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1- La sfida della borghesia rivoluzionaria
Il mondo può essere sottomesso al dominio della ragione. Questa fu la sfida lanciata dalla borghesia rivoluzionaria nel corso del secolo XIX. Sia la storia naturale sia quella sociale poteva essere studiata secondo ragione; la natura ed il procedere umano potevano essere sottoposti al controllo dell’uomo razionale. Costruire uno Stato ed una Società secondo ragione, distruggendo spietatamente tutto ciò che vi si opponeva, costituiva il programma ambizioso e possente di una classe in ascesa storica.
Il procedere rovinoso del nuovo modo di produzione, di cui la teoria
della Ragione rappresentava la sovrastruttura ideologica, basato su
rapporti
che sempre più “poggiavano su sé stessi” e sempre meno dipendevano
dagli uomini per quanto potenti ed altolocati essi fossero; l’assoluta
reificazione dell’organo politico statale dalla società e del potere
esecutivo nei confronti dello Stato; l’equilibrio sociale ottenuto non
con l’armonica fusione degli individui collaboranti, ma con il loro
movimento
anarchico di esseri indifferenti ed estranei, doveva necessariamente
portare
da una parte al crollo ignominioso della nuova Dea e dall’altra alla
nascita della Critica Radicale, espressione teorica di un movimento
reale
sovversivo presente nel corpo sociale borghese.
2 - Il fallimento della ragione borghese
La Ragione abbandonò inorridita le scienze economiche-storiche-sociali. Essa aveva intravisto nell’ordine infame del suo presente i presupposti del suo superamento e della sua morte, che la Critica Radicale aveva pronunciato in sede teorica e che il proletariato tentava periodicamente di eseguire in sede pratica.
Al suo posto subentrarono le scienze volgari, mistificazione del presente, monumento di inganno e cecità della classe borghese; inganno più verso se stessa che verso la classe storica avversa: il proletariato. Teorie della consolazione e della giustificazione, la loro stessa comparsa suonava come una campana a morte per la classe dominante.
Una classe in ascesa si giustifica con i fatti. La realtà storica-sociale è la sua migliore giustificazione. Essa ha interesse alla verità, perché la verità conferma la giustezza e la necessità del suo nuovo ordine.
La ragione fu costretta allora a limitare la sua ricerca alle sole
scienze
naturali ed esatte ed ivi conseguì importanti risultati non peritandosi
di usare i metodi rivoluzionari di indagine della Critica Radicale,
rifiutati
con scandalo ed abominio quando si trattava di applicarli alle scienze
sociali.
3 - Scienza ed ideologia
La conoscenza che la specie umana possiede si è sviluppata non per lavoro autonomo del pensiero, ma attraverso il contatto con la materia e la natura. L’uomo è spinto alla conoscenza non dall’esigenza del puro spirito e pensiero, ma dall’esigenza della riproduzione della vita nella sua accezione più generale.
Questo è tanto più vero nella società borghese in cui tutte le forze produttive sono sottomesse al bisogno del valore autovalorizzantesi.
L’interesse della borghesia per le scienze naturali non è quindi fine a sé stesso. Esse sono potenti forze produttive e come tali devono essere monopolizzate dalla classe borghese. Ora viepiù le scienze naturali divengono la base della vita umana reale per mezzo dell’industria, «rapporto storico reale della natura con l’uomo» (Marx, Manoscritti...), vieppiù esse vengono sussunte realmente dal Capitale.
Non è possibile procedere all’infinito con metodo rigorosamente scientifico in un ambito e con metodo ideologico-mistificatorio in un altro.
La mistificazione della vita umana reale include in sé la
mistificazione
della sua base, così come la reificazione della coscienza sociale
procede
parallelamente alla sussunzione reale del processo complessivo di vita
da parte del Capitale. La trasformazione progressiva delle stesse
scienze
naturali in ideologia mistificatoria è quindi conseguenza naturale e
necessaria
della loro sottomissione al dominio reale del Capitale.
4 - Verità ed errore
Tale trasformazione, d’altra parte, non deve essere intesa come un fatto compiuto, ma come un processo limite, come tendenza coinvolgente, in estensione ed in profondità, in modo differente, le varie scienze.
I risultati scientifici conseguiti dalle varie scienze non devono essere intesi come pure invenzioni ideologiche, ma come la rappresentazione “scientificamente vera”, relativamente “vera”, del mondo reale, conseguibile nell’ambito di una concezione del mondo e della storia storicamente determinata e quindi transitoria. In questo senso le verità scientifiche sono borghesi e non lo sono. Esse sono contemporaneamente vere e non vere.
La verità è contemporaneamente assoluta e relativa: assoluta in quanto nel momento considerato è quella che meglio definisce l’essenza della realtà; relativa perché tale definizione è transitoria e come tale sarà superata da altre “verità” egualmente vere, più vere.
La sapienza umana è infatti somma di infinite verità-errori, tutte egualmente errate-veri, perché tutte capaci di spiegare e rappresentare il mondo.
Sulla base della produzione borghese, di questo storicamente
determinato
modo di produzione, la scienza borghese è l’unica “vera” e le sue
“verità”, scientifiche ed ideologiche nello stesso tempo, sono le
uniche vere e possibili.
5 - Impotenza della cultura
Proporre sulla base del modo di produzione capitalistico una scienza alternativa a quella borghese è mistificazione ed inganno nei confronti della classe proletaria. L’emancipazione culturale e scientifica del proletariato è possibile solo dopo la sua completa emancipazione economica e politica. Solo dove l’individuo empirico è stato liberato dal fardello di un lavoro pesante ed avvilente è possibile uno sviluppo delle facoltà spirituali dell’uomo.
Inoltre, secondo la nostra dottrina materialistica, il cervello costituisce l’ultimo organo dell’uomo messo in moto dalla rivoluzione sociale. Su di esso, anche dopo che è stato preso il potere, graverà per lungo tempo l’inerzia delle abitudini, dei costumi, dei modi di pensare di questa infame società. La coscienza è una potente forza di conservazione sociale.
«La psicologia umana è la forza più conservatrice: non i grandi eventi scaturiscono dalla coscienza, ma gli eventi, le loro nuove correlazioni, i loro nessi, gli incroci delle grandi linee storiche, costringono la nostra psicologia passiva e pigra ad adattarsi, penosamente, goffamente, a loro» (Trotski: I problemi psicologici della guerra, 11 settembre 1915).
La coscienza costituisce, nel corso del processo rivoluzionario e
del
periodo di transizione, una forza d’inerzia che congelerebbe nello status
quo, la società in eterno, se non intervenissero la potente forza
dinamica dell’essere e l’azione del Partito Comunista, unico soggetto
capace di attuare il rovesciamento della prassi.
6 - Culturalismo e opportunismo
Tutte le formulazioni di scienze e culture alternative, o peggio ancora "operaie", rivelano una concezione idealistica e gradualistica della Rivoluzione: idealistica in quanto che la rivoluzione e l’emancipazione proletaria sono concepite come atto volontario e cosciente del cervello sociale; gradualistica perché se l’operaio può emanciparsi culturalmente senza distruzione violenta dello Stato, chi gli impedisce di emanciparsi politicamente ed economicamente nello stesso modo?
Il marxismo rivoluzionario guarda con sospetto anche l’espressione
coscienza di classe in quanto applicata al proletariato, che contiene
implicita
la condizione che la coscienza rivoluzionaria debba precedere l’azione
rivoluzionaria mentre lo schema marxista prevede l’opposto.
7 - La dottrina del proletariato: prima verità umana
La risposta rivoluzionaria corretta al dialettico problema è la riaffermazione della Critica Radicale che «nella comprensione positiva della realtà così come è, include nello stesso tempo la comprensione della sua negazione e del suo necessario tramonto» (Il Capitale, I).
Niente regge alla critica sovversiva. La critica della scienza borghese è riconoscimento della sua potenza e della sua infamia. La Critica riconosce l’oggettività delle premesse e dei risultati delle scienze borghesi nello stesso tempo in cui afferma che tale oggettività è stata sussunta da un modo di produzione e quindi di coscienza storicamente transitoria. Con ciò essa condanna come mortali premesse e risultati, pur riconoscendo che le une e gli altri sono forme di pensiero storicamente e socialmente valide. Riconoscendole vive essa le condanna a morte.
La Critica Radicale si pone con ciò come la prima verità umana,
primo
capitolo della futura scienza umana dell’uomo sociale, che riunificherà
domani tutte le scienze storiche e sociali, oggi divise dalla follia
schizofrenica
borghese. Scienza che vedrà la luce quando il proletariato eseguirà con
puro atto di forza lo smantellamento dell’ordine capitalistico e del
suo immenso edificio scientifico, summa della Sapienza e delle
Superstizioni
borghesi.
8 - Luce nelle tenebre
La teoria del proletariato nasce di getto illuminando di vivida luce chiarificatrice l’umana storia. Essa sorge solo quando sono presenti tutti i dati del problema e si pone come sua definitiva soluzione: «Il Comunismo (...) è la soluzione dell’enigma della Storia, ed è consapevole di essere questa soluzione» (Marx, Manoscritti).
La stessa impostazione del problema contiene in sé la soluzione perché: «l’umanità non si propone mai se non quei problemi che può risolvere perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione» (Marx, Prefazione alla Critica dell’Economia politica).
Ovvero matematicamente: «Possiamo risolvere un’equazione solo se essa include già nei suoi dati gli elementi della sua soluzione» (Marx a F. Domela-Nieuwenhuis, 22 febbraio 1881).
D’altra parte la stessa esistenza del problema è la conferma che nel grembo della vecchia società se ne sta formando una nuova: «Si parla di idee che rivoluzionano tutta una società; con ciò si esprime soltanto il fatto che in seno alla vecchia società si sono formati gli elementi di una società nuova» (Manifesto del Partito Comunista).
La soluzione del problema è nel problema stesso ed essa prende il nome di Comunismo. Non esiste soluzione che possa prescindere dal problema e da i suoi dati materiali. Con ciò il Socialismo passa dall’Utopia alla Scienza. Ma ancora una volta il passaggio non è dovuto alla potenza dello Spirito, ma al movimento pratico, alla materiale prassi umana che trova la sua più alta espressione nella lotta di classe del proletariato contro la borghesia.
«Come gli economisti sono i rappresentanti scientifici della classe
borghese, così i socialisti e i comunisti sono i teorici della classe
proletaria. Finché il proletariato non è ancora sufficientemente
sviluppato
per costituirsi in classe, e di conseguenza la stessa lotta del
proletariato
con la borghesia non ha ancora assunto un carattere politico, e finché
le forze produttive non si sono ancora sufficientemente sviluppate in
seno
alla stessa borghesia, tanto da lasciar intravvedere le condizioni
materiali
necessarie all’affrancamento e alla formazione di una società nuova,
questi teorici non sono che utopisti, i quali per soddisfare i bisogni
delle classi oppresse, improvvisano sistemi e rincorrono le chimere di
una scienza rigeneratrice. Ma a misura che la storia progredisce e con
essa la lotta del proletariato si profila più netta, essi non hanno
bisogno
di cercare la scienza nel loro spirito; devono solo rendersi conto di
ciò
che si svolge davanti ai loro occhi e farsene portavoce. Finché cercano
la scienza e costruiscono solo dei sistemi, finché sono all’inizio
della
lotta, nella miseria non vedono che la miseria, senza scorgerne il lato
rivoluzionario, sovvertitore, che rovescerà la vecchia società. Ma
quando
questo lato viene scorto, la scienza prodotta dal movimento storico ha
cessato di essere dottrinaria per divenire rivoluzionaria» (Marx, Miseria
della filosofia).
9 - Impersonalità ed invarianza della dottrina
La Critica Radicale non è un prodotto di una mente particolarmente dotata, venuta ad annunciare un nuovo Vero a cui tutti devono sottomettersi. Essa è l’espressione teorica di un movimento reale sovversivo operante nel sottosuolo sociale che subordina deterministicamente a sé, come registratore e amplificatore, l’uomo “dato”, che presta lingua e voce al movimento stesso: «Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano sopra idee, sopra principi che siano stati inventati e scoperti da questo o quel rinnovatore del mondo. Esse sono soltanto espressione generale dei rapporti effettivi di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi» (Manifesto del Partito Comunista).
Le forze profonde che sconvolgono l’organizzazione sociale ad un dato svolto dei cicli, come assumono la forma di scontri sociali tra classi di uomini, così prendono quella di una guerra di nuove fedi contro le antiche.
La dottrina del proletariato è «la sapienza del movimento della storia, compreso e reso cosciente» (Marx, Manoscritti). Essa intende il comunismo, a differenza degli utopisti, «non come uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi» (Marx, L’Ideologia Tedesca), ma «come il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».
La dottrina rivoluzionaria sorge dal seno della storia in un blocco solo come sono sempre sorte le dottrine rivoluzionarie nelle fasi feconde della storia umana: «Queste non nascono da successive approssimazioni, accostate, aggiuntature, da uno stucchevole contraddittorio e collaborazione al tempo stesso di pleiadi di cosiddetti ricercatori, ma esplodono in dati tempi e svolti acuti del ciclo generale e non possono mai formarsi che proprio allora, e non possono che costruirsi proprio, e organicamente, in quel modo, di un blocco solo» (Vulcano della produzione o palude del mercato?).
Il soggetto titolare della teoria rivoluzionaria è nella nostra
concezione
non l’individuo né un gruppo di uomini sia pure proletari. Esso è una
collettività di uomini ben delimitata, il Partito, nel quale, al di
sopra
dello spazio e del tempo, di frontiere e generazioni, si raccolgono e
si
collegano i militanti rivoluzionari.
10 - La prima arma rivoluzionaria
Nata dal seno della storia, espressione di un movimento sociale incarnato dal proletariato, la Critica Radicale costituisce la più possente arma di battaglia della classe oppressa. Senza di essa il proletariato più generoso è destinato alla sconfitta. Essa infatti non costituisce esercitazione accademica di studiosi, ma è il cervello complessivo detenuto dal Partito che unifica tutti i dati del procedere umano al fine della migliore utilizzazione delle energie proletarie nella sua opera di sterminio e distruzione dell’ordine esistente: «La critica non è una passione del cervello, essa è il cervello della passione. Essa non è un coltello anatomico, è un’arma. Il suo oggetto è il suo nemico, che essa non vuole confutare bensì annientare. Infatti lo spirito di quelle condizioni è già confutato» (Marx, Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel).
La difesa del programma è quindi per i comunisti non lusso teorico, ma necessità pratica della lotta di classe. È con le armi della critica che noi infatti diagnostichiamo la morte di questo infame ordine, nella certezza di poterne eseguire la sentenza storica con la più tagliente critica delle armi.
Chiunque svilisce e mortifica la dottrina si colloca da solo sul
terreno
del nemico e come tale deve essere trattato.
11 - Costruzione e Distruzione
La sinistra marxista non pone come obiettivo della sua azione complessiva il rattoppamento dell’ordine esistente o la sua contestazione per pretese ingiustizie, compiti infami che ha sempre lasciato alla canaglia piccolo-borghese democratica e radicale.
L’ordine capitalistico è già confutato dalla viva storia come 100 anni di guerre, rivoluzioni, crisi e controrivoluzioni feroci dimostrano abbondantemente. Il compito precipuo dei marxisti sovversivi è costituito dall’opera di distruzione del potere politico borghese che impedisce il parto della nuova società, e costringe immani forze produttive sociali in rapporti di proprietà e di produzione meschini e storicamente ristretti.
