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Infine, dopo tanto spettacolo e tanta grancassa, si affaccia al governo dello Stato che dovrebbe stare al centro dei destini del mondo l’Uomo Nuovo, con l’immancabile corteo di speranza per un futuro migliore. Ma il personaggio non avrebbe potuto trovare momento peggiore per “prendere in mano” – almeno così si favoleggia – i destini della prima nazione e, di riflesso, dell’intero orbe. Con una tempesta globale in atto, che investe la sfera finanziaria, l’economia produttiva e l’assetto geopolitico mondiale, all’inquilino della Casa Bianca toccano in dote montagne di debiti scaduti, lo spettro della deflazione che accompagna la recessione, ed il sistema internazionale di alleanze militari, con contratti leonini imposti agli Stati più deboli, che si sta sgretolando sotto la spinta di contraddizioni economiche e politiche intrinseche per il mondo del capitalismo imperialista.
È istruttivo osservare come negli scritti ed interventi di analisti, economisti e politologi, la causa scatenante di questa triplice crisi sia attribuita ora all’uno ora all’altro aspetto del suo complessivo manifestarsi, ma con una preferenza nell’identificare l’ambito finanziario quale detonatore, e comunque a vederne l’epicentro soltanto negli Stati Uniti d’America. Nel mondo “globale”, invenzione lessicale che afferma quanto è evidente, che cioè il capitalismo opera e funziona alla scala mondiale, l’effetto di destabilizzazione del punto centrale si sarebbe poi diffuso, come tessere di un domino, all’economia di tutti gli altri paesi. A questi teorici la crisi sembra stranamente partire nel punto che si mostrava più forte, più sicuro, dove la minacciosa esibizione di una sterminata forza militare pareva vincolare tutti gli altri predoni capitalistici alla volontà dell’unico preteso super Impero.
Poi seguono le discussioni interessate, le ricette per una rapida uscita, le diatribe teoriche sugli interventi presi o da prendere, e le ridicole stime dei tempi per la ripresa dopo la crisi; curiosa pretesa per quanti nemmeno se ne aspettavano lo scoppio. È ben lontano, una volta sconfitto sul campo dell’economia e della politica l’avversario “comunista”, il sogno dell’era Reagan di uno Stato “assoluto”, che impone la sua volontà, i suoi tempi e la forza dirompente della sua economia al resto del mondo e pretende che tutti ballino al suono della sua musica.
E questo super imperialismo che pareva invincibile, la monocrazia statale che doveva trionfare sul resto del pianeta imponendo la sua volontà senza remore, si scontra ora con la forza dei fatti e con le conseguenze della crisi che appare davvero come lo schianto generalizzato del sistema capitalistico, descritto nel Terzo Libro de “Il Capitale”, indotto da un processo economico conosciuto come “caduta tendenziale del saggio di profitto” e prima considerato, dai critici più benevoli una generosa utopia, poi una colossale sciocchezza, ed infine passato nel dimenticatoio cui sono destinate, in questo migliore dei mondi possibili, le profezie di sventura.
La turbolenza che sembra presentarsi in un’area specifica è in realtà il convergere di eventi distinti, ma della stessa natura, in tutte le aree del capitalismo. Quella “legge di tendenza” scartata dalla critica socialdemocratica, svillaneggiata dalle teorizzazioni borghesi e oramai del tutto dimenticata, ma per noi marxisti rivoluzionari effettivamente operante pur nei lunghi cicli del capitale, descrive un processo comune per tutti i capitalismi, ed operante con ritmi non sfasati tra le diverse zone produttive. Che il punto di convergenza sia quello apparentemente più robusto, l’elemento centrale della struttura mondiale del capitalismo su cui si scaricano tutte le tensioni, al pari di un telaio sottoposto a diverse ma concorrenti sollecitazioni, era per la nostra teoria una previsione certa. Su questa nostra risultanza scientifica ci siamo sempre attesi il crollo economico laddove il capitalismo è più forte, più radicato, più esteso.
Per il determinarsi della Rivoluzione, come atto politico che rompe il vecchio involucro statale e violentemente lo sostituisce con uno nuovo, espressione di un’altra classe, è tutt’altra questione, e la vittoria nella Russia capitalistica ma arretrata dell’inizio del secolo scorso lo attesta in modo chiaro. Così come non è né conseguente né storicamente necessario che all’incepparsi violento dell’assetto economico capitalistico sotto le sue contraddizioni segua l’aprirsi della fase rivoluzionaria. L’una e l’altra di queste due formidabili evenienze storiche sono certamente legate, ma non in tale univoco rapporto di causa-effetto.
Sopporteremmo allora l’accusa di una visione meccanicistica in questo titanico divenire del capitalismo, fino al suo esito? La concezione della nostra scuola non si fonda su un piatto determinismo, che considera i fatti dell’economia banalmente e immediatamente applicabili ad ogni fatto della storia, politica, economica e generale umana. Se una simile imputazione ci dovesse essere fatta, e tra le tante mosse alla dottrina ed alla prassi del comunismo, sarebbe davvero tra le più facili da ribaltare sugli esegeti del capitalismo e portavoce della sua concezione del mondo, che davvero meccanicamente ne teorizzano e predicano l’eterna durata, fatti salvi i doverosi correttivi, ogni tanto, nei periodi più acuti di crisi.
Già, “ogni tanto”, proprio come in questa fase del ciclo, il quale, vogliamo far notare, tra alti e bassi dura almeno da tre anni. Correttivi che nel turbine finanziario e nel processo recessivo fanno tranquillamente rinnegare ogni loro dogma di sana prassi di politica economica per gli Stati, i cui governi non temono di gettare centinaia di miliardi nella fornace della crisi per sostenere le strutture finanziarie e per sovvenzionare le grandi imprese nazionali, altrimenti destinate al fallimento. Alla faccia del libero mercato internazionale e della concorrenza creatrice di valore e di stimoli produttivi; alla faccia del sano distruggere capitalistico dei rami secchi o indeboliti per suscitare energie rinnovatrici. Con il freddo cinismo di chi ha coscienza di combattere una battaglia per l’esistenza, i governanti dell’economia e della politica abbandonano tutto il loro ciarpame ideologico sulla sana concorrenza e non ingerenza dello Stato per ripiegare sulle solite vecchie ricette: tutti i rottami in collo allo Stato. E questo, che le autorità statali compiono senza alcuna esitazione, non è forse il più banale ricorso al meccanicismo di causa-effetto?
È stato giustamente fatto osservare che imperi e superpotenze sono, al culmine della loro forza, creditori e non debitori verso gli altri stati. Il passaggio del testimone tra Impero britannico e Stati Uniti d’America, alla fine del secondo conflitto mondiale, avvenne sotto queste condizioni; fu un declino segnato da un debito e da un credito, sancito poi negli accordi di Bretton Woods. Solo allora, dopo la spaventosa distruzione di mezzi e risorse della Seconda Guerra, la crisi del ’29 si chiuse definitivamente, ed il mondo borghese riprese fiato per un novo lungo ciclo di infernale sviluppo capitalistico. Ma quando la superpotenza assume la veste di debitore, allora questo scandisce i tempi del suo declino; che storicamente si conclude con una guerra.
Non è qui alcun motivo di sofisticare sulla pretesa assenza ora, alla scala mondiale, di avversari degni di questo nome. Come se soltanto il precedente dualismo USA-URSS avesse potuto costituire innesco di un terzo conflitto mondiale, e che rimasti “soli” gli USA, dopo il tracollo dell’imperialismo russo, per incanto si fosse vanificato questo orribile rischio. Non che le guerre dovessero finire; soltanto ridursi a macelli locali e controllati, che solo lambivano le frontiere dell’impero. Si sono dovuti inventare lo spauracchio del terrorismo, i predoni imperialistici, per giustificare le aggressioni militari, gli interventi di flotte ed eserciti, gli scontri locali per la ridefinizione di aree di influenza, mercati e fonti di materie prime, mentre non la rivoluzione, ma la vecchia talpa della caduta mondiale del saggio di profitto operava in silenzio a minare le fondamenta del mondo capitalistico. Quando la crisi avrà fatto collassare l’impalcatura capitalistica, allora i fronti si dovranno delineare con chiarezza.
Nulla conta che si recitino le solite giaculatorie di una necessaria e rinnovata concordia mondiale, ora che pare terminata la pretesa supremazia globale degli Stati Uniti, avallata dall’Uomo Nuovo alla presidenza. Ancor più, sotto la necessità di fondi da consumare per ridurre la sete di denaro fresco, il fabbisogno di capitali all’estero continuerà a ritmo serrato, e i dollari accumulati nei “fondi sovrani”, non certo per la ricerca di un maggior rendimento, ma per il solo fine di espansione imperialistica, cesseranno di essere un problema finanziario ed economico per divenire detonatore di scontro geopolitico.
Mentre la crisi storica del gigante capitalista ha per molti decenni profondo lavorato il terreno, da esso non ancora riesce a nutrirsi e sollevarsi la Rivoluzione. Noi non abbiamo mai fatto alcun affidamento ai super eroi facitori di storia, forgiatori di imprese grandiose e di futuri radiosi, o terribili. Di quelle masnade che si agitano e declamano, da vere e proprie star sul palcoscenico della politica, non ce ne importa nulla e in nulla ci commuovono. Abbiamo fiducia nella forza anonima della classe operaia mondiale, non più legata ad alcuna “grande figura”, distruttrice del vecchio e liberatrice di un nuovo ordine sociale senza accumulazione e profitto.
E allora salutiamo con gioia e fiducia la crisi del Capitale, mostro
che da troppo tempo ormai si abbevera col sangue dell’umanità lavoratrice.
(Continua del numero scorso)
(Indice)
Nuova immigrazione e crisi dello schiavismo
I “negri che votano”
Gli irlandesi, che cominciarono a giungere numerosi dopo il 1846, in fuga dalla grande carestia di quegli anni, inizialmente tendevano a riunirsi in associazioni etniche e cattoliche piuttosto che in organismi di classe. In futuro avrebbero riempito con onore i sindacati, ma fino alla Guerra Civile erano più interessati a trovarlo un lavoro che a lottare per migliorarne le condizioni. Gli irlandesi rimasero però sempre legati a quelle organizzazioni che erano state create dai loro conterranei giunti in America nei decenni precedenti.
Come l’americano protestante, anche operaio, fu la base per lo sviluppo del Partito Repubblicano, così l’irlandese fu sempre dalla parte del Partito Democratico. La divisione passava anche per il problema delle scuole pubbliche, ove gli insegnanti mettevano in guardia contro la cospirazione papista, e descrivevano gli irlandesi come incivili. Nel 1844 vi fu un violento scontro a Filadelfia, con 16 morti, tra protestanti e immigrati irlandesi e la città, che aveva visto gli stessi operai lottare fianco a fianco solo sette anni prima all’interno della General Trades’ Union, ora bruciava di odio settario. Era una situazione che riportava il movimento indietro di una generazione, e che rendeva impossibile fraternizzare tra proletari. Anche le nuove organizzazioni erano facilmente deviate verso l’odio nei confronti degli immigrati, accusati di far scendere i salari. Venivano addirittura ascoltati oratori che definivano i sindacati come superflui e causa di divisioni, incapaci di riformare la società, a confronto delle potenzialità della politica nativista.
