, questo propagandare, questo ribadire è l’unico modo per abbreviare lo stillicidio inutile delle sofferenze delle plebi povere e del proletariato del Medio Oriente, incatenato al pari di quello occidentale ai falsi miti della Patria, della Pace e dell’Antifascismo.
Tutte le altre strade più "romantiche", più di
successo, più "di
massa" che da questa ardua si differenziano, sono ulteriori intralci
alla
ripresa dell’internazionale moto di classe, strade diverse che dalla
Rivoluzione divergono per mai rincontrarla, giusta la consegna prima
della
Sinistra: chi non è con noi è contro di noi!
Nell’affrontare tutte le questioni relative al processo rivoluzionario mondiale, il Partito Comunista si distingue da ogni altro partito e raggruppamento per il fatto che dichiara che ogni questione è risolubile coi dati di principio, e che denuncia come opportunismo la pretesa opposta di risolvere coi dati dell’ultimo momento, moda quanto mai scema che giunge fino al punto di sostenere di non potere dire nulla di nessuna questione se non si conoscono le "ultime della notte". Questo modo di affrontare le questioni si riconduce alla caratteristica di fondo dell’opportunismo, che è quella di non volersi legare le mani con nessun principio per poter agire liberamente nella pratica (“libertà di tattica”) e che in dottrina significa svalutazione della teoria, o quanto meno affermazione della scindibilità della pratica dalla teoria.
Tale duplice modo di affrontare le questioni sociali corrisponde in definitiva alla contrapposizione tra il metodo borghese-opportunista e quello marxista. Il primo ne dà una interpretazione secondo principi astratti, valutando i fenomeni sociali come emanazione di tali principi astratti (l’unica differenza tra i borghesi e gli opportunisti è che i borghesi lo affermano consapevolmente e gli opportunisti vi giungono senza averne coscienza); il secondo, il marxismo li valuta in relazione ai rapporti di classe e quindi ai modi di produzione e alle forme di Stato; così anche la Questione nazionale, che l’opportunismo e le correnti apertamente borghesi valutano astrattamente, e che il marxismo invece considera in stretta relazione con tutte le altre questioni, e, soprattutto, incardina nella sua peculiare teoria dello Stato, definendo prima di tutto il fatto nazionale legato alla formazione di un mercato territoriale caratterizzato dal medesimo diritto positivo.
«Nazione è dunque un circuito geografico nell’interno del quale il traffico economico è libero, il diritto positivo è comune, e di gran massima vi è una identità di razza e lingua. Nel senso classico la nazione lascia fuori la massa schiava e accomuna in quei rapporti i soli cittadini liberi, nel senso moderno e borghese la nazione comprende tutti quelli che vi sono nati. Se abbiamo trovato prima della grande tappa storica greco-romana Stati che non erano nazioni, e se ne ritroviamo dopo questa e prima della tappa borghese, non abbiamo mai una nazione senza Stato. Tutta questa trattazione in senso materialista del fenomeno nazionale, si incardina quindi ad ogni passo sulla teoria marxista dello Stato, ed è qui il divario tra i borghesi, e noi. La formazione delle nazioni è un fatto storico reale e fisico quanto altri, ma quando è raggiunta la nazione unitaria statalmente, essa è sempre divisa in classi sociali, e lo Stato non è espressione – come per loro – di tutto l’insieme nazionale come aggregato di persone, o sia pure di comuni e distretti, ma l’espressione e l’organo degli interessi della classe economicamente dominante» (da Fattori di razza e nazione, 1953).
Da queste considerazioni di principio discende direttamente e necessariamente l’affermazione di una nostra posizione fondamentale e storica: il sostegno che il marxismo ha sempre affermato di dover dare ai movimenti nazionali non è mai disceso da considerazioni astratte e aprioristiche, ma da valutazioni strettamente collegate ai fatti storici rivoluzionari.
Oggi è di moda vedere Rivoluzioni in ogni stormir di fronda, soprattutto nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo: gli ideologi super-opportunisti terzomondisti sostengono che lo "spirito rivoluzionario" sarebbe storicamente travasato dal proletariato mondiale ai movimenti popolari del Terzo Mondo, in quanto espressione della lotta per lo "sviluppo" contro l’oppressione esercitata su questi popoli dagli Stati imperialisti, in specie dall’imperialismo occidentale. Alla analisi materialistica e scientifica della evoluzione storica dei modi di produzione e dello scontro tra le classi sostituiscono la lotta tra due emanazioni dello "spirito": l’idea di "sviluppo" – il bene in sé – contro l’idea di "sottosviluppo" – il male in sé. Questi idealisti travestiti da marxisti parlano continuamente di rivoluzione ed hanno finito per far diventare questo poderoso concetto una gelatina indifferenziata. Il marxismo usa il termine rivoluzione solo in riferimento a fatti storici ben definiti: rivoluzione antischiavista, rivoluzione borghese antifeudale, rivoluzione comunista anticapitalista.
Solo in determinate epoche storiche le classi lottano apertamente tra di loro dispiegando tutto il loro potenziale di scontro. Al contrario, in lunghissimi periodi storici le classi sembrano essere sparite dalla scena e le loro forze antagoniste agiscono solo sotterraneamente, preparando l’esplosione futura: in tali epoche sarebbe vano ricercare quegli sconvolgimenti della base economica della società che soli danno il diritto di chiamare tali fatti col termine rivoluzione. L’opportunismo, parlando di rivoluzione ad ogni pur minimo accenno di "movimenti", ha finito per dimenticare del tutto il nesso fondamentale e l’insieme dei rapporti tra base economica e sovrastrutture. Di più: ha ormai perso per strada perfino il significato di tali termini.
Per evitare ogni possibile confusione anche solo terminologica bisogna allora ricordare che il marxismo parla di forze produttive riferendosi alle materiali forze fisiche umane e naturali; i rapporti di produzione sono i rapporti sociali determinati dalla produzione sociale e variano a seconda dei modi di produzione (asiatico, antico, feudale, borghese). Con espressione riflettente non l’aspetto economico, ma quello giuridico, e perfettamente analoga, i rapporti di produzione sono detti rapporti di proprietà (sulla terra, sullo schiavo, sul prodotto del lavoro del servo, sulle merci) ed esprimono lo stesso rapporto sociale tra le classi. Su tale base economica si erge la sovrastruttura giuridico-politica (léggi, magistratura, potere centrale) che ha un suo aspetto materiale in quanto costituisce lo strumento dell’uso della violenza e cambia radicalmente nell’alternarsi dei vari modi di produzione.
Tale cambiamento materiale della direzione verso cui viene usata la violenza sociale non ha niente a che vedere con la coscienza che di tali cambiamenti si produce nelle menti degli uomini e perfino in quelle degli appartenenti alla classe dominante: tale coscienza distorta è rappresentata dalla cultura del tempo e si condensa nella ideologia della classe dominante, che dunque costituisce una sovrastruttura della sovrastruttura.
Con le rivoluzioni borghesi il trapasso rivoluzionario si presenta come passaggio del potere dalle vecchie caste alla borghesia mediante la nuova sovrastruttura giuridico politica rappresentata dalla democrazia elettiva-parlamentare. I vecchi rapporti di produzione e le vecchie forme di proprietà vengono infrante durante le vicende rivoluzionarie: alla servitù subentra il lavoro salariato e il libero commercio interno, anche della terra. Le forze produttive si esaltano con l’assorbimento nelle maestranze di fabbrica degli ex-contadini servi e degli artigiani. Non altrettanto rapidamente si modifica la sovrastruttura ideologica, che anzi subisce una lenta evoluzione che comincia già prima del fatto rivoluzionario e non terminerà che con la rivoluzione comunista. Sarebbe perfettamente inutile quindi chiedere alla coscienza che la borghesia ha di se stessa la spiegazione della sua funzione rivoluzionaria: solo il marxismo può andare oltre i limiti ideologici della cultura borghese per analizzare i rapporti materiali tra struttura economica e sovrastruttura giuridico-politica. Ecco perché per la borghesia gli stessi avvenimenti legati alla sua rivoluzione sono determinati non da forze materiali, ma dall’affermarsi dei principi eterni, espressione della "natura umana", dall’affermazione della "Ragione", dal riconoscimento da parte di tutti gli uomini dei valori assoluti derivanti dai "diritti naturali".
Il "diritto delle nazioni" alla loro libertà e alla loro autonomia riassume compiutamente la coscienza di sé della borghesia nella sua fase rivoluzionaria. Per la borghesia un tale diritto è una manifestazione del "diritto naturale", per il marxismo tale aspirazione corrisponde al fatto rivoluzionario della creazione del mercato nazionale entro determinati limiti territoriali che, assoggettato allo stesso diritto positivo, permette alle forze produttive di svilupparsi per superare la stessa rivoluzione borghese in direzione della rivoluzione proletaria. Dunque ogni rivendicazione nazionale è sostenuta dal marxismo in via del tutto transitoria, come fase momentanea della doppia rivoluzione.
«La lotta della borghesia è nazionale e per condurla essa forma la sua unione, che trasmette allo stesso proletariato fin che lo adopera come alleato: la borghesia inizia la sua lotta politica costituendosi entro ogni Stato moderno in classe nazionale rivoluzionaria. Il proletariato non ha carattere nazionale ma internazionale. Questo non si traduce nel teorema: il proletariato non partecipa a lotte nazionali, ma nell’altro: la borghesia ha il suo postulato nazionale nel suo programma rivoluzionario, la sua vittoria distrugge il carattere anazionale della società medievale. Il proletariato non ha nel programma, che attuerà con la sua rivoluzione e con la conquista del potere politico, il postulato nazionale, cui oppone il postulato dell’internazionalismo. L’espressione nazionale borghese ha senso marxista ed è in data tappa storica richiesta rivoluzionaria. La espressione nazione in generale ha senso idealista e antimarxista. La espressione nazione proletaria, non ha nessun senso, né idealista né marxista» (Fattori...).
L’opportunismo più marcio arriva a queste nostre stesse conclusioni, ma sostiene che tali posizioni sono valide solo sul piano teorico e storico, mentre sul piano tattico è necessario integrarle con le necessarie mediazioni, che appunto prevedono la partecipazione fisica dei comunisti in appoggio a quei movimenti che lottano per rivendicazioni nazionali anche quando non hanno più il significato di quelle sostenute dalla borghesia nell’epoca in cui questa svolgeva una funzione rivoluzionaria.
A tale razza d’opportunismo noi ribattiamo innanzi tutto che si rinnega tutto il marxismo se potessimo pervenire alla conclusione che tra le posizioni di principio e l’attività materiale ci possa essere contraddizione o, in altri termini, se la pratica potesse negare la teoria: mediare non significa agire nella direzione contrapposta ai principi, ma usare nella pratica quei mezzi che in apparenza possono sembrare talvolta contraddire i principi, ma che valutati dinamicamente sono perfettamente coerenti con questi.
Inoltre l’appoggio alle rivendicazioni nazionali borghesi – beninteso quando sono poste sul terreno rivoluzionario – ha sempre avuto il significato di favorire il rafforzamento dell’organizzazione proletaria ai fini del superamento della stessa rivoluzione borghese e quindi del suo ambito nazionale.
Storicamente quindi anche il problema tattico dell’appoggio alle rivendicazioni nazionali si pone, per dei marxisti degni di questo nome, in termini dialettici, cioè negando ogni validità aprioristica a tali rivendicazioni, nel momento stesso in cui il proletariato non può non lottare a fianco degli elementi nazionali borghesi e piccolo borghesi, ricollegandosi così al suo specifico programma che non è nazionale, ma internazionale.
«Il nodo dialettico della questione sta non nell’identificare una alleanza nella fisica lotta ai fini rivoluzionari antifeudali tra Stati borghesi e classe e partito operaio, con un rinnegamento della dottrina e della politica della lotta di classe, ma nel mostrare che anche nelle condizioni storiche e nelle aree geografiche in cui quella alleanza è necessaria e ineluttabile, deve restare integra ed essere anzi portata al massimo la critica teorica programmatica e politica ai fini e alle ideologie per cui combattono gli elementi borghesi e piccolo borghesi» (Fondamenti...).
La questione nazionale appare oggi di difficile soluzione perché essa pone al Partito dei compiti tattici che la sua scarsa consistenza sociale gli impedisce di assolvere, così come di difficile soluzione appare la questione sindacale ed in genere ogni problema di tattica. Tuttavia, come il Partito pur ridotto ai minimi termini non rinuncia volontariamente a svolgere, per quanto possibile, una sua azione sindacale, così ha sempre dichiarato e dichiara che non rinuncia ad indicare nei giusti termini la sua funzione pratica nelle eventuali rivoluzioni nazionali che ancora la storia può porre all’ordine del giorno.
«Sarebbe errore gravissimo il non vedere e il negare che nel mondo presente hanno ancora effetto ed influenza grandissima i fattori etnici e nazionali, ed è ancora attuale l’esatto studio dei limiti di tempo e di spazio in cui sommovimenti per l’indipendenza nazionale, legati ad una rivoluzione sociale contro forme precapitalistiche (asiatiche, schiaviste, feudali) hanno ancora il carattere di condizioni necessarie del trapasso al socialismo, con la fondazione di Stati nazionali di tipo moderno (ad esempio in India, Cina, Egitto, Persia, ecc.)» (Fondamenti...).
Per poter svolgere tale compito con consapevolezza e tenendo sempre ben di mira l’obiettivo della rivoluzione proletaria internazionale è necessario prima di tutto rendersi conto di quali classi lottano veramente per una soluzione rivoluzionaria della questione nazionale. Per il marxismo è di fondamentale importanza la distinzione tra Rivoluzione borghese dal basso e radicale e Rivoluzione borghese dall’alto, perché, mentre la prima può trasformarsi in Rivoluzione proletaria, in quanto durante il suo processo viene rafforzato efficacemente il partito proletario, non altrettanto può dirsi della seconda. A tale proposito è posizione storica del marxismo che la borghesia, dopo le rivoluzioni inglese e francese, non costituisce più una classe rivoluzionaria in senso radicale nemmeno dal punto di vista della rivoluzione borghese: tale ripiegamento storico in senso conservatore è già stato notato sia da Marx, in riferimento alla rivoluzione tedesca del 1848, sia da Lenin in riferimento a quella russa.
«Le rivoluzioni del 1648 e del 1789 non furono rivoluzioni inglesi e francesi: furono rivoluzioni di stile europeo. Non segnarono la sola vittoria di una classe particolare della società sul vecchio ordine politico, ma la proclamazione dell’ordine politico per la nuova società europea. In esse la borghesia vinse, ma la vittoria della borghesia fu allora la vittoria di un nuovo ordine sociale (...) Nella rivoluzione prussiana di marzo nulla di tutto ciò (...) La borghesia prussiana non era, come la borghesia francese del 1789, la classe che rappresenta l’intera società moderna di fronte agli esponenti della vecchia società: i re e i nobili. Era precipitata al livello di una specie d’ordine rivolto contro la Corona non meno che contro il popolo, ansioso di resistere ad entrambi, indeciso nei confronti di ognuno dei suoi avversari perché se li vedeva sempre davanti o dietro; incline fin dall’inizio al tradimento del popolo e al compromesso col simbolo coronato della vecchia società perché esso stesso apparteneva a quest’ultima; incarnante non gli interessi di una società nuova contrapposta ad una società vecchia, ma rinnovati interessi all’interno di una società invecchiata (...) La borghesia francese cominciò col liberare i contadini. E, coi suoi contadini, conquistò l’Europa. La borghesia prussiana era talmente irretita negli interessi più angusti e contingenti, che si beffò di questi suoi alleati diretti, e così ne fece degli arnesi nelle mani della controrivoluzione feudale» (Marx, in una serie di articoli della Neue Reinische Zeitung, del 10, 16 e 31 dicembre 1848, sotto il titolo "La borghesia e la controrivoluzione").
«Il concetto di rivoluzione borghese non significa forse che solo la borghesia può compierla? Su questa opinione spesso deviano i menscevichi. Ma questa opinione è una caricatura del marxismo. Borghese per il suo contenuto economico-sociale, il movimento di liberazione non è tale per le sue forze motrici. Le sue forze motrici possono essere non la borghesia, ma il proletariato e i contadini. Perché ciò è possibile? Perché il proletariato e i contadini soffrono ancor più della borghesia per le sopravvivenze della sei virtù della gleba, hanno ancor più bisogno della libertà e della distruzione del giogo dei grandi proprietari fondiari. La borghesia invece si vede minacciata dalla completa libertà (...) Quindi l’aspirazione della borghesia a far cessare la rivoluzione a mezza strada, con una mezza libertà, con una transazione con il vecchio potere e i grandi proprietari fondiari. Questa aspirazione ha le sue radici negli interessi di classe della borghesia e si è manifestata con tanta vivezza nella rivoluzione borghese tedesca che il comunista Marx concentrò allora tutto il mordente della politica proletaria nella lotta contro la borghesia conciliatrice. Da noi in Russia la borghesia è ancor più vile, e il proletariato è invece molto più cosciente di quello tedesco del 1848. Da noi la vittoria completa del movimento democratico borghese è possibile unicamente a dispetto della borghesia liberale conciliatrice, soltanto nel caso che le masse contadine democratiche seguano il proletariato nella lotta per la completa libertà e per tutta la terra» (Lenin, La questione agraria e le forze della rivoluzione, del 1 aprile 1907; riportato in Comunismo n.8).
C’è una radice economica fondamentale che fa della borghesia una classe non più rivoluzionaria in senso radicale alla scala storica e tale radice consiste nel fatto che una radicale rivoluzione borghese significa la completa distruzione delle vecchie forme di proprietà feudali o arcaiche della terra, soluzione alla quale non può più giungere la borghesia come classe perché essa si è ormai "territorializzata", come annotava Marx nelle Teorie sul Plusvalore, e tale fenomeno ormai interessa anche quei paesi dove è ancora da compiere la stessa rivoluzione borghese.
Dunque solo il proletariato e i contadini poveri possono lottare per una soluzione rivoluzionaria-radicale della questione nazionale. Ciò è importante perché ci spiega la necessità di condurre la più aspra critica dei programmi nazionali dei partiti borghesi, anche quando si tratta di dover appoggiare giustamente le rivendicazioni di parità di diritti delle nazionalità oppresse. Tali partiti liberal-borghesi sono soliti sostenere con argomentazioni ideologici la necessità della separazione “culturale” delle nazionalità. Tale necessità era sostenuta per esempio dai nazionalisti ucraini e dal Bund ebraico in Russia negli anni precedenti la prima grande guerra. A tali partiti Lenin rispondeva ferocemente riproponendo, con argomentazioni di principio, il programma rivoluzionario comunista nella sua integrità.
«La conclusione è che ogni nazionalismo liberale borghese semina la corruzione più profonda nell’ambiente operaio e procura i danni più gravi alla causa della libertà e della lotta di classe proletaria. E questo è tanto più pericoloso in quanto la tendenza borghese (e borghese-feudale) si trincera dietro la parola d’ordine della “cultura nazionale”. In nome della cultura nazionale – bielorussa, polacca, ebraica, ucraina, ecc. – i centoneri e i clericali, nonché i borghesi di tutte le nazioni, fanno i loro affarucci sporchi e reazionari. È questa la realtà della vita nazionale contemporanea, quando la si guardi da marxisti, cioè dal punto di vista della lotta di classe, quando si confrontino le parole d’ordine con gli interessi e con la politica delle classi, non già con i vuoti “principi generali”, con le declamazioni e le belle frasi» (Lenin, Osservazioni critiche sulla questione nazionale, ottobre 1913, pag. 14-15).
Il diritto all’autodecisione delle nazioni, cioè il diritto delle nazioni a costituire Stati indipendenti, viene sempre difeso dai marxisti in quanto è direttamente collegabile alla funzione rivoluzionaria della borghesia, ma tale difesa non è incompatibile né con il processo di assimilazione di varie nazionalità realizzato dagli Stati più avanzati a parità di diritti tra di loro, né tanto meno con l’unità organizzativa di tutti gli operai a qualunque nazionalità appartengono. Chi sostiene il contrario, cioè che gli operai devono essere organizzativamente separati secondo il principio di nazionalità, perché gli operai della nazione oppressa avrebbero interessi di classe in contraddizione con quelli della nazione che opprime, diventa apertamente un sostenitore di ideologie borghesi.
Continua Lenin.
«Contro l’assimilazionismo dei marxisti ortodossi russi
quelli che strepitano più di tutti sono i nazionalisti ebrei della Russia in genere, e fra questi, in particolare, i bundisti. Ora, come risulta dai dati riferiti sopra, su dieci milioni e mezzo di ebrei che vivono in tutto il mondo circa la metà vive nel mondo civile, in condizioni di massima assimilazione, mentre soltanto gli ebrei di Russia e Galizia, sventurati, oppressi, privi di diritti, schiacciati dai Purisckevic (russi e polacchi) vivono in condizioni di minima assimilazione, di massimo isolamento, con la residenza fissa, il numerus clausus e altre delizie alla Purisckevic. Nel mondo civile gli ebrei non sono una nazione, perché vi si sono assimilati al massimo, dicono K. Kautsky e O. Bauer. In Galizia e in Russia gli ebrei non sono una nazione;
purtroppo (non per colpa loro, ma per colpa di Purisckevic) sono ancora una casta. Ecco l’indiscutibile giudizio di uomini che conoscono indubbiamente la storia dell’ebraismo e che tengono conto dei fatti citati sopra. Che cosa dimostrano questi fatti ? Che contro l’ “assimilazione” possono strepitare soltanto i piccoli borghesi ebrei reazionari, desiderosi di far girare all’indietro la ruota della storia, costringendola a muovere non dai regimi di Russia e Galizia verso quelli di Parigi e New York, ma
viceversa. Contro l’assimilazione non hanno mai strepitato gli ebrei
migliori, che hanno svolto una funzione storico-mondiale e dato al mondo
alcuni dirigenti progressivi della democrazia e del socialismo. Contro
l’assimilazione strepita soltanto chi continua a venerare il "passato ebraico” (...) Chi
non si sia impantanato nei pregiudizi nazionalistici non può non vedere nel processo di assimilazione delle nazioni, realizzato dal
capitalismo,
un grande progresso storico, la distruzione dell’arretratezza nazionale
dei vari angoli sperduti, soprattutto in paesi arretrati come la
Russia.
«Si prenda la Russia e l’atteggiamento dei grandi-russi verso gli
ucraini.
Beninteso, ogni democratico, per tacere dei marxisti, lotterà
energicamente
contro le inaudite umiliazioni degli ucraini ed esigerà la loro
completa
uguaglianza di diritti. Ma significherebbe tradire apertamente il
socialismo
e condurre una politica sciocca, perfino dal lato dei "compiti
nazionali"
borghesi degli ucraini, indebolire il legame e l’alleanza tra il
proletariato
ucraino e quello grande-russo che esiste oggi nell’ambito di uno Stato
unico. Lev Iuskevic si comporta come un autentico borghese e, per di
più,
come un borghese miope, limitato, ottuso, cioè come un piccolo
borghese,
quando butta a mare gli interessi dell’unità, della fusione,
dell’assimilazione
del proletariato delle due nazioni in nome del momentaneo successo della causa nazionale ucraina. Prima la causa nazionale; dopo, quella proletaria:
dicono i nazionalisti borghesi e i signori Iuskevic, Dortsov e gli altri pseudomarxisti con loro.
«La causa. proletaria prima di tutto, diciamo noi, perché essa non assicura soltanto gli interessi permanenti e radicali del lavoro e dell’umanità, ma anche gli interessi della democrazia, e senza democrazia un’Ucraina autonoma e indipendente non è
pensabile (...) Se un marxista ucraino si lascerà trascinare dall’odio del tutto legittimo e naturale e per gli oppressori grandi-russi tal punto da far ricadere sulla cultura proletaria degli operai grandi-russi anche solo una piccola parte di quest’odio, anche solo sotto forma di estraneazione, questo marxista scivolerà con ciò stesso nella palude del nazionalismo borghese. Allo stesso modo anche il marxista grande-russo scivolerà nella palude del nazionalismo, non solo borghese, ma addirittura centonero, se dimenticherà sia pure per un attimo la rivendicazione della completa parità giuridica degli ucraini o il loro diritto a
costituire uno Stato indipendente» (ivi).
Possiamo dunque riassumere in queste posizioni l’atteggiamento marxista di fronte alle rivoluzioni borghesi e alle collegate rivendicazioni di autonomia nazionale; da tali posizioni risultano anche i limiti entro cui tali rivendicazioni vengono appoggiate:
1) Appoggio a tutte quelle rivendicazioni tendenti a spingere la rivoluzione borghese fino in fondo, favorendo la rivoluzione dal basso contro la prospettiva dell’introduzione dall’alto dei rapporti capitalistici di produzione (metodo Junker e Stolypin). A tale scopo indicano nella nazionalizzazione della terra la misura che meglio delle altre favorisce la totale rottura dei vecchi rapporti di produzione in agricoltura la distruzione della antica proprietà fondiaria, e sviluppa il modo di produzione specificatamente capitalistico.
2) Nel momento stesso in cui si appoggia decisamente ogni rivendicazione nazionale capace di spingere fino in fondo la rivoluzione borghese, si procede anche ad una critica spietata dei programmi nazionali utopistici della borghesia e della piccola borghesia, per di più in quanto classi oggi non più rivoluzionarie. L’organizzazione proletaria deve essere ben distinta da quella delle altre classi ed unica tra proletari di diversa nazionalità. La lotta proletaria deve essere sempre messa in primo piano rispetto alla stessa lotta nazionale, dichiarando che i borghesi-nazionalisti rivoluzionari sono considerati alleati momentanei in previsione del superamento di ogni intesa nazionale per l’unione internazionale della lotta proletaria per il comunismo. Oggi solo i contadini poveri possono essere rivoluzionari, come già nella Russia; tuttavia questo è un aspetto che va studiato in riferimento ad ogni condizione particolare, tenendo presente il giudizio storico sulla borghesia commerciale e industriale come classe non più rivoluzionaria e che gli stessi piccoli contadini fanno parte della classe borghese.
3) Per quanto riguarda la rivendicazione giuridico-politica della
autodeterminazione
e della autonomia nazionale non si danno pregiudiziali aprioristiche
né
verso il cosiddetto “diritto alla autodeterminazione”, né verso un
eventuale
processo di “assimilazione” di diverse nazionalità. In ogni caso
si
deve
sempre mettere in evidenza, da un lato, la lotta per l’abolizione di
qualsiasi discriminazione nazionale, dall’altro, il collegamento di
tale lotta con la lotta proletaria internazionale.
A tale proposito
è
illuminante l’atteggiamento di Marx e di Engels verso la lotta
antinglese
degli irlandesi e degli indiani, oppure dei giovani turchi verso
l’impero
ottomano. Essi, nell’arco di alcuni anni, sostengono a tale proposito posizioni
che sembrano contraddittorie: a volte che i problemi
nazionali
delle nazioni oppresse possono essere risolti solo dalla rivoluzione
proletaria
nelle nazioni sviluppate, altre volte che la stessa
rivoluzione
proletaria nelle nazioni sviluppate sarà possibile solo come
conseguenza
della completa liberazione delle nazionalità oppresse. Durante
la crisi
dell’impero ottomano nel 1853 Marx ed Engels sostenevano che
«la
soluzione del problema turco era riservata alla rivoluzione
europea». Allo stesso modo Marx, in un articolo dell’agosto del 1853, giudicava
i risultati della dominazione inglese in India: «Tutto ciò che la borghesia inglese potrà essere
indotta a fare non
emanciperà né migliorerà materialmente le
condizioni sociali delle
masse,
che dipendono non solo dallo sviluppo delle forze produttive, ma dalla
loro appropriazione da parte del popolo indiano. Ma ciò ch’essa
non
può fare a meno di fare è gettare le premesse
materiali della
soluzione
dell’uno e dell’altro problema. La borghesia ha mai fatto di
più?
Ha mai compiuto un passo avanti senza trascinare gli individui e i
popoli
attraverso il sangue e il sudiciume, la miseria e l’abbrutimento? Gli
indiani non raccoglieranno i frutti degli elementi di una
società nuova
seminati in mezzo a loro dalla borghesia britannica finché nella stessa Inghilterra le classi dominanti non saranno abbattute dal proletariato industriale, o finché gli stessi indù non saranno abbastanza forti per scrollarsi di dosso il giogo della dominazione inglese» (I
risultati della dominazione britannica in India).
Le stesse posizioni erano sostenute negli stessi anni a proposito della lotta per l’indipendenza dell’Irlanda. Lenin cita nel suo articolo sul diritto all’autodecisione delle nazioni del dicembre 1913 una lettera di Marx a Engels del 10 dicembre 1869 dalla quale risulta che Marx “aveva cambiato opinione” sui rapporti tra lotta nazionale degli irlandesi e lotta di classe in Inghilterra sostenendo che solo la completa liberazione dell’Irlanda avrebbe permesso alla classe operaia inglese di lottare contro la stessa borghesia inglese. «Astraendo da ogni frase “justice for Ireland” sia “internazionale” sia “umanitaria” – frase che al Consiglio internazionale va da sé – è interesse diretto e assoluto della English working class to get rid of their present connexion with Ireland. È questa la mia convinzione più profonda per motivi che in parte non posso comunicare agli stessi operai inglesi. Per lungo tempo ho creduto che fosse possibile abbattere il regime irlandese mediante l’ascendancy della English working class. Ho sempre sostenuto questo parere nella New York Tribune. Uno studio più approfondito mi ha convinto ora del contrario. La working class inglese non farà mai nulla, before it has got rid of Ireland (...) La reazione inglese in Inghilterra era radicata nel soggiogamento dell’Irlanda» (Riportato in Lenin, Il diritto di autodecisione delle nazioni).
Il marxismo – è un assioma – non tollera contraddizioni soprattutto in questioni di vitale importanza come queste; crollerebbe tutta la sua impalcatura dottrinale se si potessero sostenere posizioni diametralmente opposte; né Marx e Lenin furono uomini di tal fatta da decidere ogni mattina la politica da seguire. Si tratta quindi di cogliere il nesso dialettico che unisce queste due posizioni solo apparentemente contraddittorie per cogliere l’unità inscindibile della posizione autenticamente marxista nella questione. Si tratta infatti della posizione fondamentale valida per tutto il periodo storico che condurrà alla vittoria mondiale del comunismo: la nostra tesi dice infatti che la vittoria sarà possibile alla sola condizione di unire in un’unica lotta mondiale il movimento proletario delle metropoli diretto dal Partito Comunista Mondiale e i movimenti nazionalisti antimperialisti.
Non a caso infatti tale posizione sarà la bandiera dell’Internazionale Comunista contro chi (Serrati) respingeva tale alleanza in nome della foglia di fico della "purezza" della lotta proletaria che non doveva mischiarsi con altri movimenti "barbari". Il fatto che Marx in certe epoche attribuisce maggiore importanza ai movimenti proletari delle metropoli e in altri ai movimenti nazionalisti delle nazionalità oppresse non deve offuscare il dato fondamentale della indiscutibile affermazione che una vittoria definitiva sarà possibile solo sul terreno della lotta mondiale. È Lenin a spiegarlo nello stesso articolo attribuendo queste variazioni di indirizzo pratico disposte da Marx alla difficoltà di calcolare preventivamente e nella pratica i possibili rapporti reciproci tra lotta proletaria e lotta nazionale.
