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In questa fase storica la lotta rivoluzionaria di classe, il conflitto tra capitale e lavoro salariato, condotto secondo un piano ed una precisa finalità, ha subìto un’ecclisse di così lunga durata da far universalmente dichiarare a tutti i suoi nemici la definitiva sparizione della Rivoluzione e del Comunismo dalla scena storica.
È evidente che lo scontro tra Lavoro e Capitale non è terminato né tantomeno attenuato. Anzi, l’inarrestabile sviluppo e diffusione dei rapporti capitalistici, fino a saturare il più remoto angolo del globo, ha portato l’offensiva sociale del Capitale al più alto livello. Ma dalla parte del proletariato la risposta anche solo in difesa delle sue immediate esigenze di vita è perlopiù inadeguata. Nelle aree di capitalismo più vecchio e radicato gli schiavi salariati restano ancora miseramente aggrappati a quel poco che loro è rimasto del trascorso nauseante consumismo, al quale le generazioni che ora stanno uscendo dal lavoro furono costrette dalle necessità di smercio della sovrapproduzione nazionale. Nel resto del mondo l’umanità lavoratrice fin dall’infanzia vive in condizioni atroci di sfruttamento e sopraffazione, quelle normali nel capitalismo.
Ma ciò che fa pendere la bilancia delle forze dalla parte del capitalismo è che non esiste da più di mezzo secolo un movimento organizzato internazionale di classe, che si predisponga ad opporsi allo strapotere padronale e statale.
La forza del comunismo risiede oggi soltanto nella dottrina, nella capacità di una scuola, costruita intorno ad una ben definita teoria, di capire e spiegare la dinamica reale del capitalismo e del processo storico-politico dell’imperialismo e nell’indicare l’unica strada che l’umanità lavoratrice sola può percorrere per la sua liberazione.
Naturalmente la classe borghese, per bocca dei suoi teorici, afferma la sua verità, alla nostra contraria. Leggere secondo la dottrina e la prassi del comunismo i disumani fatti e misfatti della “fase suprema del capitalismo” che straziano l’umanità, ora che si sarebbe alla fine totalmente liberata da quella ideologia tardo ottocentesca, è un inutile esercizio che dovrebbe solo condurre a marchiani errori di prospettiva e di interpretazione.
Per nostra fortuna anche quei “teorici” di stampo radicale borghese, che fino a qualche decennio fa sconciamente civettavano col marxismo, hanno cambiato senza troppa pena giacchetta. Salvo qualche ridicola frangia di opportunisti ancora peggiori, sono spariti i partitacci opportunisti di massa che in qualche modo si richiamavano al comunismo, le cui organizzazioni si sono smascherate in quello che sono sempre state, agenzie di imbroglio pubblicitario borghese. Gli uni e gli altri vere e proprie bande funzionali all’ingranaggio statale.
Ormai la spregiudicata ideologia borghese nega qualunque forma di teoria generale della storia – non solo il materialismo dialettico marxista – e il “pensiero debole”, summa teologica della fase putrescente del capitalismo, pretende di interpretare il presente e prevedere il futuro solo tramite “l’analisi”. Gli “analisti” sono diventati i nuovi teorici della storia che, al servizio degli onnipossenti mezzi di diffusione, spezzano per le masse il pane della verità. Le loro patenti forzature della realtà, i loro raggiri sono il cemento che lega il mondo borghese ai suoi miti, di Guerra per la Pace, di sempiterno aumento della produzione per il Benessere universale di quelle stesse masse “privilegiate” che sono messe in falsa contrapposizione con i meno fortunati proletari del resto del mondo.
Storicamente questo processo di abbandono da parte del capitalismo dei suoi antichi capisaldi teorici è andato di pari passo con la sua tumultuosa estensione determinatasi nella forma finale di imperialismo.
Punto di svolta possiamo indicarlo in concomitanza col quel potente fatto storico che è stato il collasso e la disgregazione del cosiddetto “impero del male”, l’altro colosso imperialistico che sotto le false spoglie del “comunismo” ha conteso per tutto il secondo trascorso mezzo secolo il controllo del mondo.
La coscienza che i borghesi hanno del momento storico si espresse allora in nuove teorie, più lontane ancora dalle realtà delle precedenti. Risistemate finalmente dopo tanto sconquasso le questioni territoriali e riorganizzate le aree di influenza, si disse, sarebbero dovuti sparire i più aspri motivi del contendere tra gli Stati. Con l’esclusione di alcune torpide piaghe in eredità dalla Seconda Guerra mondiale, la questione palestinese per citarne una, tutte però in via di risoluzione con qualche deciso intervento paramilitare o con i buoni uffici della diplomazia, il futuro non avrebbe potuto essere più promettente, per la pace ed il benessere dei popoli.
L’atroce fase coloniale, con tutti i suoi strascichi di sistemazioni nazionali si era già chiusa. Le frizioni asiatiche, Corea prima con la sua guerra, Vietnam poi, apparivano in equilibrio e già stabilizzate. Le “eccezioni”, Cuba e Corea del Nord, apparivano solo residui pronti a crollare, “gestibili” dal “consesso internazionale” con bastone e carota.
Nell’oriente estremo la Cina – un “comunismo alla margarina”, secondo la beffarda definizione di Stalin – appariva ancora troppo arretrata e fuori dai circuiti finanziari per prospettarsi come nuovo avversario. Il colosso indiano era di là da venire e visto come un’interessante opportunità di smercio futuro più che un potenziale avversario.
Anche in Europa, con il crollo della Cortina di Ferro, la riunificazione sotto l’egida dell’Occidente delle due Germanie e il lento ma costante spostamento degli ex satelliti dell’Impero russo, promettevano una stabilizzazione rassicurante per la nuova Pax americana. L’unico problema poteva essere costituito dal destino economico e politico della Russia, il cuore dell’ex Impero mentre le ex repubbliche asiatiche potevano essere prede da portare nell’orbita della medesima Pax.
Per dirla con i filosofi borghesi, finite le ideologie, quasi finiti i conflitti tra gli Stati, finita la Storia... Se pur rimanevano aree di frizione, guerricciole ad hoc, ridotte ma decise, potevano tenerle sotto controllo. Brillante esempio di questa “strategia globale” la guerra Iran-Iraq, per dissanguare le classi inferiori dei due paesi, che minacciavano la stabilità nell’area dopo che, per una sciagurata disattenzione, il gendarme del Golfo aveva dovuto abbandonare, in seguito ad un’imprevista sollevazione popolare.
Nei fatti anche questa “eterna”, presunta, pace del capitalismo camminava su un lastricato di scontri tra fazioni, micidiali guerre locali e scontri ora torpidi ora accesi. Arginati con l’intervento di coalizioni militari – sempre sotto la stretta egida Usa – i cui Stati membri erano più o meno convinti dell’opportunità di partecipazione. Ma tutto era condotto su un piano ben delimitato, senza che si arrivasse a dichiarare, secondo il cosiddetto “diritto internazionale”, lo stato di belligeranza. Su questa falsariga gli interventi “umanitari”, condotti impunemente sotto l’egida internazionale, con il pretesto di riportare l’ordine e la legalità.
È esemplare per le guerre seguenti la conduzione dell’intervento per lo smembramento della Federazione iugoslava, sul come suscitare lo scontro aizzando i massacri fra opportune milizie locali, per poi, con comodo, intervenire picchiando senza freni su una parte, lasciando all’imbelle diplomazia post guerra il compito di risanare ferite non sanabili pel tramite dei “tribunali internazionali” che dovrebbero punire i vinti.
Questo intervento è stato solo indiretto nella guerra Iran-Iraq o nella mai dichiarata guerra che si fa combattere allo Stato di Israele entro i suoi confini allargati, guerra che in varie forme ha trascorso tutto l’arco della seconda metà del secolo scorso.
A considerare questa fase storicamente breve dopo il crollo della Urss, la falsa coscienza borghese vi ha intravvisto il nuovo realizzarsi della teoria, già morta negli orrori del Novecento, del superimperialismo di sciagurata memoria. Nel quadro di conflitti locali o marginali, lo Stato militarmente e finanziariamente più forte, l’Impero, domina con la sua presenza, i suoi capitali e le sue armate sul recalcitrante resto del mondo che altro non può fare se non accettarne le volontà. Eliminato così il pericolo di un ulteriore conflitto mondiale.
Corollario sottaciuto a questa tesi – ma anche condizione necessaria – è che la rivoluzione sociale, quale divampò nel primo corso del passato secolo, sia evento non più ripresentabile, tanto sparito dalle eventualità storiche quanto estirpato dai cuori e dalle menti del proletariato mondiale. Operazione questa nella quale si sono distinti con zelo straordinario gli opportunisti che hanno usurpato nel passato il nome di comunisti, in buona compagnia con tutto il resto degli ideologi borghesi.
Questa condizione inusuale, nella quale guerre e conflitti non hanno più la caratterizzazione bipolare, come nel passato, non era e non è stabile e non corrisponde ad un ciclo ben preciso della dinamica imperialista. Se ancora non si sono definiti in modo chiaro i futuri fronti contrapposti e per ora si individuano soltanto possibili linee di tendenza, l’anomalia del superimperialismo è soltanto apparente, ed è solo questione di tempo – sicuramente non lungo – il loro strutturarsi.
Però con una tragica conseguenza per l’umanità: questa volta, a differenza del lungo periodo “bipolare” dopo la Seconda Guerra mondiale, se non ci sarà la Rivoluzione sociale nelle metropoli, vecchie e nuove, del capitalismo a sbarrarne la strada, le contrapposizioni in armi saranno l’anticamera della Terza Guerra mondiale.
Nell’attesa che il processo storico arrivi a quel risultato – evidentemente la volontà di trovarsi sempre e comunque un avversario è nel Dna dell’imperialismo – il mondo borghese occidentale si è inventato un fantomatico e sfuggente antagonista, cui ha dato il truculento nome di “terrorismo internazionale” popolato di capi e gregari che paiono non esaurirsi mai, di risorse militari e finanziarie inusitate, al quale sono però associati compagini statali reali, secondo la lista stilata e aggiornata di volta in volta dal presidente USA di turno; nella quale è concesso entrare ed uscire, all’insindacabile giudizio degli stesori e per le variabili necessità del momento.
Questi Stati sono dichiarati sotto costante minaccia di sanzioni, di interventi militari più o meno limitati, se non addirittura guerre aperte. E così il cerchio della cosiddetta “lotta al terrorismo” alla fine si salda alla pressione imperiale nelle aree di maggior importanza strategica, non semplicemente contro specifici movimenti, ma contro organizzazioni statali. Come sottoprodotto ben gradito ottiene anche la costruzione e la messa in esercizio di un occhiuto apparato di controllo e repressione degno del Grande Fratello, ai fini di controllo e mantenimento sociale; questo nazionale e interno.
La denominazione con cui è stata definita militarmente la situazione ne riflette l’apparente paradosso: “guerra asimmetrica”, ad indicare che è condotta con mezzi convenzionali da una sola delle due parti, perché l’altro contendente è un fantasma localizzato genericamente nell’area – quanto vasta! – di religione islamica, che mirerebbe alla destabilizzazione del mondo occidentale democratico, come in una sorta di “super-anticolonialismo”.
In realtà il terrorismo come debole o, alle volte, sul piano di classe, impotente surrogato alla lotta politica, è una tecnica militare da sempre. È stato impiegato nelle lotte di emancipazione dal giogo coloniale, talvolta alimentato da altri imperialismi che miravano alla destabilizzazione della potenza coloniale e non certo all’interesse della nazionalità oppressa. Dopo la Seconda Guerra mondiale questo strumento è stato abbondantemente usato contro il protettorato inglese sulla Palestina ad opera del clandestino movimento militare sionista Irgun, nato da una scissione del movimento Hagana, liquidato dopo la formazione dello Stato di Israele. Nell’Algeria francese la lotta di liberazione nazionale nacque con questo carattere.
Ma fantasticare di una “internazionale” del terrorismo, fuori e contro gli schemi nazionali o statali, come si va facendo per questa straordinaria milizia transnazionale “islamica”, dalla quale l’Occidente capitalistico si dovrebbe difendere con ogni mezzo e che rappresenterebbe oggi il maggior pericolo per lo sviluppo della democrazia nel mondo, ormai liquidato definitivamente l’insano e pericoloso sogno del comunismo, è pura demagogia per nascondere i formidabili interessi e il lavorio dei capitalismi imperialistici nell’area strategica del petrolio e del gas; ed è un inganno perpetrato ai danni del proletariato di tutti i paesi, prima di tutto quelli cosiddetti islamici.
L’unica Internazionale della quale la storia consente la costituzione, in opposizione alla Internazionale del Capitale, è quella comunista della classe operaia, che è gloriosamente stata e che sarà di nuovo domani.
Il capitalismo imperialistico, meglio, gli imperialismi, non esprimono chiaramente i propri scopi, finalità e strumenti. Nell’iridescente mondo delle idee mistificano la loro smisurata e belluina voglia di sopraffare con il ricorso alla democrazia, al benessere, alla pace minacciata da difendere, mentre si preparano agli scontri più cruenti. Ma, in una certa misura, sono prigionieri della loro ideologia, quella che hanno diffuso e istillata nei loro schiavi.
Dalla parte dell’umanità lavoratrice sta soltanto la forza teorica
e la prassi del comunismo, solo in questa lotta finale sta il futuro.
Intermezzo sulle rivoluzioni americane
Riteniamo utile intercalare qui uno scritto di mezzo secolo fa che,
oltre a confermare i giudizi presentati nel lavoro odierno, esemplifica
l’uso del nostro metodo, che non si rappresenta la storia in modo
meccanico,
come una successione di eventi nei quali sottostruttura economica e
potere
politico di classe viaggiano sempre in parallelo e concordi, ma come
una
complessa dialettica fra i due piani, le cui determinazioni possono
talvolta
apparire invertite, e che ritrovano la loro necessità nelle leggi
dell’economia
nel lungo periodo e su estese aree geopolitiche.
Da: La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea, Resoconto interfederale di Torino, Seduta III, in “Il Programma Comunista”, 1956/14.
«Rivoluzione Americana antischiavista
«Sotto altri riflessi abbiamo avuto a parlare della rivoluzione nazionale americana della fine del secolo XVIII. Marx poneva un parallelo tra questa guerra di indipendenza che chiamò segnale della rivoluzione francese-europea a cavallo dei due secoli, e la guerra di secessione tra Stati del Nord e del Sud, da cui attendeva altro segnale ad un movimento sociale proletario dell’Europa, che con le guerre nazionali di quegli anni 1866-71 non si scatenò.
«La guerra di liberazione dagli inglesi dei coloni della Nuova Inghilterra fu una guerra di indipendenza, ma non si può nemmeno dire propriamente una guerra-rivoluzione nazionale come quelle europee di Italia, Germania, ecc. Mancava l’elemento di razza poiché i coloni erano di nazionalità mista, e prevalentemente identica a quella dello Stato metropolitano, e soprattutto fattori economici e commerciali li sollevarono all’emancipazione politica.
«Tanto meno una tale guerra può dirsi una rivoluzione borghese, in quanto in America il capitalismo non sorgeva da locali forme feudali o dinastiche, non eranvi aristocrazia e vero clero, e d’altra parte l’Inghilterra contro cui si insorse era compiutamente borghese dal XVI-XVII secolo e aveva abbattuto il feudalismo radicalmente da allora.
«La teoria della lotta tra le classi, e quella della serie storica dei modi di produzione percorsa analogamente da tutte le società umane, non vanno mai intese come banali e formali simmetrie e la loro applicazione non può farsi senza un engelsiano allenamento al maneggio della dialettica.
«Sempre a proposito dell’indipendenza nordamericana la scuola marxista notò ripetutamente come la Francia ancora feudale di prima del 1789 simpatizzò in forme positive con gli insorti, contro la capitalista Inghilterra; la quale doveva poi ripagarsi nelle coalizioni antirivoluzionarie, e infine vincendo a Waterloo con la Santa Alleanza feudale.
«Nell’esempio della guerra civile del 1861-65 non sono in gioco fattori di libertà nazionale e nemmeno in fondo un fattore razziale. Gli Stati del Nord combattevano per abolire la schiavitù dei negri diffusa e difesa nel Sud, ma non si trattò di una ribellione dei negri, che di massima combatterono nelle formazioni sudiste a fianco dei loro padroni. Non si trattò di una rivoluzione di schiavi per abolire il modo schiavista di produzione, a cui succedessero la forma aristocratica e il servaggio nelle campagne, il libero artigianato nelle città. Nulla di paragonabile al grande trapasso storico tra questi due modi di produzione, che si ebbe alla caduta dell’Impero Romano e con l’avvento del cristianesimo e le invasioni barbariche, tutti fattori conducenti all’abolizione, nel diritto, della proprietà sulla persona umana.
«In America la borghesia industriale del Nord condusse una guerra sociale e rivoluzionaria non per conquistare il potere a danno dell’aristocrazia feudale, che non era in America mai esistita, ma per provvedere ad un trapasso nelle forme di produzione assai ritardato rispetto a quello con cui storicamente nasce la società borghese: la sostituzione della produzione a mezzo di manodopera schiava con quella a mezzo di salariati, o di artigiani e contadini liberi, mentre le borghesie europee avevano dovuto lottare solo per eliminare la forma del servaggio della gleba, molto più moderna e meno arretrata della schiavitù.
«Ciò prova che una classe non è “predestinata” ad un solo compito di trapasso tra forme sociali. La borghesia americana non dovette dedicarsi ad abolire i privilegi feudali ed il servaggio, ma tornare indietro e liberare la società dallo schiavismo.
«Vi è in questo esempio l’analogia col compito della classe proletaria russa, che non fu il passaggio dalla forma capitalista a quella socialista, ma il precedente rigurgito storico del salto dal dispotismo feudale al capitalismo mercantile; senza che ciò menomamente urti la dottrina della lotta di classe tra salariati e capitalisti, e della successione della forma socialista a quella capitalista, ad opera della classe salariata moderna.
«I terrieri del Sud furono battuti nella rivoluzione 1865 dalla borghesia industriale, sebbene più indietro nella storia dei nobili feudali in quanto padroni di schiavi, e sebbene più avanti di essi in quanto già esisteva una trama sociale mercantile. La borghesia nordista non esitò ad assumersi un compito rigurgitato, ed assolto altrove da ben altre classi; dai cavalieri feudali e germanici, o dagli apostoli di Giudea: liberare gli schiavi.
«Può obiettarsi che tale lavoro di pulizia storica non lasciò al capitalismo del Nord altri compiti di rivoluzione. Ma se il Sud avesse vinto nella guerra civile, come ve ne fu una certa probabilità, da una parte il compito sarebbe rimasto per l’avvenire, dall’altra ben diverso sarebbe stato il prorompere del capitalismo d’America lanciato al primo posto nel mondo».
La classe operaia e la Guerra d’Indipendenza
Non è oggetto di questa trattazione la descrizione della Guerra
d’Indipendenza
delle tredici Colonie che poi si unirono negli Stati Uniti d’America,
guerra che gli americani chiamano “Rivoluzione”; in realtà si trattò
di una guerra civile che rivoluzionò ben poco nel sistema produttivo,
al di là del ridistribuire i profitti che prima spettavano alla Corona
alla collettività dei più ricchi borghesi americani. Vale però la pena
di accennare ai tratti distintivi di un evento che mutò lo scenario
politico,
e che quindi influenzò nei decenni successivi anche le caratteristiche
del movimento operaio nordamericano.
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La borghesia urbana, ormai definibile autoctona, era sempre meno disposta a vedersi mutilare la possibilità d’espansione del mercato interno dal colonialismo britannico, che imponeva il monopolio sui commerci, obbligando l’acquisto delle proprie merci ed ostacolando lo sviluppo della manifattura per evitare che entrasse in concorrenza con la propria (alcune attività produttive erano espressamente vietate, come la fabbricazione di cappelli). Le merci americane potevano essere esportate solo verso l’Inghilterra, solo su navi inglesi, e solo da porti inglesi potevano provenire merci, inglesi o d’altra origine. Dal 1763 furono proibiti insediamenti ad ovest degli Appalachi (cosa che fece infuriare i piantatori del Sud), e al 1764 risale il divieto di battere moneta o fondare banche locali (il che fece salire la pressione ai mercanti del Nord).
Ovviamente queste limitazioni all’economia locale si ripercuotevano anche sul proletariato, con paghe basse e frequenti esplosioni di disoccupazione. Negli anni successivi la Corona, dopo la vittoria riportata sulla Francia nella guerra per la supremazia in Nord America, per ripianare gli enormi debiti contratti, non mancò di imporre una varietà di tasse che colpivano un po’ tutti. In tal modo gli inglesi riuscirono ad unire le diverse classi nel loro risentimento verso la madrepatria, con l’eccezione ovvia dell’aristocrazia coloniale, che aveva più timore del popolo che delle tasse.
Da qui i continui attriti che portarono alla fine a opporre le Colonie alla madrepatria. Non vi era in America necessità di rivolgimenti economici e sociali per sbloccare un nuovo modo di produzione; vi era solo la necessità per la borghesia inglese di soffocare sul nascere qualsiasi concorrenza sul piano della produzione industriale e dei commerci. La contrapposizione era tra due borghesie ma, ovviamente, non si poteva essere certi di controllare l’esito di una ribellione di vasta portata, una volta iniziata. Ma, da un punto di vista sociale, non vi erano le condizioni che giustificassero contrasti gravi tra le classi: è dimostrato che il voto era piuttosto esteso tra la popolazione delle Colonie anche prima della guerra, anche se non tra gli operai, come pure la piccola proprietà della terra. Né vi erano situazioni di conflitto sociale di qualche rilievo, con la sola eccezione forse della Pennsylvania. Gli operai quasi ovunque costituivano una percentuale talmente bassa della popolazione che una rivoluzione proletaria era impensabile; nelle campagne poi un bracciantato agricolo era praticamente inesistente, se si escludono gli schiavi nel Sud. La borghesia d’altra parte la sua rivoluzione l’aveva già fatta, nel secolo precedente, in Inghilterra.