Sembra paradossale che questo periodo della storia operaia sia stato definito in USA come l’èra dell’”Umanitarianismo”. La spiegazione sorge dal fatto che, in un momento in cui gli operai erano separati da divisioni etniche, in cui la produzione di fabbrica veniva rivoluzionata dall’introduzione delle macchine, in cui gran parte del lavoro era svolto da donne e bambini, era difficile la ripresa di un genuino movimento di classe e vi era quindi ampio spazio per le soluzioni proposte dai riformatori borghesi. Abbiamo visto come il nativismo avesse fatto presa sui proletari locali.
La National Reform Association si avvantaggiò della ripresa del sindacalismo, tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50. Questa rinascita si può ascrivere a due diversi gruppi di proletari. Uno consisteva degli emigranti tedeschi, molti rifugiati in seguito alle rivoluzioni del 1848, che si unirono ai connazionali delle generazioni precedenti; non erano però affini a questi ultimi come mentalità, assai più radicale e internazionalista, e crearono società di liberi pensatori e una stampa vivace e poco conformista. Inizialmente molte energie furono spese per sostenere i rivoluzionari che tornavano in patria a combattere la monarchia.
I tedeschi erano lo strato più avanzato della classe, e rimasero tali per un pezzo. L’emigrante tedesco tipico era un artigiano molto specializzato, che sperava di vivere meglio nella nuova patria sfruttando il suo mestiere. Non passò quindi molto tempo prima che calzolai, sarti, tipografi e altre categorie operaie formassero sindacati di mestiere che poi confluirono in confederazioni simili a quelle cittadine che erano esistite negli anni ’30.
In molte città gli operai tedeschi costituirono la parte più attiva del movimento operaio. Furono fin dall’inizio ispirati dalla dottrina del comunismo, sia di Marx e Engels sia, dal 1846, di Weitling, che visitò più volte il paese e che vi fondò un giornale e organizzazioni operaie. Ma Weitling non credeva veramente alla lotta sindacale, che utilizzava solo per unire gli operai in vista dei suoi progetti di cooperativismo e in genere di un comunismo utopistico, il che in breve gli alienò il seguito inizialmente ricevuto. Nel 1851 giunse in America Joseph Weydemeyer, comunista rivoluzionario amico di Marx e Engels, che dovette subito entrare in polemica con Weitling, e dimostrare che il “cooperativismo rivoluzionario” serviva solo a dividere gli operai, oltre ad essere una mera utopia. La cosa più importante da subito per il movimento operaio era la lotta per la difesa dei bisogni immediati; ma egualmente importante era la lotta politica. C’era necessità di riforme economiche e politiche; ma per raggiungere gli obbiettivi il primo requisito era l’organizzazione e l’unità della classe. Quindi basta con le organizzazioni solo di tedeschi.
Nel 1853 fu convocata una riunione di massa a New York. L’appello recitava: «Solo se tutti i mestieri sono uniti e agiscono uniti secondo un unico piano definito sarà possibile farla finita con le tante cause che abbassano gli operai al rango di bestie da soma. Avanti, per una grande associazione di operai, non solo per combattere per salari più alti e riforme politiche, ma anche per la creazione di una piattaforma capace di unire tutti i proletari per il bene della classe operaia. Tutti gli operai devono partecipare alla riunione. Alzatevi come un solo uomo. Tutti per uno, uno per tutti».
La riunione, che ebbe luogo il 21 marzo 1853 e a cui parteciparono circa 800 operai tedeschi, fondò la Amerikanischer Arbeiterbund. Il sindacato, che servì più da esempio che da coagulatore di forze, era aperto a tutti i sindacati, di qualsiasi origine, mestiere, caratteristica peculiare, e anche a qualsiasi operaio individuo, senza limiti di nazionalità, credo, specializzazione, purché che si riconoscessero negli scopi dell’Unione, che erano di difesa con tutti i mezzi delle condizioni operaie dagli attacchi che i padroni portavano anch’essi con tutti i mezzi. Inoltre si proclamava l’indipendenza dell’organizzazione da qualsiasi partito politico esistente.
L’esempio fu seguito nello stesso anno anche da operai di lingua inglese. Ma l’iniziativa ebbe breve vita, e anche l’ALU non durò molto di più. Il problema era che i sindacati di mestiere in genere si disinteressavano degli altri operai, e si mettevano in moto solo quando i loro interessi sezionali erano in pericolo. Weydemeyer, che ovviamente partecipava anche al Communist Club che aveva sede a New York, riuscì a mantenere in vita l’ALU fino al 1860; ma i tempi non erano maturi. Ciononostante l’iniziativa ebbe il merito di avvicinare gli operai di vecchia immigrazione a quelli tedeschi, una risorsa che si rivelò fondamentale per la crescita sindacale e politica del movimento operaio in Nord America.
L’altro gruppo di operai sindacalizzati furono gli artigiani. I salari non erano per loro il problema principale: i salari verso la fine degli anni ’40 avevano preso a salire per gli operai più specializzati. Ma le condizioni di lavoro continuavano a peggiorare, al punto che molti rimpiangevano i vecchi mastri artigiani di una volta, che rispettavano le convenzioni del mestiere, e non assumevano gente senza arte né parte. Se da un lato questa attitudine conteneva un po’ di razzismo, visto che i non specializzati erano soprattutto irlandesi (“negri che votano”, li chiamavano al Sud), il risultato in realtà fu la rottura definitiva con le associazioni interclassiste di mutuo soccorso, e la formazione di sindacati di soli operai – anche se per ora donne, negri e non specializzati erano esclusi.
Questi ultimi, esclusi dai sindacati, privi di qualsiasi coscienza di
classe e in genere troppo poveri per guardare per il sottile, spesso costituivano
le truppe di crumiri che i padroni utilizzavano per boicottare gli scioperi.
Il 4 agosto 1850 a New York vi fu uno scontro tra polizia e picchetti,
e due operai restarono uccisi nel tumulto, le prime vittime di conflitti
di lavoro in America.
L’American Party
La forte ondata di immigrazione ebbe anche l’effetto di far rinascere il sentimento anticattolico degli operai autoctoni. Da questa tendenza nacque un movimento xenofobo, l’American Party, detto dei “Know Nothings”, che piano piano si affermò in quegli anni, e che ottenne nel 1854 grandi successi nelle elezioni amministrative locali. Però, a parte prevedibili misure contro gli immigrati, il movimento aveva anche contenuti di interesse per gli operai, simili a quelli dei Working Men degli anni ’30: abolizione della prigione per debiti, allargamento della istruzione pubblica, divieto di assumere bambini sotto i quindici anni di età che non frequentassero la scuola per almeno undici settimane l’anno, ecc. Il movimento si dimostrò in seguito una tappa intermedia, che avrebbe portato gli operai a sostenere poco dopo la crociata antischiavista del Partito Repubblicano. Questo spostamento fu dovuto al timore diffuso tra gli operai che i piantatori del Sud, con i loro milioni di schiavi e la pretesa di estendere lo schiavismo anche ai nuovi territori dell’Ovest, costituissero per le loro condizioni di vita una minaccia anche peggiore degli immigrati. Questa tendenza, e il movimento per il “Free Soil”, molto popolare nel Midwest, costituì la spina dorsale del sostegno popolare al Partito Repubblicano prima (con la vittoria di Lincoln), e alla guerra poi.
Lo Homestead Act, che prendeva le mosse in fondo dalle basi stesse della NRA, fu uno dei cavalli di battaglia dei repubblicani, anche se era lungi dal costituire quel freno al capitalismo che Evans pensava sarebbe stato.
Il movimento operaio resistette tra alti e bassi per il resto degli anni ’50. Nacquero organizzazioni nazionali e centrali cittadine, che furono però colpite duramente dalle depressioni del 1854 e del 1857. La prima fu la National Typographical Union (1852), seguita quello stesso anno dal sindacato nazionale dei soffiatori di vetro e poi, nel 1851 e nel 1854, dai sigarai. Nel 1854 fu la volta dei cappellai che erano in stretto collegamento con i loro compagni europei, soprattutto con quelli inglesi, così come gli stampatori di calicò. Nel 1855 si organizzarono gli operai e i macchinisti delle ferrovie, nel 1853-1856 i lavoratori dei cantieri navali che avevano costituito forti sezioni sindacali in California; nel 1850 e nel 1858 i filatori, nel 1856 i decoratori, nel 1858 gli operai degli altiforni (Sons of Vulcan), nel 1857 i minatori, nel 1859 i meccanici e i fabbri, il cui sindacato nazionale fu riconosciuto dal Congresso. Nello stesso anno si organizzarono i lavoratori del ferro che costituirono in diverse località anche cooperative di produzione. Si calcola che nel 1860 esistessero negli Stati Uniti d’America ventisei sindacati nazionali.
D’altro canto in quel solo decennio ben 2 milioni di stranieri sbarcarono
in cerca di lavoro, una cifra enorme se rapportata alla popolazione esistente;
nonostante le crisi, furono loro ad occupare gli spazi aperti dalla accresciuta
meccanizzazione e divisione del lavoro, che richiedeva sempre minore preparazione
professionale. Nel 1860 nelle grandi città del Nord un terzo dei tipografi,
metà degli addetti all’edilizia, e quasi tre quarti dei calzolai, sarti
e falegnami erano nati all’estero. Di fronte a questa valanga di manodopera
inesperta, più cosciente della sua origine che della classe di appartenenza,
anche gli irlandesi cominciavano ad ascendere a attività semi-specializzate.
La situazione al Sud
A sud della linea Mason e Dixon, che separando la Pennsylvania dal Maryland era considerata il confine tra Nord e Sud, la situazione era molto diversa, in quanto il sindacalismo rimase a livelli minimi fino alla guerra civile. La causa di ciò era che la classe operaia era quasi inesistente, perché la produzione industriale era scarsissima, e la classe si concentrava solo in piccole imprese poco più che artigianali, nel commercio, nei porti, e in rarissime industrie in qualche città più grande, come le fonderie Tredagar di Richmond. D’altronde città veramente grandi non ve ne erano, perché l’anima economica e anche culturale del Sud era nelle campagne, pianure sterminate alternate a ampie zone a incolto o boschive, dove milioni di schiavi producevano la ricchezza che consentiva a qualche migliaio di famiglie possidenti di vivere nel lusso.
Abbiamo già descritto il sorgere della schiavitù in Nordamerica nella prima parte di questo lavoro, e abbiamo anche accennato alle differenze tra lavoro schiavistico e lavoro salariato dal punto di vista dell’economia marxista in un lavoro precedente (Lo sviluppo capitalista e la Guerra Civile negli Stati Uniti d’America, in Comunismo n. 56, luglio 2004). Vale comunque la pena di richiamare qui alcuni aspetti della situazione sociale e della produzione negli Stati del Sud, utili a comprendere le differenze che si manifestarono anche per lo sviluppo della lotta di classe.