La Sinistra ha sempre affermato che: «Distruggere è l’unico modo marxista di costruire. Per la melma borghese e piccolo-borghese come per tutte le classi che defungono la sapienza è follia, la verità rivoluzionaria si tratta con la cicuta» (Struttura economica e sociale della Russia d’oggi).
Solo una radicale e totalitaria opera di distruzione può permettere il libero e rigoglioso crescere naturale del comunismo, l’inizio della sua fase positiva e creativa, senza più Stato, partiti, classi, lavoro alienato e proprietà privata. In questa opera di distruzione la critica agisce come cervello della passione rivoluzionaria ed essa è animata dall’odio di classe. Essa non si fa illusioni né su se stessa né sul suo nemico: «La critica che si cimenta con questo contenuto è la critica che sta in mezzo alla mischia e nella mischia non si tratta di sapere se l’avversario è nobile (...) se è (...) interessante, si tratta di colpirlo» (Marx, Per la critica della Filosofia...).
Essa deve «insegnare al popolo a spaventarsi di sé stesso per fargli coraggio».
L’arma tagliente della critica colpisce il nemico e presenta il suo
fine sin dalla prefazione del Capitale: «Nella sua forma
razionale,
per la borghesia e i suoi corifei dottrinari, la critica dialettica è
scandalo e abominio perché, nella comprensione positiva della realtà
così come è, include nello stesso tempo la comprensione della sua
negazione,
del suo necessario tramonto; perché vede ogni forma divenuta nel
divenire
del moto, quindi anche nel suo aspetto transitorio; perché non si
lascia
impressionare da nulla ed è per essenza critica e rivoluzionaria».
Il feticcio merce e la sua morte
1 - Capitalismo e storia
In perfetta coerenza con l’impostazione metodologica vista prima, Marx pone come sottotitolo del Capitale: “Critica dell’economia politica”. Con ciò mette bene in evidenza che il suo scopo non è dottrinario ma rivoluzionario. Egli non vuole elaborare una nuova scienza economica, un nuovo modello economico della società, quanto studiare con metodo dialettico e materialistico una particolare organizzazione sociale della vita, il modo capitalistico di produzione, individuando le leggi che ne «presiedono alla nascita, all’esistenza, allo sviluppo, alla morte» (Il Capitale, I) e «alla sua sostituzione con un altro e superiore». «Marx, se non dispiace, non si dedicò al fondare nuove categorie del pensiero, ma ad attaccare le poche che restavano in piedi a demolirne la irriducibile assolutezza: e l’economia non fu il campo in cui egli abbia condotto a passeggiare il filosofico estro, ma quello su cui solidamente si fondò per sloggiare la primordialità dei valori morali, estetici, e anche giuridici e politici, anatomizzandone la scarsa consistenza e la mutabilità incessante» (Vulcano della produzione o palude del mercato?).
La sua opera è di smantellamento della pretesa degli economisti borghesi della naturalità e dell’eternità del loro modo di produzione, dimostrandone il carattere storico e quindi transitorio, e l’inevitabilità della sua sostituzione con un altro organismo sociale, di cui Marx individua, in negativo ed in positivo, le caratteristiche essenziali.
Sotto questo aspetto il Capitale conclude l’opera iniziata con la Questione Ebraica e la Introduzione alla Critica della Filosofia del Diritto di Hegel ed i Manoscritti, in cui Marx rompe con la tradizione democratico-radicale e passa dalla critica della Religione alla Critica dell’Economia politica, dalla Critica dell’autoestraniazione fantastica alla Critica dell’autoestraniazione mondana.
La dimostrazione della caducità del Capitalismo colloca il Partito sul terreno della Storia, fa del Partito Comunista l’unico partito poggiante sul futuro dell’uomo. Anche per questo il Capitale non è l’opera economica di un grand’uomo, ma arma di battaglia del partito politico di classe: «Il Capitale è certamente il più terribile missile che sia mai stato lanciato in faccia alla borghesia (compresi i proprietari fondiari)» (Marx a J.B. Becker, 17 aprile 1867).
La dimostrazione che il Capitalismo è un prodotto della Storia e non
della natura costituisce parte non accessoria dell’opera di Marx. Le
numerose pagine del Capitale dedicate a questo tema lo dimostrano
ampiamente:
«L’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico dimostra
che esso è un modo di produzione di tipo particolare, specificamente
definito
dallo sviluppo storico; che, al pari di qualsiasi altro dato modo di
produzione,
presuppone come sua condizione storica un certo livello delle forze
produttive
sociali e sviluppo delle loro forme; condizione che è essa stessa il
risultato
storico ed il prodotto di un processo precedente, e da cui il nuovo
modo
di produzione prende le mosse in quanto suo fondamento dato; che i
rapporti
di produzione corrispondenti a questo specifico modo di produzione,
storicamente
determinato, rapporti in cui gli uomini entrano nel loro processo di
vita
sociale, nella creazione della loro vita sociale, hanno un carattere
specifico,
storico, transitorio; e che infine, i rapporti di distribuzione sono in
sostanza identici a questi rapporti di produzione, costituiscono il
rovescio
di questi ultimi, così che gli uni e gli altri hanno lo stesso
carattere
storicamente transitorio» (Il Capitale, III).
2 - Reificazione e rivoluzione
Marx perviene alla determinazione storica del modo di produzione capitalistico ed alla sua conoscenza scientifica attraverso lo svelamento dell’arcano insito nel processo di reificazione del Capitale. L’analisi dello stesso processo permette a Marx di individuare la classe rivoluzionaria dell’epoca moderna e di comprendere che il processo di immiserimento e di alienazione dell’uomo è la molla principale del suo riscatto come uomo sociale.
«Dov’è dunque la possibilità positiva della emancipazione tedesca? Risposta: nella formazione di una classe con catene radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe della società civile, di un ceto che sia la dissoluzione di tutti i ceti, di una sfera che per i suoi patimenti universali possieda un carattere universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa viene esercitata non una ingiustizia particolare bensì l’ingiustizia senz’altro, la quale non può appellarsi ad un titolo storico ma al titolo umano, che non si trova in contrasto unilaterale verso le conseguenze, ma in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema politico tedesco, di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società, la quale in una parola, è la perdita completa dell’uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se stessa soltanto attraverso il completo recupero dell’uomo. Questa dissoluzione della società in quanto ceto particolare è il proletariato» (Marx, Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, Introduzione).
Ed ancora: «Se vince, il proletariato non diventa perciò il lato assoluto della società; infatti esso vince solo togliendo sé stesso ed il suo opposto. Allora scompare sia il proletariato sia l’opposto che lo condiziona, la proprietà privata. Se gli scrittori socialisti attribuiscono al proletariato questo ruolo storico mondiale, ciò non accade affatto, come la critica pretende di credere, perché essi ritengono che i proletari siano degli dei. È proprio il contrario: è perché nel proletariato sviluppato è compiuta praticamente l’astrazione di ogni umanità, perfino dalla parvenza dell’umanità; è perché nelle condizioni di vita del proletariato sono riassunte tutte le condizioni di vita della società moderna nella loro asprezza più inumana; è perché nel proletariato l’uomo ha perduto sé stesso, ma nello stesso tempo non solo ha acquistato la coscienza teorica di questa perdita, bensì è anche costretto immediatamente dal bisogno non più sopprimibile, non più ineludibile, assolutamente imperativo della manifestazione pratica della necessità, alla rivolta contro questa inumanità; ecco perché il proletariato può e deve necessariamente liberare sé stesso» (Marx, La Sacra Famiglia).
E quanto poco conti la libera scelta del singolo o di tutta la
classe
proletaria nel suo processo di emancipazione lo si può desumere dalla
seguente citazione: «Ciò che conta non è che cosa questo o quel
proletario
o anche tutto il proletariato si rappresenta temporaneamente come fine.
Ciò che conta è che cosa esso è e che cosa esso sarà costretto a fare
in conformità a questo suo essere. Il suo fine e la sua azione storica
sono indicati in modo chiaro, in modo irrevocabile, nella situazione
della
società civile moderna».
3 - Il 4° paragrafo del 1° Capitolo del I Libro del Capitale
L’opera di demistificazione inizia con le prime pagine del Capitale.
A questo riguardo l’importanza del 4° paragrafo del 1° capitolo del Capitale non sarà mai sufficientemente ribadita. La sua lettura e la sua comprensione ci permette di cogliere nella loro più intima essenza le determinazioni fondamentali del Capitale e per contrapposizione dialettica le caratteristiche che definiscono il comunismo. Gli economisti borghesi ed opportunisti non lo possono comprendere, non per insufficienza intellettuale e culturale ma per ovvi limiti di classe.
«Una delle principali deficienze dell’economia politica è di non
essere mai riuscita a scoprire, attraverso l’analisi della merce e
specialmente
del valore della merce, la forma del valore che appunto la rende valore
di scambio. Proprio nei suoi rappresentanti migliori, come Smith e
Ricardo,
essa tratta la forma valore come qualcosa di assolutamente indifferente
ed estraneo alla natura della merce. La ragione di ciò non è soltanto
che l’analisi della grandezza dei valori assorbe tutta la loro
attenzione.
È una ragione più profonda. La forma di valore del prodotto del lavoro
è la forma più astratta ma anche più generale del modo di produzione
borghese, che ne risulta caratterizzato come un genere particolare di
produzione
sociale, e quindi anche storicamente definito. Se perciò lo si scambia
per la forma naturale eterna della produzione sociale, si trascura
necessariamente
anche l’elemento specifico della forma valore, quindi della forma
merce,
e così via procedendo, della forma denaro, della forma capitale, ecc.»
(Il Capitale, I 1.4 nota).
4 - Prassi borghese e scienza economica
La scienza economica è coscienza teorica dei capitalisti empirici. Essa sistemizza in sistemi teorici formali le idee degli agenti effettivi della produzione capitalista, agenti impigliati in rapporti reificati, che assumono ai loro occhi l’apparenza di rapporti naturali ed eterni.
D’altra parte gli uomini si interrogano sulle loro condizioni di vita quando tali condizioni hanno assunto la fissità di forme naturali della vita sociale. Per l’economia politica, coscienza reificata del capitalista empirico, il lavoro è quindi in quanto tale lavoro salariato, così come l’oro e l’argento sono denaro, i mezzi di produzione capitale e la terra, terra monopolizzata.
Le determinazioni sociali sono considerate immanenti alle cose e le
cose di per sé possiedono, come “proprietà sociali”, le determinazioni
sociali capitalistiche.
5 - Economia politica e religione
L’economia politica reifica i rapporti sociali, identifica le cose con i rapporti tra gli uomini nascosti dietro alle cose stesse. Con ciò essa dimostra di essere espressione dell’autoalienazione mondana dell’uomo così come la religione è espressione della sua autoalienazione fantastica. Ed infatti il suo atteggiamento nei confronti del modo di produzione capitalistico è simile all’atteggiamento di ogni religione nei confronti del suo Dio. Il Capitalismo è l’unico Vero, è il solo modo di produrre conforme alle leggi della natura, è la forma naturale finalmente scoperta della produzione sociale.
«Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono
per essi che due tipi di istituzioni, quelle dell’arte e quelle della
natura. Le istituzioni del feudalesimo sono istituzioni artificiali,
quelle
della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti
assomigliano
ai teologi, i quali pure stabiliscono due sorte di religione. Ogni
religione
che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è
un’emanazione di Dio. Dicendo dei rapporti attuali, i rapporti di
produzione
borghese, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti
entro
i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive
conformemente
alle leggi di natura. Per cui questi rapporti sono leggi naturali
indipendenti
dall’influenza del tempo, sono leggi eterne, sono quelle che debbono
sempre reggere la società. Così c’è stata storia, ma ormai non ce
n’è più. C’è stata storia, perché sono esistite delle istituzioni
feudali e perché in queste istituzioni feudali si trovano dei rapporti
di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese,
che
gli economisti vogliono spacciare per naturali e quindi eterni» (Marx:
Miseria
della Filosofia).
6 - Le forme di pensiero della coscienza reificata
Le forme di pensiero degli economisti borghesi non sono però invenzioni di dottrinari maliziosi aventi come obiettivo l’inganno e la mistificazione. Questa è immanente alla coscienza reificata, cioè è oggettiva.
«Gli uomini, sviluppando la loro capacità produttiva, cioè vivendo, sviluppano determinati rapporti tra loro e il modo di questi rapporti si trasforma necessariamente col trasformarsi ed il crescere di queste capacità produttive (...) Le categorie economiche non sono altro che astrazioni di questi rapporti reali, esse sono verità solo fino a che sussistono questi rapporti» (Marx a Annenkow, 28 dicembre 1846).
Le forme del pensiero borghese sono quindi «Forme di pensiero socialmente valide, quindi oggettive, per i rapporti di produzione propri di questo modo di produzione sociale storicamente dato» (Il Capitale, I). Sono forme prodotte dalla storia, storicamente determinate e quindi transitorie, in quanto espressione teorica di rapporti sociali transeunti.
La scienza economica borghese non può riconoscere questa fondamentale verità. Essa è stata sussunta dalla reificazione e quindi per sua essenza portata a legittimare ed eternizzare l’alienazione e l’estraniazione umana: «In tal modo (Proudhon) cade nell’errore degli economisti borghesi, i quali in queste categorie economiche vedono leggi eterne e non leggi storiche, valide solo per un determinato sviluppo, per uno sviluppo determinato delle forze produttive. Perciò invece di considerare le categorie politiche-economiche come astrazioni delle reali, transitorie, storiche relazioni sociali, Proudhon, in seguito ad un capovolgimento mistico, vede nei rapporti reali solo le incarnazioni di queste astrazioni» (Marx ad Annenkow, 28 dicembre 1846).
Quando i rapporti sociali borghesi crolleranno le corrispondenti
forme
di pensiero appariranno prive di senso: «Perciò tutto il misticismo del
mondo delle merci, tutto l’incantesimo e la stregoneria che avvolgono
in alone di nebbia i prodotti del lavoro umano sulla base della
produzione
di merci, svaniscono d’un tratto quando ci si rifugi in altri modi di
produzione» (Il Capitale, I).
7 - Scienza alienata e scienza rivoluzionaria
La scienza economica borghese, proprio perché è scienza reificata, è incapace a riconoscere la reificazione. Proprio come un osservatore solidale alla terra ne negherà il movimento intorno al Sole così la scienza alienata confonderà sempre le cose con i rapporti sociali nascosti dietro di esse, si lascerà sempre trarre in inganno «dal feticismo aderente al mondo delle merci, e dalla parvenza oggettiva delle determinazioni sociali del lavoro».
Per essa un determinato carattere storico-sociale della produzione apparirà come proprietà naturale dei prodotti di lavoro: «Formule che portano scritto in fronte la loro appartenenza a una formazione sociale in cui il processo di produzione asservisce gli uomini invece di esserne dominato, valgono per la coscienza borghese come ovvie necessità naturali quanto lo stesso lavoro produttivo» (Il Capitale, I).