«La politica di Marx nella questione irlandese dovrebbe essere ora completamente chiara per i lettori. L’ “utopista” Marx è così “poco pratico” che è per la separazione dell’Irlanda, la quale si dimostra irrealizzabile anche mezzo secolo dopo. Questa politica di Marx a che cosa era dovuta? E non era sbagliata? Marx pensava dapprincipio che l’Irlanda non sarebbe stata liberata da un movimento nazionale, ma dal movimento operaio della nazione che l’opprimeva. Per Marx i movimenti nazionali non sono un assoluto, perché egli sa che soltanto la vittoria della classe operaia potrà portare alla completa liberazione di tutte le nazionalità. Calcolare preventivamente tutti i possibili rapporti reciproci fra i movimenti borghesi di liberazione delle nazioni oppresse e i movimenti proletari di liberazione delle nazioni che opprimono (ed è proprio questo il problema che rende così difficile la questione nazionale nella Russia attuale) è cosa impossibile. Ma il mutare delle circostanze fa sì che la classe operaia inglese cada per un periodo abbastanza lungo sotto l’influenza dei liberali, accodandosi a loro e decapitandosi con la politica operaia liberale. Il movimento borghese di liberazione in Irlanda si rafforza e assume una forma rivoluzionaria. Marx rivede la propria opinione e la corregge. “È una calamità per un popolo l’averne soggiogato un altro”. La classe operaia, in Inghilterra, non si libererà finché l’Irlanda non si sarà liberata dal giogo inglese. L’asservimento dell’Irlanda rafforza e alimenta la reazione in Inghilterra (così come l’asservimento di parecchie nazioni alimenta la reazione in Russia). E Marx, introducendo nella risoluzione dell’Internazionale l’espressione della simpatia per la “nazione irlandese”, per il “popolo irlandese” (l’intelligente L.V., probabilmente, avrebbe squalificato il povero Marx per aver dimenticato la lotta di classe!), propugna la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra, “anche se dopo la separazione potrà venire la federation”. Quali sono le premesse teoriche di questa conclusione di Marx ? In Inghilterra la rivoluzione borghese era già terminata da lungo tempo. Ma in Irlanda non era terminata; soltanto oggi, mezzo secolo dopo, le riforme dei liberali inglesi la conducono a termine. Se il capitalismo in Inghilterra fosse stato tolto di mezzo rapidamente, come Marx sperava dapprincipio, non vi sarebbe stato posto per un movimento nazionale, democratico borghese in Irlanda. Ma, quando questo movimento sorge, Marx consiglia agli operai inglesi di sostenerlo, di dagli un impulso rivoluzionario, di spingerlo fino in fondo, nell’interesse, della loro libertà».
Non si deve del resto dimenticare che il problema tattico di come valutare praticamente tali rapporti si poneva realmente a Marx, che aveva di fronte, visibile, sia il movimento operaio rivoluzionario organizzato nella Prima Internazionale sia il movimento nazionalista irlandese, e ancor più decisamente si poneva nel periodo della ricostruzione dell’Internazionale dopo la vittoria di Ottobre. Per non cadere in abbagli grossolani, che attirano tutti coloro che si allontanano dal marxismo nel nazionalismo borghese, bisogna tener presente che la questione tattica oggi non può risolversi negli stessi termini in cui si poneva per Marx ma anche per l’Internazionale Comunista, almeno fino a che non risorgerà un autentico movimento proletario e comunista nelle metropoli occidentali. Per rendersi conto di quanto ciò sia importante basta rileggere le nostre posizioni degli anni ’20 sulla questione nazionale che niente avevano da obiettare alle classiche posizioni di Lenin fatte proprie dai programmi dell’Internazionale.
«La tesi politica della Internazionale Comunista, per la guida da parte del proletariato comunista mondiale e del suo primo Stato del movimento di ribellione delle colonie e dei piccoli popoli contro le metropoli del capitalismo, appare dunque come il risultato di un vasto esame della situazione e di una valutazione del processo rivoluzionario ben conforme al programma nostro marxista. Essa si pone ben al di fuori della tesi opportunista-borghese, secondo cui i problemi nazionali devono essere risolti “pregiudizialmente” prima che si possa parlare di lotta di classe, e per conseguenza il principio nazionale vale a giustificare la collaborazione di classe, sia nei paesi arretrati sia in quelli di capitalismo avanzato, quando si pretenda posta in pericolo la integrità e la libertà nazionale. Il metodo comunista non dice banalmente: i comunisti devono agire ovunque in senso opposto alla tendenza nazionale: il che non significherebbe nulla e sarebbe la negazione metafisica del criterio borghese. Il metodo comunista si contrappone a questo “dialetticamente”, ossia parte dai fattori classisti per giudicare e risolvere il problema nazionale. L’appoggio ai movimenti nazionali ed anticoloniali, ad esempio, ha tanto poco sapore di collaborazione di classe che, mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo ed indipendente del partito comunista nelle colonie, perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati con un’opera indipendente di formazione ideologica ed organizzativa, si richiede l’appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti delle metropoli. I comunisti utilizzano le forze che mirano a rompere il patronato dei grandi Stati sui paesi arretrati e coloniali, perché ritengono possibile rovesciare queste fortezze della borghesia e affidare al proletariato socialista dei paesi più avanzati il compito storico di condurre con ritmo accelerato il processo di modernizzazione della economia dei paesi arretrati, non sfruttandoli, ma sospingendo la emancipazione dei lavoratori locali dallo sfruttamento estero ed interno» (da Prometeo, 1924, Il comunismo e la questione nazionale).
È posizione assiomatica del marxismo che “stare fermi al
nostro
posto”
mentre tutti si muovono e si agitano di fronte ad ogni movimento non
rivoluzionario
e lavorare alla preparazione rivoluzionaria del Partito, che sia messo
in grado di poter assolvere ai suoi compiti rivoluzionari nei rari
momenti
in cui esplode la lotta delle classi, è premessa indispensabile
per
poter
guidare con chiarezza e decisione di scopi la stessa classe
rivoluzionaria,
il proletariato mondiale. Nei momenti di amorfa stasi sociale, come
tuttora
è quella che viviamo, sembra che il Partito Comunista sia
scavalcato a
sinistra da tutti quelli che corrono dietro i cosiddetti “movimenti”. Quando
realmente la situazione sociale si radicalizzerà allora vedremo
come
per
incanto tutti gli ex-adoratori del movimento “ultimo grido” spostarsi
decisamente
a destra, mettersi contro il reale movimento rivoluzionario che per via
organica e naturale non potrà non trovare la sua unica guida
cosciente,
il Partito.
L’area medio-orientale, nodo delle comunicazioni e dei traffici tra Europa ed Asia e vero e proprio mare petrolifero, venne alla ribalta della politica internazionale con la prima guerra mondiale, anche se già da qualche decennio era stata oggetto delle attenzioni delle più grandi potenze imperialiste che, specialmente dopo il taglio dell’istmo di Suez accentuarono la loro pressione sulla zona, interessate prima al controllo di quell’importante via di collegamento con le loro colonie in Asia e in seguito ai giacimenti di petrolio, che furono scoperti nel 1908 in IRAN.
Allo scoppio della prima guerra mondiale i territori ad ovest di Suez, che erano stati un tempo sotto il dominio ottomano erano già passati nelle mani delle potenze europee. «Nell’Africa settentrionale i paesi del Maghreb (che in arabo vuoi dire ’occidente’) erano soggetti alla Francia: l’Algeria come colonia fin dal 1930, la Tunisia come protettorato dal 1881, il Marocco e la Mauritania come protettorati rispettivamente dal 1912 e dal 1904. L’Italia aveva sottratto la Libia alla dominazione turca, occupandola a partire dal settembre del 1911, mentre in Egitto si era saldamente impiantata, fin dal 1882, la Gran Bretagna che controllava anche il Sudan. A Est del canale di Suez la Turchia era invece riuscita a conservare gran parte dei suoi possedimenti: restavano infatti nelle sue mani la Palestina, il Libano, la Siria e l’Iraq e una parte della penisola arabica. Lungo le coste dell’Oceano Indiano e del Golfo Persico tuttavia la sovranità turca era stata progressivamente sostituita da quella britannica» (da "I paesi arabi" di P. Donini). La Gran Bretagna controllava dunque i territori dell’attuale Yemen del Sud, Oman, Emirati arabi Uniti, Kuwait, Bahrein etc.
L’impero ottomano che già da tempo dava segni della sua profonda decadenza, divenne una delle prede più ambite delle grandi potenze: l’Inghilterra in primo luogo era interessata a difendere le sue linee di collegamento con l’India e al controllo dei giacimenti di petrolio che, dopo che erano stati scoperti in Iran, si supponeva esistessero in Iraq; la Francia, da parte sua, temeva lo strapotere inglese e puntava sui suoi legami con le comunità cristiane di Siria e Libano per ottenere un’influenza politica sulla zona e magari mettere le mani sui pozzi; la Russia non nascondeva la sua volontà di approfittare dello sfaldamento dell’Impero turco per conquistare Istanbul e giungere così al controllo degli stretti che mettono in comunicazione il Mar Nero col Mediterraneo; la Germania aveva investito somme enormi in lavori pubblici e prestiti al governo turco (come per la costruzione della famosa ferrovia di Baghdad) ed intendeva garantirsi con l’influenza esercitata sul paese alleato, che i suoi investimenti avrebbero reso bene.
Allo scoppio della guerra l’Impero ottomano si schierò a fianco degli Imperi centrali. L’Inghilterra, forte delle sue posizioni in Egitto, Sudan e nella stessa penisola arabica, fu la più sollecita ad intervenire; ma l’esercito turco, grazie anche agli aiuti tedeschi, si dimostrò un avversario da non trascurare e per due volte le truppe ottomane raggiunsero il canale di Suez minacciandone il controllo inglese mentre fu messo in pericolo anche l’afflusso del petrolio persiano attraverso il Golfo Persico con l’interruzione dell’oleodotto che raggiungeva la raffineria di Abadan.
Gli Inglesi, da vecchie volpi colonialiste, pensarono allora di coinvolgere nella guerra i prìncipi arabi promettendo loro, in cambio dell’aiuto militare, la costituzione, a guerra finita, di un grande Stato arabo libero ed indipendente. L’Inghilterra prese dunque i primi contatti con lo Sceriffo della Mecca, Hussein, che aveva a poco a poco sottomesso alla sua autorità, sfruttando la debolezza del governo centrale, le tribù dell’Higiaz e che quindi univa un potere politico al suo prestigio quale capo religioso. Hussein si dimostrò sensibile alle offerte inglesi, d’altronde la sua collaborazione con Londra si rivelerà subito di estrema importanza perché porterà al fallimento degli appelli di Costantinopoli all’Jihad, alla guerra santa contro l’Inghilterra, facendo schierare le popolazioni dell’Arabia a fianco di Londra, determinando così l’esito della guerra nella regione.
Scrive L. Gaspar nella sua "Histoire de la Palestine": «Le forze armate reclutabili tra le tribù dell’Higiaz erano importanti sia per l’una che per l’altra parte. Rivolta contro i Turchi, questa forza poteva colpirli in un punto nevralgico, considerando le loro posizioni nella penisola arabica. D’altra parte le guarnigioni turche della penisola avrebbero potuto, con l’appoggio di Hussein, minacciare il canale di Suez, la più lontana Aden ed anche il Golfo Persico»
Hussein cercò anche l’alleanza con i deboli gruppi nazionalisti arabi che erano attivi soprattutto in Siria ed accettò di presentare come base di trattativa agli Inglesi un manifesto, stilato dai gruppi nazionalisti di Damasco che richiedeva la costituzione di uno Stato arabo indipendente, alleato alla Gran Bretagna. Naturalmente il documento non fa parola della forma politica da dare al futuro Stato. Nel gennaio del 1916, dopo lunghe trattative si arrivò ad un accordo tra Inghilterra e Hussein. Pochi mesi dopo una spedizione turco-tedesca lasciò Damasco diretta verso lo Yemen, attraverso l’Higiaz. Questa manovra tendeva a costituire una piazzaforte nel sud della penisola arabica, per minacciare sia Aden che l’entrata del Mar Rosso.
Hussein, ottenuta dall’Inghilterra la promessa di un regno indipendente che avrebbe dovuto estendersi dalla Siria alla Mesopotamia, dalla Palestina alla penisola arabica, scagliò i suoi beduini contro la guarnigione turca della Mecca (10/6/ 1916). «Nonostante l’armamento rudimentale ed insufficiente di fronte alle guarnigioni turche ben equipaggiate di armamenti pesanti, artiglieria compresa, in un mese i beduini conquistano tutte le roccaforti turche dell’Higiaz, eccettuato Medina. Fanno 6.000 prigionieri tra i quali il governatore generale turco» (L. Gaspar; op. cit.). Ormai l’esito della guerra è deciso. Alleatosi con tutte le tribù della regione, Hussein conquista Aqaba e si dirige poi su Damasco in cui farà un ingresso trionfale, il 1° ottobre del 1918, assieme al generale inglese Allenby.
Quanto fossero sincere le promesse inglesi lo dimostra il fatto che nel maggio del 1916, un mese prima che Hussein proclamasse la guerra santa contro i Turchi, con i famosi accordi segreti Sykes-Picot, Inghilterra e Francia si erano accordate per la spartizione tra di loro dell’ambita preda medio-orientale: la Francia avrebbe avuto il controllo di parte della Siria, dell’Iraq settentrionale, del Libano e una parte della costa della Anatolia (attuale Turchia) e l’Inghilterra il controllo dell’Iraq centrale e meridionale, della Transgiordania e di parte della Palestina; il resto della Palestina sarebbe stato posto sotto l’autorità di un controllo internazionale al di fuori dell’influenza britannica e francese. Quanto allo Stato arabo promesso ad Hussein, la sua parte settentrionale sarebbe stata considerata zona di assistenza e di preferenza per la Francia e quella meridionale per la Gran Bretagna. Che le cose non siano poi andate effettivamente così è una dimostrazione in più dell’ingordigia imperialista delle due potenze europee che non risparmiarono mezzi per attaccarsi a vicenda.
Uno dei primi atti della rivoluzione vittoriosa in Russia fu la pubblicazione dei trattati segreti che gli Stati imperialisti avevano siglato sulle spalle del proletariato e dei popoli oppressi. Anche gli accordi Sykes-Picot furono quindi pubblicati; gli Inglesi riuscirono per il momento a convincere Hussein che si trattava di una mossa propagandistica e con nuove promesse lo convinsero a continuare a combattere ma sapevano bene che alla fine della guerra, l’inganno sarebbe stato scoperto e avrebbe suscitato un’ondata di ostilità anti-inglese in tutto il mondo arabo. In previsione di questa reazione «occorreva premunirsi creando nel cuore della regione una base che fosse oggetto a sua volta dell’ostilità araba e pertanto costretta a una salda alleanza con la Gran Bretagna» (P. Donini; op. cit.).
Così già nel novembre del 1917, il ministro degli esteri inglese A. J. Balfour promise al movimento sionista un "focolare nazionale" in Palestina, ove già da alcuni decenni si era stabilita qualche colonia di ebrei soprattutto russi, venendo meno agli impegni assunti con la Francia e fornendo ai sionisti il più consistente appiglio diplomatico per ottenere la creazione dello Stato d’Israele. Al termine del conflitto naturalmente questi nodi vennero al pettine ma gli Inglesi erano ormai pronti ad ogni evenienza, «avevano concentrato nella zona un altissimo numero di truppe, 160.000 soldati, nella primavera, del 1917 avevano, ad esempio, iniziato in Mesopotamia una grande offensiva che li portava a conquistare Baghdad e ad occupare Mossul e la zona più ricca di petrolio alla conclusione dell’armistizio, dopodiché il paese venne in concreto trasformato in una specie di provincia indiana e tasse onerose furono imposte alle popolazioni: il regime militare britannico si rivelò poco diverso da quello ottomano e il movimento nazionale, oppresso e perseguitato, iniziò a volgersi contro i nuovi occupati. Altre decine di migliaia di soldati inglesi, dopo una serie di azioni sfortunate, avevano conquistato la Palestina, occupando Gerusalemme, passato il Giordano verso Amman allo scopo (fallito) di congiungersi con gli uomini di Feisal che avevano preso il porto di Aqaba nel Mar Rosso ed erano arrivati in Siria, sino a Damasco e ad Aleppo inseguendo l’esercito turco in sfacelo» (da "La rivoluzione araba" di G. Valabrega).
Nonostante che in una nuova lettera ad Hussein del febbraio del 1918, il governo britannico confermasse la "simpatia" della Gran Bretagna per il desiderio di indipendenza dei popoli arabi, così come promesso nel 1916, con una serie di accordi internazionali, il trattato di Versailles (1919), di Sévres e San Remo (1920), Losanna (1923) e con le sanzioni solenni della Società delle Nazioni (1922 e 1924), grazie al cosiddetto sistema del mandato, gli inglesi assunsero il controllo effettivo della Mesopotamia, della Palestina e di larghe fette della penisola arabica, mentre ai francesi fu riservata la Siria, occupata però dalle truppe di Hussein, ed il Libano. Sulla riva destra del Giordano fu ritagliato su desiderio di Londra il regno di Transgiordania e concesso ad Abdullah, uno dei figli di Hussein per non rompere del tutto i ponti con lui e per disturbare i francesi che in Siria vennero subito ai ferri corti con l’altro figlio di Hussein, Feisal che intendeva fare della Siria il proprio regno e godeva di un vasto appoggio popolare. Ma Feisal, da buon principe feudale, non aveva tanto a cuore la lotta per l’indipendenza della nazione araba quanto quella per ottenere, come Abdullah, un suo regno e i continui patteggiamenti con i francesi e i tradimenti verso il movimento delle masse permisero infine a Parigi, dopo ben nove anni di accanite lotte e spietate repressioni, di avere partita vinta. A Feisal, tornato sotto la tutela inglese, fu accordato il regno dell’Irak.
Tra il ’24 e il ’25, sembra con l’appoggio degli inglesi, favorevoli
a sbarazzarsi di un alleato troppo ingordo, e certo scontento, Ibn
Saud,
sovrano del Negev condusse una fortunata campagna contro Hussein e
occupò
l’Higiaz; nel ’30 occupò poi l’Asir la cui unione con l’Higiaz
ed il Negev gli permise la fondazione del regno d’Arabia, chiamato in
suo onore "Saudita".
Dunque con la 1° Guerra imperialista l’Inghilterra prende saldamente piede in Medio Oriente mentre l’intera zona, occupata non solo dagli eserciti stranieri ma anche dai capitali e dalla tecnica occidentale, viene sottratta al suo secolare immobilismo e gettata nel girone infernale del capitalismo.
L’altra conseguenza della guerra, che più direttamente si ricollega al nostro lavoro, è il nuovo ordine imposto alla regione dai paesi imperialisti usciti vincitori dalla guerra, ordine che, dopo diversi secoli, viene a spezzare l’unità della "nazione araba" (col termine "nazione" inteso in senso pre-borghese) dividendola in diverse entità statali, tra queste anche la regione geograficamente chiamata Palestina che, come abbiamo detto, viene posta sotto mandato inglese.
Queste dunque le premesse che porteranno, poco più di venti anni dopo, alla costituzione dello Stato d’Israele ed alle insuperabili divisioni tra i vari Stati arabi.
Già prima del mandato britannico, come abbiamo visto, le organizzazioni sioniste internazionali avevano impiantato alcune colonie ebraiche in Palestina, ma, come mostra la seguente tabella, il numero degli ebrei immigrati nella regione rimase molto basso fino alla 1° guerra mondiale:
Numero Periodo (arrotondato) Principali paesi d’origine di immigranti 1882-1903 20.000-30.000 Impero zarista 1904-1914 35.000-40.000 Impero zarista 1919-1923 35.000 URSS, Polonia, paesi baltici 1924-1931 82.000 Polonia, URSS, paesi balcanici, Medio Oriente 1932-1938 217.000 Polonia, Europa centrale 1939-1945 92.000 Europa centrale, paesi balcanici, Medio Oriente 1946-1948 61.000 Polonia, Europa centrale, paesi balcanici(S.Sitton, Israele, immigration et croissance. Paris, 1936, p. 32-33. Citato in E.Facchini-C.Pancera, Dipendenza economica e sviluppo capitalistico in Israele, Milano, 1975).
Fu proprio nel periodo del mandato che l’immigrazione ebraica conobbe una espansione senza precedenti, giungendo al culmine negli anni tra il 1932 ed il 1938, parallelamente al crescere delle persecuzioni antiebraiche nella Germania nazista. La Gran Bretagna infatti calcolò di sfruttare ai propri fini l’ideologia ed i capitali del movimento sionista favorendo la costituzione di uno Stato legato a doppio filo con l’imperialismo occidentale che fosse di aiuto nell’opera di contenimento e di repressione del vasto movimento anti-imperialista che minacciava di svilupparsi sotto l’egida di un grande Stato arabo indipendente ed unito.
Le prime colonie ebraiche stabilitesi in Palestina ove, avevano acquistato alcune fattorie; non aveva determinato alcuno scontro con le popolazioni del luogo, di cui gli ebrei condividevano gli arretrati metodi di coltivazione e la miseria, ma quando l’immigrazione ebraica si fece massiccia la situazione doveva evidentemente cambiare; come aveva affermato Theodor Herzl, agli ebrei era necessaria «una terra senza popolo per un popolo senza terra» ed egli identificava questa tetra con la Palestina, ma in quella regione, già all’inizio del secolo vivevano centinaia di migliaia di arabi!
«All’inizio del secolo si contano in Palestina circa 600.000
arabi
e 50.000 ebrei. Fino al 1900 la Palestina vive soprattutto della sua
agricoltura.
Il commercio vi riveste un carattere essenzialmente locale. Quanto
all’industria,
è essenzialmente di tipo artigianale. La produzione agricola e
la
ripartizione
della terra e del suo prodotto restano di "tipo feudale" fino alla
metà
del XIX secolo. La caratteristica dominante è l’esistenza di
grandi
proprietà.
«Il declino progressivo di questo sistema tradizionale
sarà determinato
da una parte dall’introduzione del Codice della Proprietà
fondiaria
da parte dell’Impero Turco, nel 1858, e dall’altra dalla penetrazione
straniera. Il Codice introduce diverse misure intese a favorire lo
sviluppo
del capitale mercantile. Le imposte che i fellab pagano in natura
saranno
ormai riscosse in moneta, fatto che li introduce nell’economia
monetaria.
D’altronde queste imposte saranno considerevolmente aumentate,
indebitando
i contadini che dovranno spesso abbandonare le loro terre, creando
così
uno strato di contadini senza terra. Inoltre il codice
rinforzerà il
diritto
dello Stato sulla proprietà fondiaria e promuoverà un
processo di
dissoluzione
della proprietà collettiva a profitto della proprietà
privata, grande
e piccola. Le terre abbandonate dai fellab schiacciati dai debiti,
sono
incamerate dai grandi proprietari privati e dai capitalisti delle
città.
«In quest’epoca si osserva anche una importante penetrazione di
capitali stranieri, essenzialmente per acquistare proprietà
fondiarie,
portati da congregazioni religiose di tutti gli ordini, venute in
Palestina
per «proteggere le minoranze cristiane». Così le
chiese cristiane,
cattoliche,
ortodosse, protestanti, procedono ad importanti acquisti immobiliari ed
investono. I preti ed i monaci fanno lavorare i fellab (...)
L’immigrazione
ebraica inizia con la fondazione di Petakh-Tikva nel 1878.
«All’inizio del secolo la grande proprietà fondiaria
è costituita
da terre appartenenti agli effendi (grandi proprietari palestinesi,
siriani,
egiziani e turchi), dai dominii dello Stato (dominii appartenenti al
Sultano
o semplicemente da lui confiscati), da terre waqfs (beni religiosi
colpiti
da inalienabilità) e dalle terre delle chiese cristiane. Ma la
Palestina
non è solo un paese di grandi aziende. Esiste una piccola e
media
proprietà
soprattutto collettiva: sono essenzialmente le terre ’mucha’,
cioè
le terre la cui proprietà appartiene alle comunità di
villaggio e su
cui viene applicata la rotazione periodica dei lotti. Parallelamente a
questo regime fondiario, si assiste, soprattutto dopo il 1860, sotto la
pressione ottomana e a causa della penetrazione capitalista ad uno
sviluppo
della proprietà privata.
«L’integrazione della attività agricola nel mercato
capitalista
prosegue secondo un processo simile a quello delle regioni arabe vicine
tra il 1860 e il 1920. La produzione agricola è sempre
più
commercializzata
e le esportazioni si sviluppano. Il valore delle esportazioni delle
arance
di Jaffa ad es. passa da 26.500 lire sterline nel 1885 a 297.700 lire
sterline
nel 1913. Si spiega così che, vicino ad un sistema tradizionale
ancora
largamente dominante, appare un settore capitalista urbano e dunque
nuove
classi sociali. L’espropriazione dei contadini getta verso le
città
una numerosa manodopera, vera "armata di riserva" disponibile per lo
sviluppo
industriale. Questa evoluzione, ed è questo che caratterizza la
Palestina
nei confronti degli altri paesi arabi, è bruscamente bloccata a
partire
dalla fine della l° guerra mondiale, dall’immigrazione sionista che
accompagna il Mandato inglese sulla Palestina» (da "Textes de
la
revolution
palestinienne" di Bichara e Naim Khader).
Durante il periodo del mandato britannico dunque la grande maggioranza della popolazione della Palestina era ancora costituita da contadini o fellahin, alcuni proprietari di piccoli appezzamenti ma soprattutto affittuari o salariati nelle proprietà dell’aristocrazia agraria. Nel 1930, 250 famiglie di grandi proprietari possedevano tanta terra quanto 60.000 piccoli proprietari. Alcune famiglie possedevano tra i 30.000 ed i 60.000 dunam (1 dunam = 1/10 di ettaro) mentre il 30% delle famiglie contadine era senza terra. Circa i 2/3 delle terre erano date in affitto e appartenevano a grandi proprietari assenteisti. Tra i contadini proprietari della loro azienda agricola, il 54% disponeva di meno di un feddan di terra (il feddan corrisponde all’area che può essere lavorata con un attacco di buoi). Una statistica di qualche anno dopo conferma questi dati:
Struttura della proprietà fondiaria araba in Palestina nel 1936 Categoria Numero di % delle % delle aziende aziende terre Meno di 100 dunam 65.933 91,8 36,7 Da 100 a 1.000 dunam 5.706 8,0 35,8 Più di 1.000 dunam 150 0,2 27,5 (di cui più di 5.000) (13) (0,01) (19,2)(da "Le mouvement national palestinien" di O. Carré).
L’acquisto di terre ad opera del J.C.A. (Jewisch Colonization Association) per installarvi le migliaia di profughi provenienti dall’Europa non poteva dunque significare che l’espulsione delle popolazioni già residenti nel paese, cioè dei mezzadri e dei braccianti palestinesi che costituivano la maggioranza della popolazione.
Infatti se i titoli di proprietà della terra erano detenuti dai grandi proprietari assenteisti che ne vendettero senza difficoltà la grande maggioranza alle associazioni sioniste, come dimostra la tabella seguente, la terra alla quale questi titoli si riferivano era la base indispensabile all’esistenza delle masse povere palestinesi.
Acquisti di terre delle tre Compagnie ebraiche alla fine del 1936
Acquisti da dunam % Grandi proprietari non residenti 358.974 52,6 Grandi proprietari residenti 167.802 24,6 Governo, Chiese e Compagnie straniere 91.001 13,4 Fellahin 64.201 9,4 Totale della terra acquistata 681.978 100,0
(da «The Land System in Palestine» di Granott).
Così il fellahin espropriato divenne prima lavoratore agricolo salariato alle dipendenze del capitale sionista e poi, quando l’immigrazione si fece più massiccia, fu addirittura cacciato dal suo lavoro e ridotto alla miseria più nera.
Questa situazione non poteva prolungarsi senza determinare violenti
urti sociali perché ai contadini espulsi non era lasciata altra
possibilità
che di crepare guardando i coloni ebrei installarsi al loro posto. Da
qui
le disperate rivolte che si susseguiranno nel 1921, 1925, 1929, 1933,
1936
Queste rivolte culminarono in quella del 1936 che durò per ben tre anni e fu caratterizzata da un grande sciopero generale di sei mesi.
Nel 1935 ormai gli ebrei da 84.000 che erano nel 1922 erano arrivati a 320 mila e il flusso immigratorio non accennava a diminuire mentre il capitale ebraico investito in Palestina in quegli anni ammontava a Lire palestinesi 6.000.000 per il 1933, L.P. 10.000.000 per il ’34, LP. 11.000.000 per il ’35, iniezioni di capitale che non solo non portavano alcun vantaggio alla popolazione araba, ma anzi contribuivano ad aumentarne la miseria.
In questa situazione di estrema tensione sociale, alcuni scontri tra arabi ed ebrei fecero scoppiare la rivolta: il 20 aprile fu creato un Comitato Nazionale Arabo nella città di Nablus che propose subito lo sciopero generale. Il giorno seguente fu formato un Supremo Comitato Arabo, composto dai rappresentanti dei maggiori partiti arabi, tutti legati all’aristocrazia fondiaria, e presieduto addirittura dal Mufti di Gerusalemme.. Questo Comitato decise di continuare lo sciopero generale chiedendo per prima cosa agli inglesi di bloccare l’immigrazione ebraica ed inoltre il divieto dell’immigrazione stessa, la proibizione di vendere terre agli ebrei, l’instaurazione di un governo nazionale responsabile dinanzi ad una assemblea nazionale. Ma di fronte al perdurare dello sciopero ed all’acutizzarsi della lotta che andava sempre più assumendo un carattere di classe sotto la spinta di un giovane ma già abbastanza consistente proletariato urbano, il Supremo Comitato decretò la fine dello sciopero aderendo ad un appello alla pacificazione proveniente dai tre prìncipi arabi pedine della Gran Bretagna: Saud d’Arabia, Ghazi d’Irak e Abdullah di Transgiordania; il testo affermava esplicitamente di «aderire all’appello delle loro Maestà e altezze i re e gli emiri arabi e chiamare la nobile nazione araba in Palestina a ritornare alla quiete e di porre fine allo sciopero e ai disordini». La rivolta dei contadini – osserva lo studioso George Antonius (The Arab awakening, London 1938) – non è soltanto rivolta contro gli inglesi ed i sionisti, ma contro i capi politici arabi, quasi tutti appartenenti alla classe dei proprietari terrieri, quella classe cioè che aveva venduto le terre ai sionisti provocando così, da una parte il rafforzamento della presenza sionista in Palestina e dall’altra privando i contadini arabi del lavoro di quelle terre che i sionisti compravano per affidarle ad agricoltori ebrei. Sulla stessa questione L.Gaspar nella sua «Histoire de la Palestine» (Paris, 1968), scrive: «La collera contadina accusava d’altronde anche la borghesia terriera araba oltre che l’amministrazione mandataria ed i sionisti del suo spossessamento. La vendita delle terre aveva certamente arricchito la classe proprietaria, non senza privare il contadino delle terre che egli coltivava da secoli senza peraltro possederle».
Dopo la cessazione dello sciopero, il movimento, che si era dato anche un embrione di organizzazione armata, si sfaldò e la lotta fu continuata da bande guerrigliere che diedero filo da torcere ancora per lunghi mesi all’esercito inglese e alle organizzazioni armate sioniste, che ne appoggiavano l’azione repressiva.