La produzione agraria era nel Sud dominante. I prodotti erano tutti quelli classici dell’agricoltura, ma a quei tempi le materie prime fondamentali per il sostentamento erano, per diverse ragioni, nella gran parte ovunque prodotte localmente; soprattutto verso la metà del secolo fu il Midwest a divenire il fornitore principale di carne e granaglie gli Stati del New England, che aumentavano rapidamente di popolazione. La ricchezza del Sud quindi non derivava tanto da prodotti agrari alimentari convenzionali, ma da prodotti di pregio che per le loro caratteristiche si prestavano all’esportazione: canna da zucchero, tabacco, riso e, soprattutto, cotone, il King Cotton, che, grazie all’invenzione della Cotton Gin, che aveva reso il lavoro operaio estremamente produttivo, si era presto diffuso in quasi tutti gli Stati del Sud a partire dalla fine del secolo XVIII. Fu proprio in quei decenni che il numero degli schiavi si triplicò, e il fenomeno non fu certo arrestato dalla proibizione dell’importazione di schiavi del 1808. La prosperità del Sud superava negli anni ’50 quella di qualsiasi altra parte del mondo, e i profitti erano tali da far coltivare a cotone ogni fazzoletto di terra disponibile, e da mettere in pericolo l’autosufficienza alimentare.
Il cotone era prodotto in aziende che utilizzavano grandi numeri di schiavi. Gli schiavi lavoravano sotto la direzione di sorveglianti; questi sorveglianti, in genere molto ben pagati, dovevano ad ogni costo raggiungere le quote di produzione loro assegnate, e a questo fine non risparmiavano agli schiavi angherie di ogni tipo. La frusta era lo strumento più utilizzato per convincere gli schiavi ad adeguarsi al volere del sorvegliante, e non di rado gli schiavi morivano per maltrattamenti. Il padrone, se le quote erano raggiunte, non se ne lamentava. Certo, lo schiavo era un capitale fisso costato caro, ma non era da rimpiangere se, dopo aver prodotto per molti anni, si era, come si deve dire, ammortizzato. Si tendeva a risparmiare il più possibile sul mantenimento degli schiavi: nel 1822 il costo annuale di uno schiavo, tutto compreso (cibo, abiti, cure, ecc.) era meno del 10% del salario di un operaio bianco pagato al minimo di sopravvivenza. Nel 1856 un viaggiatore osservò che la dieta di uno schiavo al lavoro era peggiore, in qualità e quantità, di quella dei galeotti.
Molti schiavi accettavano questa oppressione, rassegnati ad una condizione che la stessa religione dei padroni, che essi avevano abbracciato, confermava decisa dagli imperscrutabili disegni della divinità. Ma la gran parte degli schiavi per due secoli lottò in ogni modo immaginabile per riconquistare la libertà, quella libertà che l’ipocrisia della classe dominante sbandierava (e sbandiera) ad ogni piè sospinto. Certo non era una lotta che potesse prendere la forma di lotta sindacale, ma la resistenza che questi esseri umani condussero per scuotersi dalle non metaforiche catene non è stata meno dura e determinata di quella dei proletari bianchi, anche se sicuramente più disperata. Commetteremmo un’ingiustizia storica se non riferissimo, in aggiunta a quanto riportato nelle altre sedi, sui gesti individuali e collettivi di questi nostri compagni sfortunati, che spesso lottavano più per la mera sopravvivenza che per migliori condizioni di lavoro.
Le reazioni al sistema potevano essere individuali o collettive. Non era raro lo schiavo che assaliva il sorvegliante, lo uccideva o feriva, e si dava alla fuga. Spesso, piuttosto che darsi alla macchia con la certezza di essere catturato (di solito non avevano alcuna cognizione dell’ambiente circostante), si suicidava. Molti casi sono riportati di genitori che si uccidevano dopo aver spento nel sonno i figli per risparmiare loro l’inferno della schiavitù.
Un’altra forma di lotta, più vicina a quella sindacale, consisteva nella collettiva astensione dal lavoro come protesta contro le frustate e altre brutali punizioni. Di solito gli schiavi fuggivano nei boschi o nelle paludi, e facevano sapere ai padroni che sarebbero ritornati solo a condizione che i torti fossero stati riparati, senza naturalmente ritorsioni. Ma è difficile rinunciare alla libertà una volta assaporata: a volte gli schiavi non rientravano e, nelle zone adatte lontane dai centri abitati e difficili da scoprire, creavano piccole comunità. Oppure fuggivano verso Nord; decine di migliaia di schiavi intrapresero il pericoloso viaggio di migliaia di chilometri verso gli Stati nei quali la schiavitù non era più legale. Era un viaggio durissimo e pericoloso, in quanto si trattava di muoversi solo di notte, in territorio sconosciuto, attraverso foreste e paludi, mangiando radici e bacche e con decine di fiumi da attraversare a nuoto. In questo furono aiutati negli ultimi anni prima della guerra dalla cosiddetta Underground Railroad, una rete di un gran numero di percorsi che dagli Stati confinari del Sud portava verso Ohio, Indiana e Illinois, e da lì in Canada, l’unico posto nel quale gli schiavi si sentivano veramente al sicuro dalle spedizioni di emissari dei padroni inviati a riprenderseli.
Gli schiavi fuggiti che restavano nel Sud in comunità spesso organizzavano spedizioni contro le piantagioni, liberavano altri schivi, suscitavano rivolte. Si registrano almeno 250 rivolte di più di 10 schiavi nella storia bicentenaria della schiavitù in America, ma è un dato sicuramente al di sotto della realtà. La società meridionale era organizzata in modo paramilitare per la necessità di controllare i negri con la forza delle armi. I padroni di schiavi non si sentivano mai al sicuro, soprattutto dopo le rivolte di Santo Domingo che avevano portato all’instaurazione di una repubblica negra indipendente, Haiti. Pochi scioperi del periodo prebellico furono organizzati come alcune insurrezioni di schiavi. Tra le più famose ed efficaci vi fu quella di Vesey, un negro libero che organizzò migliaia di schiavi per un’insurrezione che avrebbe dovuto iniziare a Charleston, South Carolina, nel 1822, e che fu sconfitta in partenza per il tradimento di alcuni. I congiurati si distinsero per dedizione e eroismo che sorprese gli stessi carnefici. La rivolta più grande, e che guastò il sonno per decenni ai piantatori, fu quella di Nat Turner, che riuscì a sollevare i negri delle piantagioni nei dintorni di Richmond, Virginia, nel 1831; la rivolta fu debellata solo grazie all’intervento congiunto di truppe statali e federali, nonostante gli insorti disponessero solo di armi bianche.
La conseguenza di questi eventi fu da un lato una recrudescenza delle leggi sugli schiavi (non gli si doveva insegnare a leggere e scrivere, per esempio), contro il sostegno agli schiavi in fuga, e restrizioni sulle emancipazione e sui diritti dei negri liberi. Ma si provvide anche a porre dei limiti allo sfruttamento, ponendo un massimo di 15 ore di lavoro giornaliero in estate, e 14 in inverno. Anche se sembrano limiti disumani i padroni continuarono a ignorarli.
Non andava molto meglio per la popolazione bianca che non possedeva schiavi. Si calcola che vi fosse mezzo milione di padroni di schiavi, anche se i ricchi erano solo un migliaio; con le loro famiglie gli schiavisti arrivavano a circa tre milioni, mentre la popolazione bianca era di ben nove milioni. Quindi i due terzi della popolazione bianca non traeva alcun beneficio dallo schiavismo; al contrario, ne era in qualche modo schiacciata. Infatti gli schiavi erano troppo convenienti per i lavori di campagna per poter pensare di assumere i bianchi, che avevano esigenze maggiori. Mentre per gli altri mestieri vi era poco spazio, dato il livello di sviluppo della società meridionale. Anche dove si verificava la necessità di lavoro specializzato (soprattutto negli anni ’50), sempre più spesso venivano utilizzati (“affittati”) schiavi cui venivano insegnati i mestieri richiesti. Gli immigranti tedeschi, notoriamente in buona parte artigiani specializzati, che capitavano al Sud, se ne andavano alla svelta per la concorrenza degli schiavi o per le paghe troppo basse che venivano offerte.
Non che l’utilizzo degli schiavi come operai fosse vantaggioso: nel passare dal campo alla fabbrica e viceversa gli schiavi non riuscivano ad acquisire una sufficiente specializzazione. Si potevano acquistare, ma allora l’immobilizzo di capitale fisso diveniva in molti casi insostenibile. Il lavoro coatto non è mai stato produttivo quanto quello “libero”. Sicuramente il Sud si sarebbe trovato presto all’alternativa tra liberare parte degli schiavi e favorire l’immigrazione, o rinunciare allo sviluppo industriale.
Come se la passavano i bianchi non possidenti? Nella gran parte i sei milioni di bianchi non padroni di schiavi erano in condizioni di indigenza, vivendo di agricoltura su pezzetti di terra ai margini delle grandi proprietà, terra ormai esaurita dalle colture industriali; erano i cosiddetti poor whites, bianchi poveri. Anche i pochi che vivevano di lavoro salariato guadagnavano paghe da fame, tra il 50 e il 70% delle paghe riscosse per lo stesso lavoro al Nord.
Non sorprende quindi la debolezza sindacale di questi lavoratori, che ancora nel 1847, per uno sciopero alle fonderie Tredagar, furono processati e condannati. Purtroppo quindi gran parte dell’attività sindacale degli operai del Sud fu diretta a impedire l’impiego di schiavi nei mestieri specializzati, soprattutto la metalmeccanica. Ma la stessa logica dell’esclusione degli schiavi portò, gradualmente, gli operai a comprendere che la soluzione definitiva sarebbe stata proprio l’abolizione della “peculiare istituzione”: si cominciò negli anni ’50 quindi a stringere una alleanza di fatto tra operai e schiavi, alleanza che, favorita anche da qualche rara colonia di immigrati tedeschi notoriamente antischiavisti, cominciò a preoccupare il padronato latifondista e schiavista.
Verso la fine degli anni ’50 quindi la ristretta oligarchia del Sud rischiava di dover affrontare a breve una guerra di classe, preoccupazione che traspare dalla stampa locale del tempo. Il dilemma, come già visto sopra, era grave: tenere gli schiavi fuori della fabbrica avrebbe significato l’ascesa di una classe operaia libera, per natura ostile ai piantatori. Consentire agli schiavi di lavorare come operai avrebbe indebolito il sistema schiavistico, perché l’esperienza insegnava che gli schiavi impiegati nell’industria in breve divenivano agitatori per l’emancipazione. A parte il fatto che si cominciava a capire che, a conti fatti, l’operaio schiavo non era una scelta economicamente conveniente. La scelta fu quindi di ostacolare con tutti i mezzi la crescita dell’industria nel Sud; scelta miope, che dava fiato ai piantatori per un po’, ma che sarebbe stata pagata caramente nel corso della guerra.
Fu osservato che «ogni lavoratore libero che va al Sud è un chiodo
in più nella bara dello schiavismo».