La scienza economica è la prima delle scienze borghesi costretta a negarsi in quanto tale, operando per principio nel mondo dell’apparente e rifiutandosi di penetrare l’essenza dei fenomeni economici. In caso contrario essa dovrebbe negarsi e trasformarsi nel suo opposto: la Critica rivoluzionaria: «L’Economia (...) ha rinunciato a tutto quello che costituisce la base del procedimento scientifico per sostenersi su differenze che sono di rilievo solo in apparenza. Questa confusione dei teorici è la prova migliore del fatto che il capitalista pratico, preso dalla lotta per la concorrenza e non riuscendo in alcun modo a penetrarne i fenomeni, è assolutamente incapace di riconoscere l’essenza e la forma intrinseca di questo processo attraverso la sua apparenza» (Il Capitale, III.9). Ancora: «L’economia volgare (...) per principio s‘inchina soltanto all’apparenza» (Il Capitale, I).
Per dialettica contrapposizione la Critica dell’economia politica
costituisce il primo incontro dell’uomo con la verità. L’enigma del
problema della conoscenza qui trova finalmente la sua adeguata
soluzione.
8 - La reificata società mercantile
La reificazione in Marx consiste nel fatto che un rapporto sociale tra uomini riceve il carattere di cosa, si presenta e viene compreso come una cosa; carattere che mistifica ed occulta ogni traccia del rapporto tra gli uomini.
La mistificazione e l’occultamento dei rapporti sociali umani non sono un prodotto necessario della natura dell’uomo, ma un prodotto della sua storia. Non troviamo reificazione infatti né nelle comunità primitive di tipo comunistico, dove il lavoro è socializzato e la produzione è finalizzata ai valori d’uso per la soddisfazione dei bisogni umani, né nella produzione schiavista e servile dove il rapporto di sfruttamento è visibile a tutti. Essa è ivi presente accidentalmente e localizzata anche fisicamente nel denaro e nel capitale d’usura. La reificazione dell’attività sociale dell’uomo comincia ad affermarsi con la produzione mercantile a cui è immanente. «Nelle precedenti forme di società questa mistificazione economica si riscontrava soprattutto solo in relazione al Denaro ed al Capitale produttivo di interesse. Essa è, per sua natura, esclusa in primo luogo dove predomina la produzione per il valore d’uso, per i bisogni personali immediati; in secondo luogo dove la schiavitù o la servitù della gleba, come nei tempi antichi e nel medioevo, costituisce la larga base della produzione sociale: il dominio delle condizioni di produzione sui produttori è qui celato dai rapporti di signoria e di servitù, che appaiono e sono visibili come le molle dirette del processo di produzione» (Il Capitale, III).
Sparendo la produzione mercantile sparisce anche la reificazione.
Con lo sviluppo della produzione di merci procede la sottomissione della coscienza alla reificazione. Per cui mentre all’inizio dello sviluppo capitalistico fu possibile ai teorici del Capitale intravedere il carattere personale dei rapporti economici, oggi in cui la forma merce è la forma effettiva di dominio della società nella sua totalità, ciò è assolutamente impossibile.
Solo la critica radicale può pervenire allo svelamento dell’arcano merce e con esso allo svelamento dell’arcano del Denaro, del Salario, della Rendita, e dell’arcano tra gli arcani: l’Interesse.
La Critica sovversiva inchioda il Capitale alla Storia e lo condanna
come mortale.
9 - Il feticcio merce
La merce è unità di valore d’uso e di valore. Né la definizione dei due termini, né la determinazione qualitativa del primo, né la determinazione quantitativa del secondo hanno alcunché di misterioso. Allora donde nasce l’arcano della merce, del carattere mercantile dei prodotti del lavoro umano? Dalla stessa forma della merce. È in questa forma infatti che: «l’eguaglianza dei lavori umani assume la forma materiale dell’eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro; la misura del dispendio di forza lavoro umana mediante la sua durata temporale assume la forma della grandezza di valore dei prodotti del lavoro; infine, i rapporti fra i produttori, nei quali le determinazioni sociali dei loro lavori si attuano, assumono la forma di un rapporto sociale fra i prodotti del lavoro» (Il Capitale, I).
Ora noi sappiamo cosa è il valore e come esso si determini quantitativamente. Ma la domanda cui dobbiamo rispondere è la seguente: «Perché il lavoro si rappresenta nel valore?» (Ibid.)
La produzione mercantile, ed in ciò la produzione capitalistica non si differenzia, è produzione di produttori privati indipendenti gli uni dagli altri. L’insieme dei loro lavori privati costituiscono il lavoro sociale.
I singoli lavori privati indipendenti si confermano come lavoro sociale, come articolazione del lavoro sociale complessivo solo attraverso la loro generale alienazione. Nello scambio essi assumono un duplice carattere sociale. Da una parte, come lavori concreti debbono soddisfare un bisogno sociale; dall’altro come lavori utili debbono essere comparabili con ogni altro tipo di lavoro utile. Ma la comparazione tra lavori concreti diseguali è possibile solo prescindendo dalla loro effettiva diseguaglianza, solo riducendo i lavori concreti alla loro essenza comune di dispendio di forza lavoro umana, di “lavoro astrattamente umano”.
Le merci per essere scambiate, nella loro concreta diversità, devono essere intese formalmente uguali, e ciò è possibile solo riducendole a dispendi di astratta energia lavorativa. Con ciò viene affermato «il carattere sociale dell’eguaglianza dei lavori di genere differente nella forma del comune carattere di valore» dei prodotti del lavoro (Ibid.).
Facendo ciò «gli uomini non riferiscono l’uno all’altro i prodotti del proprio lavoro come valori perché questi contano per essi come puri involucri materiali di lavoro umano omogeneo. All’opposto: eguagliano l’uno all’altro come lavoro umano i loro diversi lavori in quanto eguagliano l’uno all’altro nello scambio, come valori, i propri prodotti eterogenei. Non sanno di farlo, ma lo fanno (...) Il valore trasforma ogni prodotto del lavoro in un geroglifico sociale» (Il Capitale, I, 4).
Il valore è quindi un modo storicamente determinato di esprimere il lavoro socialmente necessario a produrre un dato oggetto. E ciò avviene perché i produttori non possono riferirsi ai loro lavori privati come a lavoro immediatamente sociale.
Il valore delle merci esprime allora il rapporto sociale sottinteso dalle merci stesse: «Il valore è il loro rapporto sociale, la loro qualità economica» (Marx, Grundrisse, I). «Il valore di scambio è un determinato modo sociale di esprimere il lavoro speso in un oggetto» (Il Capitale, I).
Ora il valore è immanente al prodotto del lavoro in quanto merce;
esso
è la forma sociale di espressione del lavoro incorporato in un oggetto
quando esso è prodotto come merce: è il modo storico di esprimere il
carattere sociale del lavoro privato dei produttori di merci. La merce,
unità di valore d’uso e di valore, rimanda quindi agli uomini il loro
rapporto sociale di produttori privati indipendenti ed estranei come
caratteri
oggettivi dei prodotti del lavoro. Essa incorpora in sé come cosa il
rapporto
sociale e come cosa essa ha di per sé il carattere di merce. «L’enigma
della forma merce consiste dunque semplicemente nel fatto che, a guisa
di specchio, esso rinvia agli uomini l’immagine dei caratteri sociali
del loro lavoro come caratteri oggettivi degli stessi prodotti del
lavoro,
proprietà naturali sociali di quegli oggetti; quindi rinvia loro anche
l’immagine del rapporto sociale fra i prodotti da un lato e il lavoro
complessivo dall’altro come rapporto sociale fra oggetti, rapporto
esistente
al di fuori dei produttori medesimi (...) Questo io lo chiamo il
feticismo
che aderisce ai prodotti del lavoro non appena sono prodotti come merci
e che quindi è inseparabile dalla produzione di merci» (Ibid.).
10 - Il Comunismo è l’abolizione del valore
Abbiamo visto che il feticcio merce consiste nel fatto che un determinato carattere storico-sociale della produzione (la produzione privata) appare come proprietà naturale sociale dei prodotti (il valore).
Se noi abbiamo abolito quel determinato carattere sociale della produzione che fa i prodotti merce, sparirà anche “quella proprietà naturale sociale”. Quindi se noi aboliamo la produzione privata e supponiamo una produzione immediatamente sociale è inevitabile che sparisce la forma-valore e la forma merce dei prodotti del lavoro sociale.
«Sulla base dei valori di scambio, il lavoro viene posto come lavoro generale soltanto mediante lo scambio (...) Presupposta una produzione sociale. Il lavoro del singolo è posto fin da principio come lavoro sociale (...) Il suo prodotto non è un valore di scambio» (Grundrisse, I). «Nell’interno della società collettivista basata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti, appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà reale da essi posseduta, poiché ora, in contrapposizione alla società capitalistica, i lavori individuali non diventano più parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto» (Marx: Critica del programma di Gotha). «Il sistema di produzione comunista non presuppone la produzione per il mercato, ma per il proprio bisogno. Soltanto che qui non produce più ogni singolo per sé stesso, ma l’intera immensa cooperativa per tutti. Quindi non vi esistono più merci, ma soltanto prodotti. Questi prodotti non vengono reciprocamente scambiati: essi non vengono né venduti né comperati, ma semplicemente accumulati nei magazzini comuni e distribuiti a coloro che ne hanno bisogno» (Bucharin-Preobra�enskij, L’ABC del comunismo).
Il comunismo economico presuppone la produzione e la distribuzione
socializzata.
Affermare che nel comunismo i prodotti assumono il carattere di merce
ed
abbisognano della metamorfosi M-D per affermarsi come lavoro sociale è
bestemmia controrivoluzionaria che solo rinnegati, prostitute
accademiche
e venduti possono pronunciare senza arrossire.
11 - Il feticcio denaro
Abbiamo visto nel precedente paragrafo che nella produzione mercantile il nesso sociale tra i produttori è rappresentato dal valore di scambio, forma fenomenica del valore. È soltanto attraverso il valore di scambio che i lavori privati diventano articolazione del lavoro sociale complessivo. Ma «la determinazione del prodotto come valore di scambio comporta (...) necessariamente che il valore di scambio riceva una esistenza separata, scissa da prodotto» (Grundrisse, I).
La duplicazione della merce in merce e denaro è quindi il portato necessario della duplice natura delle merci. Le merci sono unità di valore d’uso e di valore. Esse in quanto valore d’uso sono differenti qualitativamente, in quanto valore sono differenti quantitativamente. Ora per il produttore di merci ha senso scambiare merce con merce solo se il valore della sua merce assume, dopo lo scambio, una forma fenomenica qualitativamente differente dalla sua forma-valore. È per questo che Marx individua l’arcano della forma-valore in generale, già nella più semplice forma-valore, la forma-valore singola, la cui analisi permette a Marx di pervenire alla sua teoria sul Denaro.
«Per quanto concerne lo sviluppo della forma valore, ho seguito e non seguito il tuo consiglio, per mantenere anche a questo riguardo una linea dialettica. Cioè 1) ho scritto una appendice in cui espongo la medesima cosa nel modo più semplice possibile; 2) ho ripartito ogni gradino dello sviluppo in paragrafi, ecc. con propri sottotitoli. Nella prefazione dico poi al lettore “non didattico” che può saltare a piè pari le pagine x-y ed invece di queste leggere l’appendice [inserita nel corpo del volume con il titolo La forma valore dalla II Edizione in poi, Ndr]. Qui si tratta non solamente di filistei, bensì anche della gioventù avida di sapere, ecc. Inoltre la cosa è d’importanza troppo decisiva, per tutto il libro. I signori economisti non hanno finora badato all’estrema semplicità del fatto, che la forma 20 braccia di tela = 1 vestito è il fondamento non ancora sviluppato di 20 braccia di tela = 2 sterline, che dunque la più semplice forma della merce, in cui il suo valore non è ancora espresso come rapporto con tutte le altre merci, ma invece soltanto come distinzione dalla sua propria forma naturale, contiene tutto il segreto della forma denaro e con ciò in nuce, di tutte le forme borghesi del prodotto del lavoro» (Marx a Engels, 22 giugno 1867).
Ancora: «L’arcano di ogni forma valore, risiede in questa forma valore semplice. La vera difficoltà si trova, dunque nella sua analisi» (Il Capitale, I). «Nella più semplice espressione di valore: x merce A = y merce B, la cosa in cui si rappresenta la grandezza di valore di un’altra sembra possedere la sua forma equivalente a prescindere da questa relazione, come proprietà sociale naturale. Abbiamo seguito il consolidarsi di questa parvenza illusoria. Essa giunge a compimento non appena la forma equivalente generale si è immedesimata con la forma naturale di un genere particolare di merce, o si è cristallizzata nella forma denaro» (Ibid.).
Nella forma-valore semplice la contraddizione immanente tra valore d’uso e valore della merce viene esteriorizzata: il valore d’uso della merce B diviene forma fenomenica del valore della merce A. Con lo sviluppo dei traffici è inevitabile che dalla massa delle merci si stacchi una merce particolare il cui valore d’uso diviene forma fenomenica del valore di tutte le altre merci.
«Lo storico ampliarsi e approfondirsi dello scambio sviluppa l’antagonismo sonnecchiante nella natura delle merci fra valore d’uso e valore. L’esigenza per i traffici di dare rappresentazione esteriore a questo antagonismo spinge alla ricerca di una forma autonoma del valore delle merci, e non ha pace né si acqueta prima che a tale risultato si giunga in modo definitivo attraverso la duplicazione della merce in merce e denaro» (Ibid.).
Il denaro è allora il valore di scambio scisso dalla merce, esteriorizzato ed esistente come merce accanto ad essa.
La reificazione del rapporto sociale, immanente alla produzione mercantile, espressa dalla forma valore, che appare immanente ai prodotti del lavoro in quanto tali, assume nel denaro, forma-valore cosalizzata, rappresentata nel corpo materiale di una cosa, la corposità luminosa dell’oro. L’oro in quanto cosa rappresenta la forma-valore di tutte le merci, cosa esprimente il rapporto sociale di produzione mercantile in cui i produttori si contrappongono come produttori privati. «L’enigma del feticcio denaro non è quindi che l’enigma fattosi visibile ed abbagliante la vista del feticcio merce» (Ibid.).
Se ne deduce quindi che il denaro è prodotto inevitabile e
necessario
della produzione mercantile: “è impossibile eliminare il denaro (...)
finché il valore di scambio rimane la forma sociale dei prodotti» (Grundrisse,
I).
12 - Miseria del socialismo piccolo-borghese, potenza del comunismo
La produzione mercantile senza denaro è un assurdo assoluto.«I prodotti dovrebbero essere prodotti come merci, ma non scambiati come merci» (Marx, Per la critica dell’economia politica).
Eppure questa era la soluzione proposta dal socialismo piccolo borghese per risolvere le crisi capitalistiche e la questione sociale. La piccola borghesia bottegaia ed artigiana è legata alla produzione mercantile. Il suo modo di produzione è la produzione semplice delle merci non quella capitalistica. La produzione semplice delle merci è premessa storicamente alla produzione specificamente capitalistica. Mentre nel modo di produzione mercantile semplice il produttore o distributore è autonomo e indipendente, con il passaggio a quella specificamente capitalistica egli cade sotto il dominio del capitalista. Anche quando mantiene una parvenza di autonomia essa è puramente esteriore. Egli è legato mani e piedi al capitalista tramite il credito e la finanza. Da qui il suo sogno romantico di ritornare al passato, alla produzione mercantile senza il capitalista ed in particolare senza il capitalista che direttamente lo domina: il capitalista usuraio e finanziario. Il socialismo reazionario piccolo-borghese vuole la produzione mercantile perché essa è il suo terreno naturale di coltura, ma vuole abolire il denaro e colui che lo detiene: il capitalista monetario.