Alla fine della rivolta seguì una durissima repressione da parte della democratica e liberale Inghilterra: proprio da questi anni datano le leggi sulla responsabilità collettiva dei villaggi e delle città arabe e la pratica di far saltare con la dinamite le case di coloro che venivano sospettati di appartenere o di solidarizzare con la rivolta, metodi tutt’ora in uso da parte dell’esercito di Israele. Durante la rivolta da 3.000 a 5.000 arabi furono uccisi, 110 dei loro capi furono giustiziati, 6.000 furono incarcerati, 30.000 soldati inglesi furono impiegati per restaurare l’ordine.
Il terribile isolamento in cui la situazione internazionale
confinò
la rivolta del proletariato e delle masse sfruttate arabe, la mancanza
di una direzione e di un indirizzo classista in grado di difendere il
movimento
dall’influenza devastante dell’aristocrazia feudale e religiosa che
ne prese la testa, imperando ormai lo stalinismo a livello
internazionale,
impedì che il fuoco della rivolta si estendesse oltre la
Palestina e ne
determinò la sconfitta. Nel 1939 gli Inglesi accolsero in parte
le
richieste
arabe proibendo per dieci anni l’immigrazione ebraica e gli acquisti
di terreni arabi da parte dei sionisti; in pratica però, mentre
la
popolazione
araba restò duramente delusa dalla sconfitta e fiaccata dalla
durissima
repressione, le organizzazioni sioniste continuarono a rafforzarsi
adesso
anche in funzione anti-inglese in vista della costituzione di uno Stato
ebraico indipendente.
La seconda guerra mondiale mostrò a tutto il mondo la potenza del colosso imperialista americano, che si apprestava a sostituire quello inglese come massimo caposaldo dell’imperialismo. Dopo la guerra l’impero britannico si andava rapidamente sfaldando ed una delle prime posizioni che fu costretto a cedere fu proprio la Palestina, mentre le organizzazioni sioniste, legate sempre più strettamente al capitale americano, conducevano una dura guerriglia antiinglese. Erano stati infatti proprio i rappresentanti nel movimento sionista americano che già nel 1942, in una riunione a New York, adottarono il "programma di Baltimora" che prevedeva l’instaurazione in Palestina di un "Commonwealth ebraico", l’immigrazione illimitata e la creazione di un’armata ebraica.
Ma nella difficile situazione internazionale che era seguita alla fine della guerra la costituzione di uno Stato ebraico su tutta la Palestina sembrava impossibile da realizzare vista l’opposizione degli Stati arabi, ancora appoggiati dall’Inghilterra e dagli U.S.A., che solo nel ’43 avevano stretto un patto con Riad in cui si dichiarava che «la difesa dell’Arabia Saudita è vitale per la difesa degli Stati Uniti d’America». Così il 22° Congresso sionista riunito nel dicembre del ’46 propose che la Palestina fosse divisa in due Stati, uno ebreo e l’altro arabo. Il piano fu fatto proprio dall’ONU (il nuovo nome assunto dalla "Società delle Nazioni" ribattezzata da Lenin come "covo di ladroni"), sotto la pressione congiunta di Stati Uniti e Russia. La spartizione, decisa il 29 novembre 1947, avvantaggiò sfacciatamente il capitale ebraico che, possedendo il 6% del territorio, si vide assegnare il 56% della superficie della Palestina.
La regione restava comunque sotto il mandato britannico che sarebbe scaduto solo il 15 maggio 1948. La Lega degli Stati arabi non riconobbe la spartizione e la Gran Bretagna naturalmente se ne lavò le mani, ansiosa solo di tirarsi fuori dalla mischia. Lo Stato di Israele fu proclamato otto ore prima dello scadere del mandato britannico, il 14 maggio 1948.
Gli USA lo riconobbero "de facto" 11 minuti dopo; l’URSS il 17
maggio,
di fatto e di diritto, probabilmente perché vedeva nello Stato
d’Israele
un mezzo per attaccare l’influenza dell’Inghilterra e degli USA in
Medio Oriente. Sembra addirittura che buona parte delle armi della
Haganah
provenissero dalla Cecoslovacchia attraverso un ponte aereo
semiclandestino
che forzava il blocco inglese.
Lo Stato d’Israele, disegnato sulla carta dai grandi strateghi dell’ONU era un assurdo politico; rispetto alla superficie aveva confini estesissimi ed era indifendibile da un punto di vista militare; inoltre la sua superficie era troppo ristretta per le necessità del capitale ebraico. La guerra che scoppiò pochi giorni dopo la costituzione del nuovo Stato, se fu voluta dagli Stati arabi che non furono capaci di valutare la potenza effettiva dell’esercito israeliano, fu non di meno desiderata dal governo di Tel Aviv conscio della sua forza e degli appoggi internazionali su cui poteva contare. Non mancarono comunque trattative separate tra arabi ed israeliani, come i contatti avuti da Golda Meir con il re di Transgiordania, Abdullah, nel novembre del 1947, che portarono ad accordi per la spartizione del paese.
In effetti se i governi arabi avevano necessità di fare la guerra per deviare l’attenzione delle masse in agitazione nei loro paesi e per giustificare le loro ferree dittature, cercando dì rifarsi una verginità politica nella lotta per i "diritti dei fratelli palestinesi", essi non avevano alcuna intenzione di mettere a repentaglio il loro potere ed i loro privilegi di classe in questa guerra; la loro maggiore preoccupazione era quella di difendere le loro poltrone e magari di accrescere i loro territori a spese dello Stato ebraico o anche di qualche paese arabo "fratello" nel caso in cui se ne fosse presentata l’occasione.
Così il piano strategico comune che era stato adottato l’1l maggio al Cairo dovette essere più volte modificato, spostando, per volontà giordana, il punto chiave dell’invasione da Haifa, porto di grande importanza strategica, a Gerusalemme mentre, ad esempio, l’esercito egiziano concentrò il suo sforzo offensivo più sulla conquista del deserto del Negev, per contenere gli appetiti di Abdullah, che su Tell Aviv, la principale città ebraica. Inoltre «l’inefficienza organizzativa e la corruzione, insieme con i modi feudali con cui sovente i governi trattavano i comandanti, ed i generali e gli ufficiali trattavano i soldati, diedero un colpo decisivo alle speranze della Lega Araba» (G. Valabrega; op. cit.).
La dura sconfitta subita dai paesi arabi in questa guerra dimostrò l’incapacità politica delle classi al potere, legate a doppio filo con l’imperialismo, mentre tra le file dei militari, ufficiali e soldati, gettati allo sbaraglio nella guerra «senza compiti precisi, senza armamenti e rifornimenti adeguati, senza valido coordinamento con le truppe degli altri settori, maturava un sordo risentimento per coloro i quali erano responsabili di tali errori gravissimi, allo stesso tempo che calava l’entusiasmo» (G. Valabrega; op. cit.).
Questa guerra dunque, mentre rafforzò lo Stato israeliano,
sia da un
punto di vista politico sia permettendone un notevole ingrandimento
territoriale,
determinò un indebolimento dei regimi reazionari arabi,
indebolimento
che contribuirà al rafforzarsi in questi paesi di movimenti
democratico-borghesi
che daranno presto origine a rivolte e veri e propri tentativi
rivoluzionari
che in pochi anni cambieranno completamente l’assetto politico
mediorientale.
La borghesia israeliana, a differenza delle corrotte cricche dirigenti arabe, aveva un preciso piano di condotta nella guerra e una precisa strategia per l’annessione di nuovi territori in Palestina. Questo piano (piano Daled) oltre alla conquista di territori prevedeva anche feroci azioni di rappresaglia e di terrorismo che, facendo strage tra le popolazioni arabe, e seminando il terrore ne determinassero la fuga lasciando via libera all’occupazione israeliana; «Ci furono pressioni crescenti – raccontano gli storici sionisti Jon e David Kimche nella loro opera "The clash of Destinies" – da parte dei comandi militari, come di Ben Gurion e di Dalili, contro la limitazione delle azioni di rappresaglia».
Questi massacri culminarono nella strage del 9 aprile del 1948 quando «durante la notte uomini dell’Irgun e della banda Stern (gruppi armati sionisti; ndr) attaccano e catturano il villaggio di Deyr Yasin, presso Gerusalemme. Vengono massacrate 254 persone ed il villaggio è distrutto. Fra i morti vi furono: 25 donne incinte, 52 madri con bambini di pochi mesi, altre 60 donne e ragazze». Menachen Beghin futuro premio nobel per la pace, che guidò l’assalto al villaggio, ha scritto di questo massacro: «Non solo fu giustificato ma se non si fosse ottenuta la vittoria di Deir Yassin lo Stato d’Israele non sarebbe stato costituito... il panico sopraffece gli arabi... l’impressione creata dal massacro di Deir Yassin equivalse alla forza di sei reggimenti militari. Gli arabi cominciavano a fuggire pieni di terrore ancor prima di scontrarsi con le forze ebraiche... Il massacro di Deir Yassin ci ha particolarmente aiutati a liberare Tiberiade ed ad invadere Hazfa» (da: Dossier Palestina; aut. vari).
Il governo israeliano riesce così a raggiungere i suoi obiettivi: il territorio dello Stato passa dal 56 al 78% di tutta la superficie della Palestina; del milione e 380.000 arabi residenti in Palestina ben 750.000 sono stati costretti alla fuga abbandonando tutti i loro averi e riducendosi a vivere, naturalmente i ceti più bassi, in campi profughi nella striscia di Gaza, in Giordania, in Siria, in Libano, assistiti dalla "carità" dell’ONU. Da qui, da questi campi della disperazione, da queste centinaia di migliaia di sradicati, di disoccupati, di sottooccupati, di veri proletari, sorgerà la forza che dovrà turbare e turba tutt’ora i sonni della borghesia israeliana come di quelle arabe.
Una parte degli arabi (circa 350.000) restò nella
Cisgiordania
occupata
dall’esercito transgiordano e un’altra (circa 70-100.000) nella
striscia
di Gaza occupata dagli egiziani. In Israele, nonostante le minacce e le
stragi, continuarono a risiedere 170.000 arabi. Anche il modo in cui
avvenne
la loro fuga rifletteva le differenze di classe esistenti, infatti tra
la fine del ’47 e l’inizio del ’48, già 30.000 arabi avevano
abbandonato
la Palestina, ma la grande maggioranza di questi, che sfuggirono
così
al terrorismo statale israeliano, appartenevano alle classi medie e
benestanti
che possedevano beni o capitali su cui contare per stabilirsi nei
territori
vicini.
La politica dello Stato borghese israeliano verso gli arabi rimasti in Israele segui queste direttive: a) Mantenimento, di un permanente stato d’assedio verso le comunità arabe per impedire qualsiasi tentativo di ribellione. b) Progressiva espropriazione delle terre abbandonate dai contadini arabi che si erano rifugiati in altri paesi e loro assegnazione a colonie agricole ebraiche. c) Espropriazione delle terre ancora occupate e coltivate da contadini arabi e trasformazione dei piccoli contadini in proletari. d) Impiego di mano d’opera araba per i lavori più duri e a bassa specializzazione, con salari di fame.
Naturalmente questi obiettivi sono stati raggiunti nel pieno rispetto della legalità tramite la promulgazione di apposite leggi, proprio come sempre accade in qualsiasi Stato che voglia essere considerato sinceramente democratico!
a) Le leggi di emergenza
Subito dopo la proclamazione dello Stato d’Israele «il governo provvisorio decideva il 14/5/1948 di mantenere in vigore un cospicuo corpo di disposizioni introdotte dalle autorità britanniche a partire dal 1936 e rielaborate nel 1945. Queste Defence Emergency Regulations (che a suo tempo erano state violentemente attaccate dai giuristi sionisti quando erano applicate contro le loro organizzazioni; ndr.) hanno consentito allo Stato ebraico di mantenere in vita tribunali militari con giurisdizione sulla popolazione civile e di intervenire praticamente in ogni aspetto della vita quotidiana, autorizzando la censura dei mezzi di informazione e della corrispondenza privata, la limitazione della libertà di movimento, di opinione e di attività politica, l’arresto, l’espulsione dal villaggio di origine o addirittura da Israele, la confisca dei beni e la demolizione delle abitazioni. Queste disposizioni, unite ad un successivo provvedimento, rappresentano la base giuridica su cui Israele ha costruito il proprio regime di amministrazione militare nelle regioni a popolazione prevalentemente araba: le "Defence regulations" riguardavano infatti teoricamente tutta la popolazione, araba o ebraica che fosse, ma poiché le zone in cui venivano applicate erano delimitate a discrezione delle autorità militari, era facile maneggiarle in modo che colpissero solo i palestinesi. Non può, pertanto meravigliare il fatta che l’88% della popolazione araba fosse sotto posta al regime di amministrazione militare, mentre il 95% degli ebrei non subiva restrizione alcuna; anche il 5% residuo, del resto, godeva di trattamento ben diverso di quello inflitto agli arabi: una delle disposizioni più vessatorie era il divieto di viaggiare nelle regioni sotto poste all’amministrazione militare senza un apposito permesso, che ovviamente non veniva negato ai cittadini ebrei (...) Le norme britanniche del ’45 furono sospese ufficialmente soltanto nel dicembre 1966, per essere introdotte, meno di un anno dopo, nei territori occupati della Cisgiordania e di Gaza dove costituiscono ancora la base giuridica di provvedimenti quali imposizione di coprifuoco, detenzione, arresto domiciliare, confisca e distruzione dei beni» (da Politica Internazionale: marzo 1979).
b) Le leggi per l’esproprio dei beni
Il primo esodo delle popolazioni arabe, dopo la guerra del ’48-’49 mise a disposizione dello Stato israeliano oltre 16.000 Kmq. di terreni abbandonati (pari all’80% della superficie totale di Israele) di cui circa 1/4 coltivabili, che ospitarono 350 dei 370 nuclei di colonizzazione agricola fondati da Israele tra il 1948 e il 1953.
«Nel 1954 oltre un terzo della popolazione ebraica di Israele viveva su terreni arabi abbandonati e oltre 250.000 persone, compreso un terzo di nuovi immigrati, abitavano in immobili urbani abbandonati dai proprietari arabi (...) Complessivamente l’economia di Israele assorbì 300.000 ettari di terre arabe abbandonate che furono rimesse a coltura e valorizzate. Malgrado l’elevato ammontare dell’assistenza economica ricevuta dall’estero sotto forma di aiuti statunitensi, riparazioni tedesco-occidentali, vendite di obbligazioni israeliane e contributi di organizzazioni filantropiche, Israele non avrebbe certo potuto raddoppiare la propria popolazione nei primi tre anni di vita senza utilizzare i beni arabi abbandonati» (da Politica Internazionale; marzo ’79).
Per impadronirsi di queste proprietà arabe lo Stato israeliano ha utilizzato tutta una serie d strumenti legislativi: «In una prima fase il governo ha istituito delle zone chiuse secondo l’art. 125 della legislazione coloniale promulgata dagli inglesi nel ’45 per lottare contro il terrorismo ebraico (Defence Emergency Regulations). I proprietari arabi delle terre comprese in queste zone non sono stati autorizzati a farvi ritorno dopo la guerra del ’48 e i loro campi sono rimasti abbandonati. Nell’ottobre del ’48 il "giornale ufficiale" pubblicava delle nuove ordinanze che autorizzavano il Ministero dell’Agricoltura a confiscare ogni terra non lavorata e non seminata per un anno. Queste misure riguardavano le terre rimaste abbandonate dopo l’applicazione dell’art. 125; il Ministero dell’Agricoltura era autorizzato a trasferirle a terzi, cioè a degli ebrei. In seguito apparvero delle ordinanze (divenute leggi nel 1950) sui proprietari assenti. Si trattava non solo dei beni dei profughi palestinesi, ma anche di quelli di circa 20.000 arabi israeliani bizzarramente qualificati di "assenti-presenti". Questi ultimi erano di fatto degli arabi con carta d’identità israeliana ma considerati come assenti, dunque privati per legge dei diritti sulle loro terre e beni immobili, perché tra il 29 novembre 1947 (data della decisione dell’ONU sulla spartizione della Palestina, cinque mesi e mezzo prima della creazione dello Stato d’Israele) e il 1 settembre 1948 essi si trovavano fuori del territorio della Palestina oppure in una regione della Palestina controllata dagli arabi, e questo qualunque fosse il motivo della loro assenza, fuga, affari, esodo o espulsione.
«Nel 1949, una nuova legge che istituiva delle "zone di sicurezza", autorizzava il Ministro della Difesa ad allontanare gli abitanti dei villaggi situati in una zona di 10 Km. lungo le frontiere. Queste leggi non minacciavano, come le precedenti e le ordinanze menzionate prima, il diritto di proprietà degli abitanti arabi ma gli impedivano l’accesso ai loro beni. Nel 1953 lo Knesset (il parlamento israeliano) adottò una legge secondo la quale il governo diventava proprietario di tutte le terre che, al 1/4/’52 non fossero state effettivamente nelle mani dei loro proprietari. Le indennità versate ai vecchi proprietari furono fissate secondo il valore delle terre al gennaio 1950, a un tasso molto basso. Anche un’altra legge, che autorizza il governo a requisire terre e beni per "la difesa e l’assorbimento di nuovi immigrati", è stata utilizzata per espropriare proprietari arabi. In seguito un emendamento ha precisato che le terre occupate ai termini di questa legge dopo il 1/8/’58 sarebbero state considerate come appartenenti allo Stato (...) Infine in diversi casi si è fatto ricorso ad ordinanze risalenti all’epoca del mandato, per "l’acquisizione di terre nell’interesse della popolazione". Grazie a queste leggi, le città ebraiche di Nazareth alta e Karmel, ad esempio, sono state costruite su terre confiscate agli arabi». (da Le Monde; 1/6/76).
Così, dei 200.000 ettari che possedevano, prima della creazione dello Stato d’Israele, ai villaggi arabi non restano oggi che 50.000 ettari. Questa cifra non comprende il Negev, ove i beduini, che sono il 20% della popolazione araba di Israele, nel corso del 1975 hanno dovuto condurre un’aspra lotta per impedire che fossero espropriati 150 dei 190 mila ettari di terre sulle quali essi vivono da secoli. «Il governo afferma che le terre del Negev non sono registrate a nome di abitanti arabi, per la maggior parte beduini trasformatisi in agricoltori. Formalmente il governo ha ragione, ma in pratica è noto che i beduini del Negev non si sono mai dati la pena di iscriversi al catasto. Questo era l’uso, tanto sotto l’Impero ottomano quanto sotto il mandato britannico; quando i beduini compresero, dopo la creazione dello Stato d’Israele, che le autorità agognavano le loro terre, cercarono di regolarizzare la loro situazione, ma questo diritto fu loro rifiutato» (Le Monde; 13/12/75).
La questione della terra è ancora molto viva in Israele sia per quei pochi piccoli contadini arabi che sono riusciti a conservarla, sia per quelli che pur essendo ormai stati proletarizzati ne furono privati nel passato. «Non è un caso se la più massiccia mobilitazione della popolazione araba in Israele negli ultimi anni (febbraio-marzo 1976) è nata proprio dalla decisione di espropriare terre arabe in Galilea per costruirvi quartieri residenziali ed installazioni militari» (da Politica Internazionale; Marzo ’79).
c) La proletarizzazione dei contadini arabi
Dal censimento fatto dagli inglesi nel 1931 risultava che l’80% degli arabi palestinesi vivevano nelle campagne; alla fine del mandato inglese questa percentuale era calata al 70%, ma secondo il censimento del 1973 gli arabi urbanizzati erano il 56%. Gli ex contadini espropriati, come è naturale processo di sviluppo capitalistico, sono stati costretti a spostarsi nelle città dove la loro forza lavoro è stata impiegata nei lavori più umili e faticosi e comprata al prezzo più basso. I proletari arabi hanno alimentato soprattutto la manovalanza nell’edilizia e nel settore terziario. La seguente tabella mostra l’evoluzione dei settori d’attività della manodopera araba dal 1954 al 1972:
Ripartizione % della manodopera araba fra i principali settori d’attività 1954 1966 1972 Agricoltura 59,9 39,1 19,1 Industria 8,2 14,9 12,5 Edilizia e lavori pubblici 8,4 19,6 26,6 Altri settori 23,5 26,4 41,8
(Fonte: Annuaire statistique d’Israèl, 1955-1973).
I lavoratori arabi sono discriminati sui salari, sensibilmente più bassi di quelli dei lavoratori israeliani a parità di lavoro; sono soggetti ad essere licenziati; subiscono continuamente un elevato tasso di disoccupazione; spesso sono impiegati nel "lavoro nero"; non hanno alcuna protezione sindacale poiché sono sottoposti ad un costante controllo poliziesco e anche l’organizzazione sindacale ufficiale la Histadrut, «fino al 1966 era ufficialmente la confederazione generale dei lavoratori ebrei in Heretz Israel ed anche dopo l’abolizione programmatica di questa forma di discriminazione etnica non si può dire che il sindacato si sia eccessivamente impegnato a favore dei suoi iscritti arabi» (Pol. Int., Marzo 79).
Ma anche le condizioni dei profughi palestinesi in terra "araba" non
erano certo migliori, nonostante i vari governi e leaders arabi si
riempissero
la bocca con "la nobile causa palestinese". I profughi vivevano nei
campi
ai sobborghi delle città arabe o lungo la frontiera israeliana,
con le
sovvenzioni dell’UNRWA, un organismo dell’ONU, sovvenzioni che in buona
parte finivano nelle tasche dei governanti locali. «Come se la
vita dei
profughi non fosse già abbastanza dura, i palestinesi erano
discriminati
a tutti i livelli nella società araba. Prima di poter ottenere
un
lavoro,
il profugo palestinese doveva ottenere un permesso di lavoro. In
Libano,
ove la discriminazione era particolarmente pesante, era praticamente
impossibile
ottenere tale permesso» ("La diaspora palestinese"; Monthly
Review,
nov. 1972). D’altronde i profughi che, una volta terminate le
ostilità
tentarono, come era sempre accaduto in precedenza, di fare ritorno ai
propri
villaggi in territorio israeliano furono spesso accolti a fucilate o
picchiati
e rispediti indietro.
Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale, furono anni di profondi sconvolgimenti per tutti i Paesi medio-orientali che videro quasi tutti i governi scossi da crisi, colpi di Stato, rivolte sociali.
La particolare situazione geografica della zona che fa da cerniera a tre continenti e quindi ne aumenta il valore strategico, e l’enorme ricchezza del petrolio costituirono una debolezza piuttosto che una forza perché suscitarono l’attenzione delle massime potenze mondiali, richiamarono l’attenzione di predoni ancora più forti di quelli che vi erano installati dopo il primo grande macello: al posto della Francia e dell’Inghilterra, che pure fecero di tutto per rimanervi a difendere i loro interessi economici-strategici, si installò saldamente la potenza del dollaro, mentre quella minore del rublo forzava ogni spiraglio.
«Grazie all’intervento combinato dei due massimi vincitori
della
seconda carneficina mondiale, la rivoluzione anticoloniale nel
medio-oriente
– come del resto altrove – ha registrato effetti rivoluzionari
inferiori
a quelli che sarebbero stati auspicabili per ragioni storiche generali
e per lo sviluppo stesso dei paesi interessati.
«Una rivoluzione borghese "fino in fondo", all’epoca
dell’imperialismo,
è ancora più irrealizzabile che in passato se i nuovi
poteri subentrati
ai vecchi non nascono sull’onda di grandiosi movimenti di masse
sfruttate
e non poggiano sulla forza armata delle stesse. Nei paesi
medio-orientali
molte monarchie feudali si sono quindi trasformate senza grandi scosse
in monarchie borghesi e continuano a governare sotto nuove spoglie. Ma
anche là dove la monarchia è stata sostituita dalla
repubblica
l’avvenimento
è piuttosto da considerare il frutto di rivolte militari
ristrette che
di movimenti politici di massa» ("Il Programma Comunista",
12/1965).
Seguendo il filo degli avvenimenti dei primi anni ’50, che videro numerosi scioperi operai in Libano, Iraq, Giordania e perfino in Sudan, è del luglio 1952, dopo diversi mesi di grandi dimostrazioni popolari e importanti scioperi operai culminati nello sciopero generale del gennaio dello stesso anno, l’abdicazione del re di Egitto Faruk costretto dalla sollevazione dell’esercito guidato dal gruppo dei "Liberi Ufficiali". Nel giugno del 1953 l’Egitto è dichiarato Repubblica, la stella di Nasser comincia a brillare.
Sempre nel 1952 in Libano va al potere Camille Chamoun, personaggio legato a doppio filo all’occidente e amicissimo del re Abdullah di Giordania, assassinato un anno prima da un arabo palestinese.
Ma è la salita al potere di Nasser il fatto importante: tutta la politica di nazionalizzazione della repubblica egiziana riprende la bandiera del panarabismo, della grande patria araba unita, cerca di ridare vigore alla lega araba costituitasi fin dal 1945, fra Egitto, Arabia Saudita, Yemen, Transgiordania, Iraq, Libano e Siria, una lega che aveva mostrato tutta la sua impotenza, tutta la sua inefficacia, tutti i limiti del federalismo nella guerra del 1948 contro Israele. Il primo colpo al rinato panarabismo lo diede l’Iraq quando nel 1954 si alleò alla Turchia, entrata due anni prima nella Nato, per poi aderire, nel 1955, al patto di Baghdad che estendeva il patto turco-iraqeno all’Iran, al Pakistan e alla Gran Bretagna, e che trovava approvazione e sostegno soprattutto negli Stati Uniti.
A questo "patto di Baghdad", l’Egitto rispose firmando con la Cecoslovacchia un accordo per la fornitura di armi in cambio di cotone.
Nel febbraio del ’54 una rivolta rovescia in Siria la dittatura di Shishakli, aprendo un periodo di instabilità politica. In Giordania nel 1955 vi furono vasti movimenti popolari contro l’adesione al patto di Baghdad e le elezioni del ’56 diedero origine ad un governo filo-nasseriano.
Il 26 luglio del 1.956 Nasser nazionalizza il canale di Suez, dopo un ennesimo rifiuto americano di concedergli un prestito per costruire la diga di Assuan; il 29 ottobre dello stesso anno l’esercito israeliano iniziò l’invasione del Sinai mentre, alcuni giorni dopo, truppe anglo-francesi attaccavano la zona del canale con bombardamenti aerei e lancio di paracadutisti.
L’aggressione terminò dopo nove giorni, il 6 novembre dopo l’intervento congiunto russo-americano per porre fine ai combattimenti.
All’inizio del 1957 gli Stati Uniti si fanno nuovamente avanti per consolidare la loro influenza su quell’area sempre più importante nella contesa interimperialistica: il 5 gennaio il presidente Eisenhower presenta al congresso un piano per la politica americana in M.O. «Tale piano si articolava in 3 punti: nella decisione di intervenire con massicci aiuti in appoggio dei governi amici del settore; nell’intenzione di fornire, ad arbitrio del presidente stesso, un sostegno militare a Stati o gruppi di Stati che lo richiedessero; nel tenere pronte forze militari americane per intervenire direttamente a fianco di Stati mediorientali amici minacciati dal comunismo internazionale» (Valabrega; op. cit.).
Questa politica si concretizzerà nei mesi successivi in Giordania e in Libano. In Giordania un colpo di Stato dell’esercito appoggiato dal Sovrano liquida il governo filonasseriano di Nabulsi, mentre la VI flotta americana, di stanza nel Mediterraneo, si dichiara pronta ad intervenire per salvare l’integrità e l’indipendenza della Giordania. Dieci milioni di dollari sono il premio concesso da Washington al sovrano hascemita in cambio della sua fedeltà all’occidente.
In Libano nel maggio del ’58, come reazione al governo dittatoriale di Chamoun scoppia uno sciopero generale che si trasforma in una vera e propria insurrezione che incendia l’intero paese. Quando l’insurrezione stava ormai volgendo a favore delle forze della "sinistra", il 14 luglio un colpo militare spazzava via la monarchia irachena nell’entusiasmo popolare. Questo episodio convince gli Stati Uniti ad intervenire direttamente: il giorno dopo una flotta di una cinquantina di navi americane, tra cui due portaerei, sbarcano in Libano 10.000 soldati, mentre forti contingenti di paracadutisti inglesi arrivano ad Amman, chiamati da re Hussein di Giordania. L’ordine è in pochi giorni ristabilito.
Commentavamo così questi avvenimenti sul nostro giornale:
«Il
bersaglio
del vile atto di forza degli Stati Uniti non è tanto la salvezza
del
fradicio
regime di Chamoun, quanto l’unificazione araba. Non a caso l’intervento
armato americano è stato deciso a poche ore dalla rivoluzione
antimonarchica
dell’Iraq che ha fatto giustizia della monarchia filo-britannica e dei
suoi servi sanguinari. Ai gangsters del dollaro preme soprattutto
impedire
la formazione del grande Stato unitario che è nelle aspirazioni
del
movimento
pan-arabista e quindi salvare le alleanze militari che sono il maggior
ostacolo alla unificazione politica dei popoli del Medio Oriente.
Giustiziando
la monarchia hascemita, rovesciando il regime del tirannico Nuri-es
Said,
traditore dell’unità araba, abrogando la provocatoria
federazione
giordano-irachena,
ritirandosi dal patto di Baghdad, i rivoluzionari nazionalisti iraqeni
vibrano
un colpo durissimo agli interessi e al prestigio dell’imperialismo
americano
(...)
«I paesi arabi si trovano attualmente nelle condizioni in cui si
trovava
l’Italia risorgimentale. Uno stesso popolo parlante la medesima lingua,
professante gli stessi usi e costumi, avente alle spalle un’evoluzione
storica indivisibile è spezzettato in una dozzina di Stati (...)
La
rivendicazione
della unificazione statale, riunificazione che fu in altri tempi la
bandiera
dei Garibaldi, dei Kossuth e dei Bolivar, la soppressione dello
spezzettamento
politico e del separatismo, è rivendicazione non comunista, non
proletaria,
ma nazionale e democratica. Sta interamente dentro la rivoluzione
democratica
nazionale borghese.
«Al proletariato cosciente non interessa la
formazione
dello Stato nazionale in sé stessa, ma il contenuto di trasformazioni
sociali
che il trapasso comporta. Gli interessano lo sblocco dialettico dei
"potenti
fattori economici" che Lenin vedeva costretti ed immobilizzati dalle
anacronistiche
strutture politiche che si perpetuano nei paesi semifeudali ed
arretrati»
("il Programma Comunista"; n. 14-1958).
La prospettiva dell’unificazione araba pareva a quei tempi ancora attuabile, e come abbiamo visto era dal partito ritenuta, sebbene improbabile, progressiva e un primo passo in quella direzione parve essere l’unione tra Egitto e Siria, ormai passata nell’area di influenza russa, unificazione che diede origine alla R.A.U. il primo febbraio del 1958. Ma le fiacche borghesie arabe, giunte troppo tardi sull’arena della storia, espressione di economie deboli totalmente dipendenti dal mercato mondiale temevano assai di più le masse sfruttate e affamate di proletari e contadini poveri che con i loro sommovimenti ne avevano favorito l’andata al potere, delle vecchie classi tribali di cui esse avevano preso il posto e dell’imperialismo internazionale così di sovente condannato a parole. La conclusione fu che in tutti i paesi i nuovi governi borghesi immediatamente repressero ogni spontaneo movimento di massa e si accordarono sia con le vecchie classi spodestate sia con l’imperialismo dell’Ovest o dell’Est, a seconda dei loro contingenti interessi statali.