Il cittadino-soldato che costituì la base dell’esercito continentale era un contadino, e infatti più del 90% dei coloniali viveva della terra all’epoca della guerra; ma di fatto il futuro era prefigurato nelle città. Come centri commerciali, i porti del Nord e del Sud vantavano una struttura sociale molto più variegata di quella delle campagne, e avevano sviluppato, in particolare, strati di lavoratori liberi e di lavoratori impoveriti, che spesso si sovrapponevano e s’identificavano. Su 100 lavoratori maschi di una tipica grande città portuale, 15 erano in qualche modo coatti (schiavi o servi), 25 erano marinai, 40 artigiani; altri 5 vivevano di mestieri vari quali mercanti, negozianti, funzionari, professionisti. Poi c’erano le donne, che nelle città lavoravano già in gran numero fuori di casa, in attività di basso livello e mal pagate. Tutti erano in genere pagati in moneta contante. Il quadro delle città però era completato, oltre che da altre attività e dalle classi ricche, da un gran numero di persone che vivevano nel bisogno e che non lavoravano: vagabondi, mendicanti, schiavi e servi fuggiti che si dovevano nascondere, vedove e orfani, oltre a ladri e prostitute, costituivano un buon terzo della popolazione urbana.
Gli artigiani, la componente più importante del popolo cittadino, spesso istruiti, e orgogliosi del loro lavoro e della loro posizione sociale, non accolsero con piacere i tentativi fatti dalla Corona per regolare l’economia coloniale, che s’intensificarono dopo la fine della guerra Franco-Indiana (1763); misure che provocarono una forte depressione nelle città nei primi anni ’70. La loro opposizione alla madrepatria fu condivisa dai marinai, dai portuali, e da tutte le professioni legate al mare e alla cantieristica. Questi lavoratori sempre più spesso si trovavano ad oziare nelle taverne dei porti, mentre le navi americane, vuote, marcivano ai moli.
Furono quindi i lavoratori dei centri urbani ad essere i più attivi nei disordini del periodo rivoluzionario. I marinai in particolare, pieni di risentimento verso la Corona a causa del trattamento inumano che ricevevano dalla Marina Reale, dopo essere stati nella gran parte dei casi reclutati con una botta in testa, costituivano una forza sovversiva multietnica e multirazziale che collegava tutto il fronte atlantico. Gli operai spesso dovevano sopportare la concorrenza dei soldati che lavoravano a tempo perso, e tra l’altro fu proprio questa la ragione del primo scontro sanguinoso, il cosiddetto “massacro di Boston”. Altre volte erano costretti a lavorare ad opere militari per salari di fame. Probabilmente tra gli operai era diffusa la credenza che avrebbero beneficiato dalla riduzione delle importazioni connessa alla crisi con la madrepatria: ci sarebbe stato più lavoro, previsione che in effetti si verificò.
Di fatto, le aggregazioni che ebbero un ruolo determinante nello spingere alla rivolta gli strati indecisi della borghesia, i “Sons of Liberty”, erano corpi interclassisti, composti di artigiani, operai specializzati, commercianti, professionisti; in qualche caso ne facevano parte anche piccoli contadini. Come al solito, erano gli intellettuali borghesi a guidarli, ma spesso costoro erano solo i portavoce degli umori delle classi più basse, e in ogni caso sapevano bene che di tutte le componenti della ribellione erano gli operai i più affidabili. Questi radicali, soprattutto a Boston, si collegarono agli artigiani e agli operai attraverso una rete di taverne, società artigiane e di mutuo soccorso, propagandando una visione politica che dava spazio alle opinioni delle classi più povere e prevedeva come legittima la partecipazione d’artigiani e operai all’attività politica. Gli strati medio-alti della borghesia cittadina, e naturalmente i proprietari terrieri, erano invece ben lontani dall’essere convinti della necessità della lotta, e furono sempre dei soci infidi, sempre divisi tra i due campi in lotta. Vale la pena di ricordare che furono attive anche le donne, con probabilmente il primo corpo di ausiliarie della storia, le “Daughters of Liberty”.
Gruppi di sostegno ai “Sons of Liberty” sorsero in Irlanda e in Inghilterra, tra gli operai; i quali invitarono i ribelli a perseverare nel boicottaggio delle merci inglesi, anche se da ciò poteva risultare una maggiore disoccupazione in Inghilterra.
Nel corso della prima metà degli anni ’70 operai e artigiani, approfittando della debolezza e dell’indecisione della borghesia, conquistarono posizioni di forza sino a quel momento impensabili per i loro ceti: in città come New York, Philadelphia e Charleston ebbero i loro rappresentanti che, alla pari con i borghesi e i piantatori, partecipavano agli organi politici che via via riempivano i vuoti di potere lasciati dagli inglesi. In forme diverse il fenomeno si estese a tutte le Colonie. A Boston operai, artigiani e contadini nel 1768 formarono un’alleanza per poter controllare il Comune. I mercanti della città lamentavano che «In queste riunioni i più vili operai discutono delle questioni più importanti del governo con la massima libertà». Anche a Philadelphia i “mechaniks”, come venivano chiamati i lavoratori manuali, riuscirono a dare forma alla loro forza e nel 1770 tennero la loro prima riunione politica specificamente riservata agli appartenenti alla loro classe. Nel 1772 avevano organizzato un loro partito, la “Patriotic Society”, per promuovere i loro candidati e i loro programmi. A metà 1776 i “mechanicks” controllavano la città.
Dopo il “massacro di Boston”, nel quale i 5 morti ammazzati dai soldati inglesi erano due marinai, un operaio, un apprendista e un artigiano (emblematicamente sembra che fosse il marinaio di colore, mezzo negro e mezzo indiano, Crispus Attucks, a guidare i rivoltosi disarmati), nelle società artigiane/operaie la parola d’ordine fu quella di armarsi in vista dell’inevitabile conflitto. Questo significò la formazione di una milizia (i famosi “Minute Men”), la raccolta d’armi e munizioni, l’addestramento militare e, nelle città dove erano di stanza truppe inglesi, la creazione di un capillare sistema spionistico.
La prima battaglia, a Lexington/Concord, 1775, fu vinta proprio grazie alla tempestiva mobilitazione dei “Minute Men” in seguito a informazioni delle spie sui movimenti dell’esercito. Subito dopo la stessa New York, in seguito alla notizia della battaglia vittoriosa, fu presa dagli insorti, e lo stesso avvenne in numerose città del Centro-Sud. Ogni volta erano i “Sons of Liberty” a fare tutto, mentre i borghesi tentennavano e tendevano a presentare la ribellione come una richiesta, armi alla mano, di riparazione di torti subiti. Fu la componente operaia della ribellione a sostenere i capi più radicali (Samuel Adams, Thomas Paine, Christopher Gadsden) e a farli pronunciare con decisione per l’indipendenza. Paine si convinse che non era possibile allo stesso tempo restare fedeli a Giorgio III e restare liberi; l’indipendenza avrebbe generato una forma democratica di governo e creato in America “un rifugio per l’umanità” e “un porto sicuro per i popoli oppressi del mondo”: “Noi abbiamo la possibilità di rifare il mondo daccapo”.
Nonostante le resistenze dei borghesi conservatori, che non volevano che la lotta sfociasse nell’indipendenza, il Comitato operaio e artigiano di New York pretese che i suoi delegati al Congresso Continentale votassero per l’indipendenza; Thomas Jefferson stese la bozza della storica Dichiarazione in casa di un muratore, certo Graaf. Il Congresso riunito a Philadelphia però tardava a prendere posizione nei confronti dell’indipendenza; esitazione che non dipendeva da residui scrupoli lealisti, ma piuttosto dalle masse popolari armate, che avevano iniziato a somministrare sonore batoste alle truppe inglesi. Cosa sarebbe subentrato al dispotismo britannico? Avrebbero i ricchi mercanti che sedevano al Congresso continuato ad arricchirsi, o si sarebbe dato spazio all’anarchia e al dispotismo dei ceti più bassi? Di fatto le masse del Massachusetts avevano creato un esercito, e si chiedeva al Congresso di adottarlo. Sì, ma chi l’avrebbe guidato? La soluzione venne dalla nomina di uno schiavista del Sud, George Washington, uomo di minima preparazione militare, ma che riuscì a tranquillizzare latifondisti, schiavisti e ricchi mercanti circa i pericoli di una rivoluzione sociale e di un assalto alle loro proprietà.
Con l’estendersi della guerra la mobilitazione si estese sempre più alle campagne e la presa delle classi abbienti sul movimento fatalmente aumentò. La classe operaia e gli artigiani erano forti nelle città, ma a scala dell’intero paese costituivano una piccola minoranza, che non poteva non perdere di peso politico. Ma la loro decisione nelle fasi iniziali fu fondamentale nel dirigere la “Rivoluzione” verso l’indipendenza.
Gli operai si arruolarono di buon grado nell’esercito continentale, nel quale costituirono la classe più rappresentata; ai servi a contratto fu promessa la libertà, anche se ciò causò qualche dissapore tra i padroni e le autorità militari, dissapori presto ricomposti con il compenso ai padroni per il tempo di lavoro non utilizzato. Per i negri queste possibilità non esistevano: solo nel Nord i negri liberi furono accettati nell’esercito, pur se con qualche esitazione, ed in genere si fecero molto onore. Molte Colonie del Sud invece ne vietarono l’arruolamento.
Gli inglesi però non esitarono a sfruttare questo punto debole delle Colonie, soprattutto di quelle del Centro e del Sud. Nel novembre del 1775 Lord Dunmore, Governatore della Virginia, concesse ufficialmente la libertà agli schiavi e servi dei ribelli che si fossero messi a disposizione dell’esercito inglese. Naturalmente non si trattava certo di una mossa progressista, se non altro perché i padroni lealisti erano al sicuro dalla fuga degli schiavi, prospettiva che invece spaventò a morte i ribelli, che ribattezzarono Giorgio III “Re dei negri”. Ma bastava che un proprietario si dichiarasse dalla parte del Re per riuscire a recuperare gli schiavi scappati.
Nonostante questo, nonostante l’ignoranza e l’isolamento della gran massa degli schiavi, nei pochi anni della guerra le fughe si moltiplicarono, e a decine di migliaia uomini in condizioni di imbracciare un fucile, ma anche donne e bambini, si presentarono presso gli acquartieramenti dell’esercito di Sua Maestà Britannica (si calcola siano stati almeno 100.000, su un numero di 567.000 negri, schiavi e non, esistenti nelle Colonie alla vigilia della guerra): un vero e proprio esodo, che arrivò a costituire un problema. Questi in realtà erano solo una piccola parte degli schiavi che avevano abbandonato le piantagioni; gli altri erano morti nel tentativo, o erano stati riacciuffati dalle milizie dei ribelli. Non molti furono messi a morte, perché si trattava sempre di mercanzia di valore.
Di quelli che raggiunsero gli inglesi, molti morirono di stenti, soprattutto di malattie favorite dalle condizioni terribili nelle quali erano tenuti. Quando l’esercito inglese abbandonò la Baia del Chesapeake solo 300 dei 2.000 negri che erano stati accolti erano ancora vivi e poterono partire. Gli inglesi d’altronde li trattavano peggio dei vecchi padroni, visto che non ne temevano la morte: lavoro durissimo e in condizioni che i bianchi non avrebbero sopportato, scarso cibo, condizioni di vita pessime. Solo pochi ricevettero un’arma per combattere, cosa che fecero egregiamente. Cosa fossero i negri per gli inglesi appare chiaro dal loro comportamento durante l’assedio di Yorktown, nel 1781. Lì tra 4.000 e 5.000 schiavi diedero il loro sostegno a Cornwallis nella speranza di guadagnarsi la libertà. L’assedio significò gravi problemi di sostentamento alimentare; invece di suddividere le razioni tra tutti, agli schiavi fu dato cibo andato a male, carne putrida e biscotti con i vermi. Quando anche quelli furono esauriti, la scelta fu di espellere i negri verso la terra di nessuno, tra le barricate inglesi e i ribelli. Che sarebbe stato di loro una volta raggiunti dai ribelli? Il problema in realtà non si pose quasi mai, perché la gran parte di quei disgraziati morì di fame e di malattia trascinandosi tra due eserciti che facevano a gara a tenerli alla larga. Così gli schiavi negri nel corso della grande “Rivoluzione”, combattuta per la libertà e per tanti altri principi di quelli che riempiono i libri di scuola, poterono solo intendere che quella libertà non era stata programmata per loro.
A parte un certo numero di patrioti convinti, la borghesia grassa non diede molto alla guerra, preoccupata di rischiare il meno possibile e di essere sicura di trovarsi alla fine dalla parte del vincitore: anzi, secondo il loro costume, commercianti e industriali trovarono il modo di fare affari d’oro, sollevando le ire dello stesso Washington, che li chiamò “assassini della causa”.
I calcoli delle forze sui due fronti variano abbastanza: secondo un calcolo attendibile un quinto dei coloni fu attivamente contro i patrioti. John Adams aveva invece valutato che la popolazione fosse divisa in tre terzi: uno a favore, uno contro, uno neutrale. I capi rivoluzionari battezzarono questi loro concittadini col nome di “Tories”, per sottolineare le loro origini aristocratiche e per dar quindi alla guerra per l’indipendenza un’apparenza più simile a quella di sollevazione popolare. Ma il lealismo, in genere, non derivava tanto da interessi di classe quanto da considerazioni sociali più complesse, e spesso chi faceva parte di una minoranza restava fedele alla Gran Bretagna. Così nel New England, ad esempio, gli anglicani, vittime di discriminazioni da parte dei congregazionalisti, rimasero vicini alla Corona, mentre a New York e in Pennsylvania furono soprattutto le minoranze etniche, minacciate dalla rigidità della cultura protestante di derivazione inglese, a difendere il governo di Londra. Lo schieramento politico rifletteva anche tensioni più vaste createsi all’interno della struttura sociale. Nella colonia di New York i fittavoli contrastavano l’idea rivoluzionaria in quanto i loro padroni, proprietari terrieri latifondisti e aristocratici, si erano schierati con i ribelli. Analogamente i contadini della zona occidentale della Carolina del Nord, che erano delusi dal comportamento dei responsabili di quella Colonia, e che si erano ribellati nel decennio precedente, per protesta si schierarono su posizioni lealiste. Anche al Sud non mancarono piantatori intruppati a difesa della “libertà” mentre i loro schiavi, nei rari casi in cui potevano scegliere, presero le parti degli inglesi.
Restare neutrali fu sempre più difficile in quella che era divenuta una guerra civile, e molti furono costretti a scegliere e a combattere. In effetti, le forze in campo furono quasi sempre equilibrate: Washington in ogni modo non dispose mai di più di 20.000 soldati, numero che in certi momenti scese ad un minimo di 5.000. Entrambi gli schieramenti utilizzarono gli indiani, che però tendevano a sostenere più gli inglesi che gli americani, e a ragione. I ribelli dovettero reprimere i lealisti con ogni mezzo, in barba a quella “libertà” che pretendevano di difendere (ironicamente furono proprio i “Sons of Liberty” a distinguersi nella repressione): chi non era con la rivoluzione era un traditore, passibile d’angherie, sequestri, deportazione, imprigionamento, mentre lo stesso crimine non era contemplato dagli inglesi, che invece da un punto di vista legale avrebbero avuto qualche ragione, visto che si trattava di sudditi che si ribellavano. L’indipendenza ad un gran numero d’americani fu quindi imposta: a centinaia di migliaia se n’andarono in Inghilterra, o in Canada a formare la componente anglofona di quel paese, dopo la fine della guerra.
In una situazione d’equilibrio il vantaggio dell’esercito continentale fu che riusciva con facilità a rimpiazzare i caduti e i disertori, e il fatto che poteva utilizzare anche una guerra per bande; gli inglesi invece rimpiazzavano con difficoltà i vuoti nell’esercito, e a costi altissimi, vista la distanza dalla madrepatria. La vittoria fu solo in piccola parte merito dei patrioti, per quanto devoti alla causa fossero; l’esercito continentale rischiò più volte di essere annientato, e continuò ad esistere solo grazie agli aiuti massicci di Francia e Spagna, che vedevano nella guerra un modo comodo di dissanguare l’antico nemico. Furono gli aiuti francesi in armi e rifornimenti che permisero la vittoria di Saratoga (1777), per non parlare della vittoria di Yorktown (1781), nella quale un ruolo determinante fu svolto da truppe di terra e dal blocco navale che permise la capitolazione delle truppe di Cornwallis.
Pur se si trattava di una società prevalentemente composta di piccoli e piccolissimi borghesi, il grosso degli eserciti era formato da proletari, e furono loro a versare il sangue prezzo dell’indipendenza. Quando in Connecticut fu emanata una legge per la coscrizione obbligatoria di tutti i maschi dai sedici ai sessanta anni, ne furono esclusi funzionari, preti, studenti e professori di Yale, negri, indiani e mulatti. Ma ne poteva essere esentato chi trovava un sostituto o pagava 5 sterline. L’America “rivoluzionaria” non esitò nemmeno a ripristinare la pratica dell’arruolamento forzato per il quale si era tanto odiata l’Inghilterra.
La guerra riuscì a soffocare i conflitti di classe solo per poco. Ben presto si verificò un inevitabile e generale aumento dei prezzi (a Philadelphia in un mese i prezzi aumentarono del 45%), e i proletari vedevano con rabbia che coloro che si erano fatti sostituire a pagamento nella guerra se ne infischiavano delle leggi che fissavano i prezzi delle merci, mentre approfittavano del blocco dei salari. Vi furono petizioni, assembramenti di masse minacciose, disordini. Nella stessa Philadelphia nel 1779 i marinai entrarono in sciopero per aumenti salariali, e furono impiegate le truppe per stroncare la lotta e mettere in carcere gli scioperanti. Non era una novità: già nel 1777 la milizia era stata impiegata per reprimere i moti dei fittavoli della Valle dell’Hudson (New York), che credevano che l’indipendenza avrebbe significato l’appropriazione delle terre dei latifondisti assenteisti: questi, pur se aristocratici, in molti casi avevano saputo barcamenarsi nella temperie politica schierandosi alla fine con i ribelli. E le terre dei lealisti se le presero gli affaristi “patrioti”. Nel 1781 si ammutinò addirittura un grosso reparto militare che, dopo aver disperso gli ufficiali, uccidendone uno, marciò su Philadelphia dove era riunito il Continental Congress, cioè la sede del potere rivoluzionario. La crisi fu risolta grazie alla cautela di Washington, che fece arrivare le paghe arretrate.
Comunque la Rivoluzione non fu priva di conseguenze sociali, molte migliorative per il proletario; l’enunciazione dei principi di libertà individuale e di eguaglianza, anche se con limiti oggettivi, aveva chiare implicazioni per la futura condizione di servi e schiavi. Il servaggio dei bianchi era già in declino, a causa della difficoltà di mantenerne il flusso costante in arrivo, difficoltà che crescevano tutte le volte che in Europa vi erano guerre.
La schiavitù fu abolita nel New England negli anni successivi alla guerra, e proibita nei territori a nord del fiume Ohio; nelle Colonie centrali scomparve più gradualmente, ma agli inizi del secolo XIX vi erano ormai rimasti ben pochi schiavi. Naturalmente la “peculiare istituzione” rimase ben salda nel Sud, dove d’altronde era la massa degli schiavi; ma vi era la sensazione che si trattasse di un’anomalia che sarebbe presto stata sanata.
La vendita delle grandi proprietà dei lealisti non rappresentò, come ci si sarebbe potuti aspettare, una riforma agraria: al contrario, essa fu distribuita tra i magnati che erano a capo del nuovo Stato federale, che, oltre ad arricchirsi notevolmente, disposero di terra da dare ad affittuari.
A parte pochi nobili caparbiamente legati alla Corona, non vi furono spostamenti nelle classi dominanti americane dopo la conquista dell’indipendenza: George Washington era fin da prima l’uomo più ricco del Paese, e lo stesso vale per Franklin, Jefferson, Hamilton, ecc. Altre misure progressive furono la riforma delle leggi sull’eredità, la notevole estensione del suffragio (non in tutti gli Stati), l’abolizione delle restrizioni sulla proprietà terriera e l’espansione ad Ovest.
Per i decenni successivi lo scontento che si originava dai contrasti di classe ad Est venne indirizzato verso Ovest, verso i “selvaggi” che non volevano saperne di cedere con le buone le terre ancestrali. Ma anche questa misura non si avverò in modo indolore: i territori che si liberavano ad Ovest, soprattutto la fascia a Sud dei grandi laghi (dall’Ohio all’Illinois), erano oggetto delle attenzioni dei grandi speculatori. I pionieri che riuscivano ad occuparle dovevano combattere su tre fronti: gli indiani, lo Stato che pretendeva dazi e tasse, gli speculatori che li facevano indebitare, quando non riuscivano a sottrarre loro le terre e a trasformarli in fittavoli.