«Si giudichi da ciò l’acume del socialismo piccolo borghese che vorrebbe eternare la produzione mercantile e nello stesso tempo, sopprimere l’antagonismo fra denaro e merce, quindi lo stesso denaro, poiché esso esiste solo in tale antagonismo» (Il Capitale, I).
L’errore del socialismo piccolo borghese è di non aver compreso che il denaro non è un semplice segno di valore, ma la forma fenomenica di rapporti sociali “celati dietro le sue spalle”.
Il denaro nello scambio non conferisce alla merce il suo valore, ma la sua “specifica forma di valore”. Nel primo caso noi potremmo considerare il valore del denaro immaginario, e quindi ritenerlo puro segno esprimente nella sua immediatezza il valore e quindi il tempo di lavoro. Ma ciò presuppone una condizione inconciliabile con la produzione mercantile, la produzione socializzata in cui il lavoro privato del singolo è lavoro immediatamente sociale. Nella produzione mercantile il lavoro privato si attua come lavoro sociale nello scambio, ed il valore della merce assume la forma fenomenica del valore di scambio, la cui autonomizzazione è costituita dal denaro, dal corpo materiale dell’oro, che come cosa conferisce alla merce la sua “specifica forma valore”.
Nella produzione mercantile il tempo di lavoro assume la forma storica del valore. Il denaro è la forma valore fatta cosa e «come misura del valore è la necessaria forma fenomenica della misura immanente del valore delle merci: il tempo di lavoro» (Ibid.).
Finché i produttori non potranno riferirsi ai loro lavori come lavori immediatamente sociali, finché è lo scambio a determinare la natura sociale dei lavori privati, il tempo di lavoro assumerà la forma storica del valore, i prodotti del lavoro assumeranno il carattere di merci ed il valore di scambio si autonomizzerà nella forma del denaro.
Si potrà abolire il denaro quando saranno aboliti i rapporti di produzione celati dietro di esso. Abolita la produzione privata e supposta la produzione immediatamente sociale i lavoratori non avranno più bisogno dello scambio per affermarsi come lavori sociali, come articolazioni del lavoro sociale complessivo.
Nel comunismo economico non esisterà il denaro, perché ivi non esisterà produzione mercantile, e valori in quanto, essendo tutte le attività lavorative inserite in un piano centralizzato di produzione, esse saranno attività immediatamente sociali, attività di specie, per cui il tempo di lavoro non avrà bisogno di assumere la forma storica del valore.
La quantità di lavoro cristallizzato in un oggetto non avrà bisogno di essere espresso mediante l’oscillante misura del denaro, ma sarà espresso con la massa naturale del tempo. «Non appena la società entra in possesso dei mezzi di produzione e, socializzandoli immediatamente, li usa per la produzione, il lavoro di ciascuno, per quanto possa essere diverso il suo carattere specifico di utilità, diventa a priori direttamente lavoro sociale. La quantità di lavoro sociale racchiusa in un prodotto non ha bisogno allora di essere fissata solo indirettamente; l’esperienza giornaliera indica direttamente quanto lavoro è necessario in media. La società può semplicemente calcolare quante ore di lavoro sono contenute in una macchina a vapore, in un ettolitro di frumento dell’ultimo raccolto, in cento metri quadrati di stoffa di una qualità determinata. Né potrebbe quindi venirle in mente di esprimere le quantità di lavoro depositato nei prodotti e che essa conosce direttamente e assolutamente, con una misura inoltre solo relativa, con una terzo prodotto cioè e non con la misura naturale adeguata, assoluta, il tempo (...)
«Date le premesse sopracitate, la società non assegnerà neppure dei valori ai prodotti. Essa non esprimerà il fatto semplice che i cento metri quadrati di stoffa hanno richiesto per es. mille ore di lavoro per la loro produzione, dicendo in una maniera sciocca e assurda che essi hanno il valore di mille ore di lavoro. Certo anche allora la società dovrà sapere quanto lavoro richiede ogni oggetto di uso per la sua produzione. Essa dovrà organizzare il piano di produzione a seconda dei mezzi di produzione, ai quali appartengono, in modo particolare, anche le forze-lavoro. Il piano, in ultima analisi, sarà determinato dagli effetti utili dei diversi oggetti di uso considerati in rapporto tra di loro e in rapporto alla quantità di lavoro necessaria alla loro produzione. Gli uomini sbrigheranno ogni cosa in modo assai semplice senza l’intervento del famoso "valore"» (Engels, Antidühring).
Ancora «La dottrina di Marx sull’accomunazione del capitale, ossia sulla sua riproduzione allargata come quella sulla riproduzione semplice, tratta unicamente di un capitale che appare a cicli alterni come merce e come denaro. Questo è indiscutibile alla partenza ed all’arrivo di tutto il sistema marxista sulla produzione capitalistica: il sistema socialista ne resta dialetticamente definito e descritto, ma sono pochi i socialisti che hanno saputo fare il passo audace che dalla negazione dei caratteri del capitalismo fa emergere, al di fuori di ogni piano utopista, la definizione positiva dei caratteri del socialismo. Se nel socialismo vi sarà un’accumulazione, essa si presenterà come accumulazione di oggetti materiali utili ai bisogni umani, che non avranno bisogno di apparire alternativamente come moneta, e nemmeno di subire la applicazione di un “monetometro” che consenta di misurarli e paragonarli secondo “equivalente generale”. Quindi tali oggetti non saranno più nemmeno merci e non saranno definiti dal loro valore (di scambio) ma solo dalla loro misura quantitativa fisica e dalla loro natura qualitativa, cioè che si esprime dagli economisti e anche da Marx ai fini espositivi, come valore d’uso» (Struttura economica e sociale della Russia d’oggi).
Infine «Con la produzione sociale viene meno il capitale monetario. La società ripartisce forza-lavoro e mezzi di produzione nelle diverse branche. I produttori possono anche ricevere dei buoni di carta, mediante i quali prelevano dalle scorte sociali di consumo una quantità corrispondente al loro tempo di lavoro. Questo buoni non sono denaro. Essi non circolano» (Il Capitale, II).
È il buono del lavoro di cui parla Marx nella critica del programma
di Gotha. È il “denaro lavoro” di Owen, ben differente dall’utopia
piccolo borghese di un Gray o di un Proudhon della merce-denaro
garantita
dalla Banca centrale. «Il "denaro lavoro" di Owen non è denaro, più
che lo sia uno scontrino di teatro. Owen presuppone un lavoro
immediatamente
socializzato, una forma di produzione diametralmente opposta alla
produzione
di merci: il buono di lavoro si limita a registrare la partecipazione
individuale
del produttore al lavoro comune, e la quota di prodotto comune
destinato
al consumo che individualmente gli spetta. Ma Owen non si sogna di
presupporre
una produzione di merci e pretendere tuttavia di aggirarne le
necessarie
condizioni a colpi di abborracciamenti monetari» (Il Capitale,
I).
13 - L’errore di Trotski
Nel comunismo economico non esisterà il denaro, perché ivi non esisterà produzione mercantile e valore.
Su questo punto non pochi grandi marxisti hanno fallato compreso il grande Trotski il quale considera possibile l’uso del denaro come mezzo contabile nella società socialista.
Nel suo discorso al IV Congresso dell’Internazionale Comunista nel 1922 Trotski definì l’economia russa economia proletaria con contabilità capitalista. La questione non è di sola ragioneria come pensava Trotski ma di sostanza del rapporto. In modo più corretto Lenin esprime questo punto nel modo che segue: «È necessario fare in modo che sia possibile il decorso abituale dell’economia capitalista e della circolazione capitalista, perché ciò è indispensabile al popolo e senza di ciò è impossibile vivere» (Lenin, Relazione politica del C.C. del P.C.(b) R. all’XI Congresso).
Lenin prospettava per la Russia, in attesa della Rivoluzione internazionale, la trasformazione del sistema sociale verso forme di capitalismo di Stato. Egli mirava non ad una transizione al socialismo, ma ad una transizione al capitalismo di Stato. Al contrario Trotski giudicherà la struttura sociale sovietica come struttura di transizione al socialismo. L’infelice formulazione di Trotski del 1922 e la sua tesi della natura socialista dei rapporti sociali russi hanno la medesima origine: il credere che i rapporti economici siano socialisti perché l’industria è statizzata ed il partito comunista monopolizza il potere politico.
«Come Lenin descrisse, il quadro economico russo era un misto di tutte le forme economiche: premercantili (comunismo primitivo, signoria e teocrazia asiatica, baronato terriero); mercantili (capitalismo industriale, commerciale e bancario, proprietà terriera libera); post-mercantile (prime attuazioni del comunismo “di guerra”, ossia di “guerra sociale”, come pane, case, trasporti gratuiti nelle grandi città e simili). Già in tale quadro transitorio, le statizzazioni di fabbriche, aziende e banche, e di poderi agrari sono misure rivoluzionarie, si, ma di rivoluzione capitalistica (...) Lenin disse tutto questo duramente al momento della NEP. Trotski che condivideva le sue direttive spiega che era socialismo con la contabilità capitalista; in effetti è proprio il tipo di contabilità che definisce la forma economica. La giusta espressione marxista era: capitalismo con contabilità capitalista, ma con registri tenuti dallo Stato proletario» (Proprietà e Capitale, 1948).
Trotski ha ben chiaro che denaro, merce, Stato spariranno nella società comunista, ma non comprende che questi non possono nemmeno sussistere nella società socialista e del comunismo inferiore, né che non basta che la produzione sia statizzata ed il potere detenuto dal Partito Comunista perché si possa parlare di socialismo economico.
Il denaro e lo Stato permangono, con importanza sempre decrescente, ancora solo nell’economia di transizione, che in quanto tale non è ancora economia socialista, ma lo è solo in parte o addirittura, come nella Russia sovietica del bolscevismo, è tutta capitalista e pre-capitalista. In questo caso è l’aspetto politico che qualifica lo Stato, è la direzione in cui opera e colpisce che lo fanno socialista o capitalista.
Sulla questione ecco cosa asseriva, riprendendo passo passo l’esegesi di Marx del programma di Gotha, il manualetto elementare di partito russo, L’ABC del Comunismo: Nel sistema di produzione comunista «il denaro sarà quindi superfluo (...) il denaro non avrà più nessun valore (...) agli inizi della società comunista i prodotti verranno distribuiti probabilmente secondo il lavoro prestato e più tardi semplicemente secondo i bisogni dei cittadini, dei compagni».
È tempo che il programma della rivoluzione comunista ritorni ad essere presentato agli occhi abbacinati delle attuali greggi proletarie, affinché con loro speranza, e con orrore dei borghesi, sappiano qual’è l’effettiva posta in gioco e per cosa bisogna combattere o morire.
Chiudiamo paragrafo e capitoletto con una citazione che è più che una formulazione programmatica: è una previsione dell’opera scientifica di scavo del futuro attuata dal partito storico marxista. Soltanto quando quanto qui sotto scritto avrà iniziato a concretizzarsi il proletariato potrà lanciarsi in guerra guerreggiata contro tutto il pestilenziale mondo del capitale ed il suo gendarme: Gli Stati Uniti d’America.
«Noi riteniamo che si vedrà il primo piano socialista quando la
parte
di esso espresso in unità monetaria sarà eliminata: naturalmente un
tale
piano deve comprendere tutti i settori dell’attività produttiva e del
consumo, passando direttamente dalle tante giornate di lavoro al tanto
di alimenti e simili, e dovrà nelle sue frontiere contenere almeno il
massiccio centrale dell’Europa coi fiumi che ne scendono, dalla Mosa
e dal Rodano al Danubio e alla Vistola. Questo piano non urlerà di aver
strafatto» (Struttura).
(Continua dal n. 25)
TRA UTOPIA E CARTISMO
[ È qui ]
La vittoria dello stalinismo sulle opposizioni
Il Sesto Esecutivo allargato
Il sesto esecutivo allegato del 1926 rappresentò l’ultima occasione che la Sinistra Italiana ebbe per far sentire la sua voce all’interno dell’Internazionale. Un anno dopo non solo essa ma anche ogni altra corrente di opposizione sarebbe stata messa fuori dall’Internazionale. Da quel momento in poi condizione per l’appartenenza al Comintern diveniva l’accettazione della “teoria del socialismo in un solo paese” che rappresentava una palese rottura di principio con i programmi su cui la stessa Internazionale si era costituita, anche se è vero, come appuntò Trotski, che la «adozione ufficiale del socialismo in un solo paese significava la sanzione teorica di svolte che avevano già avuto luogo».
Nel corso di questa assise mondiale la Sinistra Italiana affermò la necessità che i partiti aderenti all’Internazionale accorressero in aiuto del partito di Russia rendendo ad esso quanto questi aveva dato nel campo della teoria e politica; da ciò discendeva la necessità che la questione russa venisse posta all’ordine del giorno dei dibattiti internazionali.
La verità era, però, che le sezioni dell’Internazionale erano del
tutto nell’impossibilità di dare questo indispensabile contributo: nel
1926, grazie anche al successo di quella ”bolscevizzazione” che
Zinoviev
aveva fatto trionfare al V congresso del 1924, i quadri dirigenti di
tutti
i partiti erano stati radicalmente modificati. L’asservimento del
Comintern
agli interessi dello Stato russo si era ormai verificato e i partiti
comunisti
delle varie nazioni, anziché muoversi verso l’unico reale obiettivo
della lotta rivoluzionaria contro il proprio capitalismo, venivano
manovrati
come pedine del gioco diplomatico impegnato dalla Russia con le altre
potenze
e portati, quando queste esigenze lo richiedevano, ai più fallimentari
compromessi con le forze dell’opportunismo socialdemocratico e della
borghesia.
Lo sciopero inglese
Un chiaro esempio di questa politica fu il ”Comitato anglo-russo”.
Il V congresso del Comintern ed il III del Profintern avevano lanciato la proposta della fusione dell’Internazionale Sindacale Rossa con quella di Amsterdam attraverso un congresso unitario. Come ricorderemo, la Sinistra Italiana prese una posizione nettamente contraria a simile proposta: per la Sinistra una cosa era la lotta per l’unità sindacale a livello nazionale, ben altra cosa era la proposta di fusione con la F.S.I., non organizzazione proletaria, ma organismo della borghesia, legata all’Ufficio Internazionale del Lavoro ed alla Società delle Nazioni; si trattava, insomma, di una organizzazione che il proletariato non avrebbe potuto mai guadagnare alla propria causa.
Un ulteriore passo fu compiuto al VI E.A. con la ratifica della risoluzione elaborata dalla conferenza organizzativa “sulla organizzazione e la struttura delle frazioni comuniste nei sindacati”. In tale risoluzione si affermava che le frazioni comuniste avrebbero dovuto costituirsi in tutti i sindacati ”nell’ambito dello statuto e delle deliberazioni dei relativi sindacati”. Si affermava inoltre che: «se per una stessa categoria esistono sindacati di diversa tendenza (rossi, di Amsterdam, sindacalisti), occorre costituire una frazione in ciascuna organizzazione, a seconda della sua struttura. È necessario organizzare frazioni anche nei sindacati cristiani, liberali, fascisti, sindacalisti, ecc.». Inoltre veniva stabilito che la frazione dovesse svolgere la propria attività sul piano strettamente sindacale con «il compito di intraprendere rapporti con gli aderenti all’opposizione sindacale che non fanno parte del partito comunista». La linea e le direttive politiche sarebbero venute solo dagli organi dirigenti del partito; le frazioni potevano: «prendere posizione unicamente riguardo a problemi del loro particolare ambito di attività».