Infatti già nel settembre del ’58 potevamo scrivere: «Come avevamo facilmente previsto, la questione del Medio Oriente, trasferita sul piano delle trattative diplomatiche, ha trovato il suo epilogo nella più cinica e risibile pastetta. Pastetta tra i giovani Stati arabi soprattutto. Preoccupati di perdere acquirenti (il che vale in particolare per i produttori di materie prime d’importanza mondiale, come l’Iraq, la Tunisia, il Marocco e via discorrendo) divise da contrasti di interesse e di tradizioni storiche, ansiose di non perdere il controllo di masse scatenate e malfide, pronte ad inchinarsi al primo banchiere "caritatevolmente" disposto a fornire ossigeno in denaro sonante (il che vale per tutti), le giovani ed avide borghesie giuranti sul Corano hanno messo da parte il loro "anticolonialismo" di maniera barattando il ritiro dei "soldati stranieri" contro l’ingresso trionfale di quattrini non meno stranieri, facendo propri – esse che si pretendono portatrici della guerra santa rivoluzionaria – i principi della "non interferenza", del "rispetto reciproco, dell’integrità e sovranità nazionale", insomma della difesa di uno status quo che è pure l’espressione ed il prodotto del dominio imperialistico, il rovescio della vantata aspirazione ad uno Stato arabo unitario esteso dall’Asia occidentale a tutta l’Africa del nord» ("il Programma Comunista"; n. 16/1958).
In questi anni si chiude qualsiasi possibilità di una rivoluzione borghese radicale per la completa vittoria della strategia imperialista che vuole il mantenimento della divisione politica del Medio Oriente in diversi Stati deboli e in perenne contrasto tra loro, soluzione questa favorita certamente dalla debolezza anche numerica del proletariato e delle masse sfruttate di quella regione.
Proprio sulla scia di questa sconfitta, nel gennaio del ’64, il vertice dei massimi dirigenti arabi riunito al Cairo, tra le tante questioni ed i tanti contrasti tra i vari Stati che portò alla luce senza risolverli, prese l’importante decisione di riconoscere l’entità palestinese, primo passo verso la creazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che avverrà ufficialmente alcuni mesi dopo. Il momento scelto per questa importante decisione conferma ancor più decisamente che essa non fu dettata dalla volontà dei vari governi arabi contro l’imperialismo israeliano per risolvere il problema delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi espulsi dalle loro terre, ma dalla paura che tutti gli Stati arabi avevano del potenziale di rivolta sociale che si stava accumulando nei campi e che aveva già dato vita fin dal 1958, nei campi della striscia di Gaza, ai primi nuclei guerriglieri, Al Fatah ed il suo braccio armato Al Assifa (La tempesta).
Il movimento palestinese benché fosse nato con un programma moderato, filonasseriano e panarabista, fu sin dall’inizio violentemente osteggiato dagli Stati arabi che ne temevano la possibile radicalizzazione date le terribili condizioni di esistenza dei profughi. I primi gruppi guerriglieri, come abbiamo detto, si erano formati nei primi anni ’50 nella striscia di Gaza poiché questo territorio, per quanto posto fin dal ’49 sotto amministrazione egiziana, non fu mai formalmente annesso all’Egitto, e vi era dunque possibile una certa libertà d’azione.
Così su Politica internazionale viene descritta la
nascita
di
Al Fatah: «Esso godé così di un’ampia autonomia,
nel cui ambito
poterono
formarsi le future élites del movimento nazionale palestinese.
In un
primo
tempo il nasserismo raccolse tra i palestinesi di Gaza un larghissimo
consenso
che si concretizzò ben presto nella costituzione di gruppi di
fedayin,
le cui attività erano costantemente controllate dal Cairo. La
crisi di
Suez, in seguito alla quale per alcuni mesi la regione cadde sotto il
controllo
israeliano, e più ancora il blocco che successivamente le
autorità
egiziane
imposero ad ogni attività di guerriglia che da Gaza muovesse
contro
Israele,
fecero sì che gli elementi palestinesi più coscienti
politicamente si
rendessero conto delle gravi limitazioni che comportava una strategia
mirante
alla liberazione della Palestina del tutto basata sulla presunta
capacità
rivoluzionaria e sulle potenzialità militari dei regimi arabi
"progressisti".
Fu in questo periodo che Yassir Arafat, come molti altri futuri leaders
palestinesi operò un vero e proprio rovesciamento di ottica; pur
mantenendosi
fedeli alla prospettiva di fondo del panarabismo, essi tuttavia
compresero
che la via per l’unità araba doveva passare attraverso la lotta
per
la liberazione della Palestina e non viceversa. Il movimento nazionale
palestinese doveva quindi compiere un salto di qualità; doveva
cessare
di essere al rimorchio dei diversi paesi arabi e divenire esso stesso,
tramite una propria autonoma strategia di lotta, il vero motore
dell’unità
araba.
«Per i nasseriani, non meno che per i baatisti, la ricerca di
autonomia
che veniva emergendo tra i palestinesi, costituiva una grave
involuzione
di tipo separatistico, quasi che essi volessero distaccarsi dal
processo
unitario che allora coinvolgeva non pochi paesi arabi; un ripiegamento
provincialistico che non solo bisognava combattere ideologicamente, ma
anche reprimere concretamente. Vennero così attuandosi da parte
degli
Stati arabi le prime persecuzioni poliziesche nei confronti di quei
dirigenti
palestinesi che non intendevano piegarsi alle direttive politiche
provenienti
dal Cairo o da Damasco e che, a maggior ragione, contestavano la
politica
palestinese di Hussein di Giordania. Arafat, Abu Jyad e altri leaders
palestinesi
si trovarono così costretti a cercare rifugio nei paesi arabi
del Golfo
ed in particolare nel Kuwait, ove non si respirava il clima di
repressione
antipalestinese dominante in altri Stati arabi. Fu proprio nel Kuwait
che
venne fondata Al Fatah, l’organizzazione palestinese che più di
ogni
altra si sarebbe sviluppata nel futuro, che non mancò di
ribadire sulle
pagine della propria rivista teorica Filastinuna (La nostra
Palestina)
il cui primo numero venne pubblicato nel 1959, il concetto secondo cui
la lotta del popolo palestinese doveva seguire un indirizzo del tutto -
autonomo rispetto ai voleri dei vari regimi arabi».
Il fatto tragico che peserà terribilmente negli avvenimenti futuri, era che il panarabismo non si poteva in nessuna maniera resuscitare, né dal basso – cioè poggiando sui profughi arabi della Palestina, sparsi un po’ in tutto il medio-oriente – né tanto meno dall’alto come aveva cercato di fare Nasser.
Panarabismo is over, gli appuntamenti storici avuti li aveva clamorosamente mancati e l’irredentismo palestinese non poteva ormai resuscitarlo. Le migliaia di profughi palestinesi ammassati in campi e bidonvilles riflettevano pertanto tutta la tragedia del medio oriente, mosaico non di nazioni (che non esistono né in formato minore né, come i fatti storici hanno mostrato, in un solo formato maggiore di unica nazione araba) ma di Stati pidocchiosamente attaccati ai loro interessi particolari, ciascuno legato mani e piedi a questa o quella potenza, ciascuno farneticante una indipendenza economica e politica negata dalla loro reale dipendenza dal mercato mondiale del petrolio o del cotone o dalle forniture di armi dell’una come dell’altra potenza mondiale, ciascuno orgoglioso e superbo quanto prono servitore dei grandi big internazionali, ciascuno retto da pseudo-borghesie avide e succhione o anche da relitti di un passato millenario neppure feudale ma appena tribale.
La via intrapresa da Al Fatah non poteva non condurre dove ha condotto non poteva non sacrificare a più riprese gli interessi materiali delle plebi palestinesi sull’altare di una impossibile emancipazione nazionale scartata ormai dalla storia. Queste plebi povere e straccione avevano un’unica possibilità davanti a sé: quella di riuscire a fissare davanti ai loro occhi il nemico di classe, non di "razza" o di "nazione", e, stringendosi in un unico esercito di senza riserva, si attrezzassero a far piazza pulita di sbirri e padroni locali e stranieri, tutti ugualmente interessati alle loro miserie e disgrazie.
Infatti proprio in virtù della strada nazionale e di razza intrapresa i regimi arabi, nel settembre 1964, riconobbe l’OLP fondata ad Alessandria nel secondo vertice arabo, e la posero sotto la loro tutela, visto che, nonostante tutte le dichiarazioni di panarabismo dal basso, erano essi che permettevano con aiuti, soldi, e armi la vita della nascente organizzazione che, nei loro voti, doveva avere negli interessi degli Stati arabi il limite della sua azione, in modo che i pericoli di rivolte sociali fossero neutralizzati dall’inquadramento guerrigliero anti-ebreo di Arafat, garanzia questa che i cadenti e corrotti regimi arabi sopravvivessero alla loro flaccidità e debolezza.
Altra considerazione si impone: l’OLP favorendo questo stato di cose
faceva gettito del suo stesso panarabismo dal basso, che, preso alla
lettera,
avrebbe dovuto battere in fronte gli esistenti regimi arabi, ma la
ragione
di Stato valeva per la stessa OLP: la rottura del cordone ombelicale
che
la lega agli esistenti regimi era di razza e nazione e questa rottura
avrebbe
valso l’imboccare un’altra strada, ma in tal caso niente OLP, niente
Arafat!
Nel giugno 1967 ancora una volta la parola fu alle armi, ancora una volta operai e contadini e plebi povere, per decreto imperscrutabile di Jeavé-Allah si scannarono a vicenda.
La guerra era benedetta da ambedue gli schieramenti: se lo Stato di Israele scatenò l’offensiva sia per ottenere delle conquiste territoriali, sia per rimandare una crisi economica e politica interna che già cominciava a manifestarsi in modo abbastanza grave, nondimeno gli Stati arabi con il conflitto poterono rispolverare ipocrite parole d’ordine antimperialiste e filopalestinesi, semplicemente ad uso interno per stringere nell’emergenza dello stato di guerra le masse sfruttate ai loro corrotti regimi, scaricando così le cause della miseria e dell’oppressione sull’espansionismo israeliano.
Fu solo sei giorni, ma le truppe di Tel Aviv fecero in tempo a conquistare Gaza, la Cisgiordania e il Sinai (70.000 kmq.), mentre gli Stati arabi dimostrarono tutta la loro debolezza militare ed inconsistenza politica. Per migliaia di proletari Palestinesi si ripete il dramma che nel 1948 aveva colpito i loro fratelli della restante Palestina. La fascia di Gaza era abitata nel 1967 da 450.000 palestinesi di cui più di due terzi erano rifugiati provenienti dalla fertile piana di Giaffa dai cui erano stati scacciati nel 1948. Più di 100.000 abitanti di Gaza, di cui molti prendevano la via dell’esodo per La seconda volta, furono costretti a rifugiarsi nei paesi vicini. La Cisgiordania che contava circa 850.000 abitanti nel ’67, vale a dire prima dell’occupazione, non ne contava che 650.000 tre anni dopo, il che significa che 200.000 palestinesi avevano dovuto abbandonare tutto in questa regione per andare a finire nei campi di miseria chiamati campi profughi e dai quali la guerriglia dell’OLP trarrà militi su militi, vista l’inettitudine militare dei regimi arabi ad arginare il moderno esercito israeliano.
Senza il minimo dubbio e senza nessuna concessione a pose
antimperialiste
e estetica ammirazione per il combattentismo, così commentammo a
caldo:
«Quale ’indipendenza’ e quale ’pace’ possono sperare dei paesi
attraverso i quali corrono gli oleodotti che pompano il sangue nelle
arterie
della pirateria capitalistica mondiale e i cui ’reggenti’, – borghesi
arrivati, nuovi ricchi o signorotti semi-feudali – hanno tutto
l’interesse
a vendersi a chi detiene le chiavi dei forzieri in tutto il globo,
rubando
al vicino – magari fratello di razza – quello che i loro finanziatori
e padroni agitano davanti ai loro occhi di insaziabili sciacalli? Non
erano
in gioco in questi giorni nel Medio oriente un ’socialismo’ che esiste
soltanto nella menzognera bocca di Nasser e di Kossigin, o un altro
’socialismo’
finanziato in Israele dai grandi banchieri al di qua o al di là
dell’atlantico:
erano in gioco interessi e posizioni di forza, economici e strategici,
nazionali e internazionali dell’imperialismo. Proletari arabi e
israeliani
hanno contro di sé lo stesso nemico: o lotteranno INSIEME per
scardinarlo,
e i proletari delle grandi metropoli imperialistiche che sulla loro
pelle
hanno eretto le proprie fortune saranno I PRIMI a dare loro l’esempio
di una battaglia che non ha frontiere di razza, di Stato e di
religione,
o sarà guerra ancora, lì e dovunque, oggi e domani»
("il Programma
Comunista", 11/1967).
È dalla guerra "dei sei giorni", con il numero dei profughi palestinesi enormemente cresciuto, con il loro massiccio inquadramento nelle formazioni di guerriglia che queste cominciano a giocare un ruolo prima militare poi diplomatico nella tormentata area del Medio Oriente. L’esordio militare della guerriglia è nel marzo del 1968: l’esercito israeliano invade il territorio giordano con 15.000 uomini, carri armati, autoblindo e cannoni, appoggiati da elicotteri ed aerei con l’obiettivo dì distruggere le basi di "terroristi". L’attacco, una vera e propria operazione di "rappresaglia", come la definisce ufficialmente il governo di Tel Aviv, dura 15 ore, le organizzazioni armate della guerriglia palestinese combattono con accanimento costringendo gli israeliani a ritirarsi con gravi perdite (battaglia di Karameh) e lo stesso Hussein «è costretto a rendere omaggio alla combattività dei partigiani e a dichiarare che non gli è più possibile opporsi alla loro azione».
Oltre che in Giordania gruppi di commando erano presenti anche nel Libano meridionale da dove partivano per portare i loro attacchi contro i villaggi dell’alta Galilea; l’esercito israeliano rispondeva alle azioni terroristiche con massicci ed indiscriminati interventi repressivi contro le popolazioni libanesi del sud mentre l’esercito libanese era troppo debole per far rispettare la sovranità delle frontiere. Lo Stato libanese temeva inoltre che la presenza nel paese di forti organizzazioni palestinesi col loro peso politico e militare potesse costituire un serio pericolo per le classi dominanti cristiane, rafforzando le organizzazioni della sinistra. Nel novembre del 1968 le forze armate libanesi circondarono quindi le basi di guerriglieri nel sud; la tensione continuò nei mesi successivi portando anche a gravi scontri armati nell’aprile e nell’ottobre del 1969. Questi contrasti vennero appianati con la firma degli accordi del Cairo che riconoscevano la presenza di basi di commando nel sud del Libano e lo status indipendente del movimento della guerriglia palestinese che poteva disporre quindi di un’altra fetta di territorio oltre la Giordania da cui puntare su Israele.
Sempre in questo periodo, al fianco di Al Fatah, proliferano numerose altre organizzazioni, spesso create da questo o quello Stato arabo nel tentativo di esercitare una influenza sul movimento. Il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) è fondato nel dicembre 1967 con la benedizione di Damasco e del Cairo; la Siria patrocina nel 1968 la creazione della Saika (la folgore). Nello stesso anno, da una scissione di sinistra del FPLP si forma il Fronte Democratico Popolare di Liberazione della Palestina (FDPLP) su posizioni "marxiste-leniniste" o "terzomondiste"; l’anno seguente l’Iraq crea il Fronte di Liberazione Arabo (FLA). Nel marzo del 1970, i partiti comunisti di Giordania, Siria e Iraq costituiscono le "Forze dei partigiani".
Al Fatah rimase comunque l’organizzazione più numerosa ed influente e nel 1969, con l’aiuto di Nasser, si assicurò il controllo effettivo dell’OLP.
Ma il movimento di Al Fatah, il più forte movimento della resistenza palestinese, pur essendo nato dalla volontà di lotta esistente nei campi profughi è l’espressione della piccola borghesia palestinese, come dimostra un documento programmatico del gennaio ’69, ove benché si affermi che 1) «La lotta armata e la rivoluzione globale sono la sola via da seguire per liberare la Palestina e per liquidare l’entità sionista» si dichiara che 2) «L’avanguardia rivoluzionaria palestinese non interviene negli affari interni degli Stati arabi, a patto che gli Stati arabi non intervengano in alcun modo negli affari interni della rivoluzione palestinese».
Con questa strategia politica Al Fatah sancisce il carattere non
solo
non di classe ma nemmeno di lottare sul solo piano nazionale radicale.
Simile prospettiva avrebbe imposto all’OLP lo scontro immediato e
permanente
contro il federalismo reazionario dei piccoli Stati arabi della
regione,
e non solo Israele. È nell’accettazione della non ingerenza
negli
affari
"interni" dei singoli Stati la premessa dei fatti successivi che
vedranno
la mina vagante delle plebi palestinesi disinnescata con le armi non da
Israele ma dagli stessi regimi arabi, ad ulteriore conferma che la
questione
non era più di razza o di nazione ma di classe.
La situazione politica in Giordania era già tesa da alcuni anni. Il reame hascemita, come tutti gli Stati della regione – dai confini turchi sino a Suez e al Mar Rosso a sud, dal Mediterraneo ad ovest ed ai confini dell’Iran ad est – è uno Stato artificiale, creato dagli inglesi con un tratto di penna per favorire i loro interessi mediorientali, «né meno artificiale è la sua struttura economica. La sua feudalità è terriera, non ha costruito la sua ricchezza sul petrolio. A differenza della maggioranza degli Stati arabi della regione, non si è espressa una borghesia commerciale di qualche rilievo: tutto ciò che si ha è solo ceto "borghese" gracile e asfittico, adibito a mansioni puramente intermediarie e dipendenti dall’esterno. Povera di risorse, la Giordania vive solo dell’ossigeno dell’aiuto americano e inglese per cui il gruppo sociale dai privilegi più consistenti e stabili è dato dall’apparato amministrativo e militare, gravitante intorno alla corte» (da La battaglia di Amman di R. Ledda). La Giordania inoltre ha una popolazione composta per due terzi da Palestinesi, 800.000 contro 400.000 transgiordani, per metà beduini nomadi tra i quali si reclutano i soldati.
Le questioni da affrontare per il regime giordano erano due:
a) Il movimento palestinese stava creandosi in Giordania,
soprattutto
nelle città, una base di massa. Esso disponeva di armi,
pubblicava
giornali,
organizzava scuole ed ospedali, rappresentava per le masse sfruttate
giordane
l’illusione di rialzare la testa, di opporsi alla monarchia, al regime
di fame e sfruttamento.
Arafat, fedele alla sua politica di “non ingerenza negli affari
interni
dei regimi arabi” naturalmente non intendeva affatto organizzare le
masse
giordane su questo terreno. Poco prima della strage, il 9 settembre,
aveva dichiarato: «I palestinesi non vogliono il potere e non
hanno la
forza per prenderlo (...) Difendendoci non cerchiamo di minare il
regime
di Hussein, né il potere giordano. Difendiamo solo l’esistenza
della
rivoluzione palestinese, minacciata di annullamento politico e di
distruzione
fisica» (R. Ledda; op. cit).
Né in fin dei conti terranno un diverso atteggiamento le
altre
organizzazioni
della resistenza (FPLP e FDPLP) nonostante le loro dichiarazioni
“rivoluzionarie”.
La tendenza è sempre quella verso il compromesso col regime
giordano,
un compromesso che consenta di proseguire la lotta contro Israele in
cambio
della neutralità in politica interna. Ma le masse non seguono
pedissequamente
le direttive dei loro pretesi capi e il pericolo di una rivolta sociale
si fa sempre più vicino.
b) Il regime giordano non poteva tollerare neppure che partissero
dal
suo territorio le azioni di guerriglia contro lo Stato israeliano. Fin
dall’inizio del ’68, quando la guerriglia è costretta ad
insediare
basi permanenti fuori dai territori occupati e fa partire i suoi
commandos
dal territorio giordano, si era registrato uno stillicidio di incidenti
tra reparti dell’esercito giordano e fedayin che si apprestavano a
superare
la linea del cessate il fuoco. La ragione di questo è chiara: il
regime
hascemita è legato mani e piedi all’imperialismo americano ed
inglese,
e dipende vitalmente dagli aiuti di questi paesi di cui Israele
salvaguardia
gli interessi medio-orientali; la Giordania dunque non può
essere
nemica
di Israele.
D’altronde in questo senso vi è una lunga tradizione di
collaborazione
tra i due Stati che risale al lontano 1949 quando il nonno di Hussein,
Abdullah, si accordò con gli israeliani per autorizzare i feudali
giordani
a liquidare a congruo prezzo i beni posseduti nell’ex Palestina,
divenuta
Stato d’Israele e rinunciò al corridoio verso il mare attraverso
il
Negev in cambio della via libera all’annessione della Cisgiordania.
Per il regime hascemita la soluzione ai due problemi è una sola: liquidare le basi della guerriglia palestinese in Giordania, dare una lezione al proletariato di Amman e spezzare ogni velleità di rivolta.
Iniziano così trattative segrete con Israele per concordare
le
modalità
dell’azione liquidatrice, si aspetta quindi un favorevole momento
internazionale
che riduca al minimo le reazioni, anche verbali, degli altri Stati
arabi
e che veda consenzienti all’operazione di polizia anche le due
superpotenze
USA e URSS. L’occasione propizia si presenta con l’ennesima proposta
americana di un “piano di pace”, il cosiddetto “piano Rogers” che
comportava
i seguenti punti:
a) La nomina da parte di ciascuno Stato interessato di un
rappresentante
per negoziati, sotto la guida di Jarring, sulla base della risoluzione
del Consiglio di sicurezza dell’ONU del 22 novembre 1967 (sempre respinta dalle
organizzazioni della guerriglia).
b) Il riconoscimento di Israele.
c) Il ritiro israeliano dai territori occupati durante la guerra di
giugno.
d) Il ristabilimento del cessate il fuoco per un periodo non inferiore
a tre mesi.
Ciò a condizione che la Giordania, l’Egitto e Israele prima
dell’inizio
dei negoziati firmassero un documento contenente i suddetti punti.
Egitto e Giordania accettano il piano americano mentre l’OLP lo respinge risolutamente
Il piano Rogers naufraga però ancora prima che le truppe di Hussein siano potute passare all’attacco. Il governo israeliano denuncia infatti delle violazioni della tregua da parte egiziana, consistenti nello spostamento di alcune batterie di missili Sam-2 e Sam-3 e il 16 settembre dichiara che «non potrà partecipare alle conversazioni del dottor Jarring fin quando lo status quo militare incluso nel cessate il fuoco non sarà rispettato e non sarà restaurata la situazione precedente».
Nel frattempo Hussein ha però raggiunto accordi diretti con gli USA. «Il Sun Times di Baltimora e l’autorevole Sawt El Uruba di Beirut riveleranno in seguito che gli USA si accordarono con lui su quattro punti precisi. 1) Intervento se lo scontro (con i palestinesi) dovesse sfociare nel pericolo di un crollo della monarchia, grazie ad interferenze militari esterne (nessuno crede ancora che la resistenza possa in qualche modo porre problemi di una certa serietà all’agguerrito esercito giordano); 2) garanzie che la Cisgiordania resterà parte integrante del regno hascemita; 3) appoggio ad un negoziato separato tra la Giordania ed Israele su Gerusalemme; 4) aiuti economici e militari per un valore superiore ai 200 milioni di dollari» (R. Ledda; op. cit.).
Mentre, con perfetto sincronismo Israele ammassa truppe sul Giordano ed Hussein prepara la repressione, le organizzazioni della guerriglia, benché pienamente coscienti del colpo che si prepara, mantengono una posizione difensiva e si rifiutano di organizzare le masse contro l’attacco alle spalle, limitandosi a chiedere al regime il rispetto del governo legittimo e l’epurazione dell’esercito dagli elementi “più reazionari.
Il 16 settembre Hussein scatena l’offensiva: viene creato un governo di militari con alla testa Habes al Majali, capo beduino. Questi ordina senza indugio ai palestinesi di consegnare le armi, impone la legge marziale e dichiara che stroncherà ogni tentativo di reazione popolare.
La guerriglia continua nella sua politica capitolarda e dà disposizioni severissime di non provocare incidenti. «È proibito a chiunque di sparare su qualunque posizione dell’esercito giordano nelle città, nei villaggi e nei campi – dice l’ordine 70/71 del 16 settembre – eccetto il caso in cui queste posizioni inizino il fuoco. In questo caso i tiri devono essere limitati a quelle posizioni militari che hanno aperto il fuoco». Contemporaneamente in un Comunicato congiunto con la Fed. Giordana del Lavoro viene però proclamato lo sciopero generale che ha un grande successo: «Immediatamente Amman si svuota, mentre armate fino ai denti le milizie palestinesi, e questa volta anche i giordani aderenti ai sindacati, al partito comunista e altri gruppi progressisti, si armano e si preparano a battersi» (R. Ledda; op. cit.)
Anche in questa occasione, mentre ormai si attende solo l’inizio della strage, l’OLP non vuole rompere i ponti con Hussein e accusa i settori oltranzisti di corte e l’ambasciata americana. Ancora una volta si cerca l’accordo ed il compromesso ponendo così le premesse per una sconfitta militare che era tutt’altro che inevitabile, visto che l’armata giordana riuscirà a prevalere solo diversi mesi dopo.
L’attacco viene scatenato il mattino del 17. Per prima viene attaccata la città di Amman, dove si concentrava il grosso della forza proletaria. «Dai colli dei dintorni spara l’artiglieria pesante da 155 mm. con proiettili al fosforo, da distanze più ravvicinate sono i cannoni da 75 mm. e i mortai da 80 e 120 mm., i cannoni senza rinculo da 105 mm., i Centurion con i loro pezzi da 105 mm. Il campo di Wahdat, i jebels Hussein e Ashrafia sono i principali bersagli, ma l’attacco è a tutta la città, non si risparmiano se non pochi quartieri» (R. Ledda; op. cit.).
Dopo 48 ore dall’inizio dell’attacco, nonostante l’enorme superiorità di mezzi, l’esercito giordano è appena riuscito a lambire alcuni quartieri periferici della città senza riuscire ad entrarvi. «La mobilitazione popolare impedisce alla fanteria di entrare in azione e i mezzi corazzati non possono arrampicarsi sui jebels» (R. Ledda; op. cit.). Fin dal primo giorno di combattimento viene tolta l’acqua alla città, impedito ogni rifornimento in viveri e medicinali, bombardati ospedali, scuole, i campi profughi che saranno rasi al suolo dalle bombe al fosforo e dal napalm. La guerra divampa anche nelle città del nord della Giordania; il 18 settembre i fedayin controllano Ramtha, Irbid, Zarqa, che sarà anch’essa rasa al suolo, e Mafraq.
Nessuno si attendeva questa capacità di resistenza da parte delle organizzazioni guerrigliere che contavano al massimo 30.000 uomini, privi di armi pesanti, a cui si opponevano 60.000 beduini di Hussein, perfettamente armati ed appoggiati dall’artiglieria, dall’aviazione, dai mezzi corazzati; neppure i capi della guerriglia si aspettavano simile combattività, ma la spiegazione sta nell’intervento nella lotta delle masse oppresse giordane che fin dal primo giorno partecipano in massa ai combattimenti, nonostante la direzione opportunistica dell’OLP non ne incoraggi minimamente l’organizzazione e si rifiuti sempre di rompere l’unità nazionale. Scrive B. Valli sul Giorno del 14/10/70: «I palestinesi si sono resi conto, con grande stupore, che la milizia popolare, non inquadrata come i fedayin, ma dispersa in tutti gli angoli della città, composta da uomini e da donne scarsamente addestrati, ha avuto un ruolo decisivo nella battaglia. Ha saputo perfino organizzare la popolazione, distribuendo pane e munizioni».
Nel nord del paese si va costituendo una "zona libera" sotto il controllo della guerriglia, mentre, preoccupati dalla piega che stanno prendendo gli avvenimenti, gli USA annunciano che unità della flotta dell’Atlantico si dirigono verso il mediterraneo per rafforzare la VI flotta. «Anche Mosca interviene pesantemente a Baghdad, le truppe irachene di stanza in Giordania, si ritirano dalla città di Zarqa e lasciano passare le truppe di Hussein che si portano all’attacco di Ramtha» (Quad. del MO.; nov. ’70).
Solo dalla Siria l’organizzazione Al Saika e la brigata Hittine, cioè le truppe palestinesi inquadrate nell’esercito siriano, entrano in Giordania con mezzi corazzati per aiutare i guerriglieri, ma il loro intervento ha un obiettivo limitato «permettere, rimanendo in territorio giordano per 36 ore, il consolidamento politico e militare della "zona libera". La brigata infatti batte l’esercito giordano a Ramtha il 20 e il 21 settembre, ma non avanza verso Jerash ed Amman, attestandosi sulla linea di Irbed» (R. Ledda; op. cit.).
Al Fatah rivolge un messaggio ai re e ai presidenti arabi riuniti al Cairo in cui si afferma che: «Le perdite nella sola Amman sono giunte a circa 20.000 tra morti e feriti, la maggioranza delle quali sono donne e bambini caduti in seguito ai continui bombardamenti di scuole, moschee, chiese e ospedali nei quali si erano rifugiati dato che le loro case erano state distrutte». Nella città continua la battaglia e le truppe di Hussein controllano ora il centro della città mentre i fedayin rafforzano le loro posizioni nel Nord del Paese e si avvicinano alla capitale conquistando la regione di Gerash.
Il 23 le unità corazzate di Al Saika vengono fatte rientrare in Siria. Il 25 il generale El Nimeiri, capo della missione di conciliazione araba instaurata dalla missione dei capi di Stato al Cairo, si incontra ad Amman con Arafat. Viene raggiunta un’intesa e nella tarda mattinata la radio di Amman annuncia che è stato raggiunto un accordo tra Arafat, Hussein e Nimeiri per un cessate il fuoco totale ed immediato in tutta la Giordania. Ma nonostante l’accordo i beduini di Hussein continuano nei giorni seguenti i massacri e le stragi. Domenica 27 un nuovo accordo viene raggiunto al Cairo.
L’accordo prevede una serie di nobili e solenni impegni da parte del governo giordano, ristabilisce alcune libertà fondamentali per il movimento di guerriglia (organizzazione, spostamento, ecc.), ma stabilisce i luoghi dove i fedayin dovranno restringere le loro basi mentre non dice una parola sul futuro assetto governativo della Giordania e tradisce quindi completamente le aspettative delle masse povere giordane che, scendendo in battaglia a fianco dei fedayin speravano di imporre il miglioramento delle loro condizioni di esistenza.
Agli Stati arabi è necessario che l’OLP mantenga il controllo organizzativo e militare delle numerose plebi della regione, deviando la loro disperazione in senso nazionale, anti-israeliano, a-classista. Questo compito è coscientemente – statutariamente come visto – accettato da tutta l’OLP.
L’accordo non poteva non prevedere la delimitazione territoriale e sociale del ruolo dell’OLP, che deve mantenere il carattere di movimento "irredentista" e non generale di tutti gli sfruttati, nemmeno solo arabi. Non di tradimento si è trattato, né da parte degli Stati né di Arafat, ma di conferma del loro ruolo necessario. Questo accordo separa le organizzazioni della guerriglia dalle masse giordane mentre serve ad Hussein per riorganizzarsi in vista di un colpo decisivo non molto lontano. Non viene neppure silurato il boia Majali, responsabile diretto dei massacri di Amman, che sebbene debba rinunciare alla carica di governatore militare, mantiene quella di comandante delle forze armate. Secondo gli accordi i campi palestinesi vengono allontanati dalle città e spostati verso il confine con la Cisgiordania.