La maggior parte dei coloni, in barba alle immagini oleografiche della frontiera, vivevano ai limiti della sussistenza. La situazione a metà degli anni ’80 era incendiaria. I mercanti e i grossisti della costa avevano tentato di ristabilire il commercio su grande scala con la Gran Bretagna, ma i mercanti inglesi non davano più credito, chiedendo di essere pagati in contanti. E i primi dovettero chiedere il contante ai negozianti al dettaglio, i quali a loro volta chiedevano agli agricoltori di essere pagati subito. La rivolta guidata dal capitano Shay, un eroe della guerra, e da altri veterani che in Massachusetts avevano perso le loro proprietà per debiti e tasse, fu un campanello d’allarme per i politici della Confederazione. Altri disordini si ebbero in Maryland, South Carolina, New Jersey e Pennsylvania. La risposta fu pronta e brutale: Sam Adams firmò una Legge sulle Rivolte che proibiva gli assembramenti di più di 12 persone, e che dava agli sceriffi la licenza di uccidere i rivoltosi. Lo stesso Adams, campione del diritto del popolo a ribellarsi, arrivò a dire: «Sotto la monarchia il reato di tradimento può essere condonato o punito con indulgenza, ma l’uomo che osa ribellarsi contro le leggi di una repubblica dovrebbe essere messo a morte». Ma le milizie locali rifiutarono di far fuoco sui rivoltosi, e la Rivolta di Shay fu repressa solo grazie ad un esercito privato, cioè finanziato dai ricconi di Boston, che già prefigurava i Pinkerton del secolo successivo. C’è indubbiamente uno stile americano nella lotta di classe.
Se i Padri Fondatori pensavano che standosene ognuno a casa sua, cioè nel proprio Stato, avrebbero potuto fare i loro affari indisturbati, si dovettero quindi ricredere. Si resero invece conto che era necessario un forte governo centrale, per mantenere l’ordine tra gli schiavi ribelli, i dissidenti, e gli indiani. Nel 1787 dovettero tornare a riunirsi, e produrre una Costituzione che, al di là della vuota retorica, rispecchiava gli interessi delle classi che avevano voluto la separazione dalla madrepatria. Altre misure importanti furono quelle tese a non permettere che i nuovi territori si separassero dalle tredici ex-colonie, prospettiva che era più che realistica data la situazione sociale ed economica.
La Costituzione approvata nel 1787 illustra la complessità del sistema americano, e ci aiuta a comprenderlo nelle sue peculiarità di oggi. Mentre è studiata per difendere gli interessi di una élite di pochi ricchissimi magnati («Il paese deve essere governato da chi lo possiede» aveva detto John Jay), non trascura le classi intermedie, come gli artigiani, gli agricoltori, i professionisti, che verso la fine del secolo costituivano un ampio strato della popolazione (per esempio, la metà della popolazione di New York). Queste classi costituiranno un tampone, un cuscino tra la grande borghesia e gli strati nullatenenti o quasi di veri proletari: negri, manovali, operai specializzati, apprendisti, braccianti, indiani, contadini poveri. In questo modo, meglio che in tutti i paesi capitalisti di allora e anche successivi, sarà possibile esercitare un controllo sociale con un minimo di forza e con il semplice uso delle leggi, anche grazie all’impiego smodato della propaganda nazionalista e patriottica. Naturalmente a questo capolavoro di pace sociale (non del tutto ininterrotta, però) si fondava sull’immensa ricchezza del Paese che si stava strappando agli indiani e che ci si preparava a conquistare nella sua interezza.
Alla fine del secolo XVIII si aveva l’impressione che il popolo americano fosse ormai ben avviato sulla via dell’eguaglianza sociale, mentre le ultime vestigia feudali, che continuavano a permanere in Inghilterra, non ultima la monarchia, erano state spazzate via per sempre. La grande formula rivoluzionaria – vita, libertà e ricerca della felicità – pur nella sua ipocrisia, era per i proletari come una autorizzazione a sperare in un futuro di salari adeguati, di orari sopportabili, di condizioni di vita umane. D’altronde la grande invenzione della guerra d’Indipendenza americana fu proprio la geniale retorica della “Libertà”. Ogni classe, ogni strato sociale, dai fittavoli della valle dell’Hudson ai bottai di Philadelphia, dai marinai di Boston ai commercianti indebitati con l’Inghilterra, dai servi a contratto assetati di terre da dissodare agli operai specializzati di New York, tutti vedevano nel suo raggiungimento la soluzione di tutti i problemi, lo schiudersi di un mondo nuovo di ricchezza e benessere.
Così non sarebbe stato. Nel generale trasformarsi della società nata
dalla guerra lo scontro si sarebbe ristretto sempre più alle due classi
fondamentali del sistema di produzione capitalistico, classe operaia e
classe dei capitalisti. Le altre componenti della società erano
destinate
al declino, anche se non mancarono in dati svolti di svolgere un ruolo
importante.
Disfattismo proletario in atto
È scritto nel Manifesto del Partito Comunista: «La borghesia ha prodotto, nel corso del suo nemmeno centenario dominio di classe, forze produttive più massicce e colossali di tutte le altre generazioni precedenti. Soggiogamento delle forze della natura, macchine, impiego della chimica nell’industria e nell’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, navigabilità dei fiumi, popolazioni intere fatte nascere dal nulla: quale secolo passato poteva mai immaginare che nel seno del lavoro sociale si celassero simili forze produttive? (...) La moderna società borghese (...) può essere paragonata all’apprendista stregone incapace di controllare le potenze infernali da lui stesso evocate (...) I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere la ricchezza che essi stessi hanno prodotto. Come supera le crisi la borghesia? Da una parte con l’annientamento coatto di una massa di forze produttive; dall’altra conquistando nuovi mercati e sfruttando più a fondo quelli vecchi. In che modo, dunque? Determinando crisi più generalizzate e più violente e riducendo i mezzi necessari a prevenire le crisi stesse. Le armi con cui la borghesia ha annientato il feudalesimo si rivoltano ora contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha solo forgiato le armi che la uccidono; ha anche prodotto gli uomini che imbracceranno queste armi: i lavoratori moderni, i proletari».
La guerra è la ineluttabile conseguenza della società capitalistica
e del suo modo di produzione. Rappresenta la sua massima
contraddizione:
per la conservazione della sua economia il capitale è costretto alla
guerra
e ad armare il proletariato, lo storico suo becchino. Ma nello stesso
tempo
rappresenta anche la temporanea soluzione alle sue contraddizioni,
tramite
lo sterminio fisico di questi suoi potenziali becchini.
Solenni impegni traditi
Di fronte al pericolo dello scoppio di una guerra europea, il Bureau dell’Internazionale socialista, nell’ottobre 1912, aveva lanciato il seguente appello: «Che il proletariato insorga contro la politica guerrafondaia con tutta la forza della sua organizzazione, con la sua azione di massa, che gridi all’unisono, che mostri con ogni suo atto che non si lascerà trascinare in conflitti inutili e cruenti». Ed il mese successivo, al congresso di Basilea, dopo avere ribadito lo stesso concetto («Invita i lavoratori di tutti i paesi ad opporre all’imperialismo capitalista la forza della solidarietà internazionale del proletariato»), lanciava un duro monito alle classi capitaliste di tutti i paesi: «Sappiano i governi che, nell’attuale condizione dell’Europa e nell’attuale stato d’animo della classe operaia, essi non potrebbero, non senza pericolo per se stessi, scatenare la guerra. Si ricordino che la guerra franco-tedesca ha provocato l’esplosione rivoluzionaria della Comune, che la guerra russo-nipponica ha messo in moto le forze rivoluzionarie del popolo russo. Si ricordino che il disagio provocato dall’aumento delle spese militari e navali, ha dato ai conflitti sociali in Inghilterra e in Europa un’asprezza insolita ed ha scatenato imponenti scioperi».
È vero che il Manifesto di Basilea non lanciava alcuna precisa parola d’ordine su quale dovesse essere l’azione concertata, a livello internazionale, contro la guerra. Di sciopero generale, ad esempio, non si parlava. Ma il ricorso allo sciopero generale come estrema risorsa contro la guerra non era escluso, e neppure l’insurrezione.
Tutti questi solenni impegni furono traditi allo scoppio della Prima Guerra.
È del tutto falsa la tesi secondo cui, nel 1914, i partiti socialisti della Seconda Internazionale non furono in grado di fermare la guerra imperialista. La verità è che essi contribuirono efficacemente alla sua realizzazione, e senza il loro concorso gli Stati capitalisti non avrebbero potuto inviare decine di milioni di lavoratori a marcire nel fango delle trincee lasciando le loro giovani vite a milioni aggrappate ai reticolati di filo spinato.
Mentre i partiti della Seconda Internazionale, tranne rarissime eccezioni, facevano fronte comune con i propri Stati nazionali, e quindi, per quanto possa a prima vista sembrare assurdo, con l’imperialismo internazionale; mentre i partiti tradivano, ovunque il proletariato in divisa militare, al contrario, dava prova di muoversi, in modo spontaneo, nel senso di concreto internazionalismo di classe.
In tutti i fronti di guerra, indistintamente, fino dal Natale del 1914 si verificarono innumeri episodi di fraternizzazione e di tregua. Il succedersi degli anni di guerra non fiaccò lo spirito di rivolta del proletariato al fronte e nel fatidico 1917 non vi fu un solo fronte militare, un solo esercito che non fosse attraversato dal fenomeno dello sciopero militare, dell’ammutinamento, della rivolta.
Ripercorrere, anche soltanto per sommi capi, tutta la serie di queste ribellioni proletarie sarebbe impossibile. Qui ci limitiamo a riferire brevemente soltanto di tre: la tregua del Natale 1914 sul fronte occidentale; l’ammutinamento dell’esercito francese nel 1917 e l’insurrezione a seguito della Caporetto italiana. Episodi che rappresentano però quello che era un spirito generalizzato di rivolta, una volontà di farla finita con la guerra, e, inconsciamente, con il regime che l’aveva generata e con la classe che l’aveva voluta.
Tutti sapevano che, visto “dal basso”, sarebbe bastato veramente poco per impedire la guerra, per trasformare la guerra tra Stati in guerra tra le classi, sarebbe bastato mettere in pratica il consiglio di George Bernard Shaw: «I soldati di tutti gli eserciti avrebbero dovuto sparare ai loro ufficiali, e poi tornarsene a casa» (New Statesman, 14 agosto 1914).
Quello che vi manca è la “vista dall’alto”, dall’altezza del
partito politico internazionale di classe. Sì, la risposta da dare alle
classi borghesi sarebbe stata “semplicemente” quella che i
proletari
non hanno patria e che i partiti aderenti all’Internazionale
Socialista
perseguono l’obiettivo della rottura dei fronti interni e della
fraternizzazione
fra i proletari degli opposti eserciti (Negando ogni adesione alla
guerra
sarebbe automaticamente venuta a cadere qualsiasi discriminante tra
guerra
di difesa e guerra di offesa, sarebbe venuto meno il pericolo che da
tali
false distinzioni potesse passare la giustificazione alla adesione ai
fronti
nazionali). Ma non poteva bastare “il tutti a casa”, nelle tragedie
della Prima come della Seconda Guerra.
Natale 1914 sul Fronte occidentale
Durante la settimana velica di Kiel, del giugno 1914, l’Imperatore tedesco Guglielmo II si era fatto fotografare nella divisa da ammiraglio britannico, orgoglioso di “indossare l’uniforme portata da Nelson”. L’Imperatore, infatti, non soltanto era Colonnello onorario dei Dragoni britannici, ma era anche Ammiraglio della Royal Navy. Per contro, il cugino, Giorgio di Inghilterra era Ufficiale del Primo Reggimento delle Guardie Prussiane. Quattro anni prima, in occasione delle esequie di Re Edoardo, Guglielmo II aveva ufficialmente affermato: “L’Inghilterra è la mia seconda Patria!”
Nemmeno due mesi dopo i proletari dei due paesi, inquadrati in opposti eserciti, avrebbero avuto l’ordine di trucidarsi a vicenda senza alcuna pietà. Ed ogni atto di umanità e di fraternizzazione sarebbe stato considerato come tradimento, e come tale passibile della massima punizione. La fraternizzazione fra gli opposti eserciti, nella guerra imperialista, costituisce infatti il peggiore dei crimini ed il maggiore dei pericoli.
Malgrado la ipocrita Convenzione di Ginevra regolasse minuziosamente il trattamento dei prigionieri e dei feriti, su istigazione ed incitamento delle gerarchie militari era diventata usuale prassi di guerra quella di uccidere i nemici evitando di fare prigionieri; non solo, addirittura si ordinava di lasciare morire, a volte anche dopo giorni di sofferenze, i propri feriti nella terra di nessuno, piuttosto che concordare con il nemico un cessate il fuoco per trarli in salvo.
Benedetto XV, che a tutti gli Stati belligeranti aveva proposto una tregua in occasione del Natale 1914, venne definito da George Clemenceau come “il Papa dei boches” e, dal Feldmaresciallo Generale Erich von Ludendorff, “il Papa dei francesi”. Gli inglesi non lo presero nemmeno in considerazione poiché avevano una Chiesa in proprio con un clero statutariamente dipendente dal loro Re e della loro Patria. Comunque sia, esattamente come i loro colleghi protestanti, i cappellani militari cattolici, nelle messe celebrate sul campo, evitavano ogni minimo accenno ai messaggi provenienti dal Romano Pontefice, anzi esortavano i soldati a “compiere il loro dovere”, ossia a versare il loro e l’altrui sangue a gloria delle rispettive Patrie.
«Mi domando – scriveva l’allora Ministro della Marina Britannica, Winston Churchill – mi domando che cosa potrebbe mai accadere se all’improvviso gli eserciti entrassero contemporaneamente in sciopero e decidessero che bisogna trovare un altro sistema per comporre la disputa?». Ebbene, quello sciopero temuto non tardò ad arrivare e l’occasione venne data dalla ricorrenza natalizia.
In una lettera del 29 dicembre 1914 ai propri genitori il fuciliere Ernest Morley raccontava del piano escogitato dagli ufficiali inglesi per il giorno della vigilia di Natale: intonare nelle trincee canti natalizi in modo da indurre nei soldati tedeschi sentimenti di malinconia e di relativa tranquillità per attaccarli poi di sorpresa. «A tre corali avrebbero dovuto seguire cinque salve di fuoco (...) Poi, però – continua la lettera – con grande sorpresa udimmo salire un canto, una sorta di risposta dalle loro trincee. Quindi cominciarono a gridarci di uscire fuori. Così bloccammo i preparativi per la fase due: le ostilità. Gridavano “A merry Christmas, English, we are not shooting tonight”. Noi rispondemmo gridando un messaggio simile. Dopo un breve scambio di esclamazioni, quelli sistemarono le luci. Anche noi. Presto le due linee di fronte sembravano come illuminate a festa. Lampade e candele in fila. Noi facemmo come loro (...) Si diressero verso di noi gesticolando. Noi ci dirigemmo loro incontro. Provammo il piacere assolutamente folle di chiacchierare con uomini che avevano fatto del loro meglio per ammazzarci... e noi con loro. Scambiai una sigaretta con un sigaro, alcuni di loro parlavano inglese e chiacchierammo a lungo» (Riportato da Michael Jürgs in La Piccola Pace nella Grande Guerra).
Questo fu un fatto per niente isolato. Il maggior numero di episodi di fraternizzazione si verificò per una linea di fronte lunga una cinquantina di chilometri intorno ad Ypern, tra Diksmuide e Neuve Chapelle. Ma per tutto intero il fronte occidentale, su due linee di trincea quasi parallele dal Mare del Nord fino al confine svizzero, salvo rare eccezioni, non solo non si sparò, ma si verificarono spontaneamente veri tripudi di fraternizzazione.
Nella maggior parte dei casi l’iniziativa venne presa da coloro che la storia ufficiale ha voluto rappresentare come “gli aggressori”, “i barbari”, dagli “unni”, come venivano chiamati con disprezzo, oppure boches, fritzen, jerries, insomma, dai soldati tedeschi.
Al canto corale di Stille Nacht venivano disposti lungo i bordi delle trincee alberini di natale illuminati da candele accese, poi seguivano gli auguri ai fratelli di classe che il capitalismo aveva schierato nella trincea opposta. Non appena dall’altro fronte veniva risposto con altri auguri ed altri canti si passava allo scambio di doni lanciando, da una trincea all’altra pacchetti di sigari, sigarette, carne in scatola, cioccolata. I più ardimentosi con circospezione uscivano dalle trincee e si incamminavano con cautela nella terra di nessuno in direzione del nemico. A poco a poco dall’opposta trincea era fatto altrettanto, fino a che, passati pochi istanti di esitazione da sottoterra emergevano centinaia di uomini alla volta. Le trincee si svuotavano e la terra di nessuno diveniva improvvisamente la terra di tutti. I soldati si trovavano di fronte ai loro nemici e guardandoli, come in uno specchio vedevano loro stessi. Prima una timida stretta di mano poi lo scambio di doni: soprattutto sigari, sigarette e tabacco. Dopo l’entusiasmo del primo incontro, generalmente gli ufficiali dei due schieramenti fissavano una tregua per il giorno successivo per seppellire i cadaveri che giacevano in putrefazione sul terreno fra le due trincee. Ognuno avrebbe seppellito i propri morti, ma anche quel pietoso dovere veniva svolto insieme e insieme si partecipava alle preghiere per i defunti. Terminate le sepolture i soldati tornavano a comunicare come potevano oppure semplicemente mostrando gli uni agli altri le fotografie dei familiari, la moglie, i figli. L’operaio di Glasgow o di Liverpool si riconosceva fratello a quello di Amburgo ed in segno di amicizia si scambiavano gli indirizzi.
Il soldato francese Gustave Bether, scriveva a casa dei tedeschi: «Odiano fare la guerra esattamente come noi. Sono sposati così come lo sono io, lo hanno visto dalla mia fede nuziale, e vogliono una sola cosa, tornarsene a casa il più presto possibile. Mi hanno regalato un pacchetto di sigari ed una scatola di sigarette, e io gli ho dato una copia di Le petit Parisien in cambio di un giornale tedesco». Chi ha una macchina fotografica la tira fuori e tutti corrono a farsi immortalare in gruppi misti, nemici sorridenti, gli uni abbracciati agli altri.
Si formano squadre di calcio. In una delle numerosissime lettere dal fronte si legge: «Sul campo congelato era una bella impresa. Uno di noi aveva con sé la macchina fotografica. Allora i calciatori delle due squadre si ordinarono rapidamente in un gruppo, sempre a file allegramente multicolori, con il pallone al centro». Lo stesso The Times, il giorno di capodanno 1915 dava notizia di una di queste partite di calcio, dovendo amaramente ammettere la vittoria dei tedeschi.
I soldati tedeschi, in occasione del Natale erano stati letteralmente sommersi dai cosiddetti “doni d’amore” provenienti dal loro paese: tabacco, cibo, vino, nonché berretti di lana, sciarpe, guanti. Ai loro occhi i francesi appaiono «malnutriti e sembrano vestiti miseramente» ed accettano di buon grado il tabacco che viene loro offerto. Nella condizione peggiore si trovavano i soldati belgi: il paese era invaso e loro completamente tagliati fuori dalle proprie famiglie. Non erano nemmeno in grado di inviare e ricevere la corrispondenza. I rifornimenti da casa, i pacchi dono non gli arrivavano, quindi anche loro accettavano con entusiasmo i doni offerti dal nemico invasore e ne approfittavano per scrivere a casa dando ai tedeschi l’incombenza di inoltrare la posta. Un soldato tedesco annotava nel suo diario: «I belgi ci hanno dato alcune cartoline, da venti a quaranta, alcuni anche brevi lettere da inoltrare ai loro congiunti a Bruxelles e così via, cosa che noi effettivamente faremo nel limite del possibile, sempre che le autorità ce lo permettano».
La tregua spontanea dura giorni, quasi ovunque fino al nuovo anno, spesso arriva all’Epifania, in alcuni luoghi perfino delle settimane. Dopo gli incontri, al momento di ritornare alle rispettive trincee, i soldati si mettono d’accordo di non spararsi nemmeno il giorno seguente e, nel caso fossero stati costretti a farlo dai loro ufficiali, avrebbero sparato in aria.
Il 31 marzo 1930, alla Camera Alta del Parlamento inglese il deputato liberale Murdoch McKenzie Wood, ex Maggiore del VI Battaglione dei Gordon Higlanders, con grande stupore sia dei compagni di partito sia degli avversari affermava: «Nelle fasi iniziali della guerra, nel natale del 1914, mi trovavo nelle trincee lungo il fronte e partecipai all’allora universalmente noto cessate il fuoco. Abbandonammo le nostre postazioni e stringemmo la mano ai nostri nemici tedeschi. Molte persone pensano certamente che abbiamo compiuto un atto indecoroso, infamante. Ora qui non intendo affatto discutere di questo. Lo compimmo e basta, e allora mi feci l’opinione, che da allora mi si è ulteriormente rafforzata, che se ci avessero lasciato stare, non sarebbe stato sparato davvero più un solo colpo. Questo cessate il fuoco durò 14 giorni. Stringemmo rapporti amichevoli tra noi e fu solo perché eravamo controllati da altri che fummo costretti a cercare di nuovo di ammazzarci a vicenda».
In una situazione del genere e su di un fronte lungo centinaia di chilometri, per mettere fine allo sciopero militare, a quella incantata pace di Natale, sarebbero bastati pochi colpi di fucile o una sventagliata di mitragliatrice. Ma nessuno volle, o poté, sparare il primo colpo.
Il caporale Adolf Hitler che si trovava al fronte considerò una vergogna che dei soldati tedeschi stringessero la mano ai nemici inglesi anziché sparagli addosso, ma i suoi commilitoni bavaresi non diedero ascolto ai rimproveri dell’austriaco. Il futuro Führer, nel Mein Kampf si guardò bene di fare cenno della fraternizzazione tra i proletari degli opposti schieramenti e descrisse scene di tutt’altro genere. «Poi nelle Fiandre scende una notte umida e fredda (...) attraverso la quale marciamo in silenzio e quando il giorno inizia a liberarsi dalla nebbia (...) da duecento bocche riecheggia il primo Hurrà al Primo messaggio di morte (...) Ma da lontano giungono al nostro orecchio le note di un canto e, proprio mentre la morte comincia ad accanirsi contro le nostre file, il canto raggiunge anche noi (...) e allora noi continuiamo a ripeterlo, Deutschland, Deutschland über alles, über alles in der Welt...»