Tutto ciò rappresentava semplicemente la morte dell’attività sindacale comunista. Ai compagni impegnati nelle organizzazioni sindacali non solo veniva impedita ogni attività politica all’interno delle organizzazioni di classe, ma si ordinava loro di svolgere una azione sindacale che non esorbitasse dall’ambito dello statuto e delle deliberazioni dei rispettivi sindacati. Quando si pensi poi che i comunisti sarebbero dovuti entrare anche nei sindacati liberali, cristiani e fascisti non si può non considerare tali indicazioni come un totale disarmo di classe.
Il consiglio della F.S.I. aveva rifiutato la proposta di Mosca definendola “una fantasia impraticabile e dannosa”. Ma se la fusione non poté realizzarsi a scala generale, tuttavia, dopo contatti durati circa un anno con Purcell, dirigente delle Trade Unions, nell’aprile del 1925, a Londra si riunirono i rappresentanti dei sindacati russi con quelli britannici. In questa riunione fu dato vita ad un comitato congiunto. La realizzazione di questo ”Comitato anglo-russo” fu presentata da Zinoviev, al XIV congresso del PCUS, come la dimostrazione della correttezza della tattica del fronte unico. Per il VI E.A. il comitato anglo-russo «rappresenta la possibilità pratica di creare una Internazionale unificata e una lotta comune da parte dei lavoratori di differenti tendenze politiche, contro la reazione, il fascismo e l’offensiva capitalista». Alla seduta comune del C.C. del PCUS e della C.C.C. (luglio 1926) Stalin dichiarò: «Se i sindacati reazionari inglesi sono disposti a formare con i sindacati rivoluzionari del nostro paese una coalizione contro gli imperialisti controrivoluzionari del loro paese, perché non si dovrebbe approvare questo blocco?». Per Trotski fu facile replicare che «se i sindacati reazionari fossero capaci di lottare contro i loro imperialisti non sarebbero reazionari».
La grave crisi economica che, tra il 1925 ed il ‘26, colpì l’Inghilterra aveva portato i proprietari delle miniere a denunciare l’accordo del 1924 e l’abolizione della legge delle 7 ore del 1919. In una parola chiedevano diminuzioni salariali ed aumento della giornata lavorativa; quindi, a causa della resistenza proletaria, il 30 aprile 1926 effettuarono la serrata delle miniere di carbone. Il Consiglio Generale dei sindacati inglesi, sotto la pressione proletaria, fu costretto ad indire uno sciopero generale. Lo sciopero assunse immediatamente proporzioni grandiose, non meno di 4 milioni di lavoratori presero parte alla lotta. I sindacati riuscirono comunque a non far intervenire gli operai metallurgici e quelli dei cantieri navali con il pretesto che essi avrebbero dovuto servire da ”seconda linea di riserva”. I bonzi sindacali non tardarono molto a dimostrare la loro attitudine al tradimento, tanto più che lo sciopero in alcuni punti aveva espresso caratteristiche organizzative politiche e di autodifesa del tipo dei soviet.
Così, quando dopo 9 giorni di lotta, i minatori rifiutarono una soluzione di compromesso gradita al governo ed agli imprenditori, i sindacati revocano lo sciopero lasciando i minatori soli a continuare una battaglia che sarebbe durata altri 6 mesi.
Il partito comunista inglese in tutta questa vicenda restò spettatore passivo dal momento che, secondo gli accordi stabiliti con Mosca, la guida del movimento operaio doveva restare in mano ai dirigenti ufficiali. Inoltre, nel tentativo di conquistare cariche rappresentative all’interno del sindacato, il P.C.GB. ritenne opportuno concedere ai propri militanti “una certa libertà di azione” non limitandosi a presentare “il puro e semplice programma comunista”.
Quanto all’Internazionale basti ricordare che quando il 3 maggio lo sciopero ebbe inizio, sia il C.E.I.C., sia il Profintern inviarono alla internazionale di Amsterdam una serie di proposte per una azione comune. Addirittura dopo l’aperto sabotaggio dello sciopero da parte dei sindacati inglesi, l’Internazionale, volle a tutti i costi continuare a tenere in piedi il Comitato anglo-russo e, dopo le conferenze di Parigi del luglio e di Berlino dell’agosto 1926, alla conferenza di Berlino dell’aprile 1927 i delegati russi, i quali avevano riconosciuto nel Consiglio Generale ”l’unico rappresentante e portavoce del movimento sindacale d’Inghilterra”, si impegnarono a ”non diminuire l’autorità” dei capi tradeunionisti e a ”non occuparsi degli affari interni dei sindacati inglesi”.
Trotski non esitò a denunciare le responsabilità del Comintern nei confronti della sconfitta inglese stigmatizzando la timidezza con cui il P.C.GB. si era “opposto” al tradimento dei dirigenti sindacali; mentre l’esistenza stessa del Comitato anglo-russo aveva rappresentato una preziosa patente di credibilità per la dirigenza riformista responsabile del tragico fallimento dello sciopero. Trotski chiese, quindi, l’immediato scioglimento del comitato. L’Internazionale, al contrario, volle trarre tutt’altro insegnamento ed in un documento del 9 maggio affermava che l’esperienza della lotta inglese «aveva provato l’esattezza della via intrapresa dal Comintern e dall’I.R.S., cioè quella dell’unità del movimento sindacale internazionale ed altresì della creazione di una internazionale sindacale unitaria (...) Di conseguenza l’uscita dei sindacati dell’Unione Sovietica dal Comitato anglo-russo è inopportuna (...) sarebbe un gesto magari ”eroico”, ma politicamente privo di senso ed infantile». Il documento si sentiva inoltre in dovere di respingere «le accuse rivolte ai sindacati dell’Unione Sovietica di avere cioè preso l’iniziativa di tale passo in base a considerazioni nazionali e statali».
Però al C.C. del PC russo, Stalin non nascose che il compito del Comitato anglo-russo era quello di «organizzare un largo movimento della classe operaia contro le guerre imperialistiche in generale, contro l’intervento nel nostro paese da parte della più forte potenza imperialistica dell’Europa, vale a dire l’Inghilterra, in particolare». E Bucharin all’esecutivo dell’Internazionale del maggio 1927, giustificherà la tattica seguita con il Comitato anglo-russo con “gli interessi diplomatici dell’URSS”.
Sulla rivista del PCI, Stato Operaio, del 5 luglio 1927 i
centristi
italiani scrivevano: «La riunione di Berlino deve essere considerata e
giudicata con attenzione senza precipitazione e senza partito preso. Il
momento in cui il Comitato anglo-russo si riunì a Berlino era
internazionalmente
assai grave. Il governo conservatore inglese preparava la rottura con
la
Russia. La campagna per l’isolamento della Russia da tutto il mondo
civile
si svolgeva in pieno. La delegazione dei sindacati russi fu bene o mal
consigliata
a fare alcune concessioni allo scopo di non venire, in quel momento, ad
una rottura con la delegazione dei sindacati inglesi?». L’articolo del
PCI poneva in forma interrogativa la giustezza seguita dai sindacati
russi,
ma abbiamo visto sia Bucharin che Stalin furono molto più espliciti
nell’affermare
che la necessità di non rompere il Comitato anglo-russo dipendeva dagli
interessi diplomatici di Stato della Russia. Questa tendenza si era
sviluppata
nel quadro generale di una politica che, dopo aver associato la sorte
dello
Stato russo alla sorte del proletariato mondiale, in un secondo tempo
era
passata a fare dipendere la politica dei partiti comunisti dalla
necessità
di quello Stato. Nello stesso tempo, nei documenti ufficiali rivolti al
proletariato, si negava che la politica dell’Internazionale fosse
subordinata
a “considerazioni nazionali e statali”.
In Polonia
Il 12 maggio, il giorno stesso in cui veniva posto fine allo sciopero generale in Inghilterra, in Polonia il maresciallo Pilsudsky, marciò su Varsavia e, dopo 3 giorni di scontri, instaurò un governo dittatoriale.
La politica di alleanza con le classi non proletarie e con la piccola borghesia, adottata da tempo dall’Internazionale, fu tradotta in Polonia nella alleanza con il movimento piccolo-borghese recante l’etichetta socialista e contadina; quello di Pilsudsky, appunto, che ben presto darà origine ad una dittatura militare sostenuta dalla finanza e dall’imperialismo. Il PC polacco vide nel movimento di Pilsudsky una ”lotta di ufficiali e soldati democratici e anche di strati democratici di operai e contadini” in rivolta contro il regime dei “capitalisti, kulaki e fascisti”, il P.C.P. lanciò quindi un appello agli operai e contadini perché facessero fronte unico con gli insorti e, insieme al partito socialista, proclamò uno sciopero generale.
Pilsudsky ricambiò immediatamente i favori ricevuti disperdendo le manifestazioni operaie e procedendo ad arresti in massa; solo allora all’interno del PC polacco sorse il dubbio che forse era stata adottata una tattica sbagliata. Dell’”errore di maggio” (questo fu l’appellativo che servì a definire la sciagurata tattica) l’Internazionale, come al solito, se ne lavò le mani addossando tutte le responsabilità ai dirigenti locali, accusandoli di non avere capito che ”la rivoluzione borghese in Polonia era uno stadio da tempo superato” e che esisteva una sola alternativa: o dittatura fascista del grande capitale o dittatura del proletariato. Le critiche dell’Internazionale comunque si guardavano bene dall’andare al fondo delle questioni; si sarebbe dovuto, in tal caso, rimettere in discussione tutta la sua tattica.
Fu ancora Trotski a puntualizzare che l’ “errore di maggio” era dovuto principalmente alle direttive impartite dal Comintern a proposito dell’alleanza con forze sociali ibride e politicamente infide come gli strati medi del contadiname e la piccola borghesia urbana. Trotski però si limitava a condannare un uso troppo disinvolto del fronte unico senza capire che era il fronte unico in sé stesso una tattica deleteria al movimento rivoluzionario.
Era però vero che l’Internazionale aveva avuto un ruolo importante nel determinare l’atteggiamento assunto dal partito comunista polacco, sia a favore del fronte unico con contadini e piccola borghesia, sia nei confronti di una ambigua campagna nazionalista per ”l’indipendenza della Polonia”. Ed era anche vero che l’Esecutivo dell’I.C. aveva avallato le aperture del P.C.P. nei confronti di Pilsudsky.
Quello di Polonia fu un altro clamoroso esempio di quale fosse,
ormai,
il livello di incapacità politica dei partiti comunisti a seguito
dell’ubriacatura
nazionale del P.C.U.S. dovuta al rovesciamento della famosa piramide.
In Cina
Ma questo, per quanto disastroso, può essere considerato un esempio del tutto trascurabile se paragonato alla catastrofe cinese.
Per quanto riguarda la Cina è bene dare innanzi tutto, sebbene a grandissime linee, un quadro dei rapporti sociali ed economici negli anni venti. Trotski nel suo libro, L’Internazionale Comunista dopo Lenin scrive: «La proprietà fondiaria, grande e media, vi si intreccia nel modo più intimo con il capitalismo delle città ivi compreso il capitalismo straniero (...) Uno sviluppo interno estremamente rapido dell’industria basato sul ruolo del capitalismo commerciale e bancario che ha assoggettato il paese, la dipendenza completa del mercato delle regioni contadine più importanti, il ruolo enorme ed il continuo aumento del commercio estero, la subordinazione totale della campagna cinese dalla città: tutto ciò conferma il predominio incondizionato, il dominio diretto dei rapporti capitalistici in Cina».
Malgrado questa fosse la realtà cinese, la tattica adottata dall’Internazionale fu quella di legare mani e piedi l’azione del partito comunista e del vigoroso movimento operaio cinese agli interessi di una borghesia tutt’altro che rivoluzionaria, ma assettata di sangue proletario.
Ma sulla tattica da adottare in Cina la nostra corrente dovette prendere le distanze anche da Trotski per difendere la tesi di principio della non adesione al Kuomintang (KMT) e, mentre combatté la tattica del Comintern dell’ “offensiva rivoluzionaria”, mantenne integrali le sue posizioni precedenti contro le parole d’ordine democratiche restando ferma sulla tesi che la sola parola da sollevare nella questione del potere in Cina era quella della dittatura del proletariato.
Con i grandi scioperi di Hong Kong e Canton del 1924 sorsero quelli che potremmo definire i primi soviet cinesi: il comitato dei delegati di sciopero disponeva di qualcosa come 2.000 picchetti armati, una polizia, un proprio tribunale, organizzava comitati per il vettovagliamento, per i trasporti, per l’istruzione, ecc.
La direzione del P.C.C. propose, nel 1925, l’uscita del partito dal KMT, che faceva di tutto per sabotare la lotta di classe, e prendere in prima persona la direzione della lotta operaia. Il C.E. dell’Internazionale si oppose in modo netto a tale proposta. Bucharin dirà che «il KMT è una organizzazione di tipo speciale, qualcosa di mezzo tra un partito politico e una organizzazione come i soviet, dove entrano vari gruppi di classe (...) Il KMT ingloba la borghesia liberale e la classe operaia. Dal punto di vista dell’organizzazione il KMT non è un partito nell’accezione tradizionale del termine. La sua struttura permette di conquistarlo dalla base effettuando un raggruppamento di classe (...) Dobbiamo sfruttare questa particolarità nel corso della rivoluzione cinese (...) Bisogna trasformare il KMT sempre più in una organizzazione elettiva di massa (...) spostare il centro di gravità verso sinistra, modificare la composizione sociale dell’organizzazione».
E fu per effettuare questo spostamento ”a sinistra” che nel 1926 non si trovò niente di meglio che accettare il KMT nell’Internazionale come ”partito simpatizzante” e Ciang Kai-shek diviene membro associato del C.E.
Contemporaneamente Ciang Kai-shek effettua a Canton una specie di colpo di Stato: elimina i comunisti dalla direzione del KMT, arresta i sindacalisti comunisti, e pone, come condizione per la loro permanenza nell’organizzazione, la rinuncia ad ogni critica del “sunismo”. Il P.C. russo e l’Internazionale fanno accettare al P.C.C. tutte le condizioni. Quando Ciang Kai-shek intraprende la sua marcia verso Nord contro i “signori della guerra”, proibisce, in nome del patriottismo, tutti gli scioperi e le agitazioni proletarie nelle zone sotto il suo controllo. Le rivolte operaie e contadine vengono represse militarmente. Il P.C.C. chiede ancora una volta l’autorizzazione ad uscire dal KMT, ma Stalin dichiara che l’avanzata di Ciang Kai-shek «significa libertà di riunione, la libertà di sciopero, la libertà di coalizione di tutti gli elementi rivoluzionari e soprattutto operai».
Nel marzo 1927 scoppia a Shanghai uno sciopero generale che si trasforma ben presto in insurrezione; l’esercito di Ciang Kai-shek si arresta alle porte della città fino a che l’ultimo soldato del Nord non è scappato, cacciato dalla rivolta operaia. A questo punto, complice il partito comunista, farà il suo ingresso trionfale. Nella Pravda del 27 marzo si leggeva: «I lavoratori vittoriosi hanno consegnato le chiavi di Shanghai all’esercito di Canton: in questo gesto si esprime l’atto eroico del proletariato cinese». Cachin saluterà Chiang come ”l’eroe della comune di Shanghai”.