Il senso degli avvenimenti venne così descritto su "il Programma Comunista" 17-1970: «I fedayin esprimono la collera sacrosanta di plebi maciullate sotto il rullo compressore della ’pace’ borghese. Ma che cosa possono attendersi, dall’eroismo della propria disperazione? Essi stessi sono il prodotto di un gioco infame condotto sulle spalle e sulla pelle di popolazioni conquistate o perdute ai dadi dal capitalismo nell’affannosa corsa al dominio del mondo: forse che la ’Palestina ai palestinesi’ li riscatterebbe più di quanto li abbia ’riscattati’ la Giordania? Sono i martiri del dramma collettivo: non possono – non è colpa loro – risolverlo nel quadro e coi mezzi della società che l’ha voluto e lo vuole. Non hanno né ’fratelli’ né ’cugini’ negli Stati vicini o lontani sui quali hanno avuto l’ingenuità di contare, non al Cairo e non a Damasco, non a Mosca e non a Pechino. Avranno dei fratelli il giorno in cui i proletari di EUROPA e di AMERICA, delle ’metropoli’ del ladrocinio mondiale, avranno cessato di prosternarsi vergognosamente dietro i loro falsi pastori del mito della ’pace’, del ’dialogo’, di una ’solidarietà’ fatta di miserabili preci e lacrimosi petizioni, e, avendo liberato se stessi dal duplice giogo del capitale e dei suoi servi opportunisti, si assumeranno con gioia fraterna il compito di dare, essi che hanno ereditato non le troppe infamie ma le poche conquiste durature della società borghese finalmente defunta, a coloro che non hanno mai avuto. Li avranno il giorno in cui il Medio Oriente non conoscerà più giordani né libanesi, né siriani, né iracheni, né egiziani, né sauditi, ma proletari che abbiano fatto saltare qualunque frontiera, abbiano riconosciuto falsa e bugiarda ogni patria».
La sconfitta di settembre provoca aspri dibattiti tra i vari gruppi
palestinesi ma, «mentre le organizzazioni palestinesi si sfibrano
in
dibattiti,
utili ma interminabili – scrivono Bichara e Naim Khader – le
autorità
giordane si preparano ad una seconda grande offensiva. Alla testa del
governò
giordano si trova un uomo di pugno, Wasfi Al-Tall, alla testa
dell’esercito
dei capi intransigenti che rimproverano al reuccio di essere troppo
morbido
con i commandos. Vengono prese misure draconiane: siluramento dei
Palestinesi
dai posti importanti dell’Amministrazione statale, estensione dei
poteri
dei Servizi d’informazione della Polizia. La fermezza di Hussein non
si spiega soltanto con le pressioni che l’esercito fa su di lui.
«Il re è venuto a conoscenza delle ipotesi di lavoro,
formulate da
certi diplomatici americani ed inglesi secondo le quali la creazione di
uno Stato palestinese in Giordania – alla quale verrebbe un giorno ad
aggiungersi la Cisgiordania - potrebbe costituire una soluzione al
problema
mediorientale; è ovvio che questa sarebbe la fine della
monarchia
hascemita.
Il comportamento di Hussein durante i mesi che seguiranno l’VIII
Consiglio
nazionale palestinese sarà dunque guidato da un imperativo
vitale:
apparire
di fronte agli Stati arabi ed alle grandi potenze come l’unico
interlocutore
valido. È ciò che egli spiega nel lungo viaggio che lo
condurrà da Riad
a Londra, a Washington e a Parigi. Riconfortato dagli incoraggiamenti o
dai ’complici silenzi’ che caratterizzeranno il suo viaggio, cosciente
della paralisi dei paesi arabi, Hussein può tentare di finirla
con i
fedayin.
I primi scontri hanno luogo nell’aprile del ’71. Per togliere ogni
pretesto al re, i fedayin evacuano Amman tra l’8 ed il 15 aprile, ma
essi intendono conservare le zone boscose che erano state loro
assegnate
nel nord della Giordania (Jerash, Ajlun, Irbid). Nel maggio, le forze
di
Hussein chiedono ai fedayin di abbandonare le loro basi nel nord e di
raggiungere
la valle del Giordano. Di fronte al rifiuto palestinese l’esercito
prende
posizione davanti a Jerash e a Dibbin. All’inizio di giugno circola la
voce dell’eventuale creazione di un governo palestinese in esilio. Il
re reagisce ordinando a Wasf Al-Tall di spezzare senza esitazioni
questi
«complottatori che vogliono creare uno Stato palestinese
separato». La
battaglia di Ailun, che si svolge dal 13 al 17 luglio del ’71, porta
un duro colpo alla resistenza. I combattimenti fanno centinaia di
vittime».
I Paesi arabi attaccano Hussein a parole ma non muovono un dito. Il vertice riunito con urgenza a Tripoli da Gheddafi vede l’assenza dell’Arabia Saudita, della Tunisia, del Sudan e del Libano.
A seguito di questa sconfitta i fedayin perdono tutte le loro basi in Giordania.
Nel marzo l’VIII Congresso naz. pal., riunito al Cairo, aveva ribadita l’opposizione alla costituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza. Nell’ottobre Arafat si reca a Mosca; dal ’69 le relazioni con la Russia sono infatti nettamente migliorate; ormai anche Mosca ha capito che l’O.L.P. è disposta alla trattativa ed è tutt’altro che un covo di rivoluzionari.
Il 1972 è l’anno degli attentati terroristici compiuti dall’organizzazione "Settembre Nero". Sono il risultato logico della disperazione e della rabbia che aveva colto i combattenti palestinesi dopo gli avvenimenti giordani. Intanto i fedayin si spostano dalla Giordania in Libano, l’ultimo Stato arabo in cui è loro ancora possibile organizzarsi autonomamente; anche in Libano però sorgeranno presto gravi problemi.
Il 10 aprile del ’73 con un rapido raid, truppe israeliane attaccano
alcuni quartieri di Beirut e Sidone, le sedi di alcuni movimenti di
guerriglia
e uccidono nelle loro abitazioni tre loro dirigenti. Le
responsabilità
del governo libanese vengono denunciate: «Il governo libanese ha
fatto
tagliare i telefoni dei dirigenti della Resistenza e ha inoltre sospeso
l’erogazione dell’energia elettrica nei quartieri di Beirut colpiti
dall’attacco israeliano, favorendo quindi la ritirata dei
sionisti»
(da "Al Sharara", periodico dei FDPLP). Anche in Libano si andava
creando
una situazione simile a quella giordana ed il governo libanese aveva
iniziato
a rimettere in discussione gli accordi del Cairo del 1969 con l’OLP,
proibendo ai guerriglieri di portare le armi, di vigilare sui campi
etc.
Ma ai funerali dei tre dirigenti dell’OLP partecipano 250.000 persone
tra cui molti proletari libanesi. Per il governo è un grave
monito e si
decide quindi di passare all’attacco diretto contro i campi profughi,
pericolose concentrazioni di proletari e sottoproletari. Nelle prime
due
settimane di maggio si verificano gravi scontri tra guerriglieri ed
esercito;
il 7 maggio vengono decretati in tutto il paese la legge marziale ed il
coprifuoco. Anche l’aviazione viene impiegata contro le basi dei
fedayin,
ma gli attacchi sono respinti ed il 12 maggio viene raggiunta una
precaria
tregua.
Il 6 ottobre del ’73 Egitto e Siria attaccano Israele. Lo scopo è evidentemente quello di costringere Tel Aviv, con l’ottenimento di un successo militare anche parziale, ad ammorbidire le sue posizioni sui territori occupati nel ’67 ed a portare il problema davanti ad un tavolo di negoziato. Anche la Giordania prende parte alla guerra unitamente a simbolici reparti iracheni, marocchini e tunisini. L’OLP partecipa alla guerra all’interno dei territori occupati. Decine di migliaia di lavoratori dei territori occupati e dello stesso Israele, sotto indicazione del Fronte Nazionale Palestinese, fanno sciopero per tutta la durata della guerra mettendo in seria difficoltà numerose industrie israeliane.
La guerra, iniziata con una vittoriosa avanzata delle truppe egiziane nel Sinai, si conclude dopo un paio di settimane con la vittoria degli israeliani che conquistano nuovi territori sul Golan e riescono anche ad attraversare il canale di Suez accerchiando la III armata egiziana. La guerra aveva mostrato, una volta di più, l’inconsistenza del mito della unità araba: la partecipazione dell’esercito giordano era stata pressoché nulla; nessun coordinamento vi era stato tra l’azione degli eserciti di Egitto e Siria e l’uno attaccava quando l’altro era in ritirata e persino l’accordo di disimpegno tra le parti viene firmato il 18 gennaio dall’Egitto e solo il 31 maggio dalla Siria. L’impatto psicologico sul mondo arabo è comunque notevole perché per la prima volta eserciti "arabi" erano riusciti a sconfiggere, seppure parzialmente, l’esercito di Tel Aviv.
«Questa guerra – commenta Le Monde Diplomatique del giugno ’78 – presentata come una vittoria dai regimi egiziano e siriano, doveva permettere loro di negoziare partendo da una posizione di forza; inoltre doveva servire a riabilitare la guerra classica a spese della guerra popolare. La direzione dell’OLP ha potuto quindi utilizzare questi due elementi per giustificare, all’interno dell’organizzazione, la sua partecipazione ad un tale regolamento politico. I risultati di questa strategia non si fanno attendere: il 27 novembre, al vertice arabo di Algeri, l’OLP viene riconosciuta come «la sola rappresentante legittima del popolo palestinese».Il 26 ottobre del ’74 il vertice arabo di Rabat riconosce ufficialmente l’OLP come «unica legittima rappresentante del popolo palestinese su qualsiasi parte liberata del territorio palestinese». Il 2 giugno precedente il 12° Consiglio naz. pal. aveva riconosciuta la possibilità della creazione di uno Stato palestinese su una parte dei territori liberati. Il 14 ottobre l’ONU invita l’OLP a partecipare alle deliberazioni dell’assemblea sulla questione palestinese; il 13 novembre Arafat interviene all’ONU; il 16 dicembre il Comitato centrale dell’OLP annuncia la cessazione della campagna propagandistica antigiordana.
Solo il Fronte Popolare (FPLP) rifiuterà l’ipotesi del "mini Stato" uscendo nel settembre del ’74 dal Comitato esecutivo dell’OLP e dando vita al cosiddetto "Fronte del rifiuto", insieme al FPLP – Comando generale e al Fronte di Liberazione arabo (FLA).
L’emergere della posizione del "Mini-Stato", posizione ferocemente condannata fino a qualche mese prima, e che si ricollega direttamente al riconoscimento dell’OLP da parte degli Stati arabi e della stessa ONU, come unica rappresentante del popolo palestinese, è una prova ulteriore dell’inconsistenza della "questione nazionale" palestinese, perlomeno nel senso nazionale progressista.
L’accettazione della prospettiva del "Mini-Stato" conferma che la
guerriglia sceglie di porsi definitivamente all’interno dell’ordine
imperialista della regione e che la via della diplomazia e della
trattativa
va ormai prendendo il posto di quella delle armi poiché i suoi
metodi
di azione e di lotta devono adeguarsi alla sua politica.
Gli avvenimenti libanesi vengono a spezzare i piani di pacifiche conquiste che si andavano facendo strada nella testa dei dirigenti dell’OLP.
Il tentativo di eliminazione fisica dei guerriglieri in Giordania si era risolto nello spostamento geografico degli stessi problemi per di più aggravati dal contatto inevitabile e spontaneo dei palestinesi con le masse musulmane sfruttate libanesi. Sradicati dalla terra, costretti a vendersi a salari irrisori o ad impugnare le armi in organizzazioni non solo non classiste ma neanche rivoluzionarie, gli ex braccianti, contadini, artigiani, piccoli commercianti palestinesi si avviano a poco a poco verso un’alleanza non scritta, spontanea e radicata con i loro fratelli di classe libanesi nonostante le direttive opportuniste dei loro dirigenti. Il profugo palestinese si trova sfruttato al pari del suo fratello libanese o giordano, sia dal proprietario arabo che dal capitalista israeliano; sia dal regime progressista libico o siriano che dalla monarchia hascemita, la sua condizione di profugo lo libera dalla responsabilità patriottica verso frontiere che non possiede (e che gli vorrebbero dare), la sua forza lavoro è quotata sul mercato di Tel Aviv fino al Kuwait; migliaia di proletari passano giornalmente le frontiere a sud del Libano per recarsi al lavoro in Israele; altre migliaia si spostano da Gaza o dalla Cisgiordania, egli ormai non è più un palestinese ma un proletario senza terra. Lo Stato libanese è cosciente del pericolo rappresentato dalla presenza sul suo territorio di ben 400.000 profughi, data la situazione sociale estremamente critica del paese, che vede da una parte ammassate ingenti ricchezze nelle mani della minoranza cristiana maronita, cioè della grande borghesia commerciale e finanziaria, dei proprietari fondiari, della casta politica e militare, dall’altra la maggioranza della popolazione musulmana, contadini poveri, braccianti, operai, disoccupati, ammassati spesso nelle bidonvilles alla periferia delle grandi città come a Beirut dove si raccoglie un terzo dell’intera popolazione del Libano in condizioni di vera e propria miseria o addirittura in campi di fortuna.
«L’interesse particolare che la destra cristiana perseguiva – scrive S.Turquie su "Le Monde Diplomatique" del dic. 1976 – era la conservazione del suo potere minacciato dalla presenza della resistenza palestinese in Libano: l’azione dei fedayin alla frontiere israeliana metteva in crisi la sua preminenza e provocava una tensione che rischiava di trascinare il paese in un conflitto regionale da cui la borghesia libanese aveva sempre saputo restare al di fuori; l’autonomia militare dell’OLP spezzava il monopolio delle armi sulle quali è fondata la dominazione delle classi al potere».
Dopo i tentativi falliti, negli anni precedenti, di disfarsi con la forza della presenza delle milizie palestinesi, nel gennaio del 1975 le Falangi (organizzazione della destra cristiana) denunciano la presenza dei fedayin nel sud e chiedono un referendum per stabilire se debbano o meno continuare a restare nel paese. Il 13 aprile un autobus di palestinesi e libanesi viene attaccato alla periferia di Beirut e 27 passeggeri tra cui 18 fedayin vengono massacrati. Da questo episodio inizia la lotta aperta tra le organizzazioni della guerriglia e le agguerrite milizie della destra cristiano-maronita. I combattimenti provocano una grave crisi di governo e con la mediazione della Siria si giunge alla formazione di un "governo di salvezza nazionale" che annuncia un programma di riforme socio-economiche e riesce a mantenere la tregua per due mesi (luglio e agosto del ’75). Alla fine di agosto gravi incidenti scoppiano nella piana della Bekaa, nel Libano orientale, tra cristiani e musulmani, tra cui numerosi sono i braccianti agricoli impiegati in gran numero nella zona. Gli incidenti si estendono anche al nord del Libano e si svolgono con estrema durezza culminando, a Beirut, con la strage di 200 civili musulmani da parte di miliziani cristiani. L’intervento diplomatico della Siria riesce purtuttavia, nel mese di dicembre a far cessare i combattimenti. Queste tregue naturalmente non servono ad un bel niente poiché non rimuovono le cause che hanno determinato gli scontri; l’unica loro funzione è quella di permettere alle organizzazioni della destra, ben decise sul da farsi, di riorganizzare le loro forze e procedere a nuovi attacchi. Infatti nel gennaio ’76 i falangisti organizzano il blocco del campo palestinese di Tell El Zaatar, alla periferia di Beirut. Il 14 gennaio la destra cristiana si impadronisce del campo di Dbaje (a nord di Beirut) e attacca la bidonville libano-palestinese della Quarantena a Beirut. Le organizzazioni della guerriglia palestinese unite a quelle della sinistra libanese contrattaccano. L’intervento in alcune occasioni dell’esercito libanese a fianco delle destre, provoca una ribellione nell’armata le cui gerarchie superiori sono composte essenzialmente da cristiani maroniti, mentre gli ufficiali di rango inferiore ed i soldati sono in gran parte di estrazione proletaria e contadina e musulmani. La ribellione si estende a macchia d’olio in tutto il paese e viene costituita l’Armata del Libano Arabo, che si schiera al fianco delle organizzazioni di guerriglia.
A questo punto la situazione si fa molto delicata per le forze cristiane ed il pericolo di una vittoria delle milizie palestinesi si fa reale. Si impone dunque un intervento esterno in aiuto delle forze statali.
È la Siria stavolta ad assumersi il compito di riportare l’ordine. Intervenendo in Libano il regime siriano persegue dei suoi obiettivi particolari. «Qualunque siano stati i regimi che si sono succeduti a Damasco, la Siria non ha mai veramente ammesso l’esistenza di un Libano indipendente. Il sogno della dominazione di questo paese, o meglio, del suo ritorno nella "Grande Siria", è stato un elemento costante nella politica siriana. Al momento in cui i carri del presidente Assad passavano la frontiera libanese, all’inizio del giugno ’76, la frazione dominante del potere libanese, la destra cristiana, non è nella situazione di potersi opporre all’impresa. È un’occasione insperata per Damasco che ha un altro motivo per intervenire nel conflitto: non può permettere, nel vicino Libano, una vittoria palestino-progressista che rischierebbe di spingere a sinistra il suo stesso regime» (Le Monde Diplomatique, dic. ’76). A questi motivi particolari dello Stato siriano, si aggiunge, come abbiamo già detto, la volontà generale dei paesi arabi: «La disfatta della destra libanese avrebbe rappresentato un avvenimento controcorrente nella prospettiva di un regolamento negoziato con Israele e avrebbe condotto ad una diminuzione della dipendenza dei Palestinesi verso Damasco. Così, al di là delle proteste verbali, gli Stati Arabi più direttamente interessati hanno lasciato fare le truppe di Assad, almeno fino ad un certo punto» (Le Monde Diplomatique, dic. ’76).
In un primo tempo la Siria ha fatto intervenire le truppe della Saika, cioè palestinesi organizzati nell’esercito siriano, ma questi reparti disertano in massa passando dalla parte della guerriglia; ai primi di giugno allora interviene direttamente l’esercito siriano con 13.000 uomini e 800 carri armati; esso sottopone ad uno stretto assedio i quartieri di Beirut in mano alle milizie palestinesi e apre un nuovo fronte nel sud del paese. L’intervento siriano non trova oppositori; è avvenuto con l’approvazione americana ed il consenso israeliano che ha però posto come frontiera insuperabile dalle truppe di Damasco, il fiume Litani; è approvato dalla Russia che vede di buon occhio un rafforzamento della Siria e sta contrattando la vendita di armi alla Giordania e naturalmente è accettato dalla Lega Araba che indice però un vertice per arrivare ad un accordo di "pace".
Nell’agosto, dopo un assedio di 52 giorni cade il campo palestinese di Tell El Zaatar; chiamata la popolazione ad abbandonare il campo promettendo la protezione della croce rossa, i falangisti e le milizie di Chamoun (un’altra organizzazione cristiana) iniziano poi il massacro sistematico della popolazione facendo migliaia di vittime.
Scrivevamo, commentando rabbiosamente quei tragici avvenimenti:
«L’azione
e l’esistenza stessa delle masse povere palestinesi era UNA MINA
VAGANTE,
in quella tormentata zona del mondo, una mina che poteva scoppiare da
un
momento all’altro: i palestinesi cozzavano contro gli interessi di
tutti,
andavano eliminati, ed a farlo è stata la coalizione Stati arabi
-
Israele-Imperialismo
che si è mossa in un compatto fronte reazionario.
«L’Unità nei suoi schifosi commenti dà
lezioni a tutti
di moderazione e di frontismo, cercando bellamente di diluire e
nascondere
lo scontro di classe esploso in Libano, usando sfacciatamente i miti
ingannevoli
di popolo e nazione palestinese per far passare sotto banco le
contraddizioni
che lacerano l’unità di questo stesso popolo. Le agenzie di
stampa
riportano
che Tell El Zaatar più che un campo di profughi vero e proprio
era
diventato
un gigantesco sobborgo, una bidonville come tante delle città
africane,
asiatiche, americane, bidonville in cui abitavano spalla a spalla
proletari
e semi-proletari libanesi e palestinesi reclutati come forza lavoro a
basso
prezzo nelle fabbriche di Beirut; il capitale, forza anonima e
gigantesca,
prima unisce le razze e le nazionalità e poi le scioglie nella
classe!
(...)
«Questi i rapporti sociali e politici esistenti. Questa l’unica
prospettiva rivoluzionaria reale: legare il problema nazionale
palestinese
a quello di classe, il che significa inquadramento autonomo dei
proletari
e dei contadini poveri palestinesi e non fronte comune, in antitesi ad
ogni organizzazione nazionale, interclassista; programma di radicale
riforma
agraria, incessante sforzo per collegare la forza ed il movimento dei
proletari
e dei contadini poveri palestinesi e degli altri paesi arabi, la
emancipazione
dei quali dovrà vincere contro gli Assad, gli Hussein, i Sadat,
i
Gheddafi,
gli Arafat e non solo contro lo Stato di Israele.
«Certo, anche contro l’OLP che sabota l’azione del proletariato
di Palestina il quale dovrà invece darsi un’organizzazione di
classe,
operaia. Questo è apparso in modo cristallino col massacro di
Tell EI
Zaatar durante il quale l’OLP ha finto di elemosinare da tutti gli
Stati
arabi, Siria compresa, promesse mai mantenute, come era inevitabile, di
tregua e conferenze di pace, coll’unico risultato di aumentare la massa
dei chiacchieroni e preti che sempre, quando i fatti danno la parola
alle
armi e alla azione diretta delle masse, si aggrappano testardamente
alle
illusioni pacifiste piccolo-borghesi (...)
«Presupposto per la vittoria dei proletari e contadini poveri
arabi
e palestinesi è rompere la coabitazione di classi e programmi
opposti,
emendarsi e darsi una disciplina autonoma, prima di tutto militare.
Solo
tale libertà di movimento potrà permettere anche che la
stessa logora
bandiera del panarabismo borghese si stravolga nella rossa insegna
delle
affratellate masse proletarie mediorientali.
«L’opportunismo che incatena il proletariato dei paesi avanzati
alle illusioni riformiste, gradualiste, pacifiste ed elettoralesche
è
l’altro nemico da battere: è nostra certezza che i giganteschi
sommovimenti
economici, politici e sociali annunciati vicini dalla crisi attuale del
sistema di produzione capitalistico mondiale faranno sciogliere come
neve
al sole queste illusioni e che il proletariato si ricongiungerà
col suo
partito e il suo programma rivoluzionario di attacco al regime
borghese,
buttando il suo formidabile peso sulla bilancia della lotta di classe
alla
scala del mondo. Tell El Zaatar è una sconfitta dei lavoratori
di tutto
il mondo, ma ci sono sconfitte che valgono più di mille
vittorie...
elettorali,
sconfitte dalle quali la rivoluzione si rialza anonima e tremenda
più
di prima, col suo grido: Ero, sono, sarò! I vinti di
oggi
saranno
i vincitori di domani» (da "il Partito Comunista";
settembre
1976)
Dopo le stragi di Beirut l’offensiva delle truppe siriane si
arresta:
«L’offensiva lanciata dall’esercito siriano nella montagna
libanese
contro le forze palestinesi-progressiste è stata bruscamente
arrestata
a metà ottobre, per iniziativa diplomatica del re Khaled
dell’Arabia
Saudita. L’arresto dei combattimenti è avvenuto nel momento in
cui
l’esercito
di Damasco dava prova della sua superiorità militare, ma anche
quando
l’accanita resistenza dei combattenti palestino-progressisti lasciava
presagire degli scontri particolarmente sanguinosi che avrebbero
rischiato
di terminare, a prezzo di pesanti perdite siriane, con lo
schiacciamento
della resistenza palestinese. In queste condizioni, una vittoria
puramente
militare avrebbe portato ad una aperta occupazione siriana e senza
dubbio
al rimpiazzo dei dirigenti dell’OLP con i capi della Saika, infeudati
a Damasco. Gli Stati arabi non potevano ammettere né una
liquidazione
troppo spettacolare dell’OLP, né un rafforzamento troppo
evidente della
sola influenza siriana» (Le Monde Diplomatique.; dic. ’76).
L’accondiscendenza
della Siria al volere degli Stati arabi e soprattutto dell’Arabia
Saudita,
che in questo momento ne conduce la politica, si spiega facilmente:
«Circa
un quarto delle risorse siriane (un miliardo di dollari sui 4,5
miliardi
che Damasco spende nel ’76) provengono dai paesi petroliferi.
L’eccessiva
dipendenza finanziaria della Siria verso l’Arabia Saudita in
particolare
dimostra assai bene che l’intervento di Assad negli affari interni del
Libano e della resistenza palestinese fu almeno tollerato da
Riad» (Le Monde Diplomatique;
dic. ’76).
Fatto significativo: dopo averne massacrato in Libano i migliori combattenti, il 6 settembre, appena tre settimane dopo la strage di Tell El Zaatar, la Lega Araba riconosce all’OLP piena qualità di membro, con diritto di voto. Come abbiamo già visto dopo la strage del "Settembre nero", anche stavolta il comportamento disciplinato dell’OLP, che si limitava alla trattativa per "fermare il massacro", gli frutta la promozione sul campo diplomatico: le stragi di plebi arabe scandiscono tragicamente i "progressi politici" della "causa nazionale palestinese".
Il 17 ottobre si riunisce il vertice arabo di Riad: Arafat vi partecipa insieme al boia Assad, al suo uomo di paglia libanese, Sarkis, al collaborazionista Sadat, all’Emiro del Kuwait e al re Kaled d’Arabia Saudita che pare l’uomo forte della situazione... cioè l’uomo di Washington. Apertosi sotto l’egida della riconciliazione tra il Cairo e Damasco che erano in rotta dal 2 settembre del ’75, data della firma da parte egiziana del secondo accordo nel Sinai con Israele.
Il vertice è manovrato, pur in loro assenza, dagli USA e si inscrive nel loro piano di risoluzione della crisi mediorientale fondato sulla pace ed il riconoscimento reciproco tra Stati Arabi ed Israele, una volta eliminati con la forza i focolai di tensione rappresentati dai palestinesi. Viene deciso che entri in vigore in tutto il territorio libanese una cessazione del fuoco per il 21 ottobre; che una forza di pace araba di 30.000 uomini sia incaricata di far rispettare la pace; di ottenere che tutti i combattenti tornino sulle posizioni occupate all’inizio della guerra e di ritirare loro l’armamento pesante. L’OLP si impegna a rispettare gli accordi del Cairo del ’69 ed a ritirarsi nelle sue basi nel Libano meridionale. Il piano non fa una parola del fatto che milizie della destra con l’appoggio dell’esercito israeliano, stanno conquistando forti posizioni nel sud, ponendo in dubbio molto seriamente la possibilità da parte dei palestinesi di tornare nelle loro vecchie basi; ufficializza in pratica la presenza di truppe siriane in Libano ed anzi apre la via al rafforzamento del contingente di Damasco che da 12 passerà a 30 mila effettivi e pretende perfino il disarmo delle organizzazioni guerrigliere che, senza le armi pesanti, resterebbero in balia del macellaio dei momento.
Il compromesso di Riad se riesce a stabilire una incerta tregua, lascia una situazione non meno esplosiva di quella che esisteva prima della guerra: dopo mesi di guerra civile le forze palestino-progressiste sono state duramente colpite ma non certo eliminate dalla scena; non è cambiato nulla in Libano e l’unica garanzia di "pace" è costituita dalla presenza massiccia di soldati d’occupazione; Israele d’altronde non pare affatto disposta a subire la nuova strategia americana che, in preparazione di Camp David, non intende più limitare la sua presenza nella regione sul solo Stato d’Israele, ma vuole anche l’alleanza con i paesi arabi moderati e punta quindi a ridurre i motivi di scontro tra le parti per arrivare ad una "pacificazione" regionale in funzione antirussa. Lo Stato israeliano intende dunque trarre dalla guerra civile quanti più vantaggi possibile per rafforzare la sua posizione e l’occasione è tra le più favorevoli per guadagnare posizioni a nord.
In questo periodo la situazione dei palestinesi, reduci dalla sanguinosa guerra civile, è particolarmente critica: a sud, come abbiamo visto essi sono braccati dall’esercito israeliano e dai suoi mercenari; nel centro e nel nord essi devono fare i conti non solo con le milizie delle Falangi, anch’esse ben foraggiate ed armate dagli israeliani, ma soprattutto con la Siria che cerca in ogni modo di sottometterne le organizzazioni alla sua direzione.
Ma l’atteggiamento della Siria è destinato a cambiare con l’ulteriore avvicinamento dell’Egitto ad Israele, confermato spettacolarmente dalla visita di Sadat a Gerusalemme nel novembre del 1977.
Mentre Israele, col rafforzarsi dei legami con l’Egitto, si assicura la pace alla frontiera meridionale e può con tutta tranquillità spostare il suo potenziale militare verso il nord, la Siria rischia di trovarsi completamente isolata, opposta sia all’OLP, sia ai paesi arabi moderati che accettano di fatto la politica conciliatrice dell’Egitto.
Il massiccio attacco israeliano al Libano meridionale nel marzo del ’78, attacco che mostra la potenza dell’esercito di Tell Aviv e costituisce una seria minaccia per lo stesso territorio siriano; la firma degli accordi di Camp David nel settembre; l’atteggiamento intransigente delle Falangi che, nonostante l’appoggio avuto da Damasco non sono disposte a tollerarne a lungo la occupazione e puntano su Israele, tutti questi fatti porteranno il regime di Assad a cambiare di nuovo bandiera e a ricercare nuovamente l’alleanza con l’OLP, rinsaldando allo stesso tempo i legami con Mosca.
Nel marzo del ’78, come abbiamo detto, prendendo a pretesto un grave attentato terroristico contro civili israeliani, 30 mila soldati di Tell Aviv, con l’appoggio di aviazione e mezzi corazzati, invadono il Libano meridionale, investendo le basi palestinesi, difese da poche centinaia di guerriglieri.
Ma la situazione non è evidentemente ancora matura per assestare il colpo decisivo alla forza militare dei fedayin; le truppe israeliane dopo alcuni mesi di occupazione del Libano meridionale, si ritirano accontentandosi di un successo solo parziale. I palestinesi, dal canto loro, nonostante il massiccio intervento israeliano che, proprio per la sua potenza non era potuto avvenire di sorpresa, sono usciti dalla battaglia senza gravi perdite, avendo potuto ritirarsi in buon ordine.
Nel settembre successivo proprio mentre aerei israeliani mitragliavano e bombardavano i campi palestinesi ed i villaggi nel Libano meridionale, a Camp David si stavano siglando, sotto l’alta regia carteriana i famosi accordi tra USA-Israele ed Egitto che avrebbero portato al decisivo passaggio dell’Egitto nell’orbita americana, alla firma del trattato di pace tra Gerusalemme ed il Cairo e alla restituzione del Sinai all’Egitto. Questi accordi, che le agenzie della propaganda imperialista del mondo intero reclamizzeranno come un decisivo passo in avanti verso la pace in Medio Oriente, saranno al contrario la indispensabile premessa dell’attacco israeliano al Libano, dell’occupazione di Beirut da parte dello Tsahal e dell’eliminazione completa della presenza palestinese nel Libano meridionale.