Dal Journal de Marche et Opérations di un Reparto francese: «28 dicembre 1914. Calma su tutto il fronte. A Bois Touffu abbiamo seppellito otto francesi morti, che il 29 novembre erano caduti troppo vicino alle trincee tedesche per poterli recuperare. 29 dicembre 1914. I bavaresi continuano a non spararci e ci avvertono quando si avvicinano gli ufficiali. Sfruttiamo la tregua per rinforzare il nostro reticolato di filo spinato. 30 dicembre 1914. Discussione tra gli ufficiali sul morale delle rispettive truppe. Quello dei tedeschi sembra a terra. Scambio di giornali e di cartoline d’auguri per il nuovo anno. 31 dicembre 1914. Il cessate il fuoco prosegue. I bavaresi ci lasciano lavorare indisturbati. A una condizione: non dobbiamo tagliare il loro reticolato. A mezzanotte spariamo tutti in aria per salutare in nuovo anno».
L’entusiasmo è tale che tutti, in quei giorni, scrivono a casa per informare del “miracolo di Natale”, del cessate il fuoco, dei canti, degli incontri nella terra di nessuno, dello scambio di doni, delle partite di calcio. Alle lettere vengono allegate le fotografie che documentano quello che potrebbe sembrare pura allucinazione.
In Inghilterra tutti i giornali, dai più prestigiosi alle minuscole gazzette di provincia, pubblicano le lettere dei soldati in cui si narrano questi episodi e le fotografie che li provano. In Germania, all’inizio, la censura imperiale non impedì la pubblicazione, nei giornali locali, delle lettere dal fronte; in fondo vi si leggeva che l’iniziativa era partita dai tedeschi a dimostrazione della loro maggiore umanità rispetto al nemico. Tuttavia questa libertà durò poco. In Francia invece niente di quanto era accaduto al fronte riuscì a trapelare. Sui giornali francesi venne scritto che ai tedeschi, che avevano cantato le loro canzoni natalizie, da parte francese era stato gridato: “Chiudete la bocca porci tedeschi!”
Il “quarto potere”, la stampa, veniva usata come un’arma, né più né meno, essenzialmente ad uso interno. Tutte le nazioni belligeranti avevano stabilito delle regole di censura molto dettagliate e rigide, sebbene, rispetto alla nostra attuale “libertà di informazione”, fossero abbastanza puerili e con poco sforzo potessero essere aggirate, quando ce ne fosse stata la volontà. Regola universale di tutti i paesi era che fotografie e disegni dei propri caduti non dovessero essere mai mostrati, i morti altrui il meno possibile e, casomai, non in primo piano. Era ammessa nei disegni dei rotocalchi solo la morte “eroica”. La morte reale, quella nel fango, i corpi dilaniati, i cadaveri in putrefazione divorati dai ratti, non si doveva mostrare.
Al contrario erano particolarmente gradite le fotografie che mostravano gli orrori commessi dal nemico, ed in mancanza di fotografie si ricorreva ai disegni propagandistici. Uno fra i tanti della propaganda alleata mostrava un prussiano con l’elmo chiodato, un “unno”, che trafiggeva con la baionetta un bambino innocente disteso a terra.
In Germania per inviare reportage dal fronte ci voleva una speciale autorizzazione che veniva concessa dal competente Stato Maggiore III/b. I corrispondenti potevano recarsi nei paesi occupati, accompagnati da ufficiali dell’esercito, ma mai direttamente al fronte ed i loro articoli e fotografie dovevano preventivamente passare al vaglio della censura militare. In Germania non venne pubblicata nemmeno una fotografia della fraternizzazione degli eserciti. Il 27 gennaio 1915 l’Imperatore Guglielmo II elogiò con queste parole i corrispondenti di guerra: «Vi faccio i miei complimenti. Scrivete in modo davvero straordinario. Leggo molto volentieri i vostri articoli. Hanno uno slancio patriottico. È molto positivo anche per i nostri uomini nelle trincee, se possiamo spedire loro cose simili».
In Inghilterra, fin dall’agosto era stata emanata una legge di censura, la Defense of the Realm Regulations Act. L’articolo 153 prevedeva che le fotografie potessero essere riprodotte solo con didascalie e se preventivamente approvate. Ma i giornali inglesi aggirarono molto spesso le imposizioni della censura. L’azione della censura fu invece rigorosissima in Francia, dove venne proibito nel modo più assoluto ogni tipo di pubblicazione che potesse avere un effetto negativo sulla sicurezza interna. Il concetto di fraternité venne messo al bando e ai soldati fu imposto di tacere sull’accaduto. La corrispondenza alle famiglie venne minuziosamente filtrata dalla censura e tutte le pellicole impressionate, testimonianti la Trêve de Noël vennero sequestrate. I giornali anziché pubblicare le lettere dei poilus sulla realtà del fronte facevano a gara nel ricordare che qualunque tipo di fraternizzazione con il nemico «finirà davanti alla corte marziale e verrà sanzionata con la pena di morte» (Le Matin, citato in La piccola Pace...).
Voci delle fraternizzazione arrivano, prima frammentarie e contraddittorie, poi sempre più insistenti ai quartieri generali delle varie armate: tedesca, inglese, francese. All’inizio non viene dato peso alle notizie, mentre i generali sono intenti, al sicuro delle retrovie, a festeggiare il Natale e ad alzare i calici per brindare alla futura vittoria. Soltanto i giorni successivi, smaltite le sbornie, si rendono conto della gravità della situazione e tutti quanti si mettono a studiare le misure repressive da mettere in atto perché episodi simili non abbiano a ripetersi.
Intanto ai vari Quartieri Generali arrivava notizia che le fraternizzazioni andavano avanti e gli ufficiali impegnati in prima linea, lungi da reprimerle, non solo le tolleravano ma il più delle volte le autorizzavano, vi prendevano parte, le concordavano con i pari grado nemici.
Ma anche quando i contatti fisici tra i soldati delle trincee contrapposte divennero impossibili a causa delle minacce repressive, i soldati continuarono a rifiutare di ammazzarsi. I cecchini sbagliavano volutamente mira: un tiratore scelto che mancava un bersaglio troppo facile veniva insultato dai superiori, ma poiché non era possibile dimostrare che lo avesse fatto intenzionalmente poteva sperare di restare impunito. Oppure si riferisce di un messaggio tranquillizzante di questo tipo, trasmesso da una trincea tedesca agli inglesi: «Cari commilitoni, vi devo informare che, da questo preciso momento, ci è proibito di incontrarci con voi là fuori. Nel caso in cui dovessimo essere costretti a sparare, mireremo sempre troppo in alto (...) Offrendovi ancora qualche sigaro, cordialmente vostro...». Nel diario di un Reggimento francese si legge: «Due gennaio: Sono profondamente dispiaciuti di non poter più parlare con noi da questo preciso momento. I loro ufficiali glielo hanno severamente proibito. Tre gennaio: Calma su tutta la linea. Di tanto in tanto spuntano soldati bavaresi sopra il parapetto. Quattro gennaio: giornata tranquilla. Soltanto alcune discussioni frettolose con i bavaresi, prima che i loro ufficiali se ne accorgano». Soltanto a partire dal 14 gennaio, è scritto nell’ultima annotazione del diario, la guerra riprese violenta.
Per i soldati francesi i divieti contro i tentativi di fraternizzazione sono più severi rispetto a quelli tedeschi od inglesi e dal Quartiere Generale si ordina telefonicamente agli ufficiali di intervenire immediatamente ed in caso di necessità di «sparare semplicemente addosso» a coloro che fraternizzano
Fin dal gennaio 1915 scattarono le prime denunce ai Tribunali militari con l’accusa di viltà di fronte al nemico. Da tutti quanti gli Stati Maggiori vennero emessi ordini del giorno in cui si ricordava l’assoluta proibizione non solo di avere contatti con il nemico, ma perfino di mantenere un prolungato cessate il fuoco. Gli ufficiali sarebbero stati considerati responsabili di ogni atto di insubordinazione e di conseguenza sarebbero stati deferiti ai Tribunali militari
Un Generale di Corpo d’Armata tedesco, dopo la guerra, riconoscendo che vi erano stati molti casi di insubordinazione nell’esercito («sarebbe una falsità affermare che tra le nostre file la disciplina sia stata ovunque buona (...) Le circostanze della guerra non erano adatte a favorire la disciplina») esprimeva il parere che l’unico sistema per scongiurare il dilagare dell’insubordinazione fosse rappresentato dalle misure di repressione le più severe possibili ed ebbe quindi parole di elogio nei confronti delle Corti marziali britanniche e francesi che avevano comminato senza pietà condanne a morte per insubordinazione e le avevano prontamente eseguite, mentre loro, i tedeschi, si erano dimostrati troppo teneri: «venendo incontro a una sollevazione del parlamento tedesco, durante la guerra un gran numero di pene previste dal codice di procedura penale militare venne attenuato» (La Piccola Pace...).
Infatti, a fronte delle 18 fucilazioni belghe e della cinquantina tedesche per “viltà di fronte al nemico”, le due nazioni campioni di democrazia e libertà, ossia Francia ed Inghilterra, condannarono e fucilarono centinaia di loro soldati sul fronte occidentale.
Gli ordini marziali con cui si voleva impedire il ripetersi di simili atti, formulati nelle diverse lingue, furono pressoché identici. I governi ed i capi militari vivevano nel terrore, ora che sembrava di colpo svanito l’odio tra i soldati nemici così per tanto tempo alimentato. Quindi gli ordini furono che si sarebbe dovuto sparare immediatamente sia su ogni nemico che si fosse arrischiato ad uscire dalle trincee, sia sui commilitoni che avessero fatto altrettanto. In modo particolare e con ancora maggiore severità sarebbero stati puniti atti di fraternizzazione nei confronti del nemico (grida di richiamo, canti, semplici gesti di amicizia) se compiuti in particolari ricorrenze: Natale, Pasqua, etc...
In occasione del Natale 1915 lo Stato Maggiore tedesco emanò questa direttiva: «Ogni tentativo di fraternizzazione con il nemico, come per esempio un accordo tacito di non spararsi a vicenda, visite reciproche, scambio di informazioni, come accaduto l’anno scorso a Natale e a Capodanno, è con la presente severamente proibito. Le contravvenzioni saranno considerate alto tradimento». Non canti né luci natalizie ma fuoco senza pietà su tutto ciò che dall’altra parte si muovesse. Nel caso che soldati fossero usciti dalle trincee nemiche si suggeriva di farli avvicinare il più possibile e poi sottoporli ad un inteso fuoco di sbarramento, mentre i tiratori scelti avrebbero dovuto colpire in modo mirato.
Eppure, nonostante tutte queste disposizioni terroristiche, anche nel Natale 1915 si verificarono molti casi di cessate il fuoco e, dove possibile, di fraternizzazione.
La tregua del Natale 1914 scaturì spontaneamente dal desiderio di pace del proletariato delle diverse nazioni che vedeva nel soldato costretto a marcire nella trincea opposta non un nemico, ma un fratello di classe e di sventura. Si trattò di un atto del tutto pacifico ed incruento, ma allo stesso tempo, sebbene inconsciamente, di segno rivoluzionario. E questo significato fu ben compreso dagli Stati Maggiori militari e dai governi borghesi che, specialmente quelli dei più insigni Stati democratici, decisero di schiacciare nel sangue perché sapevano che alla fraternizzazione sarebbe potuta seguire la rivoluzione.
La piccola pace del Natale 1914 infatti sarà il preludio dello
sciopero
militare che, tre anni dopo, interessò la quasi totalità dell’esercito
francese.
Cosa per Lenin sarebbe stato allora necessario
Pochi mesi dopo Lenin scrive in Il Socialismo e la Guerra: «I giornali borghesi di tutti i paesi belligeranti hanno citato casi di fraternizzazione fra i soldati delle nazioni belligeranti, persino nelle trincee. E gli ordini draconiani delle autorità militari (Germania, Inghilterra) contro simili fraternizzazioni dimostrano che i governi e la borghesia vi hanno attribuito una grande importanza.
«Se, nonostante il completo dominio dell’opportunismo negli alti ranghi dei partiti socialdemocratici dell’Europa occidentale e nonostante l’appoggio dato al socialsciovinismo da tutta la stampa socialdemocratica e da tutte le autorità della Seconda Internazionale, sono stati possibili dei casi di fraternizzazione, questo dimostra quali possibilità vi sarebbero di abbreviare l’attuale guerra schiavista, delittuosa e reazionaria, e di organizzare un movimento rivoluzionario internazionale, con un sistematico lavoro in questa direzione, compiuto anche solo dai socialisti di sinistra di tutti i paesi belligeranti.
«Come primi passi sulla via della trasformazione dell’attuale guerra imperialista in guerra civile, bisogna indicare: 1) il rifiuto assoluto di votare i crediti di guerra e l’uscita dai ministeri borghesi; 2) la rottura completa con la politica della “pace civile” (bloc national, Burg-frieden); 3) la creazione di organizzazioni illegali in quei paesi nei quali il governo e la borghesia, proclamando lo stato d’assedio, aboliscono le libertà costituzionali; 4) l’appoggio alla fraternizzazione dei soldati delle nazioni belligeranti nelle trincee e, in generale, sui teatri della guerra l’appoggio ad ogni specie di attività rivoluzionaria di massa del proletariato in generale».
E nel maggio-giugno Lenin scrive in Il fallimento della Seconda Internazionale: «Kautsky si sforza di battere i suoi avversari di sinistra attribuendo loro delle assurdità; essi porrebbero il problema in questo modo: “in risposta” alla guerra, “le masse”, “in 24 ore”, avrebbero dovuto fare la rivoluzione, instaurare “il socialismo” contro l’imperialismo; altrimenti “le masse” avrebbero dato prova di “mancanza di carattere” e di “tradimento”. Ma queste sono semplicemente sciocchezze con le quali gli ignoranti autori di libercoli borghesi e polizieschi “battevano” finora i rivoluzionari; e ora Kautsky se ne fa anche lui vanto. Gli avversari di sinistra di Kautsky sanno benissimo che la rivoluzione non si può “fare”, che le rivoluzioni sorgono dalle crisi e dai rivolgimenti storici obiettivamente maturi (indipendentemente dalla volontà dei partiti e delle classi), che le masse senza organizzazione sono prive di una volontà comune, che la lotta contro la potente organizzazione terroristica e militare degli Stati centralizzati è cosa lunga e difficile. Le masse, nel momento critico, non potevano far nulla di fronte al tradimento dei loro capi, mentre “il manipolo” di questi capi aveva la piena possibilità e il dovere di votare contro i crediti, di prendere posizione contro “la pace civile” e contro la giustificazione della guerra, di pronunciarsi per la disfatta dei propri governi, di organizzare un apparato internazionale per la propaganda della fraternizzazione nelle trincee, di organizzare la stampa illegale che affermasse la necessità di passare alle azioni rivoluzionarie, ecc.
«Kautsky sa benissimo che i socialdemocratici di sinistra tedeschi
si riferiscono appunto a queste azioni, o, meglio, ad azioni simili, e
che essi non possono parlarne direttamente, apertamente, a causa della
censura militare. Il desiderio di difendere a qualunque costo gli
opportunisti
spinge Kautsky a una bassezza senza precedenti, quando, mettendosi al
sicuro
dietro le spalle dei censori militari, attribuisce ai socialdemocratici
di sinistra delle stupidità evidenti, nella certezza che i censori
impediranno
che egli sia smascherato».
La risposta borghese: il massacro indiscriminato
La Conferenza internazionale di Zimmerwald, che si tenne nel settembre del 1915 ad opera dei socialisti italiani e svizzeri, dando forma all’opposizione alla guerra, lanciò un appello vibrante di denuncia degli scopi capitalisti ed imperialisti del conflitto, e pubblicò un Manifesto divenuto punto di riferimento di tutte le volontà tese alla cessazione immediata del massacro.
Da allora il malcontento, all’inizio nascosto e timoroso, non aveva cessato di crescere e manifestarsi, qualche volta perfino con audacia. Nel 1916 cominciarono gli scioperi. L’alternativa posta da Lenin – Guerra o Rivoluzione – guadagnava terreno di giorno in giorno.
Una seconda Conferenza, tenuta a Kienthal, nel maggio del 1916, ottenne il decisivo risultato di costringere i parlamentari socialisti a rifiutare i crediti di guerra ai loro governi. La corrente di opposizione alla guerra ingrossava sempre più, anche se ci vollero ancora due anni prima che fosse possibile imporre agli Stati imperialisti la cessazione del conflitto.
Sul fronte occidentale da un lato all’altro delle opposte trincee continuava il lancio di messaggi di fraternizzazione e di esortazione a non continuare la guerra. Lo Stato Maggiore tedesco segnalava al proprio governo defezioni sempre più numerose ed il “deplorevole morale” dei combattenti. Analoga preoccupazione veniva registrata presso tutti i comandi militari ed i rispettivi governi.
L’intensificarsi degli allarmanti segnali di fraternizzazione fra proletari intruppati in eserciti contrapposti rese necessario – per l’istinto di conservazione del capitalismo – lo scatenare quella carneficina che da parte degli storici ed esperti di strategia militare è stata definita semplicemente insensata. È per risanare l’esercito da quel pericoloso clima, per stroncare la volontà e la forza ribelle del proletariato, togliendogli ogni speranza, che da parte dello Stato Maggiore tedesco furono lanciate le grandi offensive omicide su Verdun. La distruzione per la distruzione e la morte per la morte non avrebbero risolto le sorti della guerra interimperialista, ma avrebbero risolto quelle della conservazione capitalista. Verdun con i suoi massacri, con l’affondare di migliaia e migliaia di baionette nelle vive carni di altrettante migliaia di proletari, con le stragi operate dalle artiglierie che mietevano le truppe del Kronprinz a ranghi serrati così come quelle francesi, tutto ciò, noi lo sappiamo, non rappresentava soltanto un macello di uomini senza nessuna utilità dal punto di vista strettamente militare, un assurdo da un punto di vista strategico: l’ignobile olocausto non era né inutile né assurdo nei disegni della classe responsabile della guerra.
Quale fu il numero delle vittime proletarie immolate senza che i due
eserciti, di fatto, avanzassero di in solo metro? Distribuiti in parti
uguali i morti vengono calcolati dai 700 mila al milione, interi
villaggi
furono rasi al suolo (Beaumont, Vaux, Fleury, Ornes, Haumont,
Louvemont...),
sembra che oltre 40 milioni di granate di tutti i calibri siano state
eruttate
dalle bocche dei cannoni
L’ammutinamento dell’Esercito francese nel 1917
La democrazia francese, come era riuscita a non far trapelare all’interno del paese niente della fraternizzazione del Natale 1914, allo stesso modo riuscì per anni a coprire sotto una coltre di silenzio gli ammutinamenti del 1917. Solo sul finire del 1932 vennero alla luce i documenti delle drammatiche sedute del Comitato Segreto al Parlamento francese.
La primavera del 1917 mise seriamente il crisi tutto quanto l’ordine militare degli Stati e rappresentato una terribile minaccia per il potere capitalista. A Pietroburgo la rivoluzione di febbraio aveva costretto Nicola II ad abdicare e la Russia era divenuta repubblica con un governo provvisorio presieduto dal principe L’vov e sostenuto dalla borghesia. Ma il peso del partito bolscevico aumentava di giorno in giorno; rientrava Lenin e la sua parola d’ordine “Tutto il potere ai soviet” avrebbe rappresentato il preludio della rivoluzione d’Ottobre.
Negli stessi mesi l’esercito francese era decisamente stanco di combattere, stanco in ogni senso, con tutto quanto di fisico e psicologico indica la parola. La stolta offensiva del Generale Nivelle, quella che al Quartier Generale francese ritenevano risolutiva, era miseramente fallita. La carneficina che ne seguì fu, forse, la più disastrosa di tutta la guerra: il sangue dei proletari francesi e delle truppe coloniali era stato versato senza un minimo di criterio.
Dal gennaio venivano ammassate truppe nei pressi di Reims perché era lì che si sarebbe dovuto sferrare l’attacco di sfondamento. Il 16 aprile il Generale Nivelle lanciava il suo ordine del giorno: «L’ora è venuta. Coraggio! Abbiate fede! Viva la Francia!». Dall’altra parte del fronte il Generale von Doehm, che conosceva i minimi particolari della segretissima operazione francese, lanciava ugualmente il suo appello: «Domani la sorte della Germania sarà in gioco. Conto che ciascuno di noi farà il suo dovere e si farà uccidere sul posto piuttosto che cedere terreno».
Alle sei del mattino i francesi si lanciarono l’attacco, alle sette erano già respinti. Lo Stato Maggiore francese presentò la disfatta come un parziale successo e si preparò a lanciare ulteriori attacchi entro la fine del mese, poi rinviati al 5/6 maggio. Il risultato fu altrettanto disastroso. Le perdite furono di 50 mila uomini il primo giorno, 80 mila il secondo. Il giorno 10 furono ben 160 mila. A questi vanno aggiunti quasi 6 mila russi e circa 9 mila senegalesi.
Nivelle rappresentò la goccia che fa traboccare il vaso. La disgregazione dell’esercito si propagò con una rapidità impensabile. Vi furono ammutinamenti di intere Divisioni, di Reggimenti che si rifiutavano di andare in linea ed al contrario, con i loro ufficiali in testa, marciavano su Parigi per deporre il governo e per imporre la pace. In seno ad alcuni reparti vi furono casi di proclamazione dei soviet. Su 115 Reggimenti coinvolti ben 102 furono di fanteria, 12 quelli di artiglieria, uno di cavalleria. L’ex Ministro Painlevé scrisse: «Vi fu un giorno in cui tra Soisson e Parigi vi erano soltanto due divisioni delle quali potevamo essere completamente sicuri».