La classe operaia al Nord e la schiavitù
L’atteggiamento della classe operaia degli Stati del Nord nei confronti della istituzione della schiavitù, che manteneva in condizioni materiali e spirituali indegne quattro milioni di esseri umani, non fu sempre lineare e coerente. In linea di principio nessuno nel movimento operaio metteva in discussione il fatto che si trattasse di una istituzione vergognosa, che tra l’altro contraddiceva i principi della rivoluzione borghese, e in particolare quelli della Dichiarazione d’Indipendenza del 1776. Un documento prodotto dai sindacati del Massachusetts nel 1830 augura che «venga cancellata l’infame macchia della schiavitù, che deturpa la bella immagine del Paese; e che i nostri compagni non solo siano dichiarati liberi e uguali, ma che possano anche godere di quella libertà e eguaglianza cui hanno diritto per natura». A quell’epoca la borghesia del Nord non era ancora “illuminata” e abolizionista, ma nella grande maggioranza faceva lucrosi affari con i piantatori del Sud, sia vendendo manufatti, sia commerciando in cotone e altri prodotti, sia rifornendoli addirittura di schiavi, anche se ormai solo di contrabbando. Era la cosiddetta alleanza fra i Signori della Frusta, i Signori delle Filande e i Signori dei Moli.
Qua e là sorgevano iniziative spontanee, come la Società Antischiavista Femminile delle operaie di Lowell, nel 1832. Nel 1836 la Working Man’s Association of England, vicina al movimento Cartista, rivolse un appello agli operai americani perché si adoperassero in una campagna contro la schiavitù. Esempi che non ebbero il seguito sperato.
Tradizionalmente gli operai erano legati al Partito Democratico, che era, tra l’altro, a favore della accettazione degli immigrati, contrariamente ai più conservatori Whig. E schierarsi su posizioni contrarie poteva significare causare una spaccatura nel partito. Un’altra causa di esitazione era la paura, fomentata naturalmente dalla stampa democratica del Nord, che una improvvisa emancipazione avrebbe causato un afflusso sul mercato del lavoro dei milioni di negri liberati, che avrebbero fatto precipitare il prezzo del lavoro salariato. Era un argomento che faceva presa sugli strati meno qualificati della manodopera, in quegli anni gli irlandesi; anche perché la stessa chiesa cattolica non mancò di combattere gli abolizionisti, come seguaci di una tendenza di “importazione inglese”.
D’altra parte in quei primi anni gli abolizionisti si preoccuparono poco degli operai, e di converso i sindacati non prestarono grande attenzione alla questione, per non dire che tendevano ad ignorarla. Inoltre molti operai pensavano che non ci fosse grande differenza tra la schiavitù della frusta e la schiavitù del bisogno e della miseria. I seguaci della National Reform ed Evans stesso invitavano i lavoratori a lasciar perdere gli schiavi e a lottare per la Riforma, che avrebbe, una volta raggiunta, risolto tutti i problemi. Ma una riunione della New England Workingmen’s Association del 1846 lo sconfessò, e deliberò invece che «la schiavitù in America deve essere sradicata prima che le classi lavoratrici ottengano i miglioramenti auspicati». La loro posizione fu quella che qualche anno dopo sarebbe stata espressa da Marx nel “Capitale”: «Negli Stati Uniti d’America ogni movimento operaio autonomo è rimasto paralizzato finché la schiavitù deturpava una parte della repubblica. Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi là dove è marchiato a fuoco in pelle nera».
Si trattava di posizioni che sempre più si andavano diffondendo tra le organizzazioni economiche e politiche dei proletari, ma che faticavano a penetrare nella grande massa degli operai, almeno fino la metà degli anni ’50.
Come abbiamo visto, vi era una certa resistenza da parte degli operai ad abbandonare il Partito Democratico. Ma d’altra parte il Partito Democratico stava divenendo sempre più il partito degli schiavisti, e quindi sempre più un partito del Sud. Per mantenere il loro potere politico gli schiavisti dovevano estendere lo schiavismo ai nuovi territori, per non divenire minoritari a Washington; da qui la politica aggressiva nell’Ovest, soprattutto a spese del Messico. Altre vittorie politiche furono l’abrogazione del Compromesso del Missouri (1854) e il caso Dred Scott (1857). Nella loro paranoia, giustificata da un declino inevitabile e necessario per le stesse leggi del capitale, gli schiavisti arrivarono ad idealizzare lo schiavismo come forma ideale della società americana, da introdurre anche al Nord; cosa che non mancò di aumentare il numero dei proletari che passavano nelle file del movimento abolizionista. Inoltre cominciò ad entrare nella testa degli operai che, visto che gli schiavi al Sud cominciavano ad accedere a mestieri specializzati (cosa che abbiamo visto non ebbe un grande successo, ma allora non si sapeva), i loro salari sarebbero stati ricalcolati sulla base del costo del lavoro di una schiavo negro.
Nel 1854 nasce in Wisconsin il Partito Repubblicano, ad opera di personalità del movimento sindacale. Tra le sue posizioni distintive sono l’opposizione all’estensione dello schiavismo e il sostegno ai Freesoilers; rispetto ai Whigs si presenta molto più progressista e vicino alla classe operaia, ma appare anche ben accetto alla crescente popolazione della Frontiera. Inoltre, mantenendo le posizioni whig su protezionismo e banca centrale, attira ben presto l’interesse della borghesia industriale e finanziaria del Nord. La difesa del protezionismo, quindi di tariffe alte all’importazione, ovviamente di manufatti europei, era sicuramente ben vista dalla borghesia manifatturiera della Nuova Inghilterra; ma era anche un cavallo di battaglia dei Whig, che i Repubblicani ripresero, per attirare dalla loro parte gli operai. Veniva sostenuto che i dazi avevano lo scopo principale di proteggere gli operai americani contro la concorrenza di mano d’opera straniera a buon mercato. Se non si fossero usati i dazi per aumentare i prezzi dei manufatti stranieri prima che raggiungessero il mercato americano (così si argomentava), gli industriali americani per reggere alla concorrenza non avrebbero avuto altra via che abbassare i salari al livello europeo. I politici Repubblicani avevano quindi addirittura la faccia tosta, mentre facevano gli interessi della grande industria, di presentarsi come difensori dei diritti dei lavoratori.
La borghesia fu inizialmente lenta a schierarsi, e mantenne sempre dei
settori, soprattutto quelli mercantili, simpatizzanti del partito Democratico
e del Sud. Raccogliendo settori del partito Whig in disfacimento, una parte
del Partito Democratico, quella rappresentata dai pionieri e dai piccoli
agricoltori, e buona parte del proletariato industriale, il Partito Repubblicano
si rafforzò in breve tempo, e ottenne un ottimo risultato alle elezioni
presidenziali del 1856, pur non vincendo. Tra i suoi sostenitori nel campo
del proletariato si distinsero gli immigrati, in particolare gli operai
di origine tedesca e scandinava, che in buona parte risentivano dell’influenza
di Weydemeyer e del suo Communist Club. Negli anni successivi queste
stesse componenti si rafforzarono, e nel 1860 si può dire che il Partito
Repubblicano, sostenuto da una borghesia che sempre più comprendeva quale
ostacolo lo schiavismo fosse per lo sviluppo capitalistico del Paese, si
presentasse alle elezioni come il partito del lavoro libero; il suo campione
era Abramo Lincoln, il “figlio di operai”. Ciononostante, fu soprattutto
la spaccatura del Partito Democratico in due tronconi, uno schiavista e
uno degli agricoltori dell’ovest, a consegnare la vittoria delle elezioni
presidenziali ai repubblicani.
Verso il dopoguerra
La Direzione del PSI, nell’impossibilità di celebrare il suo XV congresso a causa dello stato di guerra, decise di convocare un convegno consultivo allo scopo di «affiatare il movimento nostro e coordinare l’azione con quella dei suoi organismi, che più sono rimasti attivi esponenti delle nostre idealità in questa tragica ora di distruzione». Al convegno, oltre ai membri della Direzione, furono invitati i deputati del gruppo parlamentare, una rappresentanza della CGL, i rappresentanti delle federazioni provinciali o, in loro mancanza, i rappresentanti delle province di almeno cinque sezioni con più di 100 iscritti ciascuna ed i fiduciari di provincia nominati dalla Direzione.
Il Convegno poté svolgersi legalmente a Roma, dal 25 al 27 febbraio 1917, nonostante le proteste e le richieste di vietarlo presentate al governo da nazionalisti ed organismi democratici di varia natura. La “Unione fra le Associazioni Liberali Costituzionali” di Roma, ad esempio, aveva votato un o.d.g. in cui sollecitava il governo perché vietasse, «in quella Roma da cui partì l’incitamento maggiore alla nostra guerra di rivendicazione», l’assise socialista, definita «offesa al sentimento nazionale» e «intollerabile provocazione che potesse condurre a turbamenti dell’ordine e del raccoglimento nazionale mentre i figli d’Italia versano il loro sangue più puro per la difesa della patria». Ci provarono, non ci riuscirono. Forse meglio sarebbe stato per noi se ci fossero riusciti.
Pochissima è la documentazione del convegno esistente, soprattutto perché la censura epurò scrupolosamente la stampa di partito da resoconti, dibattiti e documenti inerenti. Si può dire però che la riunione ebbe il merito di portare in luce le due posizioni, apertamente antitetiche, esistenti all’interno del partito.
Furono discussi tre punti. Il primo riguardava la relazione della Direzione del partito e del Gruppo parlamentare. Questo secondo fu oggetto di molte critiche, e si disse da tutte le parti che la responsabilità era della Direzione in base al fondamentale principio che il Gruppo parlamentare, così come la dirigenza confederale, non potevano avere il diritto di fare una politica propria che non fosse in tutto quella del partito. Ma, dopo due anni di guerra, il partito era odiato e bersagliato da ogni parte e prevalse il motivo sentimentale di non dividersi nel voto sul suo operato. I destri, da parte loro, evitarono di creare fratture troppo gravi con i compagni della sinistra e cercarono di sottolineare i punti in comune con i massimalisti anziché le divergenze. Del resto questa è la tattica classica dell’opportunismo: puntare tutto sulla unità. Modigliani valutò che i dissensi non erano di natura ideologica e tattica, ma sull’opportunità di un indirizzo di azione pratica piuttosto di un altro: «L’unità delle idee e dei metodi è perfetta». L’altro destro, Prampolini, arrivò ad affermare: «Io riformista non mi sono mai sentito come in questo momento vicino a voi rivoluzionari, perché è la realtà iniqua dell’ora in cui viviamo che sospinge il nostro spirito sulle vie delle risoluzioni più energiche per la lotta contro le ingiustizie sociali».
Trozzi, di Sulmona, che era un sinistro, presentò un o.d.g. di plauso alla Direzione, mentre Zanetta di Milano, altro di sinistra, di semplice approvazione. Il primo ebbe 23.841 voti, il secondo 6.295. I riformisti, contrari alla direzione, si contarono nei 2.690 astenuti.
Il secondo punto della discussione fu quello riguardante una annunciata riunione dei partiti socialisti degli Stati aderenti all’Intesa (tra cui ormai l’Italia) indetta a Parigi. Sarebbe stato giusto non andarvi in ogni caso. Invece si discusse sul fatto, secondario, che il partito francese di suo arbitrio aveva spartito i voti italiani fra il PSI, quello ultrainterventista dei riformisti bissolatiani ed eventualmente altri. Dall’estrema sinistra non si mancò di osservare che la Seconda Internazionale e il partito francese erano ben morti, ma si votò su due ordini del giorno quasi simili di Bombacci e di Modigliani, che, a forze pari, in linea di principio non dicevano nulla. Ma a Parigi non si andò. Soprattutto per il semplice fatto che la riunione di Parigi non ci fu.