Intanto l’intervento delle forze dell’ONU, voluto dagli Stati arabi e dalla stessa OLP porta all’internazionalizzazione del conflitto libanese ed apre la strada a quel "regolamento politico globale" che è nei piani dell’imperialismo americano; anche la precaria alleanza che si era costituita tra i paesi arabi contro gli accordi di Camp David e contro l’Egitto si va rapidamente sfaldando e dopo la caduta dello Scià in Iran e l’andata al potere di Komeini nei primi mesi del ’79, l’Iraq, l’Arabia Saudita e la Giordania prendono nettamente le distanze da Siria, Libia e Yemen del Sud che restano i soli paesi ad opporsi alla trattativa con Israele.
Nel sud del Libano intanto la politica seguita da Israele tende a togliere ai palestinesi, approfittando della loro sconfitta, l’appoggio della popolazione, composta in maggioranza di sciiti, l’etnia più numerosa e più povera del Libano. Per lungo tempo gli sciiti sono stati alleati delle sinistre libanesi; essi hanno subito le perdite maggiori nella guerra civile del ’75-’76 e la loro regione nel Libano meridionale, è stata la più tartassata dalle bombe. Da sempre hanno subito le rappresaglie israeliane insieme ai palestinesi ed una solidarietà di fatto tendeva a stabilirsi tra le due comunità, nel sud come nelle bidonvilles alla periferia di Beirut. Ma né le organizzazioni palestinesi né i partiti della "sinistra" libanese potevano mai offrire nulla a questa comunità e ai proletari delle bidonvilles, in cambio della loro solidarietà, o meglio, la mancanza di un programma sociale di emancipazione degli oppressi, da parte dell’OLP e dei suoi alleati, li ha abbandonati alla propaganda israeliana e falangista che poteva fare breccia additando i palestinesi come i veri responsabili della guerra e della miseria. È la politica reazionaria dell’OLP dunque che, anche in questa situazione, isola i proletari e i combattenti palestinesi dai loro alleati naturali e li espone agli attacchi delle classi ricche.
Nell’agosto dell’80 l’esercito israeliano decide di dare un nuovo colpo alle posizioni dei fedayin nel Libano meridionale. Due colonne corazzate, forti di circa 1.000 uomini, con l’appoggio di una ventina di elicotteri, attaccano le posizioni palestinesi, puntando alla conquista della roccaforte del castello di Beaufort; l’attacco viene respinto dai guerriglieri, ma reparti del genio israeliano preparano, nei territori controllati da Haddad, le opere necessarie per un’operazione in grande stile.
Di fronte al pericolo sempre più pressante di un massiccio attacco israeliano al Libano, e spinta anche dai nuovo acutizzarsi della tensione con l’Iraq, sentendosi forte del trattato di amicizia e collaborazione firmato nell’ottobre precedente con l’URSS, la Siria decide di passare nuovamente all’offensiva in Libano nel tentativo di rafforzare le sue posizioni minacciate da alcune iniziative dei falangisti che nel dicembre avevano iniziato ad installarsi nella città di Zahle, spinti probabilmente dagli israeliani che volevano mettere alla prova il regime di Damasco. L’esercito di Assad attacca dunque le posizioni falangiste a Zahle e riesce a rompere le comunicazioni tra la città assediata e la regione sotto controllo maronita.
Durante questa battaglia i siriani bombardano massicciamente il settore est di Beirut, dove i palestinesi ed i loro alleati erano scesi in campo contro le Falangi per appoggiarli; il bombardamento della città maronita provoca l’immediata reazione della stampa internazionale contro il "massacro dei cristiani". L’intervento degli israeliani e poi delle grandi potenze imperialiste riporterà la tregua, ma sulle alture di Zahle, ormai passate in mani siriane, verranno piazzate alcune batterie di missili Sam-6, fornite dai russi, che dovrebbero servire a contrastare il pressoché totale dominio dei cieli posseduto sino a questo momento dalla aviazione di Israele.
Tre mesi dopo, nel luglio, l’esercito di Gerusalemme passerà nuovamente all’offensiva contro le basi palestinesi nel Libano meridionale e l’aviazione con la stella di David bombarderà spietatamente i quartieri palestinesi a Beirut ed i campi profughi nel Libano meridionale. La carneficina cesserà solo dopo un nuovo intervento americano che, intavolando per la prima volta trattative, sebbene in forma indiretta, tra Israele e vertici palestinesi porterà ad un accordo che prevede «la fine di tutte le operazioni ostili tra il territorio libanese e quello israeliano»; la Siria però non ha fatto nulla per opporsi all’attacco dello Tsahal.
Due settimane dopo il raggiungimento del cessate il fuoco sul fronte libanese, l’Arabia Saudita propone un piano di pace per il Medio Oriente (piano Fahd, dal nome del principe regnante); i punti significativi del piano sono questi: 1) Ritiro israeliano dai territori occupati; 2) Creazione di uno Stato palestinese; 3) Riconoscimento del diritto di tutti gli Stati della regione a vivere in pace, cioè implicito riconoscimento dello Stato d’Israele. Nell’ottobre il piano ottiene l’appoggio di Arafat. L’intento della direzione dell’OLP è quello di arrivare al riconoscimento formale da parte degli Stati Uniti. I contatti avuti con l’emissario di Reagan, Philip Habib, durante le trattative del luglio per arrivare al cessate il fuoco con Israele hanno avuto, per i dirigenti palestinesi, una grande importanza in questo senso e secondo la rivista Palestine, bollettino d’informazione dell’OLP, essi hanno rappresentato «un atto di riconoscimento, se non dell’OLP, almeno della realtà politica dell’OLP». «Per la direzione politica dell’OLP – scrive Samir Kassir su Le Monde Diplomatique (12/’81) - l’interesse di un tale piano è precisamente quello di costruire una solida passerella in direzione degli USA, con l’intermediazione del Fronte del Silenzio, (Arabia Saudita, paesi del Golfo, Giordania) a condizione che i suoi promotori ottengano da Washington un sostegno più efficace all’accordo tacito dietro cui si nasconde l’amministrazione americana». Il piano però viene osteggiato dalla Siria che è sempre più in rotta con l’Iraq ed i suoi alleati del Fronte del Silenzio. Contro il piano si schierano anche la frazione dell’OLP controllata da Damasco ed il Fronte del rifiuto, i quali riescono a mettere in minoranza Arafat. «La centrale palestinese ha dunque sconfessato il piano Fahd, fatto che ha determinato il clamoroso fallimento del vertice di Fez, il 25 novembre» (Le Monde Diplomatique, 4/’82).
Naturalmente queste divisioni all’interno della direzione dell’OLP non derivano dallo scontro di due diverse tendenze di classe, l’una più favorevole alle classi ricche e l’altra alla classe dei diseredati, all’interno del "popolo" palestinese, ma, schierandosi ambedue pienamente nel campo borghese, ne rappresentano due diversi partiti foraggiati dall’uno o dall’altro imperialismo. In questo quadro la posizione di Arafat è indubbiamente ancora la più forte e dunque la sua politica, al di là di momentanei incidenti di percorso, è quella destinata a prevalere. «La presenza di Arafat alla testa del movimento palestinese – si legge su Le monde Diplomatique (12/’81) – svolge un ruolo rassicurante per i regimi arabi conservatori. È precisamente questa funzione che permette all’OLP di continuare a ricevere importanti sussidi, essenziali alla sua sopravvivenza. Le fonti di finanziamento propriamente palestinesi, riservate alle grandi prove, non sono sufficienti per le necessità dell’importante apparato
politico-militare della resistenza. L’assistenza materiale dei ricchi paesi arabi e, singolarmente, dell’Arabia Saudita, è più che mai necessaria». Anche la Russia, che in un primo tempo si era opposta al piano, dopo un viaggio di Arafat a Mosca, avrebbe deciso di non opporvisi più, pare in cambio di assicurazioni di una sua inclusione futura in tale piano e della normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Riad.
Uno dei punti centrali del piano Fahd prevede però la
ritirata di
Israele
dai territori occupati e in particolare dalla Cisgiordania che sempre
più
appare come il territorio previsto per la costituzione dello
Stato-ghetto
palestinese, ma lo Stato israeliano non ha affatto intenzione di
restituire
questi territori e per non lasciare dubbi sulle sue intenzioni, a
metà
dicembre ’81 estende la legislazione israeliana al Golan siriano,
siglandone
in pratica, l’annessione ufficiale. Si avvicina intanto il momento
della
prevista restituzione dell’ultima parte del Sinai all’Egitto, secondo
quanto previsto dagli accordi di Camp David. Il governo israeliano ne
approfitta
per organizzare una campagna propagandistica contro il ritiro cercando
di arrivare a nuove trattative che prevedono, in cambio del rispetto
dei
patti con l’Egitto, l’assicurazione del mantenimento dell’occupazione
degli altri territori; pare anche che Gerusalemme intenda attaccare
nuovamente
il Libano in modo da far montare la tensione con gli Stati arabi, ma
l’intervento
degli USA, decisi a salvare il regime egiziano, che subirebbe un duro
colpo
dal mancato rispetto degli accordi di Camp David, frena l’iniziativa
israeliana e il 26 aprile ’82 il Sinai viene regolarmente restituito
al governo del Cairo.
Il capitale israeliano, già alle prese con una grave crisi economica, non è dunque affatto disposto a ritirarsi dalla Cisgiordania. Negli ultimi anni ha continuamente accentuato i suoi sforzi per l’annessione di questa fertile regione; dopo il ’67 ben 152 colonie ebraiche sono state create nei territori occupati, di cui 85 in Cisgiordania e nel novembre scorso è stata instaurata in Cisgiordania un’amministrazione civile israeliana. «Una serie di scioperi generali e di manifestazioni sono subito iniziati nei territori occupati, seguiti dalla tradizionale risposta: case fatte saltare con la dinamite, coprifuoco, chiusura dell’università di Bir-Zeit, arresto di molti dirigenti palestinesi, censura sulla stampa» (Le Monde Diplomatique, 12/’8 1). Le ragioni di una così profonda opposizione delle popolazioni dei territori occupati alla occupazione israeliana e, d’altra parte, la ferma risoluzione di Israele di non mollare, nonostante le forti pressioni internazionali ed anche americane, si spiegano con l’importanza economica che questi territori e la loro popolazione rappresentano per Israele e con la politica di vera e propria rapina che esso vi pratica.
La Cisgiordania e Gaza occupano rispettivamente una superficie di 5505 Kmq. (come la nostra Liguria) e di 363 Kmq. La Cisgiordania ha circa 700.000 abitanti con una densità di 127 ab./Kmq. e Gaza quasi 300.000 (825 ab./Kmq.) ai quali bisogna aggiungere rispettivamente 72.500 e 195.000 profughi ammassati nei campi. L’economia della Cisgiordania, prima della guerra del ’67 era essenzialmente una economia di sussistenza; la gran parte della popolazione, circa il 50% era dedita all’agricoltura contro solo un l5% impiegato in una industria ancora rudimentale, costituita quasi interamente da piccole officine con 4 o 5 operai. Un po’ più sviluppata era la striscia di Gaza col 33% di impiegati nell’agricoltura. L’occupazione israeliana ha profondamente inciso sull’economia di queste zone avendo lo Stato israeliano cercato di sfruttarne ogni risorsa a suo esclusivo vantaggio, così come nella pratica di qualsiasi imperialismo.
La borghesia israeliana, ha teso soprattutto a sfruttarne la grande riserva di manodopera a basso prezzo, fornita dalle masse di rifugiati e dall’espropriazione dei contadini, sfruttandola sul posto o nello stesso Stato d’Israele, cercando contemporaneamente di allontanare la popolazione in eccedenza per preparare il terreno ad una eventuale annessione.
«Della manodopera palestinese di riserva fornita a basso prezzo dai territori occupati, il capitale israeliano decise di importarne una parte, sfruttando invece la rimanente sul posto. Il numero limite degli immigrati arabi palestinesi in Israele fu aumentato ogni anno. Così, mentre nel ’67 non vi erano che mille lavoratori dei territori occupati che lavoravano in Israele, nel 1973, prima della guerra d’ottobre, essi erano circa 80.000 (operai ed altri) assunti ufficialmente dagli uffici del lavoro israeliani. E quanti sono quelli impiegati illegalmente? Altri dati ci indicano che nel ’73 il 36% circa della manodopera attiva dei territori occupati – che equivaleva a 195.000 persone – era impiegato direttamente nell’economia israeliana. Dei 100 mila lavoratori manuali della striscia di Gaza e della Cisgiordania, 60.000 lavoravano in Israele, ossia il 60% della classe operaia di queste regioni» (da "Palestine en marche"; n. 5/’75).
«Settantaquattromila palestinesi attraversano quotidianamente e nei due sensi (è loro severamente vietato passare la notte in Israele) i limiti dei territori occupati nel 1967. A questi vanno aggiunti da 10 a 15 mila "irregolari" che non sono assunti con l’intermediazione degli uffici del lavoro israeliani e dunque non sono ufficialmente censiti; si tratta spesso di giovani, impiegati contravvenendo alla legge israeliana, o di adulti che fanno lavoro nero. In totale più di un terzo della popolazione attiva della Cisgiordania e della striscia di Gaza. Relegati al livello più basso nella scala dei lavoratori e dei salariati, meglio pagati che nei territori occupati ma meno degli operai israeliani (secondo dati di "Palestine en marche" il salario giornaliero di un palestinese era di 22,9 lire israeliane contro le 42,8 di un israeliano) questi lavoratori sono raggruppati nel settore delle costruzioni (47% nel 1980), dell’industria (20,5%) e dell’agricoltura (14,3%). (da Le monde Diplomatique, sett. ’81). Questo mentre il settore industriale nei territori occupati è rimasto stazionario quando non ha regredito; in Cisgiordania infatti il numero dei lavoratori dell’industria è diminuito dalle 17.000 unità del ’69 alle 15.000 del 1980. «Il governo israeliano ha posto i territori occupati in uno stato di dipendenza crescente. Alcuni la chiamano "stagnazione pianificata", sperando che le condizioni di vita sempre più difficili per gli arabi li spingano a partire. In effetti circa 200.000 hanno emigrato dal ’67 ed il ritmo delle partenze in questi ultimi anni è di 10-20 mila all’anno secondo alcune stime» (ivi).
Anche le relazioni commerciali tra Israele e questi territori sono a senso unico: «Fin dal primo anno d’occupazione le autorità israeliane decisero di aprire questi territori ai prodotti israeliani. L’effetto è stato traumatizzante; oggi non vi si trovano beni di consumo manufatti che non provengano da Israele. Per gli esportatori israeliani i territori occupati costituiscono una vera e propria riserva di caccia. Protetti dalle stesse barriere doganali dei loro stessi mercati interni, essi costituiscono il loro secondo mercato, dopo gli Stati Uniti e prima della Germania Occidentale: in media il 90% delle importazioni provengono da Israele (solo l’1% dalla Giordania e il 9% dal resto del mondo). Al contrario l’accesso al mercato israeliano è chiuso per i prodotti di Cisgiordania e Gaza, con l’eccezione di qualche prodotto agricolo, materiali da costruzione ed un numero molto limitato di beni manufatti e la bilancia commerciale di questi territori è cronicamente in deficit poiché le esportazioni coprono soltanto per il 35% le importazioni, né bastano i salari dei palestinesi che lavorano in Israele a coprire questo deficit. I territori occupati possono riequilibrare la loro bilancia dei pagamenti solo grazie alle rimesse degli emigrati all’estero, soprattutto nei paesi del Golfo ed alla loro bilancia commerciale attiva con la Giordania dove esportano prodotti agricoli» (ivi).
Anche la tradizionale struttura agricola è stata pesantemente modificata dagli Israeliani soprattutto attraverso la massiccia confisca delle terre che rappresenta un passo decisivo verso l’annessione:
«Secondo fonti giordane gli Israeliani hanno confiscato o espropriato, dopo la guerra dei sei giorni, ben 203.000 ettari in Cisgiordania, cioè il 37% del territorio. Così ad esempio, nella valle del Giordano il 40% delle terre coltivabili, è ormai nelle mani dei coloni israeliani. Da quattordici anni i palestinesi non hanno potuto scavare un solo pozzo mancando l’autorizzazione del governo militare (...) Al contrario, la compagnia israeliana delle acque, Mekorot, ha scavato 17 pozzi nella valle, per l’uso dei coloni. Equipaggiati con potenti pompe essi fornivano, già nel ’78, più di 14 milioni di metri cubi di acqua all’anno a meno di 16.000 coloni, mentre 690.000 abitanti arabi non dispongono che di 33 milioni di metri cubi (...) Attualmente solo il 4% delle terre coltivate dagli arabi in Cisgiordania è irrigato (...) Nel 1970 l’agricoltura impiegava ancora il 38% della popolazione attiva nei territori occupati; oggi ne occupa meno del 28%. Piccoli proprietari terrieri, piccoli contadini, operai agricoli, formano, con la popolazione dei campi profughi, il grosso delle truppe che ogni giorno prendono il cammino verso Israele, in cerca di un impiego che l’industria locale non può loro offrire» (ivi).
Nel giugno ’80 scriveva A. Kapeliouk su Le monde Diplomatique: «La lotta per la terra diventa il tema centrale di un confronto ormai quotidiano tra israeliani e palestinesi. La politica delle impiantazioni diretta dal gen. Ariel Sharon, ministro dell’agricoltura, ha uno scopo chiaro e netto: creare fatti compiuti in Cisgiordania in modo da rendere il nuovo status quo irreversibile e impedire la creazione di uno Stato palestinese (...) In tutto 122 colonie ebraiche sono state installate nei territori occupati e riuniscono una popolazione di 20.000 coloni (senza contare 60.000 ebrei che abitano nei nuovi quartieri costruiti nella parte araba di Gerusalemme). Le colonie israeliane sono state create su delle terre demaniali di cui il governo israeliano si pretende l’ereditario, o su altri lotti che appartenevano a profughi palestinesi e su terre di privati confiscate per "motivi di sicurezza" (...) I metodi per espellere i proprietari palestinesi sono vari (intimidazioni, ricorso a diverse leggi, etc.) e anche inabituali: recentemente degli aerei hanno sparso defolianti su molte centinaia di ettari di culture (grano, orzo e olivi) che appartenevano ad agricoltori palestinesi di 4 villaggi della regione di Hebron; un metodo che era già stato utilizzato con successo nel 1972 nel villaggio di Akraba in Cisgiordania le cui terre furono in seguito assegnate alla nuova colonia vicina di Gitit». «Dall’inizio dell’occupazione israeliana la popolazione araba del Golan è caduta da 130.000 a 13.000 persone. Colpiti dalla politica di confisca delle terre circa 200.000 palestinesi sono stati costretti ad abbandonare la Cisgiordania. Anche nella striscia di Gaza superpopolata, dove si ammassano 450.000 palestinesi, gli israeliani hanno confiscato delle terre e fondato 4 colonie (5 nel 1980)». Attualmente gli abitanti delle zone occupate sono un milione e trecentomila di cui 850.000 in Cisgiordania.
In questi territori dunque lo Stato israeliano non opprime solo i proletari e i diseredati, ma anche le altre classi sociali impedendo al capitale arabo di sviluppare una sua industria, il commercio, l’agricoltura.
Ma anche se, pur con diversi pesi, lo Stato israeliano schiaccia sotto il suo tallone tutta la popolazione araba di Cisgiordania e Gaza come del Golan, da questa constatazione non deriva affatto che il proletariato debba lottare, in nome di una pretesa indipendenza nazionale da riconquistare, al fianco delle altre classi "popolari" che lo hanno sfruttato e lo sfruttano ancora più duramente degli israeliani.
In tutta l’area medio-orientale, come stiamo dimostrando, non
c’è
soluzione ai problemi del proletariato nel quadro di una lotta
nazionale;
la soluzione sta solo nella ripresa della lotta di classe, ed in questo
senso i proletari arabi, anche dei territori occupati, devono rifiutare
ogni collaborazione con le altre classi e costituire delle proprie
organizzazioni
di lotta e di combattimento.
I tre articoli che seguono e che chiudono il testo, apparsi rispettivamente nel luglio, ottobre e agosto ’82 sul nostro mensile "Il Partito Comunista", furono scritti di getto di fronte agli ultimi sanguinosi avvenimenti del Libano; primo atto, l’operazione «Pace in Galilea» – al quale si riferisce il primo articolo; conclusione, il mao-sacro dei profughi dei campi palestinesi di Sabra e di Chatila – commentato nel secondo articolo.
Dall’ottobre 1982, altri avvenimenti hanno interessato la martoriata città di Beirut e l’intera regione che pure attualmente è sull’orlo di essere nuovamente teatro di una nuova guerra; il testo si interrompe però agli avvenimenti di ieri perché, questi, ben studiati ed inquadrati, danno tutte le risposte ai difficili e ardui problemi di atteggiamento e di tattica che l’attualità – quanto mai soffocante e codina – pone al Partito della Rivoluzione.
Partito al quale non interessa mostrare la sciocca e pettegola capacità di essere aggiornato sull’ultimissimo fatto, ma che invece giornalmente dimostra come solo con lo studio materialistico di un intero arco di Storia, solo allineando il lavoro passato ed anonimo di partito, solo non smarrendo il "filo rosso" dei principi e delle consegne tattiche della Sinistra, è possibile fissare alla loro realtà ed interpretare scontri giganteschi di forze sociali, di Stati e di masse di uomini, scontri inintellegibili a chi tale metodo di lavoro ha smarrito.
Problemi di lettura dei fatti e problemi tattici, di facile risoluzione semplicemente allineando i dati del passato, divengono veri e propri rebus per chiunque rincorra adulazione, applausi e facili successi, e voglia far credere a proletari e combattenti generosi che con manovrette e pastette sia possibile invertire un rapporto di forze sfavorevole al proletariato su scala mondiale. Al Partito spetta invece mostrare per intero, senza la minima remora – come nell’ultimo articolo presentato - l’abisso controrivoluzionario in cui è precipitato il proletariato mondiale e come una reale risalita sarà il risultato di forze materiali gigantesche che irridano ’volontà’ e ’personalità’.
È compito quindi del Partito, compito modesto quanto indispensabile, tirare un bilancio dell’ieri e dell’oggi: senza questo bilancio qualsiasi generosità e qualsiasi abnegazione non sarà altro che una inutile emorragia che non contribuirà minimamente alla ripresa della lotta proletaria e alla ricostruzione dell’organo Partito.
È questa la lezione che il Partito, senza atteggiamenti
pietistici
e sentimentali per masse enormi di uomini che soffrono, lottano e
muoiono,
trae dai tragici avvenimenti dell’intera area medioorientale, ed
è per
questo che riproponiamo questi tre brevi articoli, con chiare e nette
consegne
di organizzazione e di battaglia per il proletariato e le plebi povere
del medio-oriente e dell’intero mondo.
Da "il Partito Comunista" n. 95, luglio 1982.
Non l’impossibile nazionalismo palestinese
ma la rivoluzione proletaria mondiale
vendicherà lo sterminio dei Fedayn
Una nuova tragedia sta avendo il suo epilogo in Libano. Ancora una volta migliaia e migliaia di proletari, di poveri contadini, di rifugiati, sono stati attaccati, bombardati, mitragliati; 14.000 i morti, 20 mila i feriti, migliaia i dispersi, decine di migliaia senza tetto.
L’esercito dello Stato di Israele che ha proceduto all’operazione "Pace in Galilea" ha avuto, nell’attuazione di questo compito l’appoggio incondizionato dell’imperialismo internazionale, dal campo occidentale a quello orientale e degli stessi paesi arabi, poiché il proletariato e le masse povere palestinesi, numerosi, combattivi, sparsi in tutti i paesi del Medio Oriente rappresentano un pericolo per tutte le classi dominanti di tutti gli Stati ed un fattore di instabilità in una zona chiave per gli equilibri imperiali mondiali.
I nostri cuori sono a fianco delle centinaia e migliaia di nostri fratelli di classe, massacrati dalle bombe e dalla mitraglia dell’imperialismo, che resistono fino alla morte contro un nemico strapotente e spietato, ma non possiamo non sottolineare che la responsabilità prima di questo ennesimo massacro ricade proprio sull’OLP e sulla altre organizzazioni della resistenza palestinese. Si decida per la resa o per la resistenza ad oltranza a Beirut la funzione controrivoluzionaria dell’OLP è chiara ed il sacrificio della sua organizzazione militare non potrà servire a darle una nuova patente di "rivoluzionarismo".
Le organizzazioni della resistenza palestinese, OLP in testa, in questi anni hanno puntato sempre più su una "soluzione politica", del problema palestinese, cioè hanno ridotto i loro obiettivi alla richiesta della costituzione di uno Stato palestinese politicamente indipendente da ottenersi con accordi e patteggiamenti con gli Stati della regione e i due campi imperialisti.
Questo obiettivo, rispondente alle aspettative della piccola e media borghesia palestinese ha sempre considerato l’organizzarsi armato delle masse povere un vero e proprio nemico, sia perché questo avrebbe teso spontaneamente ad unirsi e ad influenzare il proletariato supersfruttato dei paesi arabi (un pericolo mortale per le classi dominanti), sia perché questo organizzarsi, ponendo all’ordine del giorno la questione sociale, la questione della terra, la fine dello sfruttamento, non sarebbe certo stato soddisfatto dalla costituzione di uno Stato palestinese, in nulla differente dagli altri Stati arabi.
Già sei anni fa registrammo come l’ OLP avesse abbandonato a se stessi le migliaia di combattenti proletari, libanesi e palestinesi, dall’ eroica comune di Tell El Zaatar, massacrati dall’attacco congiunto delle milizie della destra libanese e delle truppe dell’esercito siriano, e valutammo che questa sconfitta del proletariato ed il suo tradimento avrebbe rafforzato il prestigio internazionale dell’OLP. In effetti in questi ultimi anni essa ha sempre più abbandonato l’aspetto barricadiero per trasformarsi in un vero e proprio Stato, sebbene senza uno stabile territorio, assumendone tutte le funzioni organizzative e repressive. Le sue milizie armate si sono andate sempre più trasformando in un “apparato poliziesco e di gendarmeria” (Repubblica, 26 giugno) mentre Arafat, "capo guerrigliero" si comporta come un capo di Stato.
Questa politica dell’OLP ha ricevuto sì l’appoggio di tutti gli Stati arabi nella lotta contro Israele, che rifiuta di concedere al futuro Stato i territori di Cisgiordania e Gaza, ma – inevitabilmente, vista la loro base nazionale e borghese – ha distrutto l’unica possibilità di vittoria contro l’imperialismo e lo sfruttamento, vittoria che non poteva che derivare dall’unione, in un unico fronte, del proletariato palestinese con le masse diseredate dei paesi arabi, le cui sofferenze sono cosi spesso esplose in questi anni in sanguinose rivolte, e dall’unione con lo stesso proletariato d’Israele, che, già duramente colpito nelle sue condizioni dalla crisi capitalistica, un sincero movimento proletario rivoluzionario avrebbe potuto strappare alla collaborazione con la propria borghesia e col proprio Stato, capovolgendo gli attuali rapporti di forza nella regione che indicano in Israele il principale pilastro dell’imperialismo.
Un altro cardine della questione sta nell’ancora pressoché completa assenza del proletariato occidentale dal campo della lotta rivoluzionaria di classe e quindi nell’indifferenza o nell’impotenza con cui vengono accolte le tragiche notizie delle stragi di nostri compagni e fratelli di classe.
È infatti evidente che la politica dell’OLP ha trovato per lunghi anni e trova attualmente il suo sostegno e alimento in quella dei partiti opportunisti che sono alla testa della classe operaia d’occidente, i quali ormai da più di mezzo secolo spingono il proletariato non alla ribellione ma alla collaborazione col Capitale e con lo Stato, lavorando così, mentre predicano di pace e collaborazione tra i popoli, alla preparazione del terzo macello mondiale, proprio come è avvenuto in Israele dove i laburisti hanno dato il loro pieno appoggio alla guerra, condannandone poi, naturalmente, gli "eccessi".
Ma questa "pacificazione" ottenuta col sangue di migliaia di proletari non porterà la pace in Medio Oriente. Questa guerra combattuta contro le masse diseredate libano-palestinesi è servita all’imperialismo per preparare il terreno alla prossima guerra tra Stati che vedrà nell’area medio-orientale uno degli obiettivi cruciali.
Noi comunisti abbiamo sempre detto e scritto a chiare lettere che non siamo pacifisti, che non vogliamo difendere la pace borghese, ma mai come adesso abbiamo tanto odiato questa "pace" che solo dimostra la forza oppressiva di questo regime infame.
Ben venga dunque la guerra a scuotere menti e cuori proletari
intorpiditi
da cinquanta anni di controrivoluzione dominante alla scala mondiale.
Ben
venga la guerra imperialista se rimetterà in moto il processo
della
rivoluzione
proletaria internazionale.
Da "il Partito Comunista", n. 98, ottobre 1982.
La terribile rivoluzione degli oppressi vendicherà lo sterminio dei palestinesi tramato
dalle borghesie di tutto il mondo
Dunque adesso è noto a tutti: lo sterminio di migliaia di donne, vecchi, bambini nei campi palestinesi di Sabra e Chatila è stato programmato, concordato, attuato con piena cognizione e con spietata lucidità e decisione dallo Stato di Israele che si è servito per compiere la strage di mercenari prezzolati che hanno agito di notte, alla luce dei bengala sparati da soldati israeliani. La forza di pace italo-franco-americana ha lasciato la città di Beirut prima del termine stabilito dal "piano Habib" proprio per permettere questo massacro.
La responsabilità di questa nuova carneficina di proletari, di nostri fratelli di classe non ricade però soltanto sugli Stati imperialisti, su Israele, sugli Stati arabi, sulla Russia, che quando non vi hanno direttamente collaborato sono stati passivamente a guardare, ma anche, ed è un dovere dirlo se non ci si vuole confondere col coro belante dell’opportunismo pacifista e democratoide, sulla direzione controrivoluzionaria dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.
I campi erano concentrazioni di proletari, di senza lavoro, di senza casa, di masse che non avevano nulla da perdere; nei campi era facile organizzarsi, nascondersi, armarsi; nei campi poteva crescere e rafforzarsi un’organizzazione proletaria clandestina; i campi erano il rifugio-ghetto dei diseredati e una minaccia permanente per chiunque avesse dovuto assicurare l’ordine borghese a Beirut. I campi erano una minaccia anche per la direzione borghese dell’OLP, che dirige il movimento armato palestinese verso l’obiettivo controrivoluzionario dello Stato-ghetto in Cisgiordania e Gaza e combatte la formazione di una organizzazione autonoma del proletariato palestinese in grado di legarsi non solo con i proletari libanesi e arabi, ma con lo stesso proletariato israeliano, al di sopra delle divisioni nazionali e religiose contro quello che sempre più si rivela essere un unico nemico, l’alleanza soprastatale delle classi egemoni dei paesi arabi e d’Israele.
I morti proletari di Sabra e Chatila sono stati il prezzo pagato da Arafat per fare ottenere quel riconoscimento di parte americana che gli è indispensabile per condurre a buon fine il suo programma politico.
L’abbandono di Beirut senza nessuna concreta garanzia per l’incolumità dei campi è la conferma più tragica della funzione antiproletaria dell’OLP, i cui miliziani non sono stati sconfitti sul campo dall’esercito nemico, ma hanno scelto la ritirata perché era la mossa più favorevole per i loro giochi diplomatici.