L’eroe della comune chiede immediatamente il disarmo degli operai; Mosca consiglia che, per non lasciarsi disarmare, si sotterrino le armi. Il P.C.C. per non irritare il generalissimo smentisce le voci di disaccordo con la sua politica e rifiuta l’offerta della prima divisione dell’esercito di Canton per sostenere i sindacati operai. Il 12 aprile l’ “eroe della comune” scioglie tutte le organizzazioni comuniste e sindacali a Shanghai e Nanchino, le sedi vengono devastate, gli iscritti arrestati, l’esercito attacca i picchetti operai; migliaia di lavoratori, accusati di essere “reazionari” ed in combutta con “i militaristi del Nord” vengono massacrati.
Contemporaneamente (15 aprile) l’Internazionale Comunista accennando al pericolo di una rottura tra P.C.C. e KMT, affermava che ciò poteva essere scongiurato solo «qualora il PC avesse infuso il sangue rivoluzionario degli operai e dei contadini nelle vene del KMT». Migliore formulazione non poteva essere trovata! La delegazione del Comintern in Cina, con tutto candore, affermava: «Abbiamo guardato con grande ansietà a tutte queste azioni violente di Ciang Kai-shek e dei suoi agenti, ma speravamo che egli avrebbe esitato a trasformarsi in traditore aperto del movimento nazionale (...) Si può momentaneamente passare sopra a tutti i crimini di coloro i quali si battono contro l’imperialismo. Ma (...) i crimini di Ciang Kai-shek non si sono arrestati al massacro dei lavoratori di Kiangsi e Shanghai. Essi sono culminati in una rivolta contro il partito del popolo ed il governo del popolo». Cioè del Kuomintang, che significa appunto: partito del popolo.
Da parte sua Mosca non sarà affatto sconvolta da questi avvenimenti: secondo Stalin i fatti cinesi «hanno provato pienamente e completamente la giustezza della linea adottata» e Bucharin constaterà che la «borghesia è passata nel campo della controrivoluzione». Per Bucharin il massacro di Shanghai rappresentava «l’insurrezione della grande borghesia contro il KMT ed il blocco di sinistra del KMT».
I comunisti cinesi non avrebbero più dovuto sostenere Ciang Kai-shek, che pure era ancora “membro associato” dell’esecutivo dell’Internazionale, ma avrebbero dovuto schierarsi dalla parte di Wan Cin-wei, altro membro associato del C.E. Internazionale e massacratore di contadini, il quale nel frattempo aveva dato vita al KMT di sinistra e manteneva il proprio governo a Wuhan. Anche con il KMT di sinistra viene ripetuto, pari pari, lo stesso copione: i comunisti devono semplicemente accodarsi agli interessi della borghesia nazionale. Stalin affermava: «lanciare la parola d’ordine dei soviet significherebbe la lotta contro Wuhan. Ma dato che esiste una organizzazione rivoluzionaria specifica adatta alle condizioni cinesi, che ha provato il suo valore per lo sviluppo ulteriore della rivoluzione democratica-borghese in Cina (...) sarebbe stupido distruggerla».
Per Stalin nessun paragone poteva essere fatto tra Cina e Russia prerivoluzionaria per almeno due motivi: il primo era che la Russia si trovava «alla vigilia di una rivoluzione proletaria mentre la Cina si trovava di fronte ad una rivoluzione democratico-borghese». Il secondo motivo era che mentre «il governo provvisorio russo era controrivoluzionario, l’attuale governo di Wuhan è un governo rivoluzionario nel senso democratico-borghese della parola». Tanto bastava per dimostrare la giustezza della tattica fatta adottare al PCC.
Wan Cin-wei, commosso per la considerazione accordatagli da Mosca, passava, nelle successive settimane, alla repressione sanguinosa del movimento dei contadini. Sul finire del giugno 1927, Wang Cin-wei si riappacificò con Ciang Kai-shek per sferrare un colpo decisivo sui comunisti. A metà luglio si scatenò una repressione generale.
Ancora una volta, come dopo i fatti di Germania del 1923, come dopo
l’”errore di maggio” polacco, così anche la Cina, dopo che la
rivoluzione
sarà affogata nel sangue proletario, l’Internazionale si solleverà
da ogni responsabilità facendo ricadere tutte le colpe sul partito
comunista
cinese per avere male interpretato ed eseguito le direttive di Mosca.
La
direzione del P.C.C. fu sostituita ed iniziarono le espulsioni in
massa. D’altra
parte si sostenne che la rivoluzione non era stata battuta, ma che essa
passava ad una fase superiore e che appunto in questa nuova fase doveva
essere lanciata la parola d’ordine della costituzione dei soviet operai
e contadini. Quantunque il movimento delle masse fosse in ripiegamento
e demoralizzato vennero stimolati dei moti insurrezionali senza alcuna
speranza di successo. L’insurrezione di Canton, conclusasi con un
rapido
insuccesso e con un massacro sanguinoso, fu l’episodio culminante di
questo periodo.
In Russia
In Russia, la controrivoluzione in marcia, determinata a distruggere quel poco che all’interno dei partiti e dell’Internazionale rimaneva della genuina tradizione bolscevica e rivoluzionaria, sferrava intanto i suoi attacchi avvalendosi del potere statale e di tutto il suo apparato repressivo.
Se da un punto di vista formale la proposta della Sinistra Italiana che la questione russa fosse dibattuta a livello internazionale ebbe esito favorevole al VII Esecutivo Allargato, dal punto di vista sostanziale le cose andarono in modo del tutto diverso. Tutti i partiti dell’Internazionale pecorescamente si limitarono a ratificare le risoluzioni teoriche, politiche e disciplinari precedentemente prese dalla maggioranza del PCUS, anche se queste soluzioni rappresentavano un rinnegamento palese dei principi fondamentali sulle cui basi erano nati i partiti comunisti e l’Internazionale e portavano alle basi stesse della rivoluzione russa quella sostanziale trasformazione che doveva condurre alla spietata repressione degli artefici dell’Ottobre a al capovolgimento del ruolo del paese dei Soviet, destinato, infine, a divenire uno strumento essenziale della controrivoluzione mondiale e della preparazione del secondo conflitto imperialistico.
La velocità della marcia controrivoluzionaria può essere desunta dalla motivazione stessa con cui il PCUS approva la risoluzione di allontanamento di Zinoviev dalla presidenza dell’Internazionale. Pochi mesi prima Stalin aveva giustificato la richiesta di non dibattere la questione russa all’interno del Comintern, tra l’altro, proprio per salvaguardare la posizione di Zinoviev all’interno dell’Internazionale. «Se riaprissimo la discussione russa al Plenum dell’Allargato – aveva dichiarato Stalin al rappresentante della Sinistra – vorrebbe dire riaprirla nel partito russo. Non solo, vorrebbe dire mettere in minoranza l’opposizione nell’Internazionale, cioè togliere dalla direzione dell’Internazionale il compagno Zinoviev. Ora questa cosa non vi è nessuno che la desideri».
Il 23 ottobre successivo il PCUS approvò la seguente risoluzione: «Poiché Zinoviev non rappresenta la linea del PCUS nell’IC (...) il C.C. e la C.C.C. non ritengono possibile che continui il suo lavoro nell’Internazionale stessa». L’Internazionale è quindi diventata, per il PCUS, la longa manus della sua politica. Il C.E.I.C. si affretta, due giorni dopo, a ratificare questa decisione. Questo dopo che, il 16 ottobre, Trotski, Zinoviev, Kamenev e gli altri dirigenti dell’opposizione avevano presentato al Politburo una dichiarazione nella quale, senza rinunciare alle loro opinioni, si impegnavano a desistere da ogni attività frazionistica e scindevano le proprie decisioni dall’estrema sinistra. La dichiarazione concludeva: «Ognuno di noi si impegna a difendere le sue concezioni unicamente nelle forme fissate dagli statuti e dalle decisioni del congresso e del C.C. del nostro partito».
Il fatto era però che non si trattava più di stabilire gli ambiti in cui era possibile esporre le proprie idee; il fatto era che il marxismo aveva ormai perduto il diritto di cittadinanza; all’opposizione, di conseguenza, non poteva essere concesso nemmeno il diritto di disciplinarsi.
Alla XV conferenza (26 ottobre - 3 novembre) l’opposizione di sinistra viene definita ”deviazione socialdemocratica” tendente «a sabotare l’unità del partito (...) a scatenare le forze che nel paese cercano di indebolirlo e di far crollare la dittatura». Stalin lancia il suo ultimatum all’opposizione: «O voi starete a queste condizioni (...) oppure (...) il partito che ieri vi ha battuto, domani vi abbatterà completamente». Contemporaneamente Trotski e Kamenev vengono espulsi dal Politburo.
Una ventina di giorni dopo si riunì il VII E.A. che si espresse in questi termini: «Il partito parte dal punto di vista che la nostra rivoluzione è una rivoluzione socialista, che la rivoluzione d’Ottobre non rappresenta solo il segnale, il primo balzo in avanti ed il punto di partenza della rivoluzione socialista in Occidente, ma: 1) rappresenta una base per lo sviluppo futuro della rivoluzione mondiale; 2) apre il periodo di transizione dal capitalismo al socialismo nell’Unione dei Soviet, nel quale il proletariato ha la possibilità di edificare con successo, mediante una giusta politica verso la classe dei contadini, la società socialista completa. Questa edificazione verrà ad ogni modo realizzata solo se la forza del movimento operaio internazionale da una parte, e la forza del proletariato dell’Unione Sovietica dall’altra, saranno così grandi da proteggere lo Stato dei Soviet da un intervento militare». La realizzazione della società socialista completa dipendeva dunque dalla capacità del proletariato russo e mondiale di proteggere lo Stato dei Soviet da una invasione militare. l’ironia della storia volle, al contrario, che a proteggere lo Stato russo fossero i due più grandi Stati imperialisti: la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.
L’esito delle manifestazioni per il 10° anniversario della rivoluzione fece toccare con mano all’opposizione lo strapotere raggiunto dalla controrivoluzione staliniana. L’opposizione di sinistra tentò di partecipare alle manifestazioni con propri slogan. «In questo giorno tuttavia gli oppositori, coraggioso pugno di combattenti nella massa indifferente, sono battuti in partenza (...) A Leningrado essi arrivano con i loro cartelli fino alla tribuna ufficiale, ma vengono abilmente deviati subito dal servizio d’ordine che li isola dalla folla e tratterrà Zinoviev e Radek fino a che tutti non siano tornati a casa. Ci sarà qualche scontro tra la polizia e alcune centinaia di manifestanti guidati da Bakaiew e Lascevic in uniforme. A Mosca la questione sarà più seria: i manifestanti della opposizione, dislocati in piccoli gruppi nella folla che converge sulla Piazza Rossa spiegano cartelloni e stendardi, più di un centinaio (...) immediatamente spezzati o strappati dagli attivisti dislocati lungo il percorso i quali circondano subito i portatori (...) Subito dopo i gruppi così individuati vengono dispersi e picchiati, alcuni manifestanti vengono arrestati. Un “commando” penetra nella Casa dei Soviet dove Smilga ha appeso al balcone del proprio appartamento uno stendardo ed i ritratti di Lenin e Trotski. I militanti presenti vengono picchiati. Incidenti analoghi accadono all’Hotel di Grand Paris dove Preobraženskij, giunto in auto, tenta di arringare una colonna di operai in piazza della rivoluzione. Viene subito circondato dalla polizia e coperto di insulti; un colpo d’arma da fuoco schianta i vetri dell’auto. Deve rinunciare» (Storia del Partito Comunista dell’URSS, P. Broué).
Sembra che Zinoviev in un successivo incontro si sia rivolto a Trotski in questi termini: «Lev Davidovič, è giunta l’ora di avere il coraggio di capitolare». Al che Trotski rispose: «Se bastasse questo coraggio, la rivoluzione sarebbe cosa fatta in tutto il mondo».
Il giorno 15 novembre furono espulsi entrambi dal partito mentre Smilga, Kamenev, Rakovskij, Eudokimov lo furono dal C.C.
Il giorno 16 Joffe, vecchio amico di Trotski, si toglie la vita in segno di protesta. I membri dell’opposizione, davanti alla tomba di Joffe, possono parlare per l’ultima volta ai loro seguaci. «La lotta continua – dice Trotski – ognuno resti al suo posto».
Il XV congresso del PCUS (dicembre 1927) rappresenta la definitiva sconfitta dell’opposizione di sinistra russa. Vengono ratificate le espulsioni di Trotski e Zinoviev e altre ne furono deliberate, fra cui quelle di Kamenev, Radek, Rakovskij, Smilga, Pjatakov. Stalin dichiara solennemente: «l’opposizione deve capitolare interamente e completamente e senza condizioni sia sul piano politico che su quello dell’organizzazione».
Il XV congresso del PCUS oltre a segnare la disfatta completa dell’opposizione di sinistra segnò anche l’assunzione a dogma della teoria del ”socialismo in un solo paese” con la dichiarazione di incompatibilità fra l’appartenenza al partito e all’Internazionale e la mancata accettazione di questa tesi. Il XV congresso rappresentò anche il preludio di una nuova crisi all’interno del partito: attorno alla testa di Buharin, per quanto apparentemente considerato il massimo teorico, fosche nubi si stavano addensando e chiari segnali lasciavano presagire che sarebbe stato la prossima vittima della controrivoluzione.
Per Trotski e per i capi della vecchia guardia bolscevica cominciò il periodo delle deportazioni; per i compagni meno in vista si procedeva con gli arresti di massa. Trascorreranno ancora pochi anni e poi, dopo l’eliminazione politica, la controrivoluzione avrà necessità di passare, su vasta scala, a quella fisica.
La posizione della Sinistra italiana sulla questione della
degenerazione
staliniana, delle varie opposizioni e del corretto comportamento da
tenere
in seno al partito e all’Internazionale venne esposta in maniera
chiarissima
nella famosa lettera a Korsch che, a dispetto della cronologia,
riportiamo
in appendice a questo numero della rivista.
La formazione della Frazione di Sinistra all’estero
Lo studio della Frazione all’estero era già stato previsto dalla nostra organizzazione fin da quando fu steso, a grandi linee, il programma di lavoro per la storia della Sinistra. In quel piano, accennato per sommi capi, si legge: “Raccogliere notizie sull’attività della Sinistra all’estero. Collezioni di Prometeo, Bilan, eventuali carte Ottorino”.
Se fino ad ora nessuno studio sistematico è stato pubblicato dal partito ciò non significa che non rivendichi tale periodo come sua storia e suo patrimonio, critica che è stata avanzata da qualche gruppo che pretenderebbe di individuare nella Frazione una elaborazione teorica originale e comunque distinta e superiore alla continuità della Sinistra italiana.