Sul vitale terzo punto, “Discussione sulla pace e sul dopoguerra”, si verificò, invece, una netta divisione: la sinistra ottenne oltre 14 mila voti contro i 17 mila del centro-destra. Gli storici ufficiali del movimento operaio non conoscono la mozione presentata dalla sinistra. A causa dei tagli della censura l’Avanti! poté solo accennare che l’o.d.g. di sinistra «sviluppava una direttiva teorica intransigente circa i criteri del partito socialista per la pace e il dopoguerra». Lo studioso democratico, senza poter conoscere il famoso o.d.g., si sente lo stesso in diritto di tradurre il commento dell’Avanti! in questa maniera (ne citiamo uno per tutti): «Il primo o.d.g. venne presentato da Bordiga e peccava di intransigenza estremista, senza dubbio lontana da una visione concreta della realtà e da una concreta possibilità di modificarla (...) Non manca di lasciare perplessi il fatto che l’estremismo dottrinario di Bordiga potesse trovare nel Partito un numero così consistente di seguaci» (Luigi Ambrosoli, Né Aderire né Sabotare).
Invece l’altro o.d.g., quello approvato, presentato da Rossi per il centro-destra, non peccava certo di “dottrinarismo” per il semplice fatto che non diceva assolutamente nulla: «Il convegno, udite le dichiarazioni del Segretario del partito sull’ulteriore contegno del Partito stesso, le approva e dichiara di uniformare alle stesse l’ulteriore sua azione».
Il dibattito fu invece molto profondo. La guerra, si disse, è venuta anche per l’Italia, e non si è potuto impedirla (per molti, non si è osato o voluto tentare). Ma la guerra finirà pure un giorno, e verrà la pace. Che dirà il partito? E quale sarà nel tempo futuro di pace, e nel “dopoguerra”, di cui già si parlava, la politica e l’azione del partito? L’ala pacifista, mai smentita, sosteneva solo certi vani principi d’ordine democratico borghese sulle caratteristiche della pace che i governi nazionali avrebbero tra loro conclusa, e si pascevano delle note formule: pace senza annessioni (cosa ben sciocca in Italia, quando la guerra era giustificata dal fine di annettere Trieste e Trento e tutto quello che poi si sarebbe potuto strappare dai denti dei pescecani alleati) e senza indennizzi (ricordo di quelli imposti da Bismarck ai francesi); diritto dei popoli a disporre di se stessi e Società delle Nazioni (il bagaglio di quella che poi sarà l’ipocrisia wilsoniana; ma l’America doveva prima fare la guerra e poi mettersi a governare la pace). Naturalmente nel campo interno si sarebbe chiesta la smobilitazione (bella forza!), il ripristino delle libertà popolari, e chi più ne ha più ne metta.
Le tesi sostenute dalla Sinistra gettarono all’aria tutto questo bolso ideologismo ultraborghese. La posizione degli intransigenti era chiara; la guerra è venuta perché in regime capitalista è inevitabile, non poteva non venire (Zimmerwald lo aveva ribadito) e la questione non è compiacersi nell’aspettativa di una nuova fase storica di pace, ma porsi il problema di far sì che nell’avvenire altre guerre non ci siano, eliminandone i presupposti. Quale mezzo a disposizione ha il proletariato? Uno solo: rovesciare il capitalismo. Quindi, se il programma dell’oggi non è stato in grado di fermare la guerra con il disfattismo, il programma del dopoguerra dovrà essere quello della presa del potere da parte del proletariato e della rivoluzione sociale. Il proletariato italiano, duramente provato dalla disastrosa guerra (in quel tempo ancora vittoriosa, malgrado il lento procedere dei fronti), avrebbe dovuto accogliere questo appello del partito per strappare con mezzi rivoluzionari il potere alla borghesia guerrafondaia, e non avrebbe dovuto avanzare la rivendicazione imbelle del pacifismo. L’obiettivo socialista, dopo la guerra, non doveva essere quello di influire sull’aspetto che la pace avrebbe dovuto assumere, ma la rivoluzione di classe. Questo fu detto a Roma e questa fu la rivendicazione della Sinistra.
La mozione “dottrinaria” della sinistra, che in tutta la stampa del partito era stata censurata, fu riprodotta in un opuscoletto clandestino intitolato “Memoria al Partito Socialista della Federazione Giovanile Italiana”. Il testo della mozione, anziché peccare di “intransigenza estremista”, può addirittura apparire alquanto debole rispetto alle idee sostenute dalla sinistra rivoluzionaria a Roma, e che sono state appena sunteggiate. Tuttavia i concetti erano quelli. Poi si deve anche tener conto che, indipendentemente dalla firma personale o dalle firme che la mozione recava, essa fu indubbiamente il risultato di un accordo tra elementi più decisi ed altri forse non completamente intonati, come dimostra l’elevato numero di adesioni: 14.000 voti. Possiamo anche supporre che, nella speranza che la mozione potesse essere pubblicata sull’Avanti! senza finire nel cestino del censore, si pensasse convenisse attutirne il tono dal punto di vista formale.
Ecco il testo quale fu inserito nello stampato illegale della gioventù socialista. Non è nemmeno certo fosse totalmente fedele all’originale, ma tuttavia è fedele ai nostri principi:
«Il Convegno Nazionale Socialista si sente sicuro interprete del proletariato italiano e mondiale nell’invocare la fine della presente micidiale guerra, la cui continuazione è in antitesi con gli intenti e le aspirazioni delle classi lavoratrici;
«Al disopra delle contingenti situazioni militari e politiche degli Stati in conflitto, il Convegno pensa che il Partito Socialista debba indirizzare tutti i suoi sforzi alla cessazione della guerra, rivelatasi incapace di raggiungere una soluzione dallo stesso punto di vista militare;
«Ritenuto poi che il malcontento che va diffondendosi per le luttuose conseguenze della guerra deve essere preso in seria considerazione, e che il Partito deve prefiggersi di incanalarlo in una cosciente e generosa azione di solidarietà con le vittime della presente situazione, illuminata dalle ragioni socialiste dell’avversione proletaria alla guerra;
«Riponendo ogni speranza circa la durata della pace e l’auspicata impossibilità di nuovi conflitti armati nell’energica azione di classe del proletariato internazionale, al di fuori delle pastoie dei pregiudizi borghesi, fa voti che l’azione per la pace del Partito Socialista si concreti nei seguenti provvedimenti:
- Intensificazione dell’attività di propaganda e di organizzazione del Partito nelle singole Sezioni, nelle Federazioni provinciali e regionali e nei rapporti tra questi organismi e la Direzione centrale, giusta il piano di funzionamento interno di cui demanda lo studio alla Direzione, onde il Partito stesso sia pronto ad assolvere il suo compito in ogni eventualità;
- Intensificazione del movimento femminile e giovanile socialista e dei rapporti con le organizzazioni di mestiere sulla base delle tendenze antiborghesi e antibelliche dei lavoratori organizzati;
- Energico lavoro di ripresa internazionale col movimento socialista contro la guerra degli altri paesi, giusta le deliberazioni già votate;
- Azione parlamentare che sia l’eco sincera ed esplicita del pensiero socialista e riaffermi in tutte le occasioni l’invocazione alla pace con sicura intransigenza e senza contatti con le correnti pacifiste borghesi.
«Il Convegno fa appello a tutti i compagni e a tutti gli organi del Partito, perché contro gli allettamenti e le minacce avversarie sappiano compiere intero il loro dovere in nome della solidarietà internazionale dei lavoratori e per l’avvento immancabile del socialismo».
Il vero fine dell’Unità
Un interessante resoconto del convegno di Roma tracciato dal riformista Claudio Treves lo troviamo nella Critica Sociale. È naturale che tutti gli aspetti esaltati dalla rivista della destra corrispondono, per noi, a quei difetti e tare di fondo che impedirono al partito di svolgere una politica autenticamente autonoma e classista, in grado di portare il proletariato all’attacco e alla distruzione del regime borghese. Per far ciò sarebbe stato necessario denunciare come mortifero il concetto dell’unità del partito, la cui rottura era invece ciò che maggiormente temevano i riformisti. Il partito di Lazzari e Serrati, anche se di tanto in tanto si atteggiava a rivoluzionario, era infetto dallo stesso virus che aveva colpito tutti i partiti della Seconda Internazionale: il riformismo legalitario, collaborazionista e pacifista, pacifista di classe.
La necessità di una scissione decisiva con il troncone di destra del partito, ormai irrecuperabile, così come veniva auspicata e richiesta insistentemente da Lenin, non venne recepita. Non venne recepita per il semplice fatto che nel partito socialista italiano, così come era strutturato, non era neanche concepibile.
Con grande sollievo la destra del PSI poteva concludere: «Il convegno dei socialisti italiani, tenuto a Roma, ha segnato un forte e consapevole sforzo di unità nell’azione, quale il tempo lo richiedeva. Di ciò bisogna essere lieti, almeno quanto l’inquietudine e il timore avevano prima agitato gli animi. Il pericolo era troppo manifesto». Con la massima onestà il riformista ci spiega quale era l’incubo che assillava l’ala destra del partito: «Più lo sforzo penoso della guerra allontana gli uomini del proletariato dalla solidarietà con lo Stato e più grande poteva essere l’incentivo a portare tutte le forze dell’opposizione fuori e contro la chiostra dello Stato, e quindi anche fuori e contro l’azione socialista parlamentare. Se ciò fosse avvenuto il movimento proletario avrebbe dovuto sbrigliarsi e rompersi nei torbidi torrenti di un insurrezionalismo equivoco e impotente».
A parte il “torbido insurrezionalismo”, dobbiamo noi qui lodare il Treves per l’esplicito riconoscimento che tutti gli sforzi della destra riformista tendevano a legare il proletariato alla solidarietà con lo Stato borghese, perché quando questa solidarietà di classe si frantumasse si aprirebbe una situazione rivoluzionaria.
L’articolo continua: «Le lusinghe a ciò non mancavano, sia nella seduzione del disagio e delle dimostrazioni popolari, sia perché gran parte dell’azione socialista in Parlamento aveva per forza di cose dovuto essere volta alla difesa delle istituzioni parlamentari, oppresse dalla guerra e dal prepotere degli elementi politici che la guerra avevano voluta – le quali istituzioni nel loro intrinseco tradiscono pur sempre l’essenza borghese delle loro origini, e per ciò stesso sono sempre sospette alle masse».
La storia è vecchia: l’opportunismo trova sempre qualcosa di importante, da dover difendere all’interno delle istituzioni dello Stato borghese. In realtà è un qualcosa che non serve più alla borghesia, che se ne vuol disfare; che non può servire al proletariato per conquistare la sua emancipazione, ma che serve al sistema capitalistico per scongiurare che il malcontento e la ribellione del proletariato possano scorrere nell’alveo della lotta di classe. Questo indispensabile – per la borghesia – indirizzo collaborazionista, cioè l’impegno per la difesa della minacciata libertà democratica, è sempre stato magnificamente svolto dai gruppi parlamentari dei partiti operai tralignati.