L’esercito israeliano, nonostante i suoi sforzi non è mai riuscito ad entrare a Beirut ovest, ma la direzione dell’OLP, come i partiti della sinistra libanese ad essa alleati, si sono ben guardati dal chiamare alle armi l’intera popolazione proletaria della città martoriata, dall’attaccare la Beirut Est, dove la borghesia libanese continuava a godersi il sole mentre all’ovest si moriva di fame, di sete, di bombe.
Si è voluto il compromesso, voluto anche da Israele perché anche esso timoroso di ingaggiare una battaglia senza quartiere contro una città di proletari, che, in tal caso, avrebbero forse potuto rompere la disciplina ai loro partiti traditori ed insorgere compatti contro i massacratori; ed allora si che i soldati di Israele avrebbero trovato pane per i loro denti.
Nei primi giorni di lotta, uno dei responsabili dell’OLP aveva dichiarato che i combattenti palestinesi non avrebbero mai lasciato la città se prima non fossero state disarmate anche le milizie della destra, nemiche giurate dei palestinesi e della sinistra libanese, superarmate, esperte in massacri di civili inermi. La richiesta è caduta nel corso della trattativa.
Lo stesso piano Habib prevedeva che il mandato della forza internazionale di interposizione sarebbe stato di un mese, rinnovabile solo su richiesta del governo libanese: quali potevano essere dunque le garanzie, ottenute da Arafat da parte americana, per la sicurezza dei campi? Una "parola"? O le forze dell’esercito libanese, notoriamente legato alle milizie della destra?
L’opinione pubblica e i governi democratici di tutto il mondo si sono scandalizzati per il massacro, dimenticando che gli ufficiali israeliani ed i loro sgherri hanno imparato queste normali tecniche di repressione proprio dai loro colleghi tedeschi, francesi, inglesi, americani o italiani e sfogano la loro irritazione chiedendo la testa (le dimissioni cioè) di Begin e Sharon, oggi “criminali di guerra” e fino a ieri premio Nobel ed eroe nazionale.
Dopo la strage, mentre l’opinione pubblica del mondo intero ancora era in subbuglio di fronte a questo "rigurgito di medioevo", sono tranquillamente continuate nella città perquisizioni e arresti in massa di combattenti libanesi e palestinesi, azione in cui hanno collaborato esercito libanese e israeliano. Finita l’opera, eletto un nuovo rappresentante della stirpe dei Gemayel, fascista anche lui, ma “onesto” e “di buon animo”, sepolti i morti, non mancava nulla ormai per rimettersi il cuore in pace, una pace protetta dalla nuova forza multinazionale, che stavolta è tornata voluta da tutti, anche da chi, in prima tournée, l’aveva un po’ criticata.
Ma non basteranno, cari signori, 3.000 lanzichenecchi multicolori a
ristabilire il superiore ordine imperiale né in Medio Oriente
né
altrove,
come ha dimostrato di non bastare il superarmato esercito di Israele. I
campi di Sabra e Chatila sono distrutti e rasi al suolo, la loro
popolazione
terrorizzata e dispersa, ma l’incubo dei milioni di proletari che
soffrono
e gemono e odiano questo regime infame continuerà a pesare sulle
vostre
teste. La crisi economica in cui si dibatte il vostro mondo
rimetterà
in movimento anche le masse operaie dell’occidente, oggi ancora assenti
dalla lotta e indifferenti persino alla sorte dei loro fratelli del
Medio
Oriente.
("il Partito Comunista", n. 96, agosto 1982).
Un’unica via per il proletariato palestinese:
Guerra di classe
Ancora una volta abbiamo dovuto assistere impotenti alla ennesima tragedia dei profughi arabi dalla Palestina. Certamente a più riprese il nostro movimento ha indicato come difficilmente risolvibile la questione palestinese alla luce degli attuali rapporti di forza, dal momento che, fin dal tempo della prima diaspora arabo-palestinese a cavallo fra gli anni ’30 e ’40, mancavano e mancano le condizioni di base per una tale soluzione.
In primo luogo – e cioè farà rizzare i capelli ai biascicatori di marxismo – i destini del popolo palestinese si giocano in larga parte nelle grandi metropoli dell’imperialismo, Mosca, New York, Londra, Pechino, Tokyo, Parigi, Milano... E, fino a quando il proletariato se ne rimarrà indifferente a riprodurre il ciclo infernale della produzione capitalista, in queste metropoli sarà ben difficile per i palestinesi indirizzarsi verso una strada che non sia la sconfitta. L’emancipazione dei profughi palestinesi, come profughi armati, come proletari senza riserve in lotta, sarà solo nell’azione congiunta col proletariato internazionale in lotta per la propria emancipazione. Al di fuori di questa prospettiva potremo assistere alla cancellazione dei palestinesi dalla faccia della terra ma non alla emancipazione dei palestinesi. Si potranno avere stragi generalizzate, deportazioni, trasferimenti, assorbimenti dei palestinesi da parte della nascente industria araba e da parte dello stesso Israele (fenomeno questo largamente già da tempo iniziato), a seconda che i palestinesi perseverino o rinuncino alla lotta armata.
Specialmente in caso di completo disarmo delle frange più combattive si potrebbe anche assistere alla creazione del tanto agognato Stato palestinese, che altro non sarebbe che un gigantesco lager sotto il controllo di uno o dell’altro gendarme imperialista, in cui le varie borghesie nazionali preleverebbero mano d’opera a basso costo.
Qualora poi i palestinesi dovessero continuare a mantenere il proprio armamento, restando quale oggi il termometro della rivoluzione nei paesi "ricchi", saremmo costretti ad assistere ad altre repressioni simili a quelle che tristemente hanno riempito la storia di questi ultimi anni. Gli Stati dell’area penserebbero a turno a fare da boia "pacificatori", come hanno fatto nel Settembre Nero del ’70 la Giordania, nel giugno del ’76 la "forza di dissuasione araba" della Siria a Tell El Zaatar e nel luglio dell’82 Israele a Beirut.
A questi massacratori, "fratelli arabi", mai si è veramente contrapposta, anzi ne è stata complice fino ad oggi, la direzione piccolo borghese dell’OLP, che non ha fatto altro che gestire le sconfitte, è andata mendicando per il mondo l’aiuto di quello o di quell’altro imperialismo, ha cercato riconoscimenti politici, quasi fosse il governo in esilio di uno Stato futuro, che nessuno però vuole.
L’OLP ha sempre indirizzato l’odio di classe dei palestinesi soltanto contro Israele, che considera l’unico nemico della causa araba, e ha così mistificato il fatto che tutti gli Stati arabi hanno a più riprese voltato la schiena ai palestinesi in nome dei loro superiori interessi nazionali. Ne è un esempio il fatto che nessun paese arabo ha mosso un dito per impedire la spedizione punitiva ebraica "pace in Galilea", un esempio questo che si allinea con mille altri. A questo proposito l’aiuto "morale" più originale è venuto da Gheddafi, che ha invitato i palestinesi a suicidarsi in massa per lasciare un esempio alla storia: noi speriamo che presto il proletariato mondiale costringa al suicidio tutti i capi di Stato, Gheddafi compreso, dando così il proprio contributo originale alla storia dell’umanità.
In linea di principio non si può negare ai palestinesi la possibilità di creare uno Stato, solo che per l’esiguità del loro numero e delle loro forze fino ad oggi non sono riusciti ad esprimere un’entità statale.
L’OLP ha creduto di superare tale scoglio alleandosi all’imperialismo russo, il quale ne ha fatto una pedina delle proprie manovre in Medio Oriente foraggiando i palestinesi perché destabilizzavano uno scacchiere egemonizzato dagli USA. Ma i palestinesi, proprio per la loro natura proletaria, sono sempre stati un alleato scomodo per l’URSS, essa li ha sempre trattati con diffidenza, rifiutandosi di armarli in modo pesante e moderno, cosa che invece ha fatto con Stati e movimenti antiamericani che davano maggiori garanzie. I russi hanno sempre avuto paura che la parte proletaria dei palestinesi uscisse dal loro controllo, ma così facendo hanno impedito anche alla parte borghese e piccolo borghese dei palestinesi di territorializzarsi in Libano, perché continuamente in balia degli umori dell’uno o dell’altro staterello della zona. Tale situazione di disagio era stata colta dalla direzione dell’OLP che, per natura lontana dal correggersi per abbracciare la causa comunista, aveva ben pensato di rivolgersi all’imperialismo concorrente. Ultimamente dunque l’OLP aveva scoperto che il cavallo da tentare non era più l’URSS ma gli USA, e oggi, nonostante l’ultima batosta datagli dal maggiore alleato americano in Medio Oriente, l’OLP continua ad occhieggiare verso Washington. Anzi pare che il trasferimento dei resti della popolazione palestinese verrà proprio gestita dall’esercito USA: i marines occuperanno Beirut e tutti saranno felici e contenti.
Ma a questo punto sorge il problema, che è poi il problema di sempre: dove cacciare queste decine di migliaia di profughi? Perché è da quando gli ebrei hanno incominciato ad espellere gli arabi dalla Palestina che i pescicani della diplomazia internazionale si pongono questa domanda. E non riescono a dare una risposta. Questo è il problema: a nessuno dispiacerebbe di avere sul proprio territorio i palestinesi se questi, invece di essere armati e combattivi, se ne stessero tranquilli nelle loro tende pronti a mettersi a disposizione delle esigenze produttive del paese che li ospita. Addirittura sarebbe Israele il primo garante dì una tale soluzione, basti pensare che un bracciante agricolo arabo che scende dal Libano meridionale alla Galilea per coltivare i rinomati pompelmi israeliani viene pagato fino a un quinto di un corrispondente bracciante israeliano. Ecco perché non ci stupisce che Ariel Sharon, gran sterminatore di palestinesi nell’assedio di Beirut, abbia invitato i palestinesi a trasferirsi in Israele, dal momento che nessuno li vuole: "Vengano i ’terroristi’ – ha dichiarato in una oceanica adunata tenuta il 18 luglio a Tell Aviv per celebrare l’ennesima vittoria del sionismo – purché arrivino disarmati e possano dimostrare di non aver commesso crimini contro cittadini israeliani".
Le diplomazie del mondo intero dunque cercano di risolvere in qualche modo la questione, o meglio stanno trattando la spartizione del Libano una volta che i palestinesi se ne saranno andati o saranno ridotti all’impotenza. Ma sappiamo bene che più di mille trattative vale un colpo di cannone, specialmente in questa fase di preparazione di un terzo macello imperialista. Stiamo vivendo la preparazione di una guerra generalizzata e ogni conflitto locale, diviene sempre meno risolvibile con le trattative, tende perciò a sfociare subito in guerra guerreggiata.
In Medio Oriente, dove in fin dei conti la guerra non è mai cessata dal ’40 ad oggi, sarà impossibile enucleare nuovi equilibri fra i vari Stati della zona in cui siano compresi i palestinesi in armi. Israele intende farla finita con i palestinesi e non si fermerà se non di fronte a qualcosa di più grosso del proprio esercito. Ma cacciare i palestinesi dal Medio Oriente potrebbe in futuro costar caro agli ebrei, non tanto per le ritorsioni arabe, che hanno già dimostrato di poter sopportare, quanto per quelle russe. L’URSS, da quando l’Egitto si è spostato dalla sua orbita a quella americana, ha visto sempre più scemare la propria influenza nella zona. Ultimamente a più riprese ha intimato a Israele di andarci piano a Beirut, perché il Medio Oriente è molto vicino ai propri confini, perché è per lei zona di vitale importanza. Ma tali avvertimenti, vista la prudenza dell’atteggiamento dell’amministrazione Reagan, sembrano aver preoccupato più gli USA di Israele, che è per la soluzione definitiva, cioè lo sterminio dell’ala armata dei palestinesi o la sua cacciata dal Libano.
Fosche nubi dunque si addensano su quello che oggi sembra alla borghesia ebraica un roseo futuro. La situazione politica dell’area si va sempre più complicando con la ripresa della guerra nello Shat El Arab e la conseguente controffensiva iraniana. Questa guerra se venisse in qualche modo a interferire con quella in Libano potrebbe essere la scintilla che fa saltare tutto. Ha un bel dire Begin che se gli iraniani, che per ironia della sorte ma non del commercio borghese hanno potuto contrattaccare grazie ai pezzi di ricambio israeliani per i loro carri armati, marceranno su Gerusalemme per liberarla dal sionismo, gli ebrei li rispediranno a casa loro a piedi. Nei fatti, se ciò avvenisse, l’equilibrio mediorientale sarebbe talmente compromesso da imporre un intervento diretto delle due super potenze, non si tratterebbe più di "sistemare qualche profugo scalmanato" ma del controllo della zona di approvvigionamento di energia più importante del globo.
Sarebbe finalmente l’occasione del risveglio del gigante proletario da
un sonno semisecolare? È quello che noi ci auguriamo. La guerra, che oggi ci si
prospetta
anche se oggi non ne possiamo prevedere né il luogo né
l’ora di inizio,
è tanto necessaria e determinata dallo sviluppo storico ed
economico
quanto la ripresa del movimento di classe nelle metropoli, l’una
è
legata
all’altra in un processo necessario. E sarà su un tale terreno
incandescente
che il partito di classe avrà modo di riorganizzare le proprie
file e
vedere finalmente ingrossarsi il numero dei propri aderenti. Su un
tale
terreno sarà possibile anche impostare coerentemente la
questione
palestinese
e tentare di risolverla coerentemente alla prospettiva comunista, in
modo
che anche il movimento delle masse palestinesi dialetticamente
contribuisca
alla buona riuscita della rivoluzione proletaria da occidente a
oriente.
1) Le origini della questione palestinese vanno ricercate prima
di
tutto nella strategia delle potenze imperialiste che, nel tentativo di
dare una sistemazione ai propri contrasti di interessi, hanno
pianificato
la mappa politica del Medio Oriente.
Dopo la Prima Guerra mondiale Francia e
Inghilterra
si spartirono i resti dell’Impero Ottomano creando un mosaico di
Staterelli
asserviti, appoggiandosi alle caste reazionarie semifeudali detentrici
della proprietà fondiaria.
Dopo la Seconda Guerra mondiale il vecchio
imperialismo
anglo-francese ha dovuto – non senza contrasti – cedere il passo alle
due superpotenze Stati Uniti e Unione Sovietica impostisi come nuovi
gendarmi
mondiali.
Ne è nata una nuova sistemazione dell’area
mediorientale il cui nodo cruciale è costituito dalla
fondazione
dello
Stato d’Israele.
2) La nascita dello Stato d’Israele, se da una parte rispose alla
necessità dell’imperialismo di crearsi una solida testa di
ponte,
rappresentò
dall’altra un decisivo fattore di rottura dell’equilibrio politico
e della struttura economica arretrata della regione.
La borghesia israeliana, ricca di capitali,
conoscenze
tecniche, manodopera altamente qualificata, si mosse ubbidendo non ad
una
pretesa “dottrina sionista” ma alle leggi ferree del capitalismo. Un
capitalismo
giovane che svolse il suo ciclo caratteristico ben noto alla scuola
marxista:
esproprio forzato dei contadini poveri, complici le classi possidenti
arabe; aggressività verso gli Stati arretrati vicini e
conquista di
nuovi territori strategicamente ed economicamente importanti; nascita
di una industria moderna e formazione di una massa di puri proletari.
3) Lo svolgimento storico, la pressione politica ed economica
delle
potenze imperialiste da una parte, l’arretratezza economica dall’altra,
hanno impedito il sorgere di una unica nazione araba. Il panarabismo
è
crollato miseramente. Ha avuto la sua massima espressione nella
instaurazione
di dittature militari che, con rivolte di palazzo, sono giunte in alcuni
paesi ad esautorare la vecchia e reazionaria oligarchia fondiaria.
Queste
gerarchie militari, che pure sono espressione di forze progressive in
quanto
rappresentano la tendenza all’instaurazione di Stati moderni, si sono
ben guardate dal mobilitare le masse povere e dare un colpo decisivo
alla
proprietà fondiaria, né hanno voluto uscire dal quadro
dell’ordine
politico e sociale imposto dall’imperialismo internazionale che li vede
asserviti all’una o all’altra potenza.
Accanto a questi regimi militari permangono
ancora oggi una serie di Stati retti da oligarchie fondiarie
arricchitesi
con la rendita, che comprimono le forze produttive in una impalcatura
reazionaria
di forme precapitalistiche.
4) Le masse diseredate palestinesi, concentrate nei campi e nelle
bindonvilles
in Libano, Giordania, Cisgiordania, i proletari palestinesi che
lavorano
in Arabia Saudita e negli Emirati sono ormai sradicati dalla terra, non lottano per una patria ma per la sopravvivenza, per condizioni di
vita
e di lavoro umane.
I diseredati palestinesi tendono spontaneamente,
dovunque si trovino ad unirsi al proletariato urbano e ai contadini
poveri,
superando le artificiose e antistoriche barriere nazionali tra
sfruttati.
Per questo rappresentano dovunque un pericolo per l’ordine sociale.
5) L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina non
rappresenta
gli interessi delle masse diseredate ma quelli della borghesia
palestinese.
Essa ha una propria organizzazione di tipo statale, ambasciatori
accreditati
nei principali paesi, il proprio rappresentante all’ONU, intrattiene
regolari rapporti con i regimi arabi più reazionari. Come un
qualsiasi
Stato borghese si muove sul terreno della diplomazia internazionale
dove
i grandi ladroni decidono freddamente il destino di milioni di uomini.
L’OLP con la sua organizzazione militare provvede
sì alla difesa dei campi profughi, ma solo in subordine alla sua
politica
di compromesso e solo se questo coincide con i propri scopi ed è
sempre
pronta ad abbandonare le masse inermi al massacro in cambio di un
successo
diplomatico.
6) La rivendicazione di una patria per i palestinesi corrisponde da una parte al desiderio della borghesia di crearsi un proprio Stato e sfruttare direttamente i propri proletari, dall’altra alla necessità di distogliere le masse dal terreno della lotta contro l’ordine sociale mantenendole separate dal proletariato autoctono con artificiose barriere nazionali. Questa rivendicazione è antistorica e reazionaria: il ciclo nazionale ha avuto il suo svolgimento e i fatti pongono all’ordine del giorno la guerra di tutti gli oppressi contro le classi possidenti.
7) Tre sono gli svolti della lotta dei proletari palestinesi:
Amman
1970, Tell El Zaatar 1976 e Beirut 1982.
Ad Amman, la direzione dell’OLP non
solo rifiutò di prendere in mano e dirigere la lotta contro il
regime
di re Hussein, ma, nel pieno degli scontri, concluse un compromesso con
il nemico evacuando la città e permettendo il massacro del
Settembre
Nero.
A Tell El Zaatar, proletari palestinesi
e libanesi insieme resistettero per parecchi giorni contro l’assalto
delle truppe siriane e falangiste mentre le navi israeliane attuavano
il
blocco da parte di mare. Qui, in questa operazione di polizia, gli
acerrimi
nemici si trovarono uniti contro il proletariato. Qui, l’OLP assistette
impassibile al massacro per non compromettere le sue relazioni
internazionali.
Nella battaglia di Beirut l’OLP difese
validamente la città con il suo piccolo esercito regolare, ma
non cercò
mai di mobilitare le masse per una lotta a oltranza perché il
suo
obiettivo
era l’apertura delle porte della diplomazia internazionale. E infatti,
nonostante gli israeliani non riuscissero a penetrare nella
città, si
videro
le forze dell’OLP partire all’arrivo della cosiddetta "forza di pace",
lasciando la popolazione dei campi senza difesa e, subito dopo, mentre
Arafat veniva ricevuto dal Papa, il massacro terroristico di Sabra e
Chatila.
8) Il proletariato palestinese per difendere le proprie
condizioni
di esistenza, la propria sopravvivenza fisica deve porsi, in ogni
Stato,
contro l’ordine sociale, contro l’ordine delle classi possidenti e
dell’imperialismo internazionale.
Su questa strada esso dovrà, liberandosi
dal
controllo della borghesia rappresentata dall’OLP, collegarsi con le
classi
oppresse di ogni paese al di là delle divisioni nazionali e
razziali.
Solo i proletari e contadini poveri dei paesi arabi e il moderno
proletariato
israeliano sono gli alleati delle masse diseredate palestinesi.
Qui sta la sola possibilità di impedire
che
le masse oppresse dei diversi paesi vengano lanciate in una guerra
fratricida.
Organizzazione delle masse sfruttare fuori dal controllo della
borghesia
e dell’imperialismo internazionale, rottura dei fronti patriottici, no
alle guerre fra Stati, si alla guerra civile contro le classi ricche.
Presentazione
Al V Congresso dell’Internazionale Comunista (giugno-luglio 1924) la questione nazionale e coloniale fu posta nuovamente all’ordine del giorno.
Le tesi del II Congresso e quelle di Baku non erano state sufficienti, pur nella loro chiarezza teorica e di indirizzo pratico, ad impedire che i Partiti comunisti inglese e francese dimostrassero gravi resistenze a fare propaganda e ad appoggiare adeguatamente i movimenti nazionalisti nell’India e nell’Indonesia, che i Partiti comunisti egiziano e turco appoggiassero in modo del tutto subordinato le loro borghesie al governo, che, in Germania soprattutto, si fosse fatta, con la totale complicità della stessa Internazionale, una gravissima confusione tra la lotta per il comunismo e quella del nazionalismo borghese contro il trattato di Versailles. Altre questioni inoltre si accavallavano con il riaffiorare del nazionalismo e dello sciovinismo grande-russo sotto le vesti dell’incipiente stalinismo, contro cui il morente Lenin conduceva l’ultima battaglia nel terribile isolamento su cui già la sinistra del PCUS si trovava.
Si poneva chiaramente la necessità di riprendere tutte le questioni di principio e da quelle far discendere nella maniera più chiara possibile le norme d’azione pratica nelle diverse aree geostoriche in cui l’Internazionale Comunista era chiamata ad agire.
Ma già allora il relatore ufficiale dell’Esecutivo dell’I.C. usò l’infame metodo che poi sarà il cavallo di battaglia dello stalinismo: invece di chiarire meglio le norme d’azione pratica alla luce dei principi si cominciò la caccia ai colpevoli d’incapacità e d’inettitudine.
Un rappresentante della Sinistra Italiana intervenne nella discussione sottolineando i due cardini della questione nazionale che la caccia ai colpevoli rischiava di far dimenticare. Innanzi tutto che la base teorica della soluzione dei problemi nazionali e già contenuta nel Manifesto e che consiste nella vittoria del comunismo alla scala mondiale; in secondo luogo, che la questione nazionale e coloniale si deve porre nel momento in cui il proletariato delle metropoli intraprende la lotta contro l’imperialismo, in quanto non si tratta di problemi che appartengono a due periodi successivi, ma sono strettamente interdipendenti.
Il testo che ripubblichiamo fu scritto proprio in vista della discussione che sarebbe stata affrontata al V Congresso e fu pubblicato sulla nostra rivista di allora (Prometeo, aprile 1924). Vi risalta il netto contrasto tra il metodo seguito nel testo e quello ormai in auge nell’Internazionale. Affrontare le questioni pratiche dal punto di vista dei principi era nell’I.C. ritenuto del tutto inutile e, nel migliore dei casi, i sostenitori di questo metodo erano messi in ridicolo o additati come rappresentanti della tendenza alla "inattività", amante delle disquisizioni teoriche in quanto ostile ad un adeguato impegno nell’azione. In ciò si esprime da sempre la tesi dura a morire della opponibilità della teoria e dell’azione pratica.
Proprio per contrastare un tale andazzo, che avrebbe sicuramente portato alle peggiori conseguenze, come già allora ampiamente previsto dalla Sinistra, fu scritto il testo che ripubblichiamo, esempio mirabile di quella unicità di metodo al di sopra del tempo e dello spazio che caratterizza esclusivamente il Partito Comunista.
Esso inizia con una poderosa premessa teorica con la quale si ricorda come il metodo marxista si opponga all’opportunismo di ogni razza proprio in quanto le norme tattiche sono direttamente collegate con metodo dialettico ai principi teorici: solo così teoria e azione non sono in opposizione, come nella nostra esclusiva tradizione. Opportunismo, al contrario, ha sempre significato assenza di principi e a tale assenza arriva proprio attraverso la svalutazione dei fini («il fine è nulla, il movimento è tutto»). Potendo fare a meno dei principi l’opportunismo arriva così a teorizzare che le norme di azione pratica verranno escogitate volta a volta, il che vale teorizzare che, ripudiati i principi comunisti, si dovranno seguire nell’azione i principi propri dell’ideologia borghese nelle sue mille facce.
All’annosa ed ormai esosa critica che noi opporremmo a tale metodo un sistema di dogmi, cadendo così nella metafisica e nell’affermazione di un metodo antiscientifico, rispondiamo oggi, come il testo di allora, che non neghiamo che l’esame della situazione storica generale sia in continuo sviluppo, e che le conclusioni si rielaborino sempre meglio, ma anche che non potremmo esistere come Partito (e quindi tutto sarebbe negato: insieme al Partito anche il Comunismo) se l’esperienza storica, che già il proletariato possiede nel suo Partito, non ci permettesse di costruire un programma ed un insieme di norme di condotta pratica, il che non può farsi senza schemi precisi e preordinati. Alle accuse scontate di schematismo rispondiamo che lasciamo volentieri a tutti gli altri partiti e movimenti sedicenti comunisti l’eclettismo, il manovrismo, le oscillazioni a destra e a sinistra ad ogni stormir di fronda. Non esitiamo a sostenere che è proprio il nostro metodo schematico, che non solo ci permette di esistere come unico partito compatto ed unitario, ma che permette al proletariato stesso di esistere come classe storica.
La riprova l’abbiamo proprio
nella sua integrale applicazione in una situazione storica notevolmente
peggiorata, dal punto di vista delle potenzialità di classe, da
quando
si riunì a Mosca il V Congresso dell’I.C. in via di definitiva
degenerazione.
Applicato alle attuali lotte di classe in Palestina ci ha permesso non
solo di interpretare correttamente l’evoluzione storica di quell’area,
ma anche di rappresentare l’unico indirizzo veramente rivoluzionario
per il martoriato proletariato di quei paesi, contro tutte le chimere
nazionaliste,
tanto più nefaste quanto più sedicenti rivoluzionarie e
perfino
continuatrici
della nostra tradizione della Sinistra Comunista.
IL COMUNISMO
E LA QUESTIONE NAZIONALE
"Prometeo" n.4 del 15 aprile 1924
Principi e azione
Avversione ai principi uguale sottomissione ai principi borghesi
Il principio borghese di libertà e democrazia
Il "principio di nazionalità"
La questione nazionale nella Internazionale Comunista
La via marxisticamente esatta
Applicazione del metodo alla questione nazionale
L’errore del "bolscevismo-nazionale" in Germania
Le discussioni sul metodo del proletariato rivoluzionario e comunista si aggirano spesso intorno alla questione dei "principi" e di un preteso dualismo tra questi e l’azione, tra la teoria e la pratica. Non è frequente che si riesca ad intendersi con chiarezza in questa materia; eppure senza intendersi su questo ogni sviluppo di critica e di polemica diviene sterile confusione.
L’opportunismo vecchio e nuovo, spostando la portata della tesi marxista che condanna e sgombra tutte le idee innate ed eterne che pretendono essere la base della condotta umana, parla spesso di una azione da condursi al di fuori di ogni premessa che possa limitarla e impacciarla, di una politica senza principi fissi. Il revisionismo classico di Bernstein, che abilmente sovrapponevasi al movimento proletario simulando di aver lasciata in piedi la dottrina rivoluzionaria di Marx, proclamava: il fine è nulla, il movimento è tutto. Dire che il fine è nulla, lo vedremo subito, significa che si può fare a meno dei principi: perché i principi, per il comunismo marxista, non sono che fini, ossia punti di arrivo dell’azione... E non sembri paradossale la contrapposizione dei due termini.
Tolta di mezzo la visione di una vasta finalità, e lasciata in soffitta la dottrina del movimento, il riformismo opportunista parla solo di problemi attuali da risolvere volta per volta, in modo empirico, per l’immediato avvenire.
Ma, si poteva chiedere, e si può chiedere alle forme di questa falsificazione, che non ha finito certo di rinnovarsi e ripresentarsi, quale sarà dunque, soppressa ogni regola e guida permanente, l’indice che consiglierà la scelta tra i vari modi di azione? Quale sarà il "soggetto" nell’interesse del quale l’azione stessa dovrà essere svolta? E l’opportunismo (che fu ed è piatto "operaismo", sostituito alla dottrina e alla prassi generale della rivoluzione proletaria) rispondeva di ispirare il suo compito quotidiano agli interessi operai, intendendo per ciò gli interessi, a volta a volta, di singoli gruppi e categorie di lavoratori e considerandone la soddisfazione più facile, prossima, a breve scadenza.
Le soluzioni dei problemi di azione non sono così più ispirate all’insieme del moto proletario e del suo cammino storico, ma volta per volta escogitate limitatamente a piccole porzioni della classe operaia, e a minime tappe del suo cammino. Così agendo, il revisionismo si libera da ogni legame ai principi, e, nelle sue forme più o meno spinte, vanta tuttavia di essere nel vero spirito del marxismo, che consisterebbe nella più ampia spregiudicatezza ed ecletticità di movimento.
La lotta contro queste deviazioni assume ed assumerà aspetti importantissimi nello svolgersi del movimento proletario, attraverso le sue complesse esperienze. Quel modo di presentare e sciogliere le questioni è stato molte volte criticato e diffidato; tuttavia esso troverà forme più subdole per ritentare di imbevere di sé l’azione del proletariato. Non ne esporremo qui la confutazione in generale, ma solo in riguardo a un problema particolare, il che rende anche la posizione nostra più intelligibile.
[Avversione ai
principi uguale sottomissione ai principi borghesi]
Parecchie volte, dalla parte nostra, dalla sinistra marxista, è stato svelato il trucco volgare dell’opportunismo. La sua pretesa avversione ai principi, ai dogmi, come cretinamente si diceva, si riduceva semplicemente a una osservanza ostinata e cieca di principi proprii dell’ideologia borghese e controrivoluzionaria. I positivi, i pratici, gli spregiudicati del movimento proletario, si rivelavano nel momento supremo come i più bigotti fautori di idee borghesi, a cui pretendevano di subordinare il movimento proletario, ed ogni interesse dei lavoratori.
La critica teoretica che pone in rilievo questo fatto caratteristico, procede parallelamente allo smascheramento politico dell’opportunismo socialista come di una forma di azione borghese, e dei suoi capi come di agenti del capitalismo nelle file del proletariato.