Il fatto sta semplicemente in questi termini: nell’opera di restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, scopo che il nostro partito, fin dal suo rinascere, si è prefisso, era di gran lunga più importante riprendere il filo rosso della tradizione rivoluzionaria con lo studio e la riproduzione dei grandi temi dibattuti all’interno del movimento comunista internazionale dalla fondazione dell’Internazionale fino alla data del 1926: le grandi battaglie teoriche si sono svolte in quel periodo. Quando nacque la nostra Frazione l’esito della battaglia per riportare l’Internazionale nel solco della rivoluzione era ormai segnato. Anche se i partiti aderenti al Komintern e lo Stato russo non avevano fino in fondo consumato il loro tradimento, cosa che avverrà con l’adesione alla seconda guerra imperialistica, la totale ricaduta nel campo dell’opportunismo traditore era scontata, a meno che una radicale, quanto poco probabile, ripresa della lotta di classe a scala internazionale non avesse allo stesso tempo colpito a morte la borghesia almeno in una delle sue metropoli e ridato vitalità alla rivoluzione che stava soffocando.
È chiaro che se l’opera della Frazione non poté andare oltre la grande battaglia svolta dalla Sinistra all’interno dell’Internazionale, non fu certo meno eroica dovendo i nostri compagni, in Italia e nell’emigrazione, subire tutto il peso della repressione borghese sommata alla vile persecuzione staliniana. Senza narrare la tragedia di quei compagni che sfortunatamente si trovavano in Russia.
Quale fosse già nel 1926 la situazione creatasi all’interno dei partiti comunisti è ben riassunta nella dichiarazione del rappresentante della Sinistra al 3° Congresso del Partito (Lione):
«Devo qui dichiararvi che il metodo che è qui in azione ci appare dolorosamente ma sicuramente come un metodo deleterio agli interessi della nostra causa e del proletariato. Si, i nostri sistemi attuali (...) non sono, come paiono a voi rappresentanti operai, l’espressione della unità e della disciplina ma esasperano la divisione, inaspriscono il frazionismo, preparano la lacerazione e la divisione del partito ed il fallimento della battaglia proletaria (...). Nessuna solidarietà potrà unirci a quegli uomini che (...) indipendentemente dalle loro intenzioni e dai loro caratteri psicologici (sono i) rappresentanti della ormai inevitabile prospettiva dell’inquinamento opportunista del nostro partito (...) Se noi siamo vittime di uno spaventevole errore nel valutare così quello che avviene, allora davvero dovremo essere considerati indegni anche soltanto nel partito e dovremo sparire agli occhi della classe operaia. Ma se questa antitesi spietata che noi sentiamo porsi è vera e ci riserva nell’avvenire dolorose conseguenze, allora perlomeno potremo dire di aver lottato fino all’ultimo contro i metodi esiziali che intaccano la nostra compagine e di aver portato, resistendo ad ogni minaccia, un po’ di chiaro nel buio che qui si è voluto creare».Il Congresso di Lione si chiuse con la dichiarazione sopra citata (pubblicata integralmente nel n. 21 della nostra rivista) che mise in mora i traditori in marcia.
Da Lione si andò a Mosca per il VI Esecutivo Allargato (marzo 1926). Nelle vive lotte di questa sessione, che segnò il trionfo dello stalinismo, venne in evidenza la gravissima questione tedesca. In Germania vi era un centro, una pretesa sinistra di indirizzo non soddisfacente per noi italiani, che con essa ci scontrammo duramente, pur resistendo non meno aspramente alle posizioni tattiche di Stalin-Bucharin (fu allora che Zinoviev ebbe l’ostracismo), ed infine una estrema sinistra che, a parere dei soliti superficiali, si affiancava a noi Sinistra italiana. Ma tale estrema sinistra risentiva delle origini kapedeiste, ossia del partito comunista operaio del 1920, di tendenza sindacalista e più affine agli aziendalisti italiani che a noi.
Verso la fine del 1926 il capo teorico di questa corrente il compagno Korsch, invitò la Sinistra italiana a prendere l’iniziativa di fondare una frazione internazionale di sinistra. Da parte nostra venne risposto con un rifiuto basato sul fatto che, mentre era chiaro che a Mosca si andava del tutto alla deriva verso un nuovo opportunismo, le basi di principio della sinistra in Germania ed in Italia erano troppo poco omogenee per fondarvi una sicura riscossa contro la degenerazione: le rampogne a Mosca ed a Stalin, nelle quali noi non avevamo esitazioni, come formulate nelle tesi di Korsch sapevano troppo di critica al potere per il potere e di lagnanza in nome della democrazia di base, per essere del tutto conciliabili con la fedeltà alla linea marxista sui punti indiscutibili della validità della forma partito, della forma Stato, e del terrore anche antidemocratico, armi che i rivoluzionari non devono mai correre il pericolo di spuntare, perché vitali.
Nemmeno alla fine del 1926, dunque, noi aderimmo alla formazione di una frazione internazionale.
Il problema che ha sempre solleticato i “simpatizzanti” della Sinistra è l’inspiegabile incapacità di manovra politica di quest’ultima, il suo non saper cogliere a volo le occasioni per raggiungere il successo. I sinistri dalla tattica smaliziata si chiedono dunque come mai, ancora una volta, nel 1926, la Sinistra italiana non approfittò della mano tesa da Korsch per la fondazione di una frazione di sinistra internazionale, o addirittura, perché essa stessa non ne prese l’iniziativa. A questa domanda abbiamo risposto esaurientemente nel 1961, nei seguenti termini:
«È ben possibile oggi chiedere se facemmo bene a non fondarla noi, e magari a non fondare una nuova Internazionale rompendo con Mosca; queste domande sono possibili come tante altre, come quella che nel 1919 la frazione astensionista italiana poteva lasciare il partito socialista. La storia non può essere trattata come una “caccia agli errori” – questa è proprio la formula contraria alla nostra e degna degli acrobati Stalin-Kruscioviani – ma la si può fare con intento sperimentale. In tal caso il succo della nostra attuale ricerca è questo, non che fece Pinco e che contro fece Ponco, chi dei due vinse e chi era dei due il più bel moschettiere della rivoluzione, ma a che ha condotto, in un lungo ciclo, la prova di un metodo che tutte le convenienze della congiuntura del momento mette indietro in confronto al rispetto dei principi e quindi, come Engels dettò, non ha mai voluto per un successo di oggi sacrificare l’interesse futuro e generale del movimento. A questa stregua deve essere studiata la Storia della Sinistra. Se la prova dei fatti storici fosse che si è sempre fatto male per troppi scrupoli, allora la conclusione sarà semplice e sarà l’opposta di quella per cui spariamo le cartucce che ci sono rimaste: una buona dinamica per la rivoluzione è il portare avanti uomini brillanti che in ogni momento si atteggino come meglio conviene per avere le masse, e la consegna sarà di seguire i grandi uomini e coltivare gli uomini politici, quelli che noi sciocchi avevamo teorizzato come le puttane della storia» (Il Programma Comunista, n. 12/1961).In questo caso vorrà dire che la nostra funzione sarà stata quella di esempio negativo, una specie di bussola che anziché indicare il Nord indica il Sud.
Anche nei confronti della Frazione l’atteggiamento del partito sarà dunque il solito: non andremo a vedere se essa si costituì troppo presto o troppo tardi; se non doveva affatto costituirsi o costituirsi subito come partito; se commise o non commise errori, quanti e quanto gravi. Il partito, con il suo studio, si interesserà solo di mettere in evidenza un metodo di azione, improntato al rispetto dei principi rivoluzionari, che per il vacuo successo immediato mai ha sacrificato l’interesse futuro e generale del movimento. Tutto il resto sono solo chiacchiere.
Per opera di un gruppo di compagni dell’emigrazione, espulsi dal partito, nell’aprile del 1928, a Parigi, si svolse la Conferenza della Sinistra nel corso della quale i delegati, esaminando le risoluzioni del XV congresso del PC russo e rilevando che queste posizioni rappresentavano una correzione definitiva al programma del partito comunista mondiale tendente a divenire la giustificazione teorica dell’opportunismo, si pronunciarono per la costituzione della Frazione di Sinistra in seno ai partiti comunisti.
Quei compagni che già nel corso del 1926 erano stati oggetto da parte della centrale del partito di provvedimenti disciplinari e di espulsione per la loro appartenenza alla corrente di Sinistra, che nel 1927 in un rapporto all’Internazionale erano stati definiti elementi provocatori al servizio della polizia e del fascismo, quei compagni si costituirono in Frazione solo quando ravvisarono nella tattica ufficiale dell’Internazionale comunista una definitiva degenerazione.
La Conferenza di Sinistra indicava anche quali erano, tra i
vastissimi
temi sul tappeto, quelli più importanti che la Frazione avrebbe dovuto
affrontare, e cioè:
1) Intervenire sulla crisi dei partiti comunisti per risolverla
in senso rivoluzionario;
2) Studio di tutta l’attività dell’Internazionale per trarre
i dovuti insegnamenti da tutti gli errori commessi e dalle sconfitte
subite;
3) Preparare il VI congresso internazionale sostenendo la
partecipazione
di tutti, espulsi, deportati, imprigionati che hanno lottato per
l’applicazione
delle tesi del II congresso mondiale.
Un altro dei problemi importanti affrontati dalla Conferenza fu l’esame dei diversi gruppi di opposizione. Si era infatti costituita, un po’ in ogni paese, tutta una serie di gruppi di opposizione alla politica ufficiale dell’Internazionale. Ma questi gruppi altro non erano che un guazzabuglio di posizioni eterogenee e senza una chiara impostazione teorica. Per questo motivo la Frazione fu sempre molto cauta nei confronti delle opposizioni anche se, nei loro riguardi, non adottò mai una chiusura settaria. La Conferenza della Sinistra rilevava infatti che nessun gruppo poteva rappresentare la base per la riorganizzazione delle forze sane esistenti all’interno dei partiti; che nessun gruppo aveva delle posizioni soddisfacenti sulle questioni di massima importanza quali fronte unico, partito e classe, governo operaio e contadino, ecc. Per alcuni di questi gruppi,
«tutto andava bene fino al IV congresso mondiale, per altri, invece la degenerazione ha cominciato dopo il V congresso, e via di seguito. La verità sta nel fatto che questi differenti gruppi furono liquidati dalla bolscevizzazione in epoche diverse, ed ognuno è disposto a far coincidere la propria liquidazione con l’inizio della degenerazione. Il tutto per essi si risolverebbe con il ritorno al IV o al V congresso».La Conferenza riconosceva che, malgrado le debolezze teoriche, a questi gruppi aderivano proletari sinceramente rivoluzionari dei quali si doveva tener conto; quindi proponeva che la Frazione svolgesse un serio lavoro di chiarificazione per orientare su un terreno rivoluzionario questi strati sani mettendo a nudo l’insufficienza delle loro posizioni. Che questo per la Frazione non significasse in alcun modo occasione di diplomazia politica o di tattica entrista lo vedremo più avanti, prima con il rifiuto di partecipare ad una conferenza intergruppi proposta qualche mese dopo da “Contre le Courant” ed in seguito con il progressivo distacco perfino di Trotski.
Non dobbiamo dimenticare però che tutti questi gruppi di sinistra provenivano dalle file della 3° Internazionale dove, con maggiore o minore coerenza, con maggiore o minore chiarezza, avevano tuttavia cercato di opporsi alla totale degenerazione. Giusta fu quindi la posizione della Frazione di svolgere opera di chiarificazione nei confronti di questi compagni per orientarli nella direzione rivoluzionaria.
A riprova di quanto sia stupida l’accusa di settarismo che ogni imbecille si sente di dover rivolgere alla Sinistra italiana, non è male accennare all’Appello per la Riorganizzazione Internazionale del Movimento che la nostra organizzazione lancerà nel 1949, nel quale si affermerà:
«Negli ultimi tempi si vanno manifestando come manifestazioni di insofferenza dell’opportunismo stalinista il dissentire di militanti e di gruppi che appaiono sulla scena politica di vari paesi proclamando di voler tornare sul terreno della dottrina di Marx e Lenin, delle tesi rivoluzionarie proprie della 3° Internazionale alla sua fondazione, e denunciando il tradimento di tali principi consumato fino in fondo dagli stalinisti (...) I comunisti della Sinistra italiana rivolgono oggi un appello ai gruppi operai rivoluzionari in tutti i paesi, perché, riprendendo il lungo e difficile cammino, compiano un grande sforzo al fine di concentrarsi internazionalmente su stretta base di classe, denunciando e respingendo ogni gruppo influenzato sia pure parzialmente e indirettamente dalle suggestioni e dal conformismo filisteo delle propagande che infestano il mondo, emananti dalle forze statali, militari, di polizia, oggi ovunque costituite. Il riordinamento di una avanguardia internazionale non può avvenire che con assoluta omogeneità di vedute e di orientamento».Questo salto di 20 anni dimostra che non dogmatismo settario, ma chiarezza ed omogeneità dottrinale sono le caratteristiche, di sempre, della Sinistra.
Ma torniamo alla costituzione della Frazione. Il 1° giugno 1928 esce a Bruxelles, in lingua italiana, il primo numero del giornale quindicinale Prometeo. Sebbene non si presenti come organo di frazione o di gruppo, a fianco del titolo, come manchette, è riportata la conclusione della dichiarazione della Sinistra al congresso di Lione. La manchette non lascia dubbi sulle generalità della organizzazione che si raggruppa attorno al giornale; ma nemmeno il titolo, d’altronde, lasciava spazio a dubbi, indicando una continuità con tutta la pratica della Sinistra italiana. Prometeo infatti era stata la rivista della corrente di sinistra del PCd’I che, dapprima autorizzata dall’Internazionale, fu soppressa dalla centrale del partito (in apparente contrasto con le direttive del V congresso dell’I.C.) quando era al suo sesto numero e si era già affermata in campo proletario, sia in Italia, sia fuori.
Ma la continuità con la Sinistra italiana è espressamente affermata e rivendicata. Questa continuità viene tracciata a grandi linee nell’articolo “Riprendiamo” dove si rivendica tutta la tradizione della Sinistra a cominciare dalla corrente che, in seno al partito socialista, aveva propugnato le stesse idee sulle quali, poi, era stata costituita la 3° Internazionale; attraverso le tappe che vanno dal congresso di Bologna a quello di Livorno, al II congresso dell’Internazionale; dal congresso di Roma, alla presentazione delle tesi sulla tattica al IV e al V congresso dell’I.C.; da Lione al VI Esecutivo Allargato; dall’astensionismo, al parlamentarismo rivoluzionario, alla lotta contro la bolscevizzazione.
La Frazione, anche qui in continuità con l’atteggiamento sempre tenuto dalla Sinistra, non si limita alla facile condanna dello stalinismo come responsabile del disastro ormai giunto all’epilogo, ma denuncia il fatto che proprio i dirigenti dei partiti comunisti esteri hanno praticamente isolato il proletariato ed il partito russo, non hanno saputo dare alcun contributo salvo gli stantii ordini del giorno di solidarietà anti-trotskista.