Treves è costretto a riconoscere sia che l’attività svolta dalla destra del partito socialista è in contrasto con le aspettative e con la volontà del proletariato, sia che non sarebbe stato possibile sviluppare questa politica di collaborazione e di appoggio alle istituzioni senza il sostegno determinante della direzione del partito, sebbene questa si atteggiasse ad intransigente. «Fu la stessa Direzione del Partito (...) che venne incontro al Gruppo Parlamentare per plaudire solidale all’opera compiuta, volgendosi contro la propria parte estrema, irriducibile nel suo furore incomposto di demolizione, espressione penosa ed appassionata della esasperazione delle folle. E fu Costantino Lazzari che fissò i termini concreti del continuamento dell’opera comune ergendosi contro l’insurrezionalismo ed illustrando nuovamente la formola che fu la bandiera fin qui agitata: “Né aderire, Né sabotare alla guerra” che implica la non indifferenza che il padrone sia austriaco o italiano». Eccoci al dunque! “la non indifferenza che il padrone sia austriaco o italiano”, cioè collaborazione di classe, cioè adesione alla guerra nazionale. O alla “guerra patriottica”, la futura formula staliniana!
Un’ultima citazione dalla Critica Sociale per dimostrare come
i riformisti, al pari dei rivoluzionari, al pari di Lenin, riconoscessero
che i due metodi di attività politica sono inconciliabili: «Ora, o il
Partito, intuendo le chiare necessità e responsabilità dell’azione
socialista politica, approvava l’azione del Gruppo Parlamentare, oppure
la disapprovava; ma la disapprovazione avrebbe necessariamente investito
non l’attività di un gruppo, ma la bontà di un metodo. Il giudizio
era di una complessità magnifica, e, per le terribili circostanze, implicava
un bivio storico» (Critica Sociale, n.5, marzo 1917). Questa dichiarazione,
enunciata con la massima chiarezza, significa una cosa sola, cioè che
chi teorizza la possibilità di convivenza del metodo riformista con quello
rivoluzionario, in nome di quel valore supremo che sarebbe l’“unità
del partito”, in effetti persegue un solo scopo: impedire che il metodo
rivoluzionario possa sviluppare la sua attività senza altro impedimento
se non quello che non provenga dall’esterno, e che il proletariato resti
incatenato alla collaborazione di classe, al lavoro salariato, alle guerre
borghesi.
La rivoluzione di Febbraio in Russia
Il 16 marzo 1917, i giornali italiani, con un telegramma dell’Agenzia Stefani, danno la notizia dello scoppio della Rivoluzione in Russia. Tra l’altro vi si legge: «Il blocco liberale, cui si aggregò un gruppo progressista, trattò con una delegazione degli ammutinati. La delegazione avendo dichiarato di volere la continuazione della guerra fino alla vittoria, la Duma ha consentito di farsi intermediaria dei ribelli verso il sovrano». Il dispaccio terminava con questo commento: «Il movimento tende all’eliminazione delle influenze reazionarie, ritenute favorevoli alla pace».
Sulle modalità dello scoppio insurrezionale che sboccò nella Rivoluzione di Febbraio lasciamo la parola a Trotski:
«Il 23 febbraio [l’8 marzo del nostro calendario, n.d.r.] era la “giornata internazionale della donna”. Nei circoli socialdemocratici si pensava di celebrare questa giornata nelle forme abituali: riunioni, discorsi, manifestini. Ancora alla vigilia nessuno si sarebbe sognato che questa “giornata della donna” potesse inaugurare la rivoluzione. Non una sola organizzazione aveva preordinato uno sciopero per quel giorno. Di più, un’organizzazione bolscevica tra le più combattive, il comitato del rione essenzialmente proletario di Vyborg, sconsigliava qualsiasi sciopero. Secondo la testimonianza di Kajurov, uno dei capi operai del rione, lo stato d’animo delle masse era molto teso e qualsiasi sciopero minacciava di trasformarsi in un conflitto aperto. Ma, siccome il Comitato non riteneva che fosse giunto ancora il momento di aprire le ostilità – il partito non era ancora abbastanza forte e i legami tra operai e soldati erano del tutto insufficienti – aveva deciso di non invitare allo sciopero, ma di prepararsi all’azione rivoluzionaria per una data imprecisata. Questa era la linea di condotta prospettata dal Comitato alla vigilia del 23 e sembrava che tutti l’avessero accettata.Dieci anni dopo, Kerensky avrebbe scritto nel New York Times (12 maggio 1927): «Molto prima della distruzione del regime zarista l’esercito al fronte presentava fenomeni acuti di disintegrazione. Nel gennaio 1917 più di un milione di disertori si aggiravano nelle retrovie del fronte. Nelle prime settimane della rivoluzione di marzo l’esercito russo aveva cessato di esistere come forza combattente».
«Ma l’indomani mattina, nonostante tutte le direttive, gli operai tessili abbandonarono il lavoro in molte fabbriche e inviarono delegazioni agli operai metallurgici per chiedere il loro appoggio allo sciopero. “Di malavoglia”, scrive Kajurov, i bolscevichi si misero in movimento, seguiti dagli operai menscevichi e socialrivoluzionari. Ma dal momento che si trattava di uno sciopero di massa, bisognava che tutti si impegnassero a scendere sulle piazze e a mettersi alla testa del movimento: questa era la risoluzione proposta da Kajurov e il Comitato di Vyborg si vide costretto ad accettarla. “L’idea di una manifestazione maturava da tempo tra gli operai, ma in quel momento nessuno aveva ancora un’idea di che cosa ne sarebbe venuto fuori”. Prendiamo nota di questa testimonianza di un partecipante, assai importante per la comprensione del meccanismo degli avvenimenti.
«Si dava per scontato in anticipo che in caso di manifestazioni le truppe sarebbero uscite dalle caserme e si sarebbero opposte agli operai. Che cosa sarebbe accaduto? Si era in tempo di guerra e le autorità non erano disposte a scherzare. (...) In proposito si discuteva molto nei circoli rivoluzionari, ma piuttosto astrattamente, perché nessuno, proprio nessuno – si può affermarlo categoricamente sulla base di tutti i documenti raccolti – pensava ancora che la giornata del 23 febbraio avrebbe segnato l’inizio di una offensiva decisiva contro l’assolutismo. Si parlava solo di una manifestazione le cui prospettive rimanevano imprecisate e in ogni caso assai limitate.
«È dunque chiaro che la rivoluzione di febbraio fu scatenata da elementi di base che superarono la resistenza delle loro stesse organizzazioni rivoluzionarie e che l’iniziativa fu presa spontaneamente da un settore del proletariato oppresso e sfruttato più di tutti gli altri – i lavoratori tessili – tra cui indubbiamente si contavano non poche mogli di soldati. L’ultimo impulso venne dalle interminabili attese dinanzi ai forni. Il numero degli scioperanti, uomini e donne, fu quel giorno di circa 90.000. Lo stato d’animo combattivo si tradusse in manifestazioni, comizi, scontri con la polizia.
«Il movimento si sviluppò prima nel rione di Vyborg, dove si trovavano le grandi fabbriche, e arrivò poi ai sobborghi di Pietrogrado. Nelle altre parti della città, secondo i rapporti della polizia, non vi furono né scioperi né manifestazioni. Quel giorno, le forze di polizia vennero integrate con distaccamenti militari, in apparenza poco numerosi, ma non si verificarono scontri. Una folla di donne, non tutte operaie, si diresse verso la Duma municipale per chiedere pane. Era come chiedere latte a un bue. In vari quartieri comparvero bandiere rosse e cartelli le cui scritte dimostravano che i lavoratori esigevano pane e non volevano più saperne dell’autocrazia e della guerra.
«La “giornata della donna” era riuscita, era stata piena di slancio e non aveva causato vittime. Ma di che cosa fosse gravida in serata nessuno ancora sospettava. All’indomani, il movimento, lungi dal calmarsi, raddoppia di energia: il 24 febbraio circa la metà degli operai industriali di Pietrogrado sono in sciopero. Sin dal mattino si presentano nelle fabbriche e, invece di mettersi al lavoro, tengono comizi e si dirigono poi verso il centro della città. Nuovi quartieri, nuovi settori della popolazione sono trascinati nel movimento. La parola d’ordine: “Pane” è lasciata cadere o è soffocata da altre: “Abbasso l’autocrazia, Abbasso la guerra!”. Continuano le manifestazioni sulla Prospettiva Nevsky: prima masse compatte di operai che cantano gli inni rivoluzionari; poi una moltitudine disparata di cittadini, di studenti con i berretti blu. “La gente che passeggiava ci manifestava la propria simpatia e dalle finestre di molti ospedali i soldati ci salutavano agitando in aria quello che capitava loro sottomano”. Erano in molti a comprendere la portata di quei gesti di simpatia di soldati malati verso i manifestanti?
«Tuttavia, i cosacchi attaccarono la folla, anche se non brutalmente; i cavalli erano coperti di schiuma; i manifestanti si gettavano da una parte e dall’altra, poi si ricomponevano in gruppi serrati. Nessuna paura nella moltitudine. Una voce correva di bocca in bocca: “I cosacchi hanno promesso di non sparare”. Di tutta evidenza gli operai erano riusciti a intendersi con un certo numero di cosacchi. Ma un po’ più tardi sopraggiunsero dragoni mezzo ubriachi, che gridando ingiurie penetrarono tra la folla, colpendo le teste con colpi di lancia. I manifestanti resistettero con tutte le loro forze, senza retrocedere. “Non spareranno”. E in effetti non spararono (...)
«Per tutta la giornata, le folle di popolo non fecero che circolare da un quartiere all’altro, incalzate violentemente dalla polizia, contenute e respinte dalla cavalleria e da certi distaccamenti di fanteria. Si gridava: “Abbasso la polizia!”, ma sempre più di frequente si levavano degli evviva verso i cosacchi. Era significativo. La folla manifestava il proprio odio feroce verso la polizia. Gli agenti a cavallo erano accolti con fischi, con il lancio di pietre e di pezzi di ghiaccio. Del tutto diverso l’atteggiamento degli operai verso i soldati. Attorno alle caserme, vicino alle sentinelle, alle pattuglie e ai cordoni di sbarramento, operai e operaie scambiavano parole amichevoli con la truppa. Era una nuova fase, determinata dallo sviluppo dello sciopero e dall’incontro tra gli operai e l’esercito. Questa fase è inevitabile in ogni rivoluzione».
L’esercito russo nel 1917 incominciò semplicemente a smobilitarsi
da sé. Nemmeno la verbosità di Kerensky poté arginare la marea. «Voi,
signor Ministro – gli disse un mugik, semplice soldato sul fronte di
Riga – ci dite che dobbiamo combattere per la nostra terra e per la nostra
libertà. A che mi servirebbe la terra se vengo ucciso? Tutto ciò che
avrò saranno tre metri di terra per seppellirmi». Kerensky non gli rispose.
Quel contadino sapeva che a casa la sua gente stava espropriando i latifondisti;
e ciò costituiva per lui un affare molto più pressante che combattere
contro i tedeschi, gli austriaci ed i turchi. Quando Kerensky disse ai
soldati: «Io vi invito non a festeggiare, ma a morire», questi sorrisero
ed il giorno dopo abbandonarono le trincee. Lenin osservò che «l’esercito
votava per la pace con le proprie gambe», abbandonando il fronte.
La Russia rivoluzionaria e la guerra
Ma l’Occidente era all’oscuro di ciò che veramente accadeva in Russia? Oppure preferiva non saperlo, illudendosi che la rivoluzione sarebbe stata soffocata?