All’inizio della guerra mondiale, il fallimento clamoroso della Internazionale opportunista difese sé stesso teoricamente con argomenti che, nel campo della teoria come della propaganda socialista, apparivano come sorprese, come inattese rivelazioni, come "scoperte" sensazionali. Quelli che avevano contestato al socialismo di avere dei principi dottrinali e programmatici, affermavano all’improvviso che il socialismo non conservava neppure questa originalità, di essere il movimento senza principi, ma si doveva subordinare all’incondizionato riconoscimento di certe tesi, fino allora mai esplicitamente proclamate, anzi sempre considerate come estranee al pensiero socialista, e oggetto da parte di esso di una demolizione polemica definitiva. Il socialismo si riduceva ad una "sottoscuola" del movimento della sinistra borghese, si affiliava alla ideologia della cosiddetta democrazia, presentata tutt’ad un tratto non come la considera il marxismo nelle sue più elementari affermazioni, ossia come la dottrina politica appropriata agli interessi di classe borghesi, ma come qualcosa di più avanzato e progredito rispetto alla dominante politica capitalistica. I traditori della Internazionale "scoprirono" allora dei principi che ci buttarono tra le gambe, e dai quali pretesero che l’azione del proletariato fosse ineluttabilmente pregiudicata e determinata; ai quali affermarono che tutti gli interessi immediati, anche dei singoli gruppi che loro tanto stavano a cuore, dovessero inesorabilmente sacrificarsi. Tre di questi principi furono soprattutto sbandierati: il principio della libertà democratica, quello della guerra difensiva, quello di nazionalità.
Ad arte fino allora gli opportunisti avevano simulato una ortodossia teorica parlando sempre alle masse di lotta di classe, di socializzazione dei mezzi di produzione, di abolizione dello sfruttamento del lavoro: perché la scoperta improvvisa dei nuovi principi doveva servire a sorprendere il proletariato e a sconvolgere la coscienza di classe e la ideologia rivoluzionaria, sabotando la possibilità di una sua mobilitazione ideale in senso classista, come, corrispondentemente, il passaggio aperto delle cariche dirigenti delle grandi organizzazioni operaie ad una alleanza colla borghesia doveva togliere di colpo ogni piattaforma di riordinamento e di collegamento ad una azione socialista della classe operaia mondiale.
Allora si apprese (e ben pochi seppero, meno ancora poterono, tra i militanti socialisti, esprimere la loro indignazione e la loro protesta) che il proletariato socialista doveva fare a meno dei principi fino a che erano i principi della dottrina classista, ma doveva inchinarsi ad essi come a cosa sacra quando si trattava dei principi della ideologia borghese, di quelle idee fondamentali nella religione delle quali le classi dominanti tendono a trasformare la prevalenza dei loro interessi: il tradimento al contenuto della critica marxista non poteva essere più spudorato...
Per dare una piccola idea di come si andasse oltre in questa sfacciata sovrapposizione di elementi estranei e antitetici alle più ovvie formulazioni della dottrina socialista, citeremo un esempio solo. Da parte nostra fu naturalmente invocato il passo notissimo del Manifesto dei Comunisti, secondo il quale il proletariato non ha patria, e può considerarsi costituito in nazione, in senso ben diverso da quello borghese, solo quando si sia conquistato il dominio politico. Ebbene, uno dei propagandisti più noti del partito socialista, il "tecnico" addirittura della propaganda nel vecchio partito, cioè il Paoloni, rispose sostenendo questo: che la condizione dell’aver conquistato il dominio politico consisteva nella conquista del... suffragio democratico; e laddove il proletariato godeva del diritto elettorale, quivi esso aveva una patria e dei doveri nazionali! Questa tesi, che non si commenta neppure, dimostra come coloro cui si affidava nella Seconda Internazionale la propaganda del marxismo, o erano incredibilmente bestie o incredibilmente sfrontati.
[Il principio
borghese di libertà e democrazia]
Da queste pagine è stata e sarà ancora meglio esposta la critica marxista al "principio" borghese di democrazia e di libertà. Noi non prendiamo sul serio la filosofia liberale borghese e il suo egualitarismo giuridico. Alla sua demolizione teorica si accompagna, nel concetto comunista, un programma politico del proletariato che liquida ogni illusione sulla possibilità di applicare metodi liberali e libertarii per la finalità rivoluzionaria: la soppressione della divisione della società in classi. Il preteso diritto uguale di tutti i cittadini nello Stato borghese non è che la traduzione del principio economico della "libera concorrenza" e della parità, sul mercato, dei venditori e compratori di mercanzie: questo livellamento significa solo la consolidazione delle condizioni più opportune perché lo sfruttamento e la oppressione capitalistica si instaurino e si conservino.
In diretto rapporto con questa critica, fondamentale per il pensiero socialista, sta la dimostrazione che l’invocare, come guida della politica proletaria e socialista dinanzi alla guerra, il grado di maggiore o minore "libertà democratica" raggiunto dai paesi in conflitto, significa rimettersi puramente a criterii borghesi e anti‑proletari: non insisteremo quindi sul primo dei tre principi suaccennati.
Gli altri due principi stanno in dipendenza dello stesso travisamento teoretico: il parlare di guerre giuste ed ingiuste, a seconda che siano di aggressione o di difesa, oppure che abbiano l’obbiettivo di dare alle popolazioni il governo che si dice desiderio in maggioranza, presuppone la credenza in un principio di democrazia instaurato nelle relazioni tra gli Stati, così come in quelle tra gli individui. Tali principi sono quelli che la borghesia bandisce allo scopo preciso di creare nelle masse popolari una ideologia favorevole al suo dominio, di cui non può confessare le determinanti spietatamente egoistiche.
Mentre per la vita interna dello Stato capitalistico moderno la democrazia elettiva corrisponde di fatto a una sanzione giuridica e a una norma costituzionale, pur non costituendo, dal nostro punto di vista, nessuna garanzia effettiva per il proletariato che nei momenti decisivi della lotta di classe [non] si troverà contro la macchina armata dello Stato, nei rapporti internazionali nemmeno esistono delle sanzioni e delle convenzioni che rispondano ad una applicazione formale di quei principi che dalla teoria democratica derivano.
Per il regime capitalistico la instaurazione della democrazia nello Stato fu una necessità inerente al suo sviluppo; non sarà altrettanto di nessuna delle formule dedotte dalla teoria democratica per i rapporti internazionali, e bandite dagli ideologi fautori della pace universale basata sull’arbitrato, della sistemazione delle frontiere secondo la nazionalità, e così via. Apparentemente è questo un argomento che si presta al gioco degli opportunisti, che mostrano i ceti capitalistici come avversi a queste rivendicazioni politiche che essi, traendoli da teoriche puramente borghesi, vogliono accreditare nel proletariato. Ma l’argomento si ritorce più volte contro di costoro.
Infatti, è assurdo credere che uno Stato borghese modifichi la sua politica internazionale per il solo fatto che il proletariato socialista, disarmata in nome della "unione sacra" ogni sua opposizione e indipendenza, gli lasci le mani ancora più libere per agire secondo il suo interesse di conservazione. In secondo luogo il gioco criminale dei social-traditori si dimostra più ancora spudorato: essi hanno contrapposto al preteso "utopismo" dei programmi rivoluzionarii la necessità di porsi finalità immediate e toccabili con mano, di aderire alle possibilità reali; ad improvviso essi tirano in campo, per subordinarvi l’indirizzo del movimento proletario, scopi i quali, oltre a non essere di natura classista e socialista, si dimostrano del tutto irreali e illusori; accreditano idee che la borghesia non applicherà mai, ma alle quali le interessa che le masse proletarie prestino fede. La politica adunque degli opportunisti non mira a spingere innanzi, sia pure a piccoli passi, il divenire effettivo e pratico delle situazioni, ma si rivela come la mobilitazione ideologica delle masse nell’interesse borghese e controrivoluzionario, e null’altro.
Per quanto riguarda il principio di nazionalità, non è difficile mostrare che esso non è mai stato altro che una frase per la agitazione delle masse, e, nella ipotesi migliore, una illusione di alcuni strati intellettuali piccolo borghesi. Se per lo sviluppo del capitalismo fu una necessità il formarsi delle grandi unità statali, nessuna però di esse si costituì colla osservanza del famoso principio nazionale, molto difficile del resto a definire in concreto. Uno scrittore non certo rivoluzionario, Vilfredo Pareto, in un suo articolo del 1918 (ripubblicato nella raccolta "Uomini e Idee", editore Vallecchi, Firenze, 1920) fa la critica del "supposto principio di nazionalità" e dimostra come non se ne possa trovare una definizione soddisfacente, e come dei molti criteri che sembrano poter servire a precisarlo (etnico, linguistico, religioso, storico, etc.) nessuno è esauriente, e tutti poi si contraddicono tra loro nei risultati a cui menano. Il Pareto fa anche la ovvia osservazione, tante volte da noi avanzata nelle polemiche dell’epoca della guerra, che non certo i plebisciti sono un mezzo sicuro per indicare la soluzione dei problemi nazionali, dovendosi preventivamente stabilire i limiti del territorio a cui estendere la votazione maggioritaria, e la natura dei poteri che la organizzano e controllano: chiudendosi così in un circolo vizioso...
Non abbiamo bisogno di riportare qui tutto il contenuto delle polemiche di nove anni addietro. Facile fu allora a noi internazionalisti dimostrare come i famosi principi invocati dai socialguerraiuoli si prestassero ad applicazioni del tutto contraddittorie. Ogni Stato può in guerra trovar modo di invocare una situazione di difensiva: l’aggressore può essere colui il cui territorio verrà "calpestato dall’invasore straniero"; in ogni caso ad analoghe conseguenze condurrebbe un atteggiamento rivoluzionario del movimento socialista sia in caso di offensiva che di difensiva militare, potendo esso bastare a convertire la prima nella seconda. Quanto alle questioni nazionali e di irredentismo, esse sono così numerose e complesse da poter essere adoperate a giustificare ben altri schieramenti di alleanze che quelli della guerra mondiale.
I famosi principi enumerati si contraddicevano poi singolarmente tra loro nella applicazione. Chiedevamo noi ai socialpatriottici se essi riconoscessero a un popolo più democratico il diritto di attaccarne e assoggettarne uno meno democratico; se per la liberazione di regioni irredente potesse ammettersi l’aggressione militare, e così via.
E queste contraddizioni logiche si traducevano nella possibilità di giustificare, una volta accettate quelle tesi fallaci, la adesione socialista a qualsiasi guerra, come infatti avvenne, che con gli stessi argomenti si sostenne la tattica di socialtradimento in tutti i paesi, trovantisi nelle più disparate condizioni, e si trascinarono gli uni contro gli altri i lavoratori dalle due parti del fronte di guerra.
Egualmente facile ci fu la previsione che i governi borghesi vincitori, quali che essi fossero, non si sarebbero sognati di applicare, nella pace, quei criterii nei quali era contenuta, secondo i socialnazionali, non solo la motivazione della adesione proletaria alla guerra, ma la garanzia che la guerra avrebbe condotto a quegli sbocchi, che vennero presentati ai lavoratori ingannati dai loro indegni condottieri.
Non è dunque materia nuova quella della critica alle deviazioni socialnazionaliste e della loro confutazione. Meno ovvia si presenta, e si presentava soprattutto al momento della fondazione della Terza Internazionale, la soluzione positiva da apportare alla questione nazionale dal punto di vista comunista. Il problema non può dirsi fosse liquidato colle tesi del secondo congresso (1920) tanto che anche il prossimo V Congresso se ne dovrà occupare.
È chiaro che la Internazionale Comunista non va a prendere a prestito teoriche e formole borghesi e piccolo-borghesi per la soluzione dei problemi del suo atteggiamento politico e tattico. La Internazionale Comunista ha restaurato i valori rivoluzionari della dottrina e del metodo marxista, inspirando ad essi il suo programma e la sua tattica.
Quale è la via per arrivare, su tali basi, alla soluzione di problemi come, ad esempio, quello nazionale?
Questo vogliamo ricordare, nelle linee più elementari. I revisionisti parlavano di un esame condotto volta per volta sulle situazioni contingenti, ed esente da preoccupazioni di principii e di finalità generali. Da questo essi giungevano a conclusioni puramente borghesi, non attenendosi neppure nel giudizio sulle situazioni a criterii marxisti, che ponessero in rilievo il gioco dei fattori economico-sociali, e del contrasto degli interessi di classe.
Si potrebbe dire che la giusta linea comunista è di assicurarsi nella analisi delle situazioni una stretta fedeltà a quel metodo marxista di critica dei fatti, e da questo venire liberamente alle conclusioni, senza tampoco aver bisogno di limitarle con idee preconcette.
Ma secondo noi una tale risposta conserva in sé tutti i pericoli dell’opportunismo, per la sua troppa indeterminazione. Da un altro lato si potrebbe invece dire che noi, ad un esame più marxista e classista delle date contingenze, dobbiamo aggiungere l’osservanza di principi e di formole generali ottenuti con un capovolgimento quasi meccanico delle formole borghesi. Noi ammettiamo volentieri che in questo si pecca per troppo semplicismo e per un radicalismo sbagliato. Certe formole semplici sono indispensabili per la agitazione e la propaganda del nostro partito, ed esse contengono in ogni caso minori pericoli che la eccessiva elasticità e spregiudicatezza. Ma quelle formole devono essere i punti di arrivo e i risultati, non i punti di partenza di un esame delle questioni quale, di quando in quando, il partito deve affrontare nei suoi organi supremi di critica e di deliberazione, per porre le conclusioni a disposizione della massa dei militanti in termini chiari ed espliciti.
Così
si
potrebbe
dire, per fare un esempio, della formola "contro tutte le guerre", che
in un importante periodo storico ottimamente distingue i veri
rivoluzionari
dagli opportunisti sottilizzanti su distinzioni tra guerra e guerra che
conducono alla giustificazione della politica di ciascuna borghesia, ma
che come enunciazione di dottrina è certo insufficiente, non
fosse
altro
perché potrebbe, per il suo stesso radicalismo formale che
capovolge
grossolanamente
l’attitudine opportunistica, andarsi ad affiliare ad un’altra
attitudine
ideologica borghese, al pacifismo di stile tolstoiano. Si cadrebbe
così
in contraddizione col nostro fondamentale postulato dell’impiego della
violenza armata.
[La via marxisticamente
esatta]
La via marxisticamente esatta per la risposta a simili quesiti
non è né l’una né l’altra delle due sommariamente
accennate. Essa
merita
di essere ancora più attentamente precisata dal partito del
proletariato
rivoluzionario, sebbene ne esistano già esempii brillantissimi,
come per
il mirabile edifizio della critica marxistico-leninista alle dottrine
democratiche
borghesi e della definizione del nostro programma rispetto al problema
dello Stato.
Per indicare brevemente la soluzione che a noi pare migliore, diremo che è assolutamente da respingere la tesi secondo cui la politica marxista si contenta di un semplice esame delle successive situazioni (con un metodo, si intende, ben determinato) e non abbisogna di altri elementi. Quando noi avremo studiati i fattori di carattere economico e lo sviluppo dei contrasti di classe che si presentano nel campo di un dato problema, avremo fatto qualcosa di indispensabile ma non avremo ancora tenuto conto di tutto. Vi sono certi altri criteri di cui è necessario tener conto, che si possono chiamare "principi" rivoluzionari, se si chiarisce che tali principi non consistono in idee immanenti e aprioristiche fissate una volta per sempre in tavole che siano state "trovate" in qualche parte bell’ed incise. Se si vuole si può rinunziare alla parola principii per parlare di postulati programmatici: si può sempre precisare meglio, anzi si deve farlo tenute anche presenti le necessità linguistiche di un movimento internazionale, la nostra terminologia.
A questi criteri si giunge con una considerazione in cui sta tutta la forza rivoluzionaria del marxismo. Noi non possiamo né dobbiamo risolvere la questione, poniamo, dei dockers inglesi o dei lavoratori della Finlandia coi soli elementi tratti dallo studio, con metodo deterministico-storico, della situazione di quella categoria operaia o di questa nazione, nei limiti di spazio e di tempo che si pongono in modo immediato alle condizioni del problema. Vi è un interesse superiore che guida il nostro movimento rivoluzionario, col quale quegli interessi parziali non possono contrastare se si considera tutto lo svolgimento storico, ma la cui indicazione non sorge immediatamente dai singoli problemi concernenti gruppi del proletariato e dati momenti delle situazioni. Questo interesse generale è, in una parola, l’interesse della Rivoluzione Proletaria, ossia l’interesse del proletariato considerato come classe mondiale dotata di una unità di compito storico e tendente ad un obiettivo rivoluzionario, al rovesciamento dell’ordine borghese. Subordinatamente a questa suprema finalità noi possiamo e dobbiamo risolvere i singoli problemi.
La maniera di coordinare le soluzioni singole a questa finalità generale si concreta in postulati acquisiti al partito, e che si presentano come i cardini del suo programma e dei suoi metodi tattici. Questi postulati non sono dogmi immutabili e rivelati, ma sono a loro volta la conclusione di un esame generale e sistematico della situazione di tutta la società umana del presente periodo storico, nel quale sia tenuto esatto conto di tutti i dati di fatto che cadono sotto la nostra esperienza. Noi non neghiamo che questo esame sia in continuo sviluppo e che le conclusioni si rielaborino sempre meglio, ma è certo che noi non potremmo esistere come partito mondiale se la esperienza storica che già il proletariato possiede non permettesse alla nostra critica di costruire un programma ed un insieme di regole di condotta politica.
Non esisteremmo, senza di questo, né noi come partito, né il proletariato come classe storica in possesso di una coscienza dottrinale e di una organizzazione di lotta. Ove si presentano delle lacune nelle nostre conclusioni, e ove si prevedono revisioni parziali avvenire, sarebbe errore supplire con la rinunzia alla definizione dei postulati o principi, che appaiono certo come una "limitazione" delle azioni che ci potranno essere suggerite dalle successive situazioni e nei vari paesi. Errore infinitamente minore sarebbe rimediare con un completamento anche un poco arbitrario delle nostre formole conclusive, perché la chiarezza e precisione, nello stesso tempo che il massimo possibile di continuità, di tali formole di agitazione e di azione, sono una condizione indispensabile del rafforzarsi del movimento rivoluzionario.
A questa affermazione, che potrà parere un poco arrischiata, noi aggiungiamo, senza volerci oltre trattenere sulla grave questione che a molti sembrerà eccessivamente astratta, che ci pare che i dati che ci fornisce la storia della lotta di classe fino alla grande guerra e alla rivoluzione russa consentano al partito comunista mondiale di riempire tutte le lacune con soluzioni soddisfacenti. Il che non vuole dire certamente che nulla avremo da imparare dall’avvenire, e dalla continua riprova delle nostre conclusioni nella applicazione politica delle medesime.
Il rifiutarsi a "codificare" senza altro indugio il programma e le regole di tattica e di organizzazione della Internazionale non potrebbe per noi avere oggi altro senso che quello di un pericolo di natura opportunista, per cui la nostra azione correrebbe il rischio domani di riandarsi a rifugiare sotto principi e regole borghesi, questi sì completamente errati e rovinosi per la "libertà" della nostra azione.
Concludiamo che gli elementi di una soluzione marxista dei problemi del nostro movimento sono: l’insieme di conclusioni comprese nella nostra visione generale del processo storico, indirizzata alla realizzazione del finale e generale successo rivoluzionario, [e lo] studio marxista dei fatti che cadono sotto il proprio esame.
Quell’insieme di conclusioni è dialetticamente figlio di
un
esame dei fatti, ma dall’esame di tutti i fatti storico-sociali finora
a noi accessibili. Esso per il partito rivoluzionario presenta, non un
carattere dogmatico, ma un elevato grado di "permanenza" storica, che
ci
distingue da tutti gli opportunisti, e che, in termini più
banali, è
anche rappresentato da quella nostra coerenza dottrinale e tattica,
perfino
monotona se si vuole, che vale a distinguerci dai traditori e dai
rinnegati
della causa rivoluzionaria.
[Applicazione del metodo
alla questione nazionale]
Della questione nazionale diciamo ora più che altro a titolo di esemplificazione del metodo accennato. L’esame di essa e la descrizione dei fatti in cui si compendia sono contenuti nelle tesi del secondo congresso, che giustamente si riportano alla valutazione generale della situazione del capitalismo mondiale, e della fase imperialistica che esso attraversa.
Questo insieme di fatti va esaminato tenendo presente il bilancio generale della lotta rivoluzionaria. Un fatto fondamentale è quello che il proletariato mondiale possiede ormai una cittadella nel primo Stato operaio, la Russia, oltre che il suo esercito nei partiti comunisti di tutti i paesi. Il capitalismo ha le sue fortificazioni nei grandi Stati e soprattutto in quelli vincitori della guerra mondiale, un piccolo gruppo dei quali controlla la politica mondiale. Questi Stati lottano contro le conseguenze del dissesto generale prodotto nella economia borghese dalla grande guerra imperialistica, e contro le forze rivoluzionarie che mirano ad abbatterne il potere.
Una delle più importanti risorse controrivoluzionarie di cui dispongono i grandi Stati borghesi nella lotta contro il disquilibrio generale della produzione capitalistica, è la loro influenza su due gruppi di paesi: da una parte le loro colonie di oltremare, dall’altra i piccoli paesi ad economia arretrata di razza bianca. La grande guerra, presentata come il movimento storico sboccante nella emancipazione dei piccoli popoli e nella liberazione delle minoranze nazionali, ha clamorosamente smentita questa ideologia, in cui credettero o finsero di credere i socialisti della II Internazionale, assoggettando alle grandi potenze tutti i piccoli paesi. I nuovi Stati sorti nell’Europa centrale non sono che vassalli o della Francia o dell’Inghilterra, mentre Stati Uniti e Giappone consolidano sempre più una loro egemonia sui paesi meno potenti dei continenti rispettivi.
È indubbio che la resistenza alla rivoluzione proletaria è concentrata nel potere dei pochi grandi Stati capitalistici: abbattuto questo, tutto il resto crollerebbe dinanzi al proletariato vincitore. Se nelle colonie e nei paesi arretrati vi sono movimenti sociali e politici diretti contro i grandi Stati e nei quali sono coinvolti ceti e partiti borghesi e semiborghesi, è certo che il successo di questi movimenti, dal punto di vista dello sviluppo della situazione mondiale, è un fattore rivoluzionario, in quanto contribuisce alla caduta delle principali fortezze del capitalismo, mentre ove alle borghesie dei grandi Stati potesse sopravvivere un potere borghese nei piccoli paesi, questo sarebbe travolto successivamente dalla potenza del proletariato dei paesi più progrediti, anche se localmente il movimento proletario e comunista appare iniziale e debole.
Uno sviluppo parallelo e simultaneo della forza proletaria e dei rapporti di classe e di partito in ogni paese non è affatto un criterio rivoluzionario, ma si riporta alla concezione opportunista sulla pretesa simultaneità della rivoluzione, in nome della quale si negava persino alla rivoluzione russa il carattere proletario. I comunisti non credono affatto che lo sviluppo della lotta in ogni paese debba seguire lo stesso schema, essi si rendono conto delle differenze che si presentano nel considerare i problemi nazionali e coloniali, solo essi coordinano la soluzione all’interesse del movimento unico di abbattimento del capitalismo mondiale.
La tesi politica della Internazionale comunista, per la guida da parte del proletariato comunista mondiale e del suo primo Stato, del movimento di ribellione delle colonie e dei piccoli popoli contro le metropoli del capitalismo, appare dunque come il risultato di un vasto esame della situazione e di una valutazione del processo rivoluzionario ben conforme al programma nostro marxista. Essa si pone ben al di fuori della tesi opportunista-borghese, secondo cui i problemi nazionali devono essere risolti "pregiudizialmente" prima che si possa parlare di lotta di classe, e per conseguenza il principio nazionale vale a giustificare la collaborazione di classe, sia nei paesi arretrati, sia in quelli di capitalismo avanzato, quando si pretenda posta in pericolo la integrità e libertà nazionale.
Il metodo comunista non dice banalmente: i comunisti devono agire in senso opposto, ovunque e sempre, alla tendenza nazionale: il che non significherebbe nulla e sarebbe la negazione "metafisica" del criterio borghese. Il metodo comunista si contrappone a questo "dialetticamente", ossia parte dai fattori classisti per giudicare e risolvere il problema nazionale. L’appoggio ai movimenti coloniali, ad esempio, ha tanto poco sapore di collaborazione di classe che, mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista nelle colonie, perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati, con una opera indipendente di formazione ideologica e organizzativa, si chiede l’appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti delle metropoli. E tale tattica ha tanto poco sapore collaborazionista, da essere chiamata dalla borghesia azione antinazionale, disfattista, di alto tradimento.
La tesi 9 dice che senza tali condizioni la lotta contro l’oppressione coloniale e nazionale resta una insegna menzognera come per la II Internazionale, e la tesi 11, comma e), ribadisce che «è necessaria una lotta recisa contro il tentativo di coprire di una veste comunista il movimento rivoluzionario irredentista, non realmente comunista, dei paesi arretrati». Questo vale a suffragare la fedeltà della nostra interpretazione.
La necessità di spostare l’equilibrio delle colonie, risulta da un esame strettamente marxista della situazione del capitalismo, in quanto la oppressione e lo sfruttamento dei lavoratori di colore diviene un mezzo per incrudelire lo sfruttamento del proletariato indigeno, della metropoli. Qui risalta ancora la radicale differenza tra il criterio nostro e quello dei riformisti. Questi, infatti, tentano di dimostrare che le colonie sono una fonte di ricchezze anche per i lavoratori della metropoli, collo offrire uno sbocco ai prodotti, e traggono da questo altri motivi per la collaborazione di classe sostenendo in molti casi a faccia fresca che lo stesso loro principio di nazionalità può essere violato per l’interesse della "diffusione della civiltà" borghese e per accelerare la evoluzione delle condizioni del capitalismo. Ed è qui un altro saggio di travisamento reazionario del marxismo, che si riduce ad accordare al capitalismo sempre più lunghe proroghe al momento della sua fine e dell’attacco rivoluzionario, coll’attribuirgli ancora un lungo compito storico, che noi gli contestiamo.
I comunisti utilizzano le forze che mirano a rompere il patronato dei grandi Stati sui paesi arretrati e coloniali, perché ritengono possibile rovesciare queste fortezze della borghesia e affidare al proletariato socialista dei paesi più avanzati il compito storico di condurre con ritmo accelerato il processo di modernizzazione della economia dei paesi arretrati, non sfruttandoli, ma sospingendo la emancipazione dei lavoratori locali dallo sfruttamento estero ed interno.
[L’errore del
"bolscevismo-nazionale" in Germania]
Questa nelle grandi linee la giusta posizione della I.C. nel problema di cui ci occupiamo. Ma importa molto vedere chiaramente la via per la quale si giunge a tali conclusioni, per evitare che si voglia riannodarle al superato frasario borghese sulla libertà nazionale e l’eguaglianza nazionale, ben denunziato nella prima delle tesi citate come un derivato del concetto capitalistico sulla eguaglianza dei cittadini di tutte le classi. Perché in queste nuove (in un certo senso) conclusioni del marxismo rivoluzionario, talvolta si affaccia il pericolo di esagerazioni e deviazioni.
Per restare sul terreno degli esempi, noi neghiamo che sia giustificabile sulle basi accennate il criterio di un avvicinamento in Germania tra il movimento comunista e il movimento nazionalista e patriottico.
La pressione esercitata sulla Germania dagli Stati dell’Intesa anche nelle forme acute e vessatorie che ha preso ultimamente, non è elemento tale che ci possa far considerare la Germania alla stregua di un piccolo paese di capitalismo arretrato. La Germania resta un grandissimo paese formidabilmente attrezzato in senso capitalistico e in cui il proletariato socialmente e politicamente è più che avanzato. Impossibile è adunque la confusione colle condizioni effettive prima considerate. Ci basti questo a risparmiarci un ampio esame della grave questione, che potrà farsi altra volta in modo non sommario.
Né basta a spostare la nostra valutazione il fatto che in Germania lo schieramento delle forze politiche si presenta in modo che la grande borghesia non ha una accentuata attitudine nazionalista, ma tende ad allearsi colle borghesie della Intesa a spese del proletariato tedesco e per una azione controrivoluzionaria; mentre il movimento nazionalista è alimentato da strati piccolo borghesi malcontenti e tartassati anch’essi economicamente dal prepararsi di questa soluzione. Il problema della rivoluzione instaurata a Berlino non può vedersi se non riferendolo, da una parte, e questo è confortante, a Mosca, ma dall’altra parte a Parigi e Londra. Le forze fondamentali su cui noi dobbiamo contare per controbattere l’intesa capitalistica tra Germania ed alleati sono, non solo lo Stato soviettista, ma anche, in prima linea, l’alleanza del proletariato tedesco con quello dei paesi di occidente. Questo è un fattore così importante per lo sviluppo rivoluzionario mondiale, che è un errore gravissimo comprometterlo, in un momento difficile per l’azione rivoluzionaria in Francia e Inghilterra, col fare, anche in parte, della questione della rivoluzione tedesca una questione di liberazione nazionale, sia pure su un piano che esclude la collaborazione colla grande borghesia.
La stessa sproporzione di maturità tra il partito comunista tedesco e quelli di Francia e d’Inghilterra sconsiglia questa errata posizione, per cui all’antipatriottismo della grande borghesia germanica si vorrebbe contrapporre un programma nazionalista della rivoluzione proletaria. L’aiuto della piccola borghesia tedesca (che è certo bene utilizzare con altra tattica che questa del "bolscevismo nazionale" e guardando alla situazione economica rovinosa dei ceti intermedi) sarebbe annullato completamente in una situazione in cui Parigi e Londra si sentissero internamente le mani libere per agire oltre le frontiere tedesche: il che può essere impedito solo dalla impostazione internazionalista del problema rivoluzionario tedesco. Caso mai è in Francia che ci dobbiamo più preoccupare della attitudine dei ceti piccolo borghesi, che uno acutizzarsi del nazionalismo tedesco rimetterà alla mercé delle locali borghesie: mentre qualcosa di analogo può dirsi per l’Inghilterra ove il laburismo si mostra così sfacciatamente nazionalista, ora che è al governo, per conto e interesse della borghesia britannica.
Ecco come il dimenticare la origine di principio delle soluzioni politiche comuniste può portare ad applicarle laddove mancano le condizioni che le hanno suggerite, sotto il pretesto che ogni più complicato espediente sia sempre utilmente adoperabile. Non può non considerarsi come un fenomeno che ha certe analogie colle imprese del social-nazionalismo, il fatto che il compagno Radek, per sostenere in una riunione internazionale la tattica da lui caldeggiata, "scoprì" che il gesto del nazionalista sacrificatosi nella lotta contro i francesi nella Ruhr deve essere dai comunisti esaltato in nome del principio (nuovo per noi e inaudito), che al disopra dei partiti si debba sostenere chiunque si sacrifica per la sua idea.
Un deplorevole rimpicciolimento è quello che riduce il compito del grande proletariato di Germania a una emancipazione nazionale: quando noi attendiamo da questo proletariato e dal suo partito rivoluzionario che esso riesca a vincere non per sé, ma per salvare la esistenza e la evoluzione economica socialista della Russia dei Soviet, e per rovesciare contro le fortezze capitaliste di occidente la fiumana della Rivoluzione mondiale, destando i lavoratori degli altri paesi per un momento immobilizzati dagli ultimi conati controffensivi della reazione borghese.
I disquilibri nazionali tra i grandi Stati progrediti sono un fattore da noi studiato ed esaminato quanto ogni altro: all’opposto dei socialnazionali noi escludiamo recisamente che essi possano risolversi per altra via che la guerra di classe contro tutti i grandi Stati borghesi; e le sopravvivenze patriottiche e nazionaliste in questo campo sono da noi considerate come manifestazioni reazionarie che non possono avere alcuna presa sui partiti rivoluzionarii del proletariato, chiamati in questi paesi ad una eredità ricca di possibilità genuinamente e squisitamente comuniste, a un compito di avanzatissima avanguardia nella Rivoluzione mondiale.