Prometeo nel suo primo numero concludeva quindi:
«L’ora in cui la nostra crisi poteva essere risoluta senza fare ricorso alla frazione è trascorsa per colpa più che dei dirigenti stalinisti russi, presi fra le tenaglie di difficoltà cui si sono dimostrati inferiori, per colpa dei dirigenti degli altri partiti che hanno immobilizzato i partiti comunisti, hanno impedito che il proletariato degli altri paesi, sulla base di una visione reale dei gravi problemi in discussione, apportassero al proletariato russo il frutto e il contributo delle loro esperienze. Quest’ora è trascorsa: mantenere ancora il silenzio significava autorizzare il successo dell’equivoco nelle nostre file, la dispersione della reazione proletaria all’opportunismo, sì che i prossimi venti rivoluzionari avrebbero trovato il proletariato completamente scompaginato. E noi questo non potevamo volere. Fra i primi, anzi i primi che abbiamo rilevato gli errori che si compivano nella Internazionale, ci siamo decisi a dare vita alla frazione solo allorquando ogni ulteriore attesa della soluzione della crisi imponeva la rinuncia alla possibilità di intervenire efficacemente nella lotta rivoluzionaria. E riprendiamo il nostro cammino ben decisi a tenere la strada».In un trafiletto dal titolo “Sostenere il giornale”, vengono dapprima esposte le ragioni che ne hanno determinato l’uscita:
«La pubblicazione di Prometeo è un atto politico la cui grande importanza la frazione di sinistra non nasconde, ma di cui accetta piena responsabilità. Nel momento stesso in cui è stata decisa la costituzione della frazione la pubblicazione del giornale si è imposta. È necessario non accrescere la confusione già esistente e del resto inevitabile in ogni momento di crisi nel movimento rivoluzionario; è necessario fissare sui grandi problemi, che la situazione eccezionale dell’Internazionale impone all’attenzione di tutti i compagni, il pensiero della Sinistra; è indispensabile opporsi a tutti i tentativi di revisione palese o nascosta che minacciano le basi ideologiche del movimento e tentano di spostare la tattica dell’Internazionale sempre più a destra. Prometeo continuerà una bella tradizione mentre forze controrivoluzionarie sopravvissute per colpa dell’opportunismo tentano di colpire al cuore la prima vittoria del proletariato e quindi tutto il movimento rivoluzionario internazionale».Detto questo viene affrontata la spinosa questione della disciplina, argomento di cui i centristi hanno sempre fatto uso ed abuso per la loro sporca lotta contro la Sinistra:
«Nella crisi attuale il concetto formale di disciplina non può prevalere sulla necessità rivoluzionaria della lotta contro l’opportunismo. Con la pubblicazione di Prometeo viene infranta una disciplina che ha cessato di essere rivoluzionaria nel momento stesso in cui essa è divenuta mera formalità, formalità imposta dall’alto, non sentita dalla base, dannosa quindi per tutte le degenerazioni cui ha dato e darà luogo inevitabilmente. La pubblicazione di Prometeo segna il primo passo di una chiarificazione indispensabile ed è l’espressione chiarissima della volontà di lotta contro la nuova teoria del comunismo».In un documento stilato da un gruppo di compagni italiani residenti in Russia viene ribadito lo stesso concetto di disciplina:
«Riconosciamo di avere violato la disciplina di partito, ed abbiamo posto la questione in questi termini: fra l’osservanza ad una disciplina formale che ci vieta il compimento di un’opera rivoluzionaria, ed il compimento di quest’opera che implica la necessaria violazione di tale disciplina, abbiamo scelto con senso di responsabilità il secondo corno del dilemma (...) Il rimedio è unico: il passaggio a quel regime di disciplina che noi abbiamo definito rivoluzionaria. La tendenza a questo passaggio si è già affermata nei partiti, e nulla ormai l’arresterà! Gli stessi centri dirigenti hanno dovuto teoricamente accettarla. La loro resistenza nella pratica genera la formazione spontanea di frazioni il cui incessante aumento denota il disagio attuale: ma esse si imporranno e salveranno i partiti dalla degenerazione. Dai centri dirigenti dipende la possibilità di non acuire il disagio, di limitarlo e di accelerarne il superamento. Effettivamente oggi siamo giunti ad una situazione capovolta, per cui sono proprio le frazioni che lottano per l’unità del partito contro la politica scissionista dei dirigenti» (Mosca, 11 marzo 1929).Al VI Esecutivo Allargato il rappresentante della Sinistra aveva dichiarato:
«In qualche modo noi giochiamo un ruolo internazionale perché il popolo italiano è un popolo di emigranti nel senso economico e sociale del termine, e, dopo l’avvento del fascismo, anche nel senso politico».Grazie a questa favorevole condizione ed al metodo di lavoro della Sinistra, la Frazione svolse una vivace e dinamica attività a contatto con le masse operaie in tutti i paesi in cui si trovava l’emigrazione italiana. Questo dinamismo che, proprio per la sua chiarezza teorica, riusciva agevolmente a contrastare la politica opportunista della direzione Togliatti, mettendo seriamente in forse l’egemonia degli stalinisti su tutta l’emigrazione, tale dinamismo fu causa di seria preoccupazione sia per Togliatti sia per Mussolini. Da quanto segue possiamo vedere quale fosse il reale peso del centrismo sugli iscritti al partito nonostante la politica di “conquista delle masse” e nonostante i risultati ufficiali del 3° congresso dai quali si pretendeva di desumere un’adesione di oltre il 90% degli iscritti al partito alla politica centro-stalinista. In una lettera del 19 aprile 1929 Togliatti scriveva in questi termini a Jaroslavskij:
«La lotta che il nostro partito deve condurre contro i rottami dell’opposizione bordighiana che tenta di organizzare tutti i malcontenti è molto difficile. Dobbiamo lottare contro questa gente in tutti i paesi dove c’è dell’emigrazione italiana: Francia, Belgio, Svizzera, America del Nord, America del Sud, ecc. Per noi è impossibile condurre questa lotta se i nostri partiti fratelli non ci aiutano. Il PCd’I chiede al PC dell’URSS un aiuto per continuare questa lotta, già difficile e che può continuare ancor di più se ci saranno delle debolezze. Il nostro partito non ha nient’altro da dire, chiede soltanto che si usi il massimo rigore». Nella lettera si chiedeva inoltre che fossero prese delle misure per «obbligare i frazionisti italiani a sottoscrivere una capitolazione completa».Quasi contemporaneamente (15 febbraio 1929) il capo della polizia inviava a Mussolini il seguente promemoria-suggerimento in cui, riferendosi alla nostra Frazione dice:
«L’ispiratore – seppure molto indiretto – del movimento di sinistra resta sempre l’ing. Amadeo Bordiga, che ebbe in passato largo seguito tra le masse e che ancora oggi, per l’innegabile ingegno, gode molte simpatie. Il Bordiga, come è noto, è da tempo confinato a Ponza. In previsione di possibili e prevedibili sviluppi che la frazione sinistra del PCI potrà avere e delle ripercussioni politiche conseguenziali non sembrerebbe inutile cercare di svalutare fin d’ora e di gettare un’ombra di sospetto sull’uomo più interessante e pericoloso – Bordiga – commutando il confino in ammonizione e facendo prudentemente circolare, e negli ambienti di sinistra e in quelli centristi del PCI, la voce di un compromesso che sarebbe avvenuto tra Bordiga e il fascismo».Non sappiamo se la liberazione del nostro compagno, alla fine del ’29, fu dovuta a questo suggerimento del capo della polizia, sappiamo però che tutta la sudicia campagna denigratoria sul presunto passaggio di Bordiga al fascismo fu portata avanti ed alimentata da Togliatti e dal suo codazzo di stalinisti che, pure sapendo da sempre quanto fosse falsa, è cessata solo da pochi anni.
Tanto è stato il livore degli stalinisti nei confronti della Sinistra che ancora nel 1951 Berti scriveva:
«Il bordighismo divenne uno strumento di disgregazione del movimento operaio nelle mani della borghesia reazionaria, nelle mani del fascismo e si legò strettamente ai trotskisti, i quali erano a loro volta divenuti una corrente controrivoluzionaria al servizio dell’imperialismo straniero e si proponevano l’annientamento e la distruzione dello Stato sovietico. D’allora in poi bordighismo e trotskismo si unirono in un unico fronte di agenti della borghesia e del fascismo, di traditori e di spie. Si può del resto persino supporre (e noi abbiamo a suo tempo avanzato questa supposizione) che Bordiga fosse, in tutto o in parte, al servizio delle classi dominanti anche nel periodo in cui il bordighismo si presentava ancora come una corrente opportunista del movimento operaio così come è stato, ad esempio, in Germania per Lassalle».Eppure, da un punto di vista formale, i compagni della Sinistra italiana avrebbero dovuto godere di piena cittadinanza all’interno del partito perché l’appartenenza alla Sinistra italiana non era stata dichiarata incompatibile con l’appartenenza al partito come era stato fatto per il presunto “trotskismo”.
Togliatti chiedeva che nei confronti “dei rottami del bordighismo” venisse usato “il massimo rigore” ed i suoi scagnozzi tirapiedi fecero davvero tutto il possibile per eseguire disciplinatamente le direttive del partito. Quali furono i sistemi adottati dagli stalinisti made in Italy per sconfiggere il “deviazionismo opportunista e piccolo-borghese” ce ne può dare un’idea il martirio al quale lo stesso Gramsci fu sottoposto durante gli anni del carcere. A questo riguardo, chi sa leggere, può documentarsi sull’opuscoletto di Spriano recentemente pubblicato dall’Unità. Innanzi tutto in Italia venne praticata una vera e propria decimazione nel corso del 1927 quando, malgrado le misure eccezionali prese dal fascismo, la centrale dichiarò che qualsiasi sacrificio si giustificava pur di dimostrare l’esistenza del partito. Fu così che, anche negli anni successivi, vennero consegnati nelle mani del nemico un numero considerevole di militanti pur avendo piena coscienza che nessun risultato proficuo ne sarebbe stato tratto.
Nell’opera di purificazione del partito dagli elementi della Sinistra, la centrale non andava certo per il sottile e chiunque fosse solo sospettato di simpatie “bordighiste” veniva immediatamente espulso.
Ma, poiché la Sinistra godeva dell’adesione e della stima dei compagni, gli stalinisti erano costretti ad affidare i posti direttivi a personaggi privi di scrupoli ripescandoli perfino tra gente espulsa, nel passato, per indegnità, tra piccoli avventurieri e perfino tra provocatori fascisti. Noi non vogliamo qui azzardare l’ipotesi che tra stalinismo e fascismo ci sia stata una intesa aperta, però è provato che nella lotta contro la Sinistra i centristi si servirono anche del fascismo. In Italia i nostri compagni venivano espulsi a loro insaputa, ma non ad insaputa del “Popolo d’Italia”, che pubblicava la notizia, e della polizia. Dal momento che il partito comunista dal 1926 era illegale, comunicare l’espulsione di un compagno equivaleva a denunciare una attività illegale svolta dal compagno dal 1926 fino alla data della espulsione, equivaleva consegnarlo disarmato nelle mani della giustizia. Nell’emigrazione si verificarono anche esempi di provocatori fascisti che, attraverso gli stalinisti, tentarono di infiltrarsi all’interno della Frazione.
Dove non bastavano le espulsioni, le denunce, le provocazioni, si passava semplicemente allo scontro fisico, ai ferimenti, per arrivare, in seguito, fino all’assassinio.
Tutto ciò però, se liberava il partito, distruggendolo, da ogni opposizione interna, non impediva all’opposizione di organizzarsi in frazione e di rafforzarsi. Da qui la necessità dell’aiuto richiesto ai partiti fratelli ed in special modo a quello russo.
Nel 1928/29 in Russia non si era ancora all’epoca delle grandi purghe ed i plotoni di esecuzione non avevano ancora cominciato a sterminare la vecchia guardia bolscevica, ciò nonostante arresto e deportazione erano già scontati per chiunque si opponesse allo stalinismo. Gli estratti di lettere di comunisti russi imprigionati sono della massima eloquenza:
«La repressione contro i bolscevichi-leninisti assume proporzioni mostruose (...) abbiamo potuto rendercene conto ancora una volta qui, nel carcere di Boutyrki: vi siamo incarcerati assieme a tutta la canaglia antisovietica, ad ogni istante assistiamo alla gioia che provano nel vederci arrestati. Per loro questa è una breccia fatta nella dittatura del proletariato, tale è la verità di classe detta dal nemico di classe (...) La repressione, gli insulti sorpassano veramente ogni limite (...) La GePeU interviene per giudicare le discussioni interne del nostro partito».
«Siamo stati arrestati da 5 settimane a causa della nostra appartenenza all’opposizione. In un primo momento fummo rinchiusi insieme nella prigione interna della GePeU senza che ci fosse fatto sapere qual’era la colpa della quale dovevamo rispondere. Abbiamo soggiornato nella stessa camera dei detenuti per delitto comune, degli agitatori e dei nepman. Le donne dell’opposizione furono messe insieme alle prostitute e alle ladre. La nostra biancheria non è cambiata e non abbiamo possibilità di lavarci noi stessi. I pidocchi ci divorano (...) La promiscuità è tale che non abbiamo posto per dormire, siamo costretti a stenderci sul cemento. I nepman e i banditi occupano i posti migliori. Gli speculatori appena giunti comprano un posto per 10 rubli (...) Durante il giorno dobbiamo subire i peggiori insulti sia dalla amministrazione delle prigioni, sia dagli elementi antisovietici della popolazione delle celle. È contro di noi che si addensa tutto l’odio di classe dei nemici del proletariato. Non solo siamo isolati dal mondo esterno, ma siamo scherniti, umiliandoci e cercando di strapparci delle deposizioni a forza di sofferenze».
«Anche sotto lo zar i detenuti politici non subivano un trattamento simile al nostro.
«Eppure accanto alle celle dove siamo rinchiusi vi sono dei menscevichi georgiani che hanno diritto ad un lavabo particolare, ad una nutrizione migliore, ai giornali e ad altri privilegi (...) Pur mantenendo gli oppositori in prigione nell’isolamento assoluto dalle loro famiglie, i giudici della GePeU hanno l’insolenza di proporre loro di rinunciare alle loro opinioni di opposizione, lasciando in questo caso intravedere la possibilità di essere liberati e reintegrati nel partito» (Prometeo n. 2/1928).
Queste erano le armi che a Togliatti mancavano e quindi era costretto
ricorrere all’aiuto del partito fratello di Russia perché “i
frazionisti
italiani venissero obbligati a sottoscrivere capitolazioni complete”.
A tanta triviale brutalità alcuni nostri compagni che si trovavano a Mosca, e che erano quindi direttamente minacciati dalla repressione, rispondevano mantenendosi nei giusti termini della correttezza rivoluzionaria che ha sempre caratterizzato la Sinistra:
«Il C.C. del PCI si lamenta di essere solo a lottare contro l’opposizione (...) e implora che almeno il PC russo abbia pietà della sua impotenza e ci tratti "senza debolezza, con il massimo rigore". Evidentemente il C.C. del PCI perdendo il contatto con le masse ha perduto di pari passo ogni senso della misura: confessa la sua impotenza e vuole il massimo rigore e pretende la capitolazione completa: ciò sarebbe comico se non si trattasse di una situazione che conduce il partito alla rovina (...) Essendo tali le disposizioni del C.C. del PCI si potrà anche trattare l’opposizione con il massimo rigore, ma non si ottiene di certo la capitolazione completa da parte dei compagni che abbiano un minimo di coscienza compatibile con l’appartenenza ad un partito politico. Noi affermiamo anche che la stessa espressione di capitolazione, almeno dal punto di vista ideologico, dovrebbe essere priva di un senso tra compagni e l’esperienza dei partiti che hanno preteso queste capitolazioni e dei compagni che hanno capitolato, non ha affatto aggiunto prestigio né a quei compagni, né a quei partiti: al contrario».
Lettera della Sinistra a Korsch del 28 ottobre 1926
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