La censura, sulla base della corrispondenza inviata dal fronte da soldati ed ufficiali, fin dall’ultima decade di aprile aveva denunciato il fatto che tutta l’impalcatura militare cominciava a sgretolarsi.
Il Generale Petain scriveva in un “Rapporto extra-confidenziale al governo” del 28 maggio che alla data del 4 maggio, cioè alla vigilia della nuova sciagurata offensiva del Generale Nivelle, già sapeva che «da qualche giorno si vanno ripetendo in maniera inquietante atti di indisciplina collettiva. Una Compagnia che doveva partecipare al nuovo attacco sopra il mulino di Lassaux ha rifiutato di andare in linea. Negli accantonamenti, ovunque, sono affissi ai muri delle scritte con su “Abbasso la Guerra! Morte ai Responsabili!”»
Questo il successivo montare del movimento, nelle dichiarazioni degli stessi governanti borghesi.
15 maggio – Painlevé (Ministro della Guerra): «Un grido di allarme mi arrivava per la prima volta dal Gran Quartiere Generale sull’effervescenza dell’Armata».
19 maggio – Generale Petain: «Un Battaglione che doveva dare il cambio ad un altro non ha obbedito e si è disperso nei boschi».
20 maggio – Painlevé: «Scoppiano i primi gravi ammutinamenti, che si succedono per tre settimane (...) Tutti gli ammutinamenti si assomigliano: una volta gli ammutinati abbandonano i loro alloggiamenti portando fucili, carichi di munizioni, mitragliatrici e si stabiliscono in una certa posizione. Un’altra disertano i loro accantonamenti, invadono la stazione, fanno capire che intendono marciare sul Parlamento (...) I prefetti segnalano unanimemente la dannosa impressione di disfattismo lasciata dagli inviati in licenza dove essi passano e soggiornano».
20 maggio – Generale Petain: «Un reparto del 32° Corpo destinato a rafforzare un Reggimento percorre la strada al canto dell’Internazionale. Ha forzato la casa del Comandante del deposito ed ha inviato tre delegati per i suoi reclami al Comando. Un rinforzo di 400 uomini giunge da un altro deposito divisionale (...) I più scalmanati arringano i compagni ed ottengono che due compagnie si rifiutino di tornare in linea (...) Si magnificano le idee della nuova Russia e si citano ad esempio i soldati russi. Alcuni soldati che si rifiutano di tornare in trincea o tardano a farlo sono tradotti davanti al Tribunale di guerra. In quello stesso giorno scoppiano gravi incidenti in due Reggimenti di fanteria che si trovano dislocati nei pressi di Prouilly, il 120° e il 128°. Anche qui rifiuto da parte di due compagnie del 128° di recarsi in trincea, grida sediziose, inneggianti alla Russia (...) I riottosi vengono arrestati e deferiti al Tribunale di guerra».
21 maggio – Generale Petain: «Il Generale Duchesse comandante la X Armata dà ordine di fucilare immediatamente un certo numero di uomini da prendersi nel 66° Reggimento (18° Divisione 9° Corpo) perché un Battaglione di questo Reggimento ha fatto sentire qualche mormorio (...) Nello stesso minuto, nello stesso istante, in un altro settore del fronte, 4 Corpi di Armata si sono ammutinati. Al 97° Reggimento fanteria: 110 uomini ammutinati; al 159° una Compagnia; al 57° Battaglione di cacciatori: 145 ammutinati e 98 disertori; al 60° Battaglione cacciatori: 300 ammutinati e 75 disertori; al 61° Battaglione cacciatori: 250 ammutinati e 25 disertori».
22 maggio – Generale Petain: «Altro grave ammutinamento, questa volta nella 158° Divisione dove 4 Battaglioni si rifiutano di andare in trincea (...) Due Reggimenti della 5° Divisione ed altri Battaglioni e Reggimenti abbandonano le trincee al grido “a Parigi e alla Camera”».
26 maggio – Deputato Laval: «Vicino a Soissons i militari del 370° fanteria alle 8 del mattino, come obbedendo ad una parola d’ordine si sono disposti lungo le vie del paese. Poco dopo passano autocarri pieni di rivoltosi del 17° e del 36° fanteria, ufficiali, sottufficiali e soldati che cantano l’Internazionale e lanciano grida sediziose invitando i compagni ad unirsi a loro. Vengono inoltre lanciati in gran copia manifesti incitanti alla rivolta in cui era scritto: “Camarades, vous ne savez pas? Sûrement non, le troisième corps a refusé de marcher. Faites comme nous, c’est le commencement de la paix”» (dall’intervento alla Camera del 17 giugno 1917).
29 maggio – Deputato Laval: «Alcuni Reggimenti che debbono mettersi in marcia formano un corteo cantando l’Internazionale e gridando: “Non andremo più in trincea”. Contemporaneamente altri Reggimenti di fanteria si radunano per marciare su Parigi».
29 maggio – Sembra che il Presidente Poincaré si ridesti da una lunga catalessi se, dopo un mese di atti collettivi di insubordinazione, diserzioni in massa ed ammutinamenti, afferma: «Il colonnello Herbillon mi informa che ci sono dei sintomi di indisciplina nelle Armate (...) A Dormans in questi ultimi giorni dei soldati hanno gridato “Viva la Rivoluzione, Abbasso la guerra!”. Una Compagnia ha rifiutato di uscire dalle trincee».
30 maggio – Deputato Laval: «Il Generale Foch [allora Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, ndr] invia una Circolare Riservatissima a tutti i Generali comandanti la zona territoriale ed i Governatori delle piazze forti, per ordinare loro di prendere, d’accordo con i Prefetti, tutte le misure necessarie “per il mantenimento dell’ordine pubblico nel territorio nazionale in caso di pericolo”».
30 maggio – Poincaré: «Il Generale Franchet d’Esperey ha segnalato (...) che due Reggimenti di fanteria, il 36° e 129°, avevano deciso di marciare su Parigi. Misure sono state prese per disperderli. Si conferma che a Dormans hanno gridato “Abbasso la Guerra, Viva la Rivoluzione russa!”».
30 maggio – Colonnello Dusange, comandante del 310° Reggimento di fanteria: «L’accantonamento è stato attraversato da un Reggimento di fanteria, che a bordo di camions agitava delle bandiere rosse e cantava l’Internazionale; la cantavano gli stessi ufficiali assieme ai loro soldati, mentre lanciavano appelli alla rivolta e allo sciopero».
31 maggio – Poincaré: «In seduta di comitato di guerra, Petain legge due rapporti riguardanti gli ammutinamenti del 36° e 129° Reggimento di fanteria. I soldati (...) hanno deciso d’impadronirsi dei treni e di inviare una delegazione alla Camera per domandare una pace immediata».
2 giugno – Colonnello Dusange: «Un Battaglione ricevette l’ordine di andare alle esercitazioni. Ma verso le 15 una Compagnia rifiuta di fare il sacco per la partenza (...) subito dopo un’altra Compagnia si ammutina (...) I soldati (...) si ordinano in fila a destra e a sinistra e continuano la loro marcia (...) si allontanano da C�uvres dichiarando che vogliono marciare su Parigi. Altri Reggimenti li attendono nella foresta di Compiègne».
2 giugno – Poincaré: «Vengo a sapere che ieri la polizia è stata sul punto di farmi cambiare itinerario, perché un corteo di due o tremila donne scioperanti avanzava verso Les Champs Élisés. Il colonnello Herbillon mi segnala dei nuovi ammutinamenti, questa volta nel 21° Corpo (...) L’ordine è in pericolo dappertutto. La febbre si propaga».
3 giugno – Poincaré: «Il colonnello Fournier mi informa che una Divisione del 21° Corpo si è riunita per discutere se fosse il caso di tornare in trincea e riprendere l’offensiva, decidendo di andare in trincea, ma tenersi sulla difensiva. Un’altra Divisione, questa del 7° Corpo, ha rifiutato di andare in trincea».
4 giugno – Poincaré: «Painlevé mi telefona questa notte a riguardo di due soldati che hanno preso parte attiva agli ultimi ammutinamenti. L’esercito si sfalda. Questi magnifici soldati, così pieni di entusiasmo, così speranzosi, così eroici sono stati poco a poco corrotti dalla propaganda interna (...) Sono avvertito che dei soldati Annamiti hanno sparato sulla folla a Saint Onen. È forse il principio di un tracollo generale?».
Nel suo libro. Comment j’ai nommé Foch et Pétain, Painlevé annota. «Nel bacino della Loira (...) dopo la fine di maggio, i telegrammi del prefetto annunciavano le peggiori catastrofi e reclamavano tiratori senegalesi e cavalleria».
8 giugno – Poincaré: «Herbillon mi riferisce che altri Reggimenti hanno espresso la volontà di marciare su Parigi per imporre la pace al governo e alle Camere».
11 giugno – Poincaré: «Petain ci informa nuovamente sul morale dell’esercito: 5 Corpi d’Armata sono quasi interamente contaminati».
19 giugno – Poincaré: «Consiglio dei Ministri: Painlevé informa che indipendentemente dagli 11 condannati già fucilati in seguito al rigetto del loro ricorso di grazia, il comandante in capo ne ha fatti fucilare altri 7 dei quali non ha trasmesso i ricorsi. Vi sono dunque 18 esecuzioni mentre deve farsi luogo ad altre condanne per uno dei Reggimenti più compromessi».
22 giugno – Poincaré: «Malvy domanda a Petain se al fronte si è potuta avere la prova che i soldati fossero in contatto con le organizzazioni rivoluzionarie dell’interno. Egli ha sottomano un intero incartamento con i rapporti dei prefetti dove invece si afferma che sono i soldati che vanno in licenza i quali guastano lo stato morale dell’interno».
23 giugno – Poincaré annota: «Dolorosa sfilata d’avvocati che vengono a domandarmi pietà per i soldati condannati a morte».
26 giugno – Poincaré: «Vi sarebbe un altro Reggimento che ha attraversato Châlons emettendo grida rivoluzionarie ed urlando “Viva la Pace!” (...) Ancora 5 esecuzioni hanno avuto luogo».
28 giugno – Poincaré: «Ribot viene ad annunciarmi che un Reggimento, il 298° dell’Armata di Souilly, si è abbandonato ancora a deprecabili manifestazioni. Su quattro compagnie soldati in gran numero hanno indirizzato ai loro capitani delle lettere collettive, firmate, nelle quali dichiarano che non torneranno in trincea e chiedono che si concluda senza indugio la pace».
Gli episodi riportati, che non sono che un minimo accenno di quanto accadde, riescono a dare l’impressione del disfacimento dell’esercito francese e della volontà del proletariato in divisa di farla finita con la guerra. Ma lasciate a se stesse le rivolte non potevano che estinguersi.
Da parte sua la repressione non mancò di intervenire con tutta la sua ferocia vendicandosi su quei soldati che si erano rifiutati di morire eroicamente per la patria e talvolta avevano avuto il coraggio di brandirgli contro l’arma. Centinaia e centinaia di giovani vite caddero abbattute dal civile, democratico, piombo patrio. Grande lavoro venne svolto dai Tribunali di guerra e dai plotoni di esecuzione. L’unico impedimento era costituito dal tempo necessario per istruire i processi: così dapprima fu abrogata la possibilità di inoltrare domanda di grazia, poi, con circolare del Generale d’Esperey venne ordinato che «fra la sentenza del Consiglio di guerra e l’esecuzione non dovrà trascorrere un termine superiore alle 24 ore».
Sulle tombe dei soldati fucilati i loro compagni scrivevano: “Morto da valoroso”. Ma quanti di questi valorosi caddero sotto il piombo francese non sarà mai possibile stabilirlo. La stragrande maggioranza delle esecuzioni vennero fatte con il sistema della decimazione e le statistiche riportano solo i casi (quando li riportano) di esecuzioni per condanne a morte stabilite dai Tribunali militari. «In una Armata vicino a Chalons sur Marne, in una sola settimana, furono fucilati 53 soldati» (J. Jolinon, La Valet de Gloire). Crapoullit ne La Guerre Inconnue racconta: «Si facevano allineare gli ammutinati su una fila, poi si ordinava che contassero: uno, due, tre, quattro, cinque. “Il cinque esca dalla riga” ordinava il colonnello. Un uomo su cinque era designato a morire».
Come mai la Germania non approfittò di una così favorevole
situazione
militare? La risposta è semplicissima. Sferrare un attacco alla Francia
avrebbe significato appiccare la miccia della rivoluzione. Già una
rivoluzione
maturava ad Oriente, trovarsene un’altra ad Occidente avrebbe
significato
non la sconfitta militare, ma la fine dello Stato capitalista. Sferrare
un attacco contro la Francia sarebbe significato il suicidio della
Germania
e dell’Europa borghese.
La Giustizia Militare italiana all’opera
Il 28 febbraio 1931, a Prato, furono celebrati i solenni funerali del Generale Andrea Graziani, luogotenente nella Milizia. Il giorno precedente, alle 7 del mattino, un telegramma dalla stazione ferroviaria di Brennero informava il compartimento ferroviario di Firenze che «un cappello, un cappotto ed un ombrello, presumibilmente quelli del Generale, sono stati rinvenuti in uno scompartimento di prima classe». Cappello, cappotto ed ombrello sarebbero dovuti scendere, assieme al loro proprietario, a Verona, ma il loro proprietario, il Generale Andrea Graziani, a Verona non era mai arrivato. Il suo corpo, proprio pochi minuti prima che giungesse il telegramma, era stato rinvenuto, privo di vita, sulla scarpata della ferrovia appena fuori della stazione di Prato. Una inchiesta sulla sua morte venne aperta ed immediatamente chiusa: si disse che, probabilmente, volendo andare alla latrina, il Generale avesse erroneamente aperto una porta sul binario e fosse precipitato fuori. Ma la spiegazione regge poco; in più c’è da considerare che il corpo del Generale venne ritrovato sulla scarpata opposta a quella della direzione del treno, come se fosse stato scaraventato con forza fuori della carrozza. Che l’eventuale omicidio non avesse come movente la rapina è dimostrato dal fatto che nelle tasche del Luogotenente della Milizia fu rinvenuta la considerevole somma di 5.600 lire. C’è da dire che a Prato in molti avrebbero potuto avere un motivo per far fuori il Generale, praticamente tutti quelli che avevano fatto la guerra: sia antimilitaristi, sia interventisti.
Il Generale Andrea Graziani durante tutto il periodo della guerra si era distinto per la sua estrema noncuranza delle perdite umane, per ordinare ai fanti di uscire dalle trincee in assalto per farsi regolarmente falciare dalle mitragliatrici austriache, senza conquistare nemmeno un palmo di terra. E, dopo Caporetto, il Generale Graziani svolse, con fervore ed entusiasmo, il compito di boia mettendo in atto la più spietata repressione, tanto che, per questa attitudine, si guadagnò il sinistro appellativo di “Generale delle fucilazioni”.
Nella primavera del 1917 in tutti gli eserciti, su tutti i fronti di guerra, si stavano registrando atti collettivi di indisciplina e veri e propri ammutinamenti.
Proprio nel marzo del 1917 sul fronte carsico si registrò uno dei più gravi episodi di repressione nei confronti di reparti che reclamavano turni di trincea meno disumani. Per quanto non si trattasse di vero ammutinamento ma di “passeggero disordine”, venne sedato con feroce determinazione e per circa un mese i soldati furono sottoposti ad uno stillicidio di esecuzioni sommarie e decimazioni. Il fucilatore Graziani non si comportava in modo diverso dagli altri suoi pari grado o superiori. Cadorna, ad esempio, fu uno strenuo fautore delle esecuzioni sommarie, ed ancor più delle decimazioni alle quali i comandi militari ricorrevano senza nessuno scrupolo ben prima di Caporetto. Basti la lettura di un passo della circolare diramata il 1° novembre 1916 dal Tenente Generale Emanuele Filiberto di Savoia, comandante della III Armata: «Intendo che la disciplina regni sovrana fra le mie truppe. Perciò ho approvato che nei reparti che sciaguratamente si macchiarono di grave onta, alcuni, colpevoli o non, fossero immediatamente passati per le armi».
Per quanto i dati ufficiali parlino di migliaia di condanne a morte inflitte dai Tribunali militari italiani e di centinaia e centinaia di fucilazioni eseguite, non è possibile avere una idea precisa di quale sia stato il numero delle vittime della violenza repressiva in quanto sia le esecuzioni sommarie sia le decimazioni non lasciavano traccia documentale. Il Generale Graziani che, per rendere più efficace e rapida la sua azione repressiva si spostava in automobile da un punto all’altro delle retrovie, “coadiuvato in modo ammirevole da ufficiali, da carabinieri e da reparti di cavalleria”, puniva con la morte anche i più piccoli atti di insubordinazione, o presunti tali, come quando fece fucilare il soldato Ruffini di Castelfidardo perché aveva tenuto la pipa in bocca in sua presenza. La commissione di inchiesta su Caporetto riconobbe che «le ferree misure da esso [Graziani] adottate valsero ad impedire che lo sbandamento dilagasse nell’interno del Paese» e quindi che «questi energici provvedimenti portarono ottimi risultati».
Ogni soldato era dotato di un Libretto militare personale. Questo Libretto rammentava al soldato che gli si faceva assoluto divieto di «prendere parte qualsiasi ad assembramenti o manifestazioni di partiti politici» o «partecipare a qualche associazione avversa alle istituzioni». «L’assenza dal Corpo per cinque giorni senza autorizzazione [comportava] di pien diritto il reato di diserzione». Ma il Comandante avrebbe potuto considerare disertore un soldato anche «dopo le ventiquattro ore d’assenza». Anzi, a discrezione del Comandante, un soldato poteva essere dichiarato disertore «anche solo quando non abbia risposto ad una chiamata». L’assenza commessa «di concerto tra tre o più militari sarà considerata complotto e punita quindi ancora più severamente». Si incorreva nel reato di rivolta quando «in numero di quattro o più [i soldati si rifiutavano] di obbedire alla prima intimazione dei loro superiori (...) Gli agenti principali saranno puniti colla pena di morte». Per incorrere nel reato di ammutinamento bastava che, in quattro «si rifiutassero di eseguire un ordine, o si ostinassero nel fare una domanda, o porgessero una rappresentanza o lagnanza, tanto a voce che per iscritto». Reato di tradimento: «Incorre nel reato chi avrà sparso notizie od alzato clamori per incutere lo spavento o provocare il disordine (...) o si sarà dato alla fuga, o si sarà tenuto fuori dal combattimento». Istigazione alla resa: «Il militare che durante il combattimento griderà di arrendersi o di cessare il fuoco, sarà punito colla reclusione militare non minore di anni dieci».
Come si vede la vita del soldato, stante anche la genericità delle
regole, era alla mercé dei comandanti, i quali facevano larghissimo uso
di questo loro potere.
L’insurrezione nell’Esercito italiano
Caporetto (Kobarid), ora in territorio Sloveno, anche adesso altro non è che un paesotto dell’Alto Isonzo, sovrastato dalle cime del Monte Nero, del Matajur e dello Stol, lambito dalle acque dell’Isonzo, del Natisone e dei loro numerosi affluenti e cascate. Ma la parola Caporetto ha assunto, nel lessico corrente italiano, il significato di irreparabile sconfitta, di totale sfacelo, di vergognosa disfatta.
Tre sono le motivazioni che vennero attribuite alla rotta di Caporetto.
La prima ne faceva ricadere la colpa sugli alti comandi militari, sulla loro inettitudine, incapacità di comprendere che l’esercito austriaco avrebbe sferrato non uno dei soliti attacchi tattici ma una vera e propria offensiva di sfondamento. E questo benché avvisaglie ce ne fossero state più di una.
La seconda, fatta propria dai comandi militari e dai nazionalisti, accusava la propaganda disfattista dei socialisti e dei cattolici di avere fiaccato il morale dei soldati.
La terza, è quella dello “sciopero militare”, della rivolta. La volontà dei soldati di voltare la bocca della mitragliatrice dall’altra parte, non più verso il “nemico”, ma verso gli alti comandi militari, verso il governo, verso Roma.
Ancora agli inizi del 1918, quando già da tempo i rivoltosi di Caporetto, con i metodi delle esecuzioni sommarie e delle decimazioni, erano stati ricondotti alla disciplina, il governo continuava ad essere terrorizzato dall’incubo di una rivolta militare. Questo un telegramma inviato dal Ministro dell’Interno a tutti i prefetti del Regno il 30 gennaio 1918, n.3083: «Decifri da sé. Pregasi S.V. procurare, anche a mezzo fiduciari, raccogliere dai militari in licenza invernale dati precisi sul vero stato morale delle truppe al fronte, riferendo appena possibile in proposito». Il 22 febbraio successivo venne inviato un telegramma di sollecito a quei prefetti che non avevano ancora trasmesso i loro rapporti. Infatti il Presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele Orlando, come ricorda nelle sue “Memorie”, tra il febbraio ed il marzo del 1918 viveva in uno stato di autentico incubo a causa delle allarmanti notizie che gli pervenivano a proposito dello stato d’animo dei fanti. Illustri uomini politici ed accreditate rappresentanze di partiti gli riferivano «che i soldati non si sarebbero battuti, che avrebbero gettato i fucili, che avrebbero fatto peggio che a Caporetto, anzi dicevano: “C’era il timore che questa volta le truppe non gettassero le armi, ma le conservassero per servirsene non contro il nemico”».
Per la descrizione dello sciopero militare e della successiva rivolta ricorriamo a quanto assai espressivamente riporta il giovane Kurt Erich Suckert nel suo libro Viva Caporetto! L’autore non può essere minimamente sospettato di simpatie antimilitariste, rivoluzionarie o, tanto meno, comuniste. Convinto interventista, agli inizi del 1915, non ha ancora compiuto 17 anni quando scappa in Francia per arruolarsi volontario nella Legione Garibaldina. Dopo l’entrata in guerra dell’Italia si arruola nuovamente volontario e combatte fino all’estate del 1917 come soldato semplice e poi come sottotenente.