Il 16 marzo, alla Camera dei Comuni, Bonar Law dichiarava che tutte le informazioni dell’Ambasciata inglese indicavano che il movimento rivoluzionario si era pronunciato a favore della continuazione della guerra.
Il giorno dopo è ancora l’Agenzia Stefani che annuncia: «deputati socialisti della Duma hanno inviato agli operai vari appelli, coi quali li invitano a mantenere l’ordine e a riprendere il lavoro, affinché i combattenti al fronte possano continuare la lotta». In effetti Miliukov, capo del nuovo Governo russo uscito dalla prima fase della rivoluzione, aveva inviato ai Governi dell’Intesa una nota nella quale si assicurava che la Russia avrebbe continuato la guerra a fianco dei suoi alleati. Ma ormai la spinta rivoluzionaria era data, e la dissoluzione del regime zarista aveva raggiunto il punto critico del non ritorno, né gli sforzi di pochi potevano più contenere il movimento teso verso la pace e verso il nuovo regime.
Il PSI il 22 marzo trasmetteva a Tcheize, deputato socialista della Duma, un telegramma nel quale ci si «augurava il trionfo della causa comune internazionale».
Il 23 marzo, alla Camera, Turati commemorò le vittime della rivoluzione russa: «Auguriamo che la rivoluzione russa, il cui slancio appare così formidabile da ricordarci la grande rivoluzione francese, anzi da farci sperare superate in un sol colpo le fasi dell’89 e del �93, abbatta rapidamente tutti gli ostacoli e trionfi senza ritorni o rappresaglie. Inneggiando alla libera Russia, noi diciamo evviva alla liberazione del mondo». A questo saluto si associava pure Boselli affermando, in nome del Governo, che «gli avvenimenti che si compiono in Russia accrescono forza alla nostra guerra». E, dopo avere augurato alla Russia il pronto consolidamento di quelle istituzioni liberali che sono fondamento e presidio del nuovo ordine, terminava il suo intervento con un “Evviva la Russia”. Ed “Evviva la Russia” fu il grido che in coro ripeterono ministri e deputati borghesi.
Non ci risulta che dopo questo Evviva se ne siano ripetuti altri! In seguito, da altre bocche e da altri cuori fu intonato l’Evviva! alla Rivoluzione russa.
In questo giubilo generale nei confronti della rivoluzione russa non potevano mancare gli interventisti di sinistra e, in primo luogo, Il Popolo d’Italia. Il giornale di Benito Mussolini aveva presentato la rivoluzione russa come una conferma della giustezza della posizione interventista, la dimostrazione che la guerra avrebbe avuto necessariamente uno sbocco rivoluzionario; dopo la Russia altre nazioni avrebbero seguito il suo esempio, a cominciare dalla Germania. Il Popolo d’Italia aveva titolato: “La Vittoriosa Rivoluzione Russa contro i Reazionari Tedescofili”, anzi, rassicurando tutti coloro che presi da “inquietudine” temevano quella che poi sarebbe stata la sua naturale conclusione, negava che Lenin ne potesse snaturare il significato.
A dire il vero lo “inquieto” sembrava proprio che fosse Mussolini. Basta leggere quanto scriveva l’on. Gasparotto a Vittorio Emanuele Orlando: «Caro Orlando, mi sono trovato ieri con Mussolini col quale abbiamo lungamente parlato di politica interna (...) Quello che credo opportuno farti sapere è il contenuto del discorso fattomi, con largo corredo di circostanze, sulla necessità che la guerra finisca entro l’anno corrente, poiché in caso diverso “non si potrebbero più contenere le masse”. Ritiene che vi è da parte nostra l’impossibilità di affrontare un nuovo inverno. Poiché egli si diffuse lungamente in questa dimostrazione (...) non è male che tu conosca questo particolare». Ancora più interessante è la risposta di Orlando (20 aprile 1917) a Gasparotto: «Io conoscevo sinora il Mussolini come un ardito e geniale animatore di moltitudini; ora riconosco in lui un grande senno politico. Occorre che ti dica che il Ministro dell’Interno è interamente d’accordo col grande agitatore?»
Ma queste erano cose che nei giornali non si potevano scrivere, anzi
occorreva accreditare la rivoluzione come evento soprattutto nazionalista
ed antitedesco. Niente di meglio, a questo scopo, che far parlare uno dei
massimi teorici del marxismo, Giorgio Plechanov che, intervistato da Il
Popolo d’Italia, nell’interesse del proletariato russo si dichiarava
favorevole alla guerra contro gli imperi centrali, che erano i veri ed
unici “portabandiera del principio imperialista moderno”.
La guerra “democratica”
Ancora nell’agosto 1917 i partiti interventisti di sinistra avevano inviato un appello ai delegati dei Soviet, appello che si concludeva con queste parole: «Per queste idealità salutiamo con entusiasmo la rivoluzione russa (...) ed auspichiamo che l’esercito rivoluzionario russo coadiuvi potentemente gli eserciti alleati nel raggiungimento della vittoria contro il militarismo austro-germanico, senza la quale sarà impossibile il trionfo definitivo della stessa rivoluzione, poiché questa è la dura necessità dell’ora presente per assicurare un avvenire che, dopo la esperienza fatta, non può essere garantito da promesse di solidarietà internazionale del militarismo tedesco. Per queste idealità, larghe correnti democratiche, socialiste, sindacaliste, rivoluzionarie d’Italia, del Belgio, di Francia, di Inghilterra, di America aderirono alla guerra contro la guerra e si proposero di impadronirsene e volgerla ai fini comuni. Se i compagni russi porteranno il contributo della nuova Russia a questa concezione rivoluzionaria della guerra, assicurando alla comune idealità la vittoria in tutta Europa, a se stessi il consolidamento della rivoluzione e non chiuderanno le vie dell’emancipazione ad altri popoli, acquisteranno così il diritto alla riconoscenza dell’umanità che dovrà considerarli tra i più generosi cooperatori della nuova storia».
Fu l’Avanti! l’unico giornale a diffidare dei dispacci di agenzia, ed a scrivere: «La bandiera rossa issata dal proletariato di Pietrogrado, insieme con le mitragliatrici sui tetti delle case, ha un ben altro significato che un’adesione delle masse della Russia lavoratrice alla presente situazione creata dall’imperialismo di tutti i paesi». Infatti ben presto i Soviet irromperanno sulla scena politica. Il Soviet di Pietrogrado lanciava un appello al proletariato di tutto il mondo, invitandolo a seguire l’esempio del popolo russo, ed a porre fine a quel massacro che disonora l’umanità. E l’Avanti! esprimeva l’augurio e la speranza che l’appello non restasse inascoltato.
Quando s’incominciò a comprendere il carattere antimilitarista della rivoluzione russa, si incominciò anche a calcolare l’importanza militare dell’avvenimento e lo sbilanciamento delle forze a favore degli imperi centrali che una pace separata della Russia avrebbe prodotto. Ma l’equilibrio venne immediatamente, ed abbondantemente, ristabilito con l’intervento degli Stati Uniti.
A noi interessa soprattutto sottolineare quale fosse la posizione, o meglio la “non posizione”, del Partito Socialista Italiano: il suo atteggiamento ambiguo teso a disorientare il proletariato, e l’incapacità della sua Direzione ad assumere una linea di condotta di classe contrapposta agli interessi nazionali, mentre nella realtà si trovava ad essere ostaggio del gruppo parlamentare.
Il 17 marzo, rivolto a Francesco Arcà, ex compagno di partito ora interventista ed in seguito fascista, Modigliani affermava alla Camera: «Ma chi lavora di più contro il militarismo prussiano, cugini riformisti? Voi che la pensate come il compagno Scheidemann, o noi che la pensiamo come il compagno Liebknecht, e lavorammo con lui a provocare in Germania la scissione, che ha fatto più contro il militarismo prussiano, che non tutti i discorsi dei professori patentati di università? (...) Io ho smesso da un pezzo di considerare, tanto Scheidemann e i suoi, quanto te e i tuoi, come socialisti». I riformisti italiani avevano perfino il coraggio di dichiararsi compagni di pensiero e di lotta di Liebknecht!
Ma quelle di Modigliani non erano affermazioni isolate, personali. Abbiamo visto Turati inneggiare alla rivoluzione russa. L’altro ultra riformista Treves su Critica Sociale scriveva: «Dopo generazioni e generazioni di martirizzati e flagellati dallo czarismo, l’Europa apprende attonita che lo czarismo non c’è più, che la rivoluzione trionfa, incontenibile, incoercibile in Russia. Allora, senza un istante di esitazione, o meglio, di riflessione, tutti gli uomini politici, tutti i giornalisti della Intesa intonano l’“evoè” alla Rivoluzione fatta per l’incremento della guerra dell’Intesa. Ma come? Uno dei canoni dell’Intesa per fare la guerra è la concordia nazionale – onde la teoria dei governi nazionali multicompositi; i socialisti sono maledetti perché non intendono questa primordiale necessità patriottica – e gli uomini politici e i giornalisti dell’Intesa inneggiano... alla rivoluzione che è certo un qualche cosa di più dell’ordinario guerreggiare dei partiti! Vero è che dicono: ma questa rivoluzione è stata fatta per impedire la pace separata della Russia colla Germania. È quindi rivoluzione antitedesca, è quindi rivoluzione per la guerra! E sia! Ma, se anche ciò fosse, resterebbe sempre che il paese, il quale fa la guerra dentro, non fa la guerra fuori, o almeno non la può condurre con la stessa impetuosità (...) Quando poi le menti cominciano a farsi un’idea della Rivoluzione, se ne torcono tutte sconvolte (...)
«Bisogna far rientrare la Rivoluzione in sé, darle dei buoni consigli, mandarle dei “buoni apostoli”, dei propagandisti di vaglia, distolti provvisoriamente dalla propaganda per i prestiti, scelti fra i più socialisti e rivoluzionari dei deputati ministeriali, perché la istruiscano, la convertano alla vera fede, le spieghino quello che da essa attende il genere umano! E così da Londra e da Parigi sono già partiti i missionari dell’addomesticamento della Rivoluzione con le cartelle pronte dei discorsi da improvvisare sul tema: “la guerra è rivoluzionaria, perciò ogni altra rivoluzione è una concorrenza illecita”. Ah! Questa teoria della “guerra rivoluzionaria” che si faceva prima d’accordo con lo czar ed ora si fa ugualmente d’accordo con la rivoluzione anticzarista, che propugnava prima gli ideali imperialisti di Pietro il Grande ed ora quelli antiannessionisti del Comitato Rivoluzionario degli operai e dei soldati». Ma, continuava Treves: «la Rivoluzione russa non è Carlyliana, ma marxista. Il che se cercassero di comprendere i governi, rinunzierebbero subito ai ridicoli tentativi di adattare la Rivoluzione russa a se stessi».
Fino a qui tutto bene, si tratta di una analisi che, volendo, non si discosterebbe molto dalla nostra visione classista. Ed il pericolo sta tutto qua, l’opportunismo è assai più pericoloso quando adotta un linguaggio di classe che non quando proclama apertamente le proprie intenzioni. Quindi da premesse che potremmo definire corrette vengono tratte delle conclusioni che vanno in direzione del tutto opposta. Treves ammette che il carattere rivoluzionario e di liberazione dei popoli oppressi con cui è stata presentata la guerra dell’Intesa non è stato, fino ad ora, che una solenne menzogna. Fino ad ora, perché ora la Rivoluzione di Russia avrebbe la possibilità di fare assumere alla guerra tali caratteristiche: di trasformare la guerra imperialista e di rapina in guerra democratica e di liberazione.