All’inizio del 1921 la Rivista Oceanica annuncia l’uscita «anche in Italia» del suo libro sulla rivolta di Caporetto, libro, affermava la rivista, «che tanto rumoroso interesse ha suscitato all’estero». Non solo all’estero non aveva suscitato nessun interesse, e meno che mai rumoroso, per il semplice fatto non era mai stato pubblicato; ma anche in Italia il giovane Suckert non trova nessun editore che glielo voglia stampare. Così è costretto a pubblicarne poche centinaia di copie, a proprie spese, presso la piccola tipografia Martini di Prato. Il rumore che non aveva fatto all’estero lo fece però in Italia, e non fu poco: la stampa nazionalista e fascista si scagliò immediatamente contro il libro ed il suo autore definito disfattista, traditore, e perfino imboscato. Le squadre fasciste vietarono ai gestori delle librerie di esporre e vendere il libro e sfasciarono le vetrine dove Viva Caporetto! era stato messo in mostra. A riportare l’ordine intervenne il governo che, tramite il Ministro dell’Interno Giolitti, ordinò il sequestro della pubblicazione su tutto il territorio nazionale.
L’autore pensò allora di farne stampare una nuova edizione, questa volta romana, e, per non incorrere nelle ire dei fascisti e dello Stato, cambiò il titolo da Viva Caporetto! a La Rivolta dei Santi Maledetti. Ma anche con il nuovo titolo il riapparire del testo di Suckert provocò incidenti, violenze e, sembra, anche una bastonatura, dell’autore. Di nuovo intervenne lo Stato che, tramite il nuovo Ministro dell’Interno, Bonomi, ordinò nuovamente il sequestro del libro. Si arriva alla Marcia su Roma, Suckert si iscrive al Partito Fascista, e nel 1923 ripubblica La Rivolta dei Santi Maledetti. Nella terza edizione, riveduta e corretta, viene fatto espresso atto di fede fascista; ma questo, se lo salva dalle bastonature dei camerati, non lo salva dai rigori dello Stato ed il Ministro degli Interni, che ora si chiama Benito Mussolini, ordina, per la terza volta, ed ultima, il sequestro del libro, confermando l’autore nella persuasione di avere innescato, con quelle pagine di gioventù, una specie di attacco alle Bastiglie di ogni regime.
Anche in questo caso si dimostra la perfetta continuità tra il regime liberal-democratico e quello fascista.
Il giovane scrittore, interventista e borghese, arriva vicino alla esatta interpretazione della guerra tra Stati capitalistici, e realistica è la sua introspezione della psicologia collettiva del soldato, che senza una ragione si trova a dover uccidere altri proletari che non conosce e non odia, e da essi essere ucciso sebbene non odiato. Kurt Suckert descrive l’evoluzione interiore del proletario-soldato e la molla interiore che fa scattare il suo odio di classe contro tutti coloro che la guerra hanno voluta e generata, siano uomini o istituzioni. Descrive la violenta insurrezione scaturita spontaneamente da dentro l’inferno delle trincee, che all’inizio tutto travolge. Questa, priva di una guida che sappia condurla verso l’obiettivo della presa del potere, era, fin dal suo inizio, destinata alla sconfitta. Efficace è anche la descrizione del terrore che pervade la classe borghese di fronte al fantasma di un pericolo rivoluzionario
Quali le forze che si opponevano le une alle altre?
«Due forze di eguale natura si trovavano a fronte: la società capitalista germanica e quella di altri paesi d’Europa (...) Ricorrendo al popolo, armando la nazione tutta, facendo appello a tutte le energie della razza e dell’organismo statale, chiamando a raccolta le masse delle campagne e delle officine, tutto il proletariato rurale e industriale, le due società capitalistiche disputantesi il potere commerciale e economico del mondo introdussero nella lotta un terzo elemento: il popolo, cioè il proletariato».
«Avanti perdio! Dove? Avanti contro i fili di ferro! La povera, cristianissima, fanteria ripeteva giorno e notte gli inutili attacchi contro i reticolati, pel possesso di una roccia, di un ciuffo d’alberi, di una trincea. Chi non ha fatto la guerra sul nostro fronte nel 1915 non può avere un’idea di ciò che significa “inutilità del sacrificio” (...) I fanti, senza un lamento, andavano a stendere le proprie carcasse sui fili di ferro spinato, come cenci ad asciugare (...) Uscivano giorno e notte dalle buche fangose, per andare a divellere con le mani i reticolati spinosi (...) La fanteria usciva dalle trincee e s’incamminava trotterellando verso le mitragliatrici austriache (...) Gli uomini cadevano a gruppi, uno sull’altro (...) Miserabili grappoli umani rimanevano impigliati fra i grovigli spinosi (...) La mitragliatrice butterava i morti e i vivi col suo vaiuolo di piombo (...) Poi l’assalto ricominciava. Avanti ragazzi! I fanti uscivano ancora, per la ventesima volta, dalle buche fangose, avviandosi verso i reticolati nemici».
E tutto questo durò, scrive Suckert, «fino al giorno in cui il nostro fante capì che la sua rassegnata serenità nell’uccidere e nel farsi uccidere senza una ragione (...) senza domandare il perché, senza sapere per chi, era un insulto per quelli ch’erano già morti e per quelli che dovevano morire».
Quello fu il momento in cui «la fanteria prese ad avere coscienza della sua funzione sociale (...) Quando il fante si accorse di non odiare il nemico e di non essere odiato da lui, quando si avvide che in un campo e nell’altro egualmente feroce era l’avversione alla guerra e che questa era fatta specialmente da quelli che non l’avevano invocata, un profondo cambiamento avvenne nella sua mentalità primitiva. L’odio si rivolse contro quelli che avevano gridato “viva la guerra!” specie contro coloro – una massa! – che avevano urlato “viva!” e poi s’erano rintanati nell’interno del paese o nella comodissima zona di guerra. Allora il fante, solo, disperato, invelenito d’odio, si buttò contro la legge. Cioè contro la nazione (...)».
«Il fenomeno di Caporetto è un fenomeno schiettamente sociale. È una rivoluzione. È la rivolta di una classe, di una mentalità, di uno stato d’animo, contro un’altra classe, un’altra mentalità, un altro stato d’animo. È una forma di lotta di classe. I sintomi che l’hanno preceduto e accompagnato sono quelli di un perturbamento sociale: sono gli stessi che hanno preceduto e accompagnato tutti i perturbamenti sociali. La fanteria, nell’annata del 1917, era gravemente “demoralizzata”. Non credeva più a nulla, non aveva più fiducia in nessuno. Voleva la pace, a qualunque costo. La Brigate che si rifiutavano di combattere, i soldati che prolungavano, motu proprio, le licenze, gli ufficiali che si lagnavano pubblicamente, tutto ciò era monito e minaccia (...) L’offensiva del Maggio aveva fiaccato la resistenza dei fanti, quella dell’Agosto, condotta brutalmente e a forza di carabinieri, aveva messo a nudo le piaghe di cui soffriva il popolo delle trincee. Gli atti d’insubordinazione divenivano ogni giorno più gravi. La caccia ai carabinieri diventava sempre più feroce. L’odio dei soldati si manifestava in atti di natura prettamente sociale».
«I casi di rivolta verso gli ufficiali erano rarissimi (...) È vero che, talvolta, li uccidevano a fucilate nella schiena: ma non per malvagità o per spirito di delinquenza. Per vendetta. La vendetta presuppone un torto. In ogni ufficiale ucciso dai propri soldati vi era un colpevole (...) Il fante non uccideva i carabinieri, non sparava contro le automobili dei generali, contro le colonne di camions, contro le baracche dei campi di aviazione, contro le finestre illuminate degli alti Comandi, il fante non commetteva questi atti di indisciplina per “insofferenza alla disciplina”, o per istinti criminali, bensì per ragioni profondamente umane e sociali (...) Casi isolati? No. In tutto l’esercito, in tutti i settori del fronte, simili casi avvenivano giornalmente».
«La fanteria, cioè il popolo delle trincee, era divenuta una “classe sociale”, con una mentalità propria, nettamente antiborghese e pacifista (...) La frase – Dio voglia che arrivino a Roma – era su le bocche di tutti: ufficiali e soldati. L’odio contro chi aveva strillato nelle piazze, contro chi era rimasto indietro, contro chi speculava sul sangue, contro chi si gloriava d’esser in trincea a far la guerra pur rimanendo in pianura, contro chi sfruttava il sacrificio dei combattenti per fregiarsi dei nastrini e dei distintivi».
«La legge era il carabiniere. Per rompere la legge, i fanti massacravano i carabinieri (...) I carabinieri assassinati in trincea non si contano, quelli impiccati o pugnalati nelle retrovie non hanno numero».
«Invece di considerare la profonda significazione sociale di questi atti d’indisciplina, d’insofferenza, d’ignoranza, di stanchezza (come chiamarli?), gli Alti Comandi si aggrappavano ai regolamenti e inventavano contravveleni, sotto la specie di misure disciplinari (1848) e di circolari piene d’ira, d’indignazione e di belle parole sul dovere, sulla necessità del sacrificio, sui dolori della patria. Ma i fanti volevano turni di riposo, cambi in linea, trattamento più equo, più equa ripartizione dei sacrificî, migliorie nella nutrizione, maggior frequenza di licenze».
«Cadorna (...) continuava a premere, col pugno pesante, sul dorso dei soldati curvi sul fango; senza capire che i fenomeni, i quali egli voleva combattere con i regolamenti, con i carabinieri e con le restrizioni, erano al di fuori del cerchio della sua potenza dittatoriale, perché di natura sociale non già disciplinare (...) Quando il popolo delle trincee si sentì morso più fortemente alla nuca dalla sofferenza sociale della guerra (...) si voltò terribile contro la nazione, contro la legge, contro tutto ciò che era borghese, intellettuale, imboscato (...) e incominciò la sua guerra, la sua guerra sociale, la sua “lotta di classe”».
«Il popolo delle trincee invase l’Italia. I nuovi terribili invasori erano gli stessi eroici fanti che avevano preso Monte Santo e Monte San Gabriele, varcato il Timavo, scalato Monte Nero e Col di Lana, seminato il Carso infernale d’ossa e di cenci (...) Un grido di orrore si alzò dall’Italia. Il Veneto fu messo a sacco. Come in tutte le rivoluzioni, vi fu una classe (...) che si gettò, cenciosa ed urlante, piena d’odio e assetata di vendetta, contro un’altra classe (...) Come in tutte le rivoluzioni vi fu una classe (...) che cercò di fuggire, di sottrarsi all’ira del popolo».
«Appena il fronte dell’Alto Isonzo, abbandonato dagli insorti, crollò, ebbe inizio la fuga delle retrovie, dei servizi, degli imboscati, degli sfruttatori, di quelli che vivevano in margine alla guerra facendone la “réclame” e godendone i beneficî. Quando i galeotti delle trincee, i fanti scabbiosi e pidocchiosi che non volevano più farsi ammazzare per gli altri, quando gli “scioperanti” coperti di fango e di cenci, più volte feriti, eroici quasi sempre e quasi mai decorati, giungevano ai paesi delle retrovie, pochi giorni prima pieni di stivali lucidi, di gonnelle e di “armiamoci e partite”, trovavano le strade deserte, le case vuote, i comandi abbandonati. Tutti coloro che temevano l’ira e l’esasperazione del fante, erano fuggiti a precipizio, senza nemmeno pensare a resistere, a prendere le armi, dopo aver scagliato anatemi contro i “traditori della patria” che non volevano più farsi ammazzare per loro. Premuta, più che dalla paura delle baionette austriache, dal terrore dei coltelli dei pezzenti del Carso e degli Altipiani, la folla dei “borghesi della guerra”, degli imboscati e degli intellettuali della guerra, riempiva le strade del Veneto col ributtante spettacolo della sua miseria. Su quella folla di detronizzati, di eroi e di patriotti intenzionali, abituati alle prebende della zona di guerra e alle comodità delle ville venete, si alzava una lamentazione pavida e piagnucolosa. Perché non si battono? (...) Perché hanno lasciato profanare il sacro suolo della patria? Vigliacchi!, vigliacchi!, Perché?, Perché?, Perché?».
«”Viva la Pace!” (...) Guerra civile. Su tutto ciò che era borghese, imboscato, intellettuale, su tutto ciò che dalla guerra, in onta al fango e al sangue delle trincee, aveva tratto lustro e risalto, si scagliava la rabbia “sociale” dei fanti in rivolta (...) E in mezzo ai soldati laceri, ai ribelli senz’arme, passavano pallidi e chiusi gli ufficiali di fanteria, i reietti, i paria, i buoni ufficiali delle trincee e dei reticolati (...) Passavano, confusi agli insorti, gruppi di carabinieri portanti ancora sulla persona i segni delle percosse, passavano gruppi di ufficiali d’altre armi, senza distintivi, disarmati, trascinati via dal tumulto (...) Ed anche passavano, in mezzo alla moltitudine, gruppi di soldati austriaci senza fucili e senza distintivi, accumunati ai ribelli dell’esercito nemico dallo stesso spirito di ribellione, tormentati dalla stessa “sofferenza sociale” della guerra, acclamanti essi pure alla pace, trascinati via dall’ondata rivoluzionaria che aveva spezzato il cerchio della razza e della patria e accomunava genti diverse nel più vasto spirito della necessità e della ragione sociale. Lo spirito della “Comune”».
«Il ventre d’Italia tremò di paura alla venuta rivoluzionaria (...) Il grido dei “senza fucile” dei comunardi (...) si alzava da tutte le strade del Veneto invaso, scendeva verso l’Italia comoda e parolaia, turbava molte coscienze, minacciava molti, troppi interessi e troppi privilegi. Bisognava reagire, arginare l’invasione dei senza fucile, soffocare la rivoluzione delle trincee. Ma come? Fucilando, mitragliando, opponendosi con la forza. Mentre il successor del Maggior Piero, il “lacrimogeno” Orlando, piangeva e declamava, una coorte di generali, di ufficiali, di reparti di cavalleria, tentava arginare sul Tagliamento l’invasione dei ribelli (...) Ma le forze che la reazione (...) scagliava contro la marea rivoluzionaria erano impotenti ad arginare la spinta, ad inquadrare gli “scioperanti”, a proteggere il passaggio del Tagliamento (...) La fiumana dei fuggiaschi (cittadini e contadini, uomini e donne imprecanti) e dei senza fucile, s’incanalava a furia sui ponti, ricacciava indietro gli accorrenti, impediva l’opera dei difensori. Grande era il tumulto.
«Allora, subitamente, alcuni ponti saltarono. Alcuni ponti, zeppi di
gente in fuga e di carriaggi, saltarono a un tratto. Il fiume in piena
travolse uomini e bestie e convogli. L’urlo della moltitudine rimasta
senza scampo sulla riva sinistra, coprì l’urlo delle acque vorticose.
Grande in cielo si alzava la vampa degli incendi (...) Chi fece saltare
i ponti due giorni prima che gli austriaci arrivassero al fiume? Chi
inventò
la storiella degli ufficiali bulgari, travestiti da generali italiani?
Chi sentì la necessità d’impedire, ad ogni costo, il dilagare degli
insorti al di qua del Tagliamento? La reazione. Bisognava che la massa
dei rivoltosi non dilagasse a contaminare le truppe ancora sane, a
rodere
i tèndini della progettata difesa, a seminare il disordine e la rivolta
nel cuore del Veneto illeso».
Cosa venne a mancare
Il Natale del 1914, la rivolta dell’esercito francese, Caporetto non sono che alcuni, anche se significativi, esempi di uno spirito generalizzato di ribellione, di volontà di farla finita con la guerra e con il regime che l’aveva generata. In Russia ed in Italia, in Francia, in Austria, in Germania, tutti gli eserciti, nel 1917, si ribellarono e dichiararono, come poterono, la loro volontà di far guerra alla guerra.
Una delle condizioni necessarie per sferrare l’attacco rivoluzionario contro il potere borghese capitalista, la disgregazione degli eserciti, era matura. Ciò che mancò fu la generale situazione rivoluzionaria. Sia nel 1914 sia nel 1917 nei paesi d’Europa, fuori di Russia, la situazione sociale non era rivoluzionaria. Per questo fu possibile prima trascinare la classe operaia alla guerra e per questo fu poi possibile la repressione dei fanti insorti in Francia e in Italia. Per questo furono sconfitti. Il grido di guerra di quei proletari ribelli al fronte non fu raccolto nelle retrovie della società civile dai loro fratelli di classe, dallo sciopero nei campi e nelle fabbriche, in quelle città dove si trovano i gangli vitali del potere borghese. La colpa di aver aderito a quella Prima Guerra imperialista la classe operaia avrebbe dovuto scontarla con molti milioni di morti e con almeno un altro secolo di capitalismo.
E mancava, fatta eccezione della Russia, il partito rivoluzionario. La Seconda Internazionale in blocco, ad onta delle dichiarazioni del congresso di Basilea e di decine di altri precedenti, era passata nel campo degli interessi dei capitalismi nazionali e aveva legato il suo destino a quello del capitalismo.
La Socialdemocrazia, nel 1914 aveva consegnato allo Stato capitalista un proletariato inerme, destinato al macello per l’esclusivo beneficio degli interessi della patria borghese. Negli anni successivi non mosse un dito per fermare l’immane strage. Quando nel 1917 il proletariato in divisa espresse la sua ferma volontà di imporre la pace, rimase impassibile di fronte alla più feroce e sanguinaria reazione esercitata dai governi e dagli Stati Maggiori degli eserciti per spingere ancora una volta i proletari in divisa al massacro. Quando, poi, tornata la pace, nel 1919, la borghesia rischiò di soccombere sotto l’urto violento della marea rivoluzionaria, ancora una volta fu la Socialdemocrazia che le venne in aiuto e si assunse, in prima persona, l’onere di salvaguardare l’ordine capitalista e di annegare nel sangue ogni conato rivoluzionario.
I nostri compagni, la gioventù socialista italiana, così come Lenin, così come tutta la genuina tradizione marxista rivoluzionaria, non implorarono la pace dai governi; perché guerra e dominio del capitale è situazione altrettanto fetida che pace e dominio del capitale. Non si dichiararono pacifisti, in quanto auspicavano la diffusione da un paese all’altro dello sciopero militare, ossia la fraternizzazione dei proletari in divisa attraverso i fronti, ossia la guerra di classe. Pacifisti sono coloro che, preti neri e preti “rossi”, consegnano disarmati i proletari nelle mani dei macellai capitalisti. E sono pacifisti non della guerra fra Stati, ma della nostra guerra di classe, che rappresenta la liberazione dell’umanità dallo sfruttamento e dalla morte.
Da Struttura economica e sociale della Russia d’oggi: «Lenin è qui irriducibile (...) Bisogna sabotare la guerra da uno e dall’altro lato del fronte senza la condizione che il sabotaggio sia di pari forza, senza badare se dall’altra parte sia per avventura inesistente. Bisogna egualmente, in una tale situazione, con un esercito nemico che varca lo sguarnito fronte, cercare di liquidare la propria borghesia, il proprio Stato, di prendere il potere, di instaurare la dittatura del proletariato. Parallelamente con la fraternizzazione, con l’agitazione internazionale, con tutti i mezzi a disposizione del potere vittorioso, si provocherà il moto ribelle nel paese nemico.
«La risposta è facile, da parte del centrismo: ma se tale moto malgrado tutto fallisce, lo Stato e l’esercito nemico restano efficienti, e vengono ad occupare il paese rivoluzionario per rovesciare lo Stato del proletariato, che farete? Lenin ebbe per questo due risposte: una sta nella storia della Comune, che non avrebbe esitato, potendo debellare la sbirraglia borghese di Francia, ad accogliere a cannonate anche i prussiani, ma in nessun caso avrebbe abbassata la rossa bandiera della rivoluzione. L’altra risposta ai contorti apologizzatori della guerra borghese, imperialista, controrivoluzionaria, fu appunto: la guerra. La nostra guerra, la guerra rivoluzionaria, la guerra socialista. Contro lo stesso nemico allora? Allora la stessa guerra da noi difesa?, sogghigna il filisteo contraddittore. No, perché la nuova guerra è guerra di classe, perché non è condotta al fianco dello Stato borghese e del suo Stato Maggiore, già travolti; perché la sua non sarà vittoria di una coalizione imperialista ma della rivoluzione mondiale».
Nel nostro opuscolo Chi siamo e cosa vogliamo sta scritto: «L’atteggiamento comunista rivoluzionario nei confronti della guerra denuncia come tragica illusione quella di voler coniugare capitalismo e pace ed afferma che solo l’abbattimento del potere borghese e la distruzione dei rapporti di produzione fondati sul capitale potrà liberare l’umanità da simile ripetuta condanna. Sulla linea di Marx e di Lenin proclama la tattica dell’antimilitarismo di classe, della fraternizzazione ai fronti, del disfattismo rivoluzionario al fronte e nelle retrovie, che vengono a capovolgere la guerra fra gli Stati in guerra fra le classi. Per la contraddizione materiale di fondo che inficia tutti i movimenti del pacifismo legalitario e interclassista, che condannano la guerra ma nei limiti del presente regime, il comunismo prevede che, per la loro matrice di classe borghese, quando saranno costretti a scegliere fra Guerra e Rivoluzione opteranno necessariamente per la prima. Con Lenin li riteniamo fattore di inganno e di disturbo nel sano orientamento di battaglia del proletario e uno strumento ausiliario del militarismo per trascinare i proletari alla guerra. Sono infatti i pacifisti che, addebitando all’”aggressore” di turno quegli orrori sulle popolazioni che le guerre imperialiste sempre e inevitabilmente provocano, vengono infine a chiedere agli Stati borghesi che lo “fermino con qualsiasi mezzo”, e ai proletari di massacrarsi a vicenda per quel menzognero ideale di “pace”, “democrazia”, “civiltà”, ecc».
Allo stesso modo nelle nostre Tesi sulla Guerra del 1989, Punto 11.5: «Il partito considera inadeguate anche al solo fine di scongiurare la guerra, e da elevare ed estendere a forme insurrezionali, le reazioni istintive della classe contro la guerra, individuali o collettive, in forma di rifiuto del servizio militare, fuga, evasione, diserzione. Tali reazioni, di singoli o di masse, pur se spontanee, esprimono sì il rifiuto proletario di avviare la propria carne al macello imperialista, ma di per sé possono condurre solo al gettito delle armi e alla dispersione di quelle forze proletarie che dovranno costituire il braccio armato della rivoluzione. Lo sfaldarsi dei reparti e l’abbandono del fronte saranno vivamente favoriti dal partito al fine del passaggio di quelle forze sul fronte interno organizzato e disciplinato per la guerra civile contro il proprio governo. Nella sua attività e nella sua propaganda inciterà i soldati non a gettare le armi, ma ad impugnarle saldamente per orientarle, al momento opportuno, contro il nemico interno. Solo con un intervento legale ed illegale nell’esercito, mirante alla organizzazione di nuclei comunisti, di reparti poi, potrà verificarsi il fenomeno del passaggio di parte dell’esercito borghese sotto le bandiere della rivoluzione o ad ottenerne la neutralità nello scontro sociale. In concomitanza potrà ingigantirsi il fenomeno, esteso e spontaneo nella Prima Guerra, della fraternizzazione tra soldati di eserciti nemici, che i comunisti devono tendere ad organizzare superando la sua prima forma di sciopero militare».
Da queste come da innumeri altre citazioni che si possono riportare
dai nostri testi classici, sia di Marx, sia di Lenin sia che dalla
nostra
corrente si dimostra in maniera evidentissima come la posizione
rivoluzionaria
che il partito del proletariato deve assumere nei confronti della
guerra
imperialista non può minimamente transigere e venire meno a questi
basilari
postulati:
1 - Mai e per nessun motivo il partito dichiarerà una tregua della
lotta di classe in caso di guerra e men che meno chiamerà la classe
proletaria
a solidarizzare con il proprio Stato borghese. Ciò anche nel caso in
cui
il territorio nazionale fosse minacciato da una aggressione militare di
Stati nemici o invaso ed occupato da eserciti stranieri;
2 - Il partito dovrà proclamare il rifiuto unilaterale della difesa
della patria;
3 - Allo stesso tempo farà opera di fraternizzazione fra i proletari
in divisa degli opposti eserciti borghesi;
4 – Imposterà tutta la sua propaganda ed azione tattica finalizzandole
alla trasformazione della guerra fra gli Stati in guerra civile tra le
classi al fine della presa del potere politico.
Queste lapidarie enunciazioni ci autorizzano a concludere che l’opera svolta dai partiti della Seconda Internazionale, sia allo scoppio del conflitto sia durante tutto il suo svolgimento, rappresentò non solo il totale abbandono della dottrina e della tradizione socialista (anche riformista), ma soprattutto rappresentò il repentino passaggio nel campo della difesa degli interessi nazionali borghesi, consumando un cosciente e deliberato tradimento della classe operaia e della sua finalità storica e complicità diretta nel suo svenamento.
Quel tradimento sarà poi reiterato, dopo solo due decenni,
con
l’adesione dei partiti comunisti stalinizzati ai fronti della Seconda
Guerra, ugualmente imperialista ed ugualmente antiproletaria e
anticomunista
della Prima.
Capitoli esposti a Torino nel maggio e a Cortona nell’ottobre 2005.
LOTTA DI CLASSE: concetto che nel III millennio, dopo la “morte delle ideologie”, non tanto è dimenticato quanto abolito. A prendere le distanze da questa terribile terminologia, come se si trattasse di cosa demoniaca da esorcizzare, sono soprattutto quei partiti e compagini politiche che si dichiarano di estrema sinistra, e, nel campo sindacale, quei gruppi che si pongono in antagonismo con le centrali assoggettate al regime, che usano definirsi “di base” per non essere costretti a dire “di classe”. Quando di lotta di classe si è costretti a parlare, se ne parla in negativo – ed è questo il massimo dell’aberrazione – si parla di lotta di classe per addossare alla borghesia, al capitale finanziario, allo Stato la colpa di averla “provocata” e di avere infranto l’infernale idillio della pace sociale.
Nel sano riformismo di fine Ottocento (tanto sano che nel suo grembo poteva generarsi e sviluppare tutta la nostra tradizione e dottrina rivoluzionaria), il concetto di lotta di classe era chiaro e scontato ed era ben compreso che qualunque conquista parziale, sindacale, legislativa o di altra natura, sarebbe restata vana, e la borghesia se la sarebbe ben presto ripresa, se non fosse stata difesa da una continua pressione da parte del proletariato.
Il 18 giugno 1892, a cura della “Associazioni Operaie Democratiche Socialiste di Milano”, in occasione delle elezioni amministrative usciva, come numero unico, il foglio “LA LOTTA DI CLASSE”. Successivamente, nemmeno due mesi dopo, il 30 luglio, diretto da Camillo Trampolini, esce il primo numero del settimanale “LOTTA DI CLASSE” con sottotitolo: “Giornale dei Lavoratori Italiani”.
Il movimento socialista italiano possedeva già tutta una serie di pubblicazioni periodiche sia di categoria sia prettamente politiche, mancava però un organo centrale capace di imprimere un indirizzo unitario al movimento. La “Lotta di Classe” venne alla luce con questo preciso scopo.
L’obiettivo che immediatamente si diede fu quello di far comprendere al proletariato che «la questione operaia non è questione locale, questione limitata ad un’arte o ad una federazione di arti, questione di rapporti fra Tizio padrone e Sempronio operaio, questione di orari, di salari, di regolamenti; la questione operaia è innanzi tutto una questione sociale. Come tale, essa ha bisogno (...) dello sforzo di tutta la massa dei lavoratori, resi coscienti e concordi da un unico e supremo ideale rinnovatore. Gli scioperi, le società di resistenza, le cooperative ecc. sono ottimi strumenti d’agitazione, ottimi mezzi per reclutare ed agguerrire l’esercito, ma guai al movimento operaio, guai all’avvenire della classe lavoratrice se essa riponesse in quei mezzi ogni sua speranza e ne facesse gli ultimi fini! Logorato nella lotta del più debole contro il più forte, consunto in un eterno e vano lavoro di Sisifo, il movimento dei lavoratori finirebbe per dover riconoscere la propria impotenza».
La “Lotta di Classe” metteva in evidenza come la radice dell’assoggettamento del moderno proletariato risiedesse nella detenzione da parte della classe borghese dei mezzi di produzione e come «la socializzazione di quei mezzi è la sola soluzione del problema». Continuava: «Perduto di vista questo fine, la questione operaia rimane una questione borghese, una piccola questione di accordi tra servi e padroni. È la questione come interessa ai padroni di considerarla».
Il proletariato, al contrario, attraverso il proprio partito di classe si rende conto della necessità di abbandonare «la questione meramente operaia nel suo senso meschino, nel suo senso borghese» e capisce che «la questione operaia separata e tenuta lontana dall’idea socialista è un nonsenso: che il movimento operaio e il socialismo sono due facce di un fenomeno istesso: il primo è il fatto, il secondo è la coscienza, l’anima del fatto; separarli è distruggerli. Fonderli insieme è render ad entrambi l’organismo e la vita» (dal numero 1, del 30 luglio 1892).
Ecco come nacque la “Lotta di Classe”, giornale di azione e di dottrina, quello che sarebbe divenuto il primo organo di stampa del Partito Socialista Italiano
Fu scelta “Lotta di Classe”, a titolo del settimanale, perché «è la sola parola che qualifichi con precisione e allontani l’equivoco. I mistificatori e i confusionari la odiano. Perciò l’abbiamo assunta a segnacolo del nostro vessillo». Il settimanale, nei suoi primi tre numeri svolgerà una intensa attività a favore della formazione del Partito Socialista e, dopo il Congresso di Genova, dal quarto numero (del 20 agosto) diverrà “Organo Socialista Centrale del Partito dei Lavoratori Italiani”.
Quelli che ripubblichiamo, qui di seguito, sono tre interventi in occasione di due distinte campagne elettorali, amministrativa la prima, politica la seconda: ante-Genova la prima, post-Genova la seconda.
Da tener presente infatti l’ante ed il post Genova perché, come ci si accorge facilmente dalla lettura, i tre documenti assumono progressivamente un’impostazione più matura e precisa circa il giusto scopo dell’intervento socialista nei parlamenti; assumono, insomma, una impostazione di partito.
Questo non significa però che vi fosse equivoco sul ruolo autonomo del proletariato nella competizione politica. Nella prima apparizione del giornale (come numero unico) si legge: «Il principio della Lotta di Classe – come tutte le idee nette, vere, precise, senza doppi fondi, le idee che servirono di base a nuove civiltà – ha anche questo di caratteristico: che serve a meraviglia da pietra di paragone, per saggiare gli uomini e i partiti. Dite “giustizia”, “bene pubblico”, “miglioramento del popolo” e simili frasi fatte (...) e potrete avere consenzienti non solo tutti i partiti, ma più ancora tutti gli uomini senza partito e senza convinzioni. Non c’è nessuno che non voglia essere “moderato”, “liberale”, “progressista”, che non dica di amare i rimedi radicali, ecc, ecc. Tutte belle parole che impegnano tanto, quanto dire: “servitore umilissimo”. Ma l’idea della lotta di classe non ammette sottintesi e riserve. L’equivoco fugge da lei come Mefisto spaventato all’aspetto della croce (...) I partiti moderati, clericali, conservatori schietti, all’appello della lotta di classe, rispondono chiaramente: “Presenti!” (...) Sono avversari palesi e perciò meno temibili. Essi fanno la loro via, come noi la nostra. Con essi non c’è più da discutere: non si tratta che di diventare più forti e di sopprimerli (...) Ma dove la lotta di classe ha portato lo scombussolamento e il disastro è nel vecchio partito democratico (...) impregnato di spirito borghese e appoggiandosi – per la forma – sul popolo, a favore del quale diceva di combattere (...) Quando questo popolo – diventato proletariato – cominciò a voler essere quel sovrano che i democratici dicevano, ma che esso era soltanto per burla, la vecchia democrazia ha perduto a dirittura la testa. Come! Gli operai, i nullatenenti pigliavano le cose sul serio? Non capivano che si trattava d’un gioco? Volevano davvero servirsi del suffragio anche a loro beneficio? (...) L’ingratitudine era davvero così nera che rasentava il tradimento. I promotori di questa insurrezione non potevano che essere agenti provocatori, gente assoldata dal governo e dalla questura. Cavallotti e il “Secolo” ce lo dissero chiaro: “Siete delle spie!” Le spie, intanto a traverso il carcere e la calunnia, continuarono pel loro cammino. Invano i vecchi democratici (...) chiesero a taluna delle spie che si lasciasse mettere nelle loro liste (...) Le spie non vollero saperne. Il partito giovane (...) non si sentiva di legarsi ad un prossimo futuro cadavere. Ed ecco la vecchia democrazia, rimasta senza bussola e senza timone (...) costretta a vivere di ripieghi, ad acconciarsi nell’equivoco (...) Nelle questioni ardenti dell’oggi tu non sai più questa democrazia dove sia, che cosa voglia. Vedi divario di nomi, non vedi antagonismo di bandiere. Le sue liste sono le più stinte, le più scolorite (...) Barcamenandosi con una carezza agli esercenti, o una stretta di mano di soppiatto ai cooperatori, evitando studiosamente gli esclusivismi – cioè le idee – per non urtare né a dritta né a mancina, né sotto né sopra, questa larva di un partito che fu, prolunga di qualche anno la propria illacrimata agonia (...) Così, per impulso fatale della lotta di classe, che opera, inavvertita, dappertutto e su tutti, senza malvolere di uomini ma per forza onnipotente di cose, ciascheduno avrà trovato il suo posto. E, nella sincerità della lotta, si marcerà più liberi e spediti verso l’avvenire!».
Nel numero 9, del 24 settembre, per ribadire ancora una volta la completa estraneità tra il programma (seppur minimo) dei socialisti e quello massimo dei democratici si legge: «I radicali soprattutto saccheggiano, ad opportunità, il programma socialista senza però accettarne il fine ultimo che imprime carattere, direzione, vita a tutto l’assieme (...) Nel programma radicale, impregnato di spirito borghese e liberista, divergente dal nostro nel fine, le alcune rivendicazioni immediate prese a prestito dal programma socialista, quali le leggi difensive del lavoro, l’orario normale di otto ore, l’imposta progressiva, ecc., diventano, per necessità logica del sistema, specchietti elettorali per le allodole».
Nello stesso numero di giornale si affermava come oramai non ci fosse più nessun partito, per quanto reazionario, che non prendesse a prestito qualche cosa dal programma minimo socialista, per mascherare la propria politica di classe. Al contrario dei conservatori, il partito radicale faceva proprio in toto il programma socialista, ma ai fini dello scontro di classe non si differenziava affatto dagli altri, in quanto «tanto quelli che raccolgono solo i nostri scampoli, quanto quelli che adottano il nostro programma in blocco si rassomigliano in questo: (...) che essi rigettano il fine ultimo a cui il programma tende e rispetto al quale esso non è che la preparazione, la strada di passaggio: la socializzazione della proprietà».
Già alla fine del XIX secolo la democrazia viveva la sua irreversibile agonia, illacrimata da parte del proletariato. Oggi non esiste più, morta da quasi un secolo. Il peccato è che a sbarazzare il cammino della storia dal suo ingombrante cadavere non è stato il proletariato ma la borghesia stessa.
Non per questo il proletariato verserà lacrime sulla sua fossa.
LA LOTTA DI CLASSE MODERNA
Da “La Lotta di Classe”, numero unico delle “Associazioni
Operaie Democratiche Socialiste di Milano” per le Elezioni
Amministrative,
18 giugno 1892.
1° - Lotta dichiarata!
Si; la classe operaia italiana ha finalmente inalberato anch’essa la nuova e fulgente bandiera.
Anch’essa comincia a intendere e a proclamare il principio che muterà la faccia del mondo e farà di mille madri di schiavi un popolo solo di liberi.
Questo fatto – per quanto ancora agli inizii – è senza discussione il fenomeno più importante che sia avvenuto nella vita italiana dopo il sorgere dei Comuni del medio-evo. Più importante d’assai dello stesso cosiddetto risorgimento politico, della stessa liberazione dai papi, dagli stranieri e dai duchi, perché questa fu rivoluzione borghese, fatta e sfruttata a beneficio di una sola classe – mentre la redenzione del proletariato, ultimo porto della lotta odierna, sarà al tempo stesso la redenzione dell’umanità tutta quanta.
E invero, se la servitù abbrutisce e corrompe il servo, essa non corrompe meno il padrone e i suoi sgherri; ed è una triste e rovinosa vita per tutti, quella in cui la ingiustizia e la violenza danno ai pochi la ricchezza e il benessere, e di società - nel vero senso della parola – non rimane più altro che il nome.
Di questo male morirono le civiltà antiche, fondate sul dispotismo e sul dispregio della umana dignità – e l’ha costatato la storia. Di questo male morranno le moderne democrazie, se non sapranno trasformarsi a tempo e radicalmente – e anche questo la scienza ha preveduto ed è fatale come il destino.
2° - Quel che fu nel Passato
Che cos’è la lotta di classe? È la lotta – rispondono – di coloro che non posseggono nulla, contro quelli che posseggono tutto; degli sfruttati contro gli sfruttatori; delle vittime contro i parassiti.
Ed è vero. E se consultiamo la storia, questa lotta noi la troviamo in tutti i tempi e presso tutti i popoli. Dacché la proprietà privata riuscì ad imporsi, a monopolizzare la terra, che è il retaggio di tutti, e i mezzi della produzione e dello scambio, che sono il prodotto delle attività consociate – dacché essa riuscì ad impiantarsi nella legge ed a organizzare sul suo modello e al suo servizio lo Stato, la Chiesa, l’educazione e perfino le teste della stessa popolazione che ne soffre e che è indotta a crederla inevitabile ed eterna – da quel giorno, tuttavia, la società non rimase senza convulsioni. E la lotta dei miseri contro gli abbienti, degli oppressi contro i dominatori, animò con varia vicenda ogni movimento della civiltà.
Nei tempi bui dell’antichità e del medio-evo la vita della società diventò una specie di duello, un combattimento di fiere per ghermirsi a vicenda il boccone contrastato. Le classi al potere, sospinte da avidità e da paura, non rifuggirono da alcun mezzo per disarmare, per avvilire, per estenuare i possibili ribelli – decimando dei migliori, dei più valorosi, le schiere assoggettate, comprando o ricattando le intelligenze, intimidendo le velleità generose, corrompendo con ogni sorta di frottole religiose l’intelletto e il cuore delle masse.
Sotto l’influenza di tali artifici non fu cosa forte e gentile che potesse resistere. La stessa fede – nata dalla sete di ideale, e in tempi in cui la scienza bambina male rispondeva a codesto eterno bisogno umano – fu convertita in istrumento di servaggio e di degenerazione, impiegata a mantenere nei cervelli l’ombra e lo sgomento. Il timor di dio fu speso a rinforzare i catenacci agli scrigni dei potenti, impinguati dal sudore dei popoli, e il sacerdote fu chiamato a fare il paio col birro per assicurare la tranquillità alle orge dei signori del mondo.
3° - Quel ch’è Oggi
Ma se, sotto quest’aspetto, una lotta di classi si può dire che dura da millenni ed ebbe esito vario a seconda delle circostanze e dei tempi, ben altra cosa è la lotta di classe moderna – quella che oggi noi combattiamo.
E invero essa sarebbe cosa ben meschina se si limitasse a voler capovolgere il mondo e farcelo ritrovare poi tale e quale – a voler porre una classe in luogo dell’altra – a voler creare, mutate solo le persone nuove falangi di padroni e nuove sterminate schiere di servi.
Che anzi, se molti episodii di codesta lotta, nel passato, ebbero esito infelice e non condussero a nulla, si fu perché mancava in essi un concetto morale superiore, al quale le circostanze permettessero di realizzarsi – di cui le circostanze esigessero anzi il realizzamento.
La lotta di classe moderna per questa sarà vittoriosa e sarà redentrice: perché essa è concepita dal pensiero quale è richiesta ed è voluta dai fatti. Perché essa è vera ed è giusta dentro dell’uomo che la pensa e che essa spinge ad agire, e fuori di lui, nelle condizioni fatali della produzione moderna; perché la meta, a cui essa tende, è voluta non solo dal pensiero, ma anche dalla storia.
4° - Le sue Cause
La lotta di classe moderna è nata collo sviluppo dell’industrialismo moderno. Come tale essa ha a mala pena un secolo di vita.
Finché la produzione fu individuale, e dominò la piccola industria, e il lavoratore era padrone del suo campiello o della sua bottega, vi poterono essere angherie, soprusi, ma non vi era – non vi poteva essere – la lotta di classe nel senso moderno.
Fu soltanto quando l’economia medioevale venne capovolta; quando – specialmente per l’applicazione delle macchine e l’allargarsi dei mercati – la produzione divenne collettiva e il padrone non fu più il lavoratore più abile o più anziano, ma diventò uno straniero, un parassita della produzione – fu allora che l’appropriazione individuale del prodotto del lavoro di tutti o delle grandi maggioranze, a favore di un solo o di pochi e specialmente degli oziosi, diventò un flagrante controsenso.
La proprietà, invece di essere la condizione ed il compenso del lavoro, diventò una semplice tassa, un pedaggio gravosissimo, succhiante il sangue del lavoratore, a cui in compenso non diede più nulla – neppure la sicurezza del domani. E chiamò ipocritamente “libertà del lavoro” la libertà dello sfruttamento ad oltranza, il diritto dell’oppressione senza limiti, il più fiero e il più invincibile di tutti i dispotismi.
Il monopolio delle terre, delle miniere, degli strumenti di lavoro, diventati ormai grandi capitali, o del loro equivalente in moneta - monopolio acquistato collo sfruttamento, coll’usura, colla frode di cui vive il commercio, coll’eredità, col servilismo e con altri mezzi da cui è disgiunta ogni moralità ed ogni merito personale – diventò la condizione imprescindibile dell’arricchimento e del benessere. Il lavoro, la virtù, il risparmio non ebbero più altri compagni che la miseria eterna e senza speranza.
La concorrenza dei capitalisti fra loro, necessaria per sopraffarsi a vicenda e dominare il mercato, non permise più ad essi di essere umani, buoni, pietosi: e i più grossi e i più fortunati divorando sempre i più piccoli, le schiere del proletariato si andarono ogni giorno ingrossando colle rovine della classe possidente. Quanto più al vertice della piramide si concentrava il lusso e la felicità, tanto più alla base si ammucchiava la fame e la disperazione.
La stessa causa, l’assenza di ogni concetto regolatore della produzione, produsse le crisi, la disoccupazione, l’ingombro dei magazzini insieme alla impotenza dei produttori di diventar consumatori e di diminuirlo; lo sfruttamento del lavoro dei miseri diventò a dirittura forsennato, e invano le leggi, per la salute della razza umana, tentarono a volte di frenarlo.
La casa del lavoro diventò simile all’ergastolo, e dopo avere inghiottito il padre di famiglia, inghiottì la donna ed il fanciullo, senza rispetto ad età né a debolezza, scagliò la donna ed i fanciulli – strumenti meno costosi – a strappare il pane di bocca al marito ed al padre – esaurì coi lunghi orari e col cottimo le forze e la salute dei lavoratori, ai quali fu disertato il focolare, furon tolte la famiglia e la patria. Le epidemie, la delinquenza spaventosamente crescente, la prostituzione che dilaga, il fermento dovunque della ribellione e dell’odio, la giustizia fatta scudiera delle loro Maestà l’oro e l’argento, lo smarrimento d’ogni fede e d’ogni ideale sociale e morale furono le conseguenze di uno stato di cose che rammentava – peggiorate – le decadenze di Babilonia, di Bisanzio e dell’antica Roma.
5° - Il suo significato
A reazione e a difesa contro questa decadenza e questo dissolvimento, sorge il movimento operaio, si desta la coscienza operaia.
Essa capisce che essendo il proprietario divenuto un peso morto sulla produzione, affatto inutile ad essa, il prelevamento che esso fa sul prodotto al quale non coopera, per pagarsi il lusso od i vizî, per mantenere la burocrazia e gli eserciti a sua esclusiva difesa, per corrompersi e per corrompere il mondo, cotesto enorme prelevamento è diventato a sua volta un assurdo: che collettiva essendo ormai la produzione, collettiva dev’essere la ripartizione dei valori, a misura dei meriti e dei bisogni di ciascuno; che, chi potendo, non lavora, non ha diritto di mangiare, e che chi vive del sudore altrui non ha diritto di vivere.
La coscienza operaia ha capito che la ricchezza, la forza, il sapere dei potenti del mondo, non son fatti che del lavoro e degli stenti dei lavoratori: e che se vasti ceti di professionisti, di impiegati, di operai del pensiero sono al servigio di quei pochi contro i moltissimi, è perché i pochi seppero armarsi e, perché tali, rimasero i più forti. Ma la forza delle forze, pur di saperla impiegare, sta pur sempre nella virtù del lavoro, e solo chi tutto produce può distruggere tutto perché saprebbe tutto riedificare.
Ha capito che chi detiene le ricchezze, nel mondo industriale moderno, detiene indirettamente ogni altro potere; che la libertà è un nome vano e un’ironia feroce per chi nulla ha e nulla può.
Ha capito che gli sforzi dell’operaio isolato, per emanciparsi, sono altrettanto folli come il voler scuotere da soli e senza leva un enorme macigno – e che solo l’unione illuminata e cosciente e la volontà ferrea, compatta, pertinace degli interessati può spostare l’asse della costituzione sociale.
Ha capito infine che nulla più si oppone a che il mondo industriale – questa geenna infernale – ridiventi un paradiso terrestre, una grande cooperativa di soci e di fratelli, interessati non a divorarsi e a svaligiarsi a vicenda, ma ad amarsi ed a aiutarsi – nulla più si oppone a questo, tranne l’ostacolo che impedisce appunto il fiorire delle cooperative – la mancanza cioè, nei lavoratori, del possesso collettivo dei capitali – e che i capitali bisogna prenderli dove sono, dove il lavoro di tutti da migliaia d’anni ha cooperato a crearli.
Ed ha inastata, a questo scopo, la bandiera della lotta di classe.
6° - La Conquista del Potere
Ma i primi passi di questa lotta ravvisò un altro ostacolo, potente fra tutti, e che prima non aveva sospettato.
Vide cioè che la classe appropriatrice, la borghesia capitalista, aveva organizzato il suo potere nelle leggi e nelle istituzioni amministrative e politiche; si era accampata nei comuni, nello Stato, nella scuola, nel tribunale, ecc. ecc.; e di questi istituti si serviva a tagliar le gambe al movimento operaio.
E allora – ammaestrata da dolorose esperienze – la classe operaia capì che bisognava seguire la medesima via.
Capì che la violenza improvvisa, se può servire ad un mutamento semplicemente politico, a detronizzare un principe od a sbaragliare momentaneamente un esercito, non riescirà però mai, da sola, a mutare profondamente la struttura economica d’una società, mentre offre ottimi pretesti ai dominatori per salassare i popoli e snervarne le migliori energie.
Capì che i Parlamenti, i Comuni, tutte le istituzioni organizzate erano strumenti potentissimi di dominazione – che difficilmente si potevano distruggere – ma dei quali si poteva invece impossessarsi e servirsene.
Capì che il voto, questo arnese d’inganni e di intrighi, questo strumento di vanità e di cupidigie finché era maneggiato unicamente dai dominatori o dato loro a pro dei loro fini e per le loro contese, poteva invece – maneggiato dai lavoratori ai fini loro propri e per le loro proprie battaglie – diventare, non solo un mezzo di reclutamento del partito e di schierarne e di contarne le forze – ma altresì la più sicura delle armi per acquistare un ascendente sempre maggiore nella vita pubblica, ed acquistatolo, poterlo conservare.
Per tutto ciò la classe operaia si organizzò in partito politico indipendente e, sulla bandiera inalberata della lotta di classe, ha scritto: LA CONQUISTA DEL POTERE.
7° - Il grande Ideale
Con questa bandiera, per questa via, il proletariato militante cammina, lento, ma sicuro, alla meta luminosa, traendo seco la folla innumerevole, fra lo sgomento dei tiranni pubblici e privati – sfidando la calunnia e il sarcasmo dei nemici, la congiura incosciente degli imbecilli e dei vigliacchi – arruolando nelle sue file ogni giorno nuove reclute, sia nel campo del lavoro manuale, sia in quello del pensiero; attraendo a sé i ceti a lui vicini, che il moto vorticoso del capitalismo va precipitando nel suo seno o che sentono ormai inevitabile il loro tracollo. Cammina e diventa la fiumana che s’ingrossa e s’avanza maestosa, che travolge gli ostacoli, che spazza e che feconda il terreno.
Per questa via il proletariato – che fu nulla – sente che diventa qualcosa e che domani sarà tutto; ma colla vittoria non sarà più il proletariato, la classe dei reietti, sarà invece l’umanità tutta intera laboriosa e redenta. Fuori del suo seno, che avrà radunate tutte le forze utili alla società, non ci saranno più che i parassiti ostinati, gli elementi corrotti – condannati a trasformarsi o a perire.
Così la lotta di classe avrà raggiunto il suo fine ultimo e grandioso: l’abolizione delle classi, l’armonizzamento degli interessi nella “giustizia pia del lavoro”.
Allora, per la prima volta dopo tanti secoli, una “società umana” di fatto e non di nome sarà alfine instaurata.
La lotta di classe moderna, animata da questo grande ideale, aiutata da tutte le forze materiali dell’evoluzione sociale, incarnata nella grande maggioranza degli interessi e dei voleri, non potrà fallire la sua meta. Essa si presenta restauratrice della proprietà sulla sua base legittima, il lavoro, contro gli spoliatori e gli usurai – redentrice della famiglia dissolta e mercantilizzata ai danni della specie – restitutrice di una patria terrena all’immenso popolo che più non ha patria e che è burlato colla patria celeste – realizzatrice della libertà, dell’eguaglianza e della fratellanza che il dominio borghese ha insultato e deriso – abolitrice della guerra e degli odii nazionali e di classe – fondatrice, nel violento disordine borghese, della pace e dell’ordine.
Essa sola – la lotta di classe – può infiammare ancora di un santo ardore le anime generose, sostituire le religioni crollanti, restituire alla vita il valore e l’ideale smarriti.
Essa è la demolitrice della barbarie – La Salvatrice della
pericolante
civiltà.
LA DEMOCRAZIA
e il Partito Operaio socialista
Da “Lotta di Classe”, n. 6, del 3 settembre 1892.
Ci domandano: - Quale sarà il nostro contegno nelle future elezioni, di fronte ai partiti cosiddetti affini e specialmente di fronte al partito radicale?
Chi abbia nel cuore, profondamente, il nostro programma e le ragioni per cui siamo costituiti in partito indipendente, non ci pare possa nutrire alcun dubbio in proposito. I partiti non acquistano forza che affermandosi: ora affermarsi vuol dire distinguersi, non vuol dire confondersi, allearsi, transigere, fare il gioco degli altri.
Ma e dove – ci obiettano – ci sia impossibilità di riuscire da soli? Questa condizione è – per oggi – la nostra condizione nella gran maggioranza dei Collegi d’Italia.
Ma che cosa intendono costoro con la parola riuscire?
Noi sappiamo benissimo tutti che il mandare qualche deputato di più o di meno alla Camera, oggi, per il nostro partito, non è cosa di grande e vitale rilievo. I successi elettorali non sono anche oggi da sprezzarsi, perché, segno di forza, impressionano amici ed avversari e specialmente gli indecisi, e perché inoltre gli eletti hanno mezzi speciali di propaganda a loro disposizione, sui quali può far conto il partito. Ma non è l’aver piuttosto sei che tre deputati socialisti alla Camera che ci darà – nella Camera – qualche vittoria. Il Parlamento sarà senza dubbio da prendersi d’assalto coi nostri, e quando, non diciamo la maggioranza, ma una forte e decisa minoranza dei nostri avrà voce là dentro, si vedrà mutare ben presto l’andamento delle cose. Non soltanto guadagnerà la propaganda, ma l’azione legislativa e governativa, l’azione complessa dello Stato si volgerà a favorire molto più intensamente quei movimenti d’emancipazione operaia, che ora i governanti lusingano a parole e comprimono in fatto.
Ma a questo scopo non si arriva che rinforzando il partito. E il partito non si rinforza colle candidature di coalizione. L’esperienza ne fu fatta e s’è visto che, piuttosto, s’indebolisce.
Perciò quando i radicali, per esempio, come fa ora un Comitato di Roma, mandano fuori dei Bollettini dispensando candidature a destra e manca e, per attirarsi i voti dei lavoratori, fanno intendere che, giacché ci sono nel paese e non si può sopprimerli, concedono qualche posto negli elenchi anche a qualcuno dei nostri, purché siano, ben inteso, socialisti serii, socialisti simpatici, socialisti che possono contare su grandi suffragi; noi a queste sollecitazioni, anzi solleticazioni, dobbiamo semplicemente rispondere – senza spavalderia, ma con fermezza – che noi apparteniamo ad un partito indipendente e diverso dal loro, che della serietà dei nostri candidati è solo giudice competente il nostro partito e che quindi non abbiamo ragione né di accettare, né di rendere il servizio che ci si propone.
Ci siamo staccati dagli anarchici perché crediamo diversi i loro fini e disastroso il loro metodo di lotta. Abbiamo lasciato in asso quei pochi corporativisti in ritardo che – coll’aiuto degli anarchici in quanto compiono un lavoro dissolvente e retrivo – innalzano oggi la bandiera dell’organizzazione operaia senza principî e senza ideali, del gran calderone operaio senza altra distinzione che la blouse, di un partito che non è un partito, bandiera abbandonata dal proletariato di tutto il mondo. E ciò facendo credemmo di rinforzarci come partito e non ci arrestò lo stolto timore di rimanere un po’ più pochi.
Dovremmo tenere diversa via di fronte ad un partito che ci è ancora più lontano di questi, al partito delle “armonie sociali”, dei diritti della proprietà quiritaria, delle leggi sociali somministrate in dose irrisoria, delle frasi – nient’altro che frasi – dalla legge elettorale in poi – a favore delle rivendicazioni popolari?
Perché allora avremmo inalberato un programma? Perché allora ci saremmo costituiti in partito indipendente?
Per sognare affinità che non esistono ed alleanze impossibili, bisogna non solo avere poca fede nell’avvenire delle forze socialiste: bisogna, pare a noi, non capire, o almeno non capire abbastanza, che cos’è il socialismo, che cos’è la lotta di classe, che cos’è l’essenza e il carattere di questo grande movimento di emancipazione sociale che scuote la presente società e che, accrescendosi, per fatalità economica e morale, secondo la legge del moto accelerato, la farà capitolare più presto di quel che altri non creda.
Bisogna insomma essere o democratici o confusionari – che assai spesso fanno una cosa sola – e non già essere socialisti.
Noi concediamo al Malagodi, di cui pubblichiamo un articolo più innanzi, che in troppi Collegi ancora non sarà forse possibile o conveniente al nostro partito porre candidature proprie. In questo caso farà bene ad astenersi, per non rinforzare coi propri voti l’opinione che altri hanno della loro forza. L’astensione, in questi casi, è già una battaglia.
Ma dove pure, per eccezione, opportunità locali consigliassero i
nostri
amici a portare i loro voti sulla persona di un candidato
radicale,
essi non dovrebbero farlo se non a patto che questi accettasse
francamente
ed esplicitamente di sostenere almeno queste riforme:
- le otto ore di lavoro
- il disarmo
- l’indennità ai deputati.
Sono riforme che fanno paura alla borghesia, ma che alcuni potrebbero accettare anche non essendo socialisti. E se si impegnano a sostenerle, sarà tanto, per noi, di guadagnato.
Ma molto meglio – sempre che si possa – andar avanti noi, coi nostri, a bandiera spiegata, o si vinca, oggi, o si perda, il che poco monta. Perché noi siamo degli “ambiziosi” che vogliamo bensì la conquista dei poteri, ma vogliamo che la conquista la faccia il partito, che al potere ci arrivi la classe, nella quale e per la quale combattiamo.
Delle conquiste e delle salite individuali ci infischiamo
profondamente.
LA NOSTRA STRADA
Da “Lotta di Classe”, n. 7, dell’11 settembre 1892.
Quale sarà l’esito delle prossime elezioni politiche è facile prevederlo: la nuova Camera sarà pressoché identica a quella che sta per essere sciolta.
Infatti, la Camera dei deputati rispecchia sempre, necessariamente, le condizioni del paese che la elegge. Ora, dal 23 novembre 1890, cioè dal giorno delle ultime elezioni generali ad oggi, le condizioni politiche dell’Italia sono rimaste presso a poco le stesse: le città e le campagne oggi pure, come allora, sono dominate quasi esclusivamente dai grandi elettori borghesi; e per conseguenza anche la nuova Camera sarà in grandissima maggioranza composta di uomini più o meno destri o sinistri, ma tutti però rappresentanti della borghesia – soprattutto dell’alta borghesia (banchieri, grandi industriali, grossi proprietari, ecc.) – precisamente come la Camera attuale.
* * *
Se questa previsione è esatta – e non si può dubitare – come è sostenibile l’opinione di chi pensa che nell’imminente lotta elettorale il partito operaio socialista dovrebbe allearsi coi democratici, per la vecchia ragione che non è possibile progredire a salti e che anche i democratici propugnano molte delle riforme che figurano nel nostro programma minimo?
La elezione di cinque o dieci o venti radicali di più, quale utilità reale potrebbe arrecare al nostro Partito? Come mai potrebbe valere ad affrettare l’attuazione delle nostre idee?
Si risponde: – Quei deputati sosterrebbero anch’essi, per esempio, l’abolizione dell’esercito permanente, che voi pure ritenete vantaggiosa...
E sia! Ma noi sappiamo già che alla Camera essi potrebbero fare soltanto dichiarazioni più o meno eloquenti, dopo le quali l’esercito continuerebbe a “permanere” quanto e forse più di prima; noi sappiamo già che la grande maggioranza della Camera non si lascerebbe commuovere dalla parole dell’oratore radicale, accompagnandole probabilmente ad urli e fischi. E ciò perché questa maggioranza rappresenterà, come si è detto, la borghesia. Sarà borghese essa medesima di condizione come di opinioni e quindi decisa avversaria dell’abolizione dell’esercito permanente.
La borghesia non ignora e non nega che gli eserciti permanenti siano un gravissimo peso per le nazioni. Ma intanto questo peso essa non lo sente, poiché non le si impedisce affatto di godere più che largamente di tutti gli agi della vita. Essa sente invece che questo esercito – che a lei non costa alcun sacrificio – oggi le è più che mai necessario, non tanto per difendersi dai cosiddetti nemici esterni, quanto per mantenere all’interno quell’ordine beato che le permette di vivere riccamente e di arricchire sempre più senza far nulla, a spese di chi lavora.
Come! Abolire l’esercito, armare la nazione, quando i lavoratori – sobillati dagli eterni arruffapopoli – vanno diventando incontentabili ed intrattabili al punto, che loro non bastano neppure tutti i benefici della civiltà odierna ed accampano un preteso diritto all’intero frutto del loro lavoro?
La cosa, per la borghesia, è talmente assurda che, nelle nazioni dove non esiste l’esercito permanente – questa benefica forza che, in caso di scioperi o di rivolte, le può rendere e le rende di fatto così segnalati servigi! – essa già parla di istituirvelo. In una Camera borghese – quale sarà indubbiamente la Camera ventura – l’azione di un deputato abolizionista dell’esercito permanente non può dunque, nella migliore ipotesi, oltrepassare i limiti di una sterile protesta.
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E così pure che vale se anche i democratici portano scritto nel loro programma l’istruzione laica ed obbligatoria, la giornata legale di otto ore, gli ispettori del lavoro, l’imposta unica progressiva, l’indennità ai deputati ed altre simili riforme?
Noi tutti, di qualunque partito, siamo ben certi che non una di queste riforme sarà votata dalla Camera futura. Spaventata dal crescente movimento operaio ed animata da un cieco istinto di conservazione, oggi la borghesia – che, ripetiamolo, anche nella nuova Camera avrà ad ogni modo una maggioranza schiacciante – teme l’istruzione popolare, l’indennità ai deputati e tutto quanto può diminuire la sua potenza economica e politica ed accrescere quella del proletariato.
A convincere ed a vincere i suoi fedeli rappresentanti alla Camera non basterebbero certo i discorsi parlamentari di quel piccolo manipolo di radicali che entrassero in Montecitorio mercé il nostro aiuto. E quando pure qualche leggina sociale dalla nuova Camera fosse votata, essa – come quella sul lavoro dei fanciulli – resterebbe poi lettera morta se contraria agli interessi borghesi; poiché i borghesi continuerebbero tuttavia ad essere nel paese i padroni, i grandi elettori... E tutti sanno che un governo parlamentare che non voglia suicidarsi, naturalmente, si guarda bene dal disturbare i suoi grandi elettori.
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La nostra alleanza coi democratici non servirebbe dunque a far progredire di un passo neppure l’attuazione del nostro programma minimo. Anche le riforme che questo programma contiene e che favorirebbero ed affretterebbero l’emancipazione dei lavoratori urtano direttamente contro l’interesse della borghesia dominante e non possono venire attuate se prima non sorge nel paese un partito capace di opporsi vittoriosamente alla borghesia stessa.
La formazione di questo partito – che evidentemente non può trovare la propria forza che fra gli aventi interessi opposti alla borghesia, che cioè non può essere che il partito dei lavoratori, dei salariati, degli sfruttati – è dunque la meta prossima cui devono oggi mirare quanti realmente aspirano al progresso.
Ed essa è appunto la nostra meta: questo è il lavoro che si sono proposti di compiere coloro che a Genova, in via della Pace, proclamarono costituito il Partito dei lavoratori italiani. Ingrossare questo partito che ha dato ora il primo segno di vita e che ha la sua ragion d’essere nell’antagonismo economico esistente fra borghesi e proletari; chiamare a raccolta sotto la sua bandiera tutti i lavoratori, tutte le vittime necessarie dell’attuale sistema economico, tutti coloro che sono direttamente interessati a mutare dalle fondamenta questo sistema – dove i lavoratori sono fatalmente servi e sfruttati e dove le piccole fortune sono destinate ad essere inghiottite dalle grosse; creare per tal modo nel paese una forza risolutamente avversa alla borghesia imperante e tale che finirà per togliere alla borghesia il potere politico ed amministrativo – questo è il nostro compito attuale, questo il lavoro urgente cui gli stessi democratici dovrebbero dedicarsi, se veramente vogliono che le riforme indicate nei loro programmi non restino una platonica affermazione, ma diventino un fatto.
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Per noi, oggi, è utile tutto ciò e soltanto ciò che serve al conseguimento di questo scopo immediato. Partecipiamo alle lotte elettorali, ma unicamente per accrescere forza morale e materiale al nostro Partito, perché i nostri consiglieri e i nostri deputati siano gli organizzatori, gli amici delle nostre organizzazioni e i propagandisti delle nostre idee.
Ai deputati legislatori, per ora noi non ci pensiamo; poiché sappiamo che anche la parola dei nostri eletti oggi non può avere alla Camera che un valore di propaganda. Vogliamo invece dei deputati agitatori, che cioè ci aiutino direttamente, energicamente a dare il massimo sviluppo al partito dei lavoratori, a schierare contro la borghesia le grandi forze del proletariato.
Dieci, venti, trenta deputati socialisti che si accingessero con ardore a questo lavoro, certamente potrebbero fare un gran bene. Ma a che servirebbe invece, la elezione di qualche democratico o radicale di più? Se avvenisse coi nostri voti, questa elezione sarebbe anzi evidentemente dannosa: perché noi stessi contribuiremmo colla nostra condotta a mantenere in vita un partito che, secondo le nostre teorie, è destinato a morire ed è bene che muoia; noi stessi ritarderemmo il giorno in cui due soli grandi partiti di classe, manifestazione naturale e logica di due opposti interessi, si contrasteranno il terreno: quello della borghesia e quello dei lavoratori.
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Non dunque per una cieca intransigenza né menomamente per antipatie di persone noi respingiamo ora l’alleanza coi radicali; la respingiamo perché è inutile, anzi mercé essa ritarderebbe lo sviluppo del Partito dei convinti lavoratori, nel quale soltanto abbiamo fede.
Solo quando la borghesia avrà di fronte, organizzati e coscienti dei loro diritti, centinaia di migliaia di lavoratori, soltanto allora diverranno storicamente possibili tutte le riforme che devono condurre all’abolizione del salariato. E perciò oggi il solo programma pratico, positivo è quello appunto che si propone di dar vita e sviluppo a questa forza avversa alla borghesia, ossia di far passare il potere politico dalle mani della borghesia a quelle del proletariato.
Ora questo è precisamente il nostro programma d’azione, questa la strada su cui siamo incamminati. È lunga e faticosa, ma è la sola possibile ed il partito dei lavoratori italiani saprà compiervi i progressi che già vi ottennero i partiti operai degli altri paesi.