Tramite la rivoluzione russa, dice Treves, «l’Intesa si purga delle
sue scorie peggiori, nazionalistiche-imperialistiche (...) Ed ecco perché
se la causa dell’Intesa fosse stata quella che i governi proclamano,
non dovrebbero essi mostrarsi ostili a quei profondi movimenti dei proletari
nazionali che, rompendo tutte le barriere della diplomazia e della guerra,
si riuniscono in una azione collettiva, internazionale, intesa a creare
una vera società degli Stati e a dare come base a questa società degli
Stati la necessaria fraterna cooperazione dei lavoratori uniti di tutto
il mondo!». In altre parole le proclamazioni intesiste potrebbero divenire
le finalità del proletariato internazionale. Ed i ragionamento diviene
esplicito quando si afferma che: «la Rivoluzione russa era venuta d’un
tratto a liberarla (l’Intesa, n.d.r.) dei suoi impegni imperialistici
con lo Czar, a porla in condizione di mettere in miglior rapporto i propri
atti e le proprie parole».
L’intervento “pacifista” delle armi americane
Ma un altro fatto storico, unito alla rivoluzione russa, contribuirà, secondo Treves, a trasformare l’Intesa da coalizione imperialista in unione dei popoli che lottano per la libertà ed a mutare il volto della guerra da brigantesca in rivoluzionaria. Questo fatto storico sarebbe stato costituito dall’intervento americano.
«A confermarsi nel nostro pensiero è intervenuto l’altro fatto storico. Il Messaggio di Wilson per l’intervento degli Stati Uniti nella guerra alla Germania. Non ci stupisce che la stampa nazionalista inglese non abbia mostrato che un entusiasmo di convenienza. Con la Russia democratica e con l’America, l’Intesa non è più l’Intesa, la Intesa – diremo così – del Patto di Londra; l’Intesa che lottava per tutte le libertà dei popoli e distribuiva tra gli alleati i territori della futura conquista; l’Intesa che faceva egualmente appello a tutti gli irredentismi e a tutti gli imperialismi, l’Intesa che si richiamava al principio inglese dell’equilibrio delle potenze e l’applicava nel senso che di quanto si locupletasse uno dei suoi di tanto proporzionalmente si arricchissero gli altri. La Russia rinunzia a Costantinopoli ed a tenere assoggettate le stirpi che vogliono rivendicare la propria sovranità indipendente. E gli Stati Uniti dicono: “E’ necessario garantire la sicurezza della democrazia nel mondo, la pace deve riposare sulle salde fondamenta delle libertà politiche. Non abbiamo nessuna mira egoistica, nessuna indennità chiediamo per noi stessi, nessun compenso materiale. Saremo soddisfatti quando i diritti dell’Umanità saranno garantiti, etc” e il Messaggio intanto ardisce di proclamare che omai “la neutralità non è più a lungo possibile, né desiderabile quando la pace del mondo intero e la libertà dei suoi popoli si trovano in giuoco, e quando la minaccia di questa pace e di questa libertà risiede nell’esistenza di governi autocratici appoggiatisi sulla forza, che impongono la loro volontà senza tener conto di quelle dei popoli”, in quanto sia fatta possibile “la difesa dei principi di pace e di giustizia contro le Potenze Autocratiche ed egoiste e la istituzione, per i popoli veramente liberi che si governano da loro stessi...” (...) America e Russia in pieno slancio di rinuncia democratica sono fatte per intendersi (...) Insomma l’America e la Russia pretendono di rinnovare l’Intesa ab imis. Difficile diventa guardare alla nuova Intesa con lo stesso occhio che all’antica, come è impossibile ai socialisti di riguardare alla Russia della Costituente con l’occhio che guardava la Russia del Santo Sinodo».Abbiamo volutamente riportato lunghe citazioni tratte dall’articolo di Treves, e sarebbe di grande interesse riproporlo per intero in quanto si tratta di un gioiello di “dialettica” opportunistica, tesa a dimostrare la necessità, ora, a situazione cambiata, di dare piena adesione alla guerra, non più imperialista, ma democratica, di liberazione e perfino rivoluzionaria. Praticamente Treves, con tre anni di ritardo, faceva propria tutta l’impalcatura teorica di Mussolini.
Ma l’aspetto peggiore non era soltanto il fatto che il partito socialista italiano, che aveva fattivamente contribuito alla realizzazione delle conferenze di Zimmerwald e di Kienthal, permettesse all’ala riformista di convivere all’interno del partito, quanto che la sua divenisse addirittura la posizione ufficiale del partito.
Nei giorni 9 e 10 aprile 1917, si riuniscono insieme il Gruppo parlamentare, la Direzione del Partito Socialista e il Consiglio Direttivo della Confederazione del Lavoro. Della riunione dà notizia l’Avanti!, in parte censurato: «Le recentissime importanti vicende internazionali [Si allude alla rivoluzione russa ed all’intervento degli Stati Uniti, n.d.r.], che avranno indubbiamente una sensibile ripercussione sull’andamento della guerra e sulle sorti della pace, hanno provocato, come è naturale, uno scambio di idee, che si è risolto in accordi rispondenti perfettamente alle finalità dell’Internazionale proletaria, la quale, in quest’ora, prende ancora un posto di non secondaria importanza nello svolgersi degli avvenimenti».
Nel documento, riprendendo pari pari i concetti espressi da Treves nell’articolo che abbiamo citato, viene poi esplicitamente affermato: «Tale, sotto il velame di una contraddizione formale apparente, il significato dello stesso intervento degli Stati Uniti d’America che, in coerenza degli scopi del primo Messaggio Wilsoniano, rimasto inascoltato, riaffermato nel Messaggio guerresco, pur essendo determinato da necessità di difesa della grande Repubblica e degli interessi borghesi ivi dominanti, si risolve tuttavia sostanzialmente in un intervento per la costrizione della guerra e per l’imposizione di una più sicura e più prossima pace (...) Al posto di due raggruppamenti imperialistici in contrasto, il britannico-russo e il tedesco, noi troviamo una alleanza di Stati dominati dallo spirito rinnovatore e democratico russo-americano, contro una autocrazia indebolita e svuotata, cui dovrebbe bastare un urto interiore deciso per mandarla in frantumi» (Avanti!, 12 aprile 1917). È del tutto naturale che la stampa borghese abbia accolto questa esplicita “rettifica” del partito socialista con somma gioia ed abbia cessato immediatamente i suoi feroci attacchi contro il socialismo affossatore della patria per passare alle lusinghe.
La morte del socialismo, augurata ed annunziata nel 1914, si era ormai dimostrata solo una illusione; non per questo la classe dominante rinunciava alla speranza di un suicidio o quanto meno evirazione. Ed a questo scopo metteva in moto tutta la sua possente macchina propagandistica per pubblicizzare le gesta degli svariati transfughi del socialismo rivoluzionario. Era storia vecchia, ma questa volta le affermazioni della stampa borghese si basavano su documenti ufficiali del partito socialista.
E «come si può dar torto a costoro – commentavano i nostri compagni – quando il loro ragionamento ha un rigore tutto sillogistico? Il Messaggio di Wilson per la pace equivale ai principi di Zimmerwald (premessa prima). L’intervento di Wilson ha gli stessi scopi del suo �messaggio di pace’ (premessa seconda). Anche gli zimmerwaldisti devono dunque “intervenire” come Wilson, e rendersi solidali con la guerra dell’Intesa (conclusione). Sì, il manifesto dei nostri organi direttivi dichiara il fallimento della guerra, ma poi entra in certe considerazioni contingenti che sboccano nella conclusione opposta. E questa è la conseguenza della... “union sacrée” nel partito, che ci dà di queste manifestazioni in cui compagni di opposte opinioni e tendenze investono ognuno il proprio concetto, con qual vantaggio per la chiarezza e per la preparazione del proletariato agli eventi è facile vedere. Ed è per lo meno curioso che, dopo la fiera campagna sulla neutralità o l’intervento e l’aspro dibattito tra la tesi internazionalista, che vedeva nella guerra la conseguenza delle rivalità imperialistiche borghesi, e la tesi socialpatriota, che vi scorgeva l’urto tra la democrazia borghese e il militarismo autocratico – e dopo che le cose sono andate come sono andate – si debba ancora da parte nostra dare pretesto agli avversari di dire che noi cominciamo a dar ragione a loro!!» (Avanti!, 23 maggio 1917)
Riguardo all’affermazione anti-marxista secondo cui la Russia rivoluzionaria e l’America democratica avrebbero cambiato il volto dell’Intesa e quindi le finalità della guerra, veniva detto: «Gli Stati in guerra sono per noi unità della stessa specie. Se una cosa possiamo dire con sicurezza, è che fanno meglio la guerra gli Stati più moderni, industriali, borghesi, democratici (...) Il paese rivelatosi meno adatto alla guerra, quello che per primo si è spezzato, è stata la Russia, a cui mancavano o difettavano tutte quelle condizioni che abbiamo accennate: tecnica industriale, economia capitalistica, burocrazia moderna, democrazia politica. E lo Stato che più freddamente ha calcolato le sue convenienze – quelle della sua classe capitalistica – nella neutralità prima e poi nella guerra, è stata appunto la democratica ed evoluta repubblica delle stelle.
«Noi riconosciamo che questi concetti meriterebbero più lungo svolgimento. Ma non ci sembra possibile che socialisti, di quelli che non hanno ceduto agli allettamenti guerrafondai, impostino su altre basi la loro critica della situazione, e prendano sul serio il roboante frasario sotto cui si ammantano le ciniche manifestazioni del regime capitalistico, interpretino la Rivoluzione Russa secondo le falsificazioni della stampa avversaria e valorizzino le affermazioni wilsoniane campate su di una vuota ideologia umanitaria-mazziniana, anziché sventrare col bisturi della critica marxista i fenomeni importantissimi che caratterizzano l’attuale storia del colosso capitalistico d’oltre Atlantico, ed i grandiosi rapporti sociali nella nuova Russia, ove il terzo stato rappresenterà ben altra parte che nella Francia dell’89.Il “difesismo rivoluzionario”
«Sappiamo bene che quei nostri compagni che si preoccupano troppo della impressione che gli atteggiamenti nostri ridestano nella platea avversaria – occupata dalla claque prezzolata – non possono soffrire l’accusa di schematici, dogmatici, ciechi e così via. E ammettiamo che si sottoponga a continuo esame critico il nostro concetto ideologico, in relazione agli avvenimenti che si susseguono. Ci pare che questo esame ritorni a conforto oggi più che mai della nostra convinzione – che non è e non vuol essere fede cieca in formule fisse. Ma queste revisioni e rettifiche diventano perniciose e deplorevoli quando si riducono a sostituire al poderoso spirito critico e svisceratore della verità di cui è materiato il socialismo marxistico, le balordaggini poco più che ginnasiali che formano il credo della gente ben pensante e 1’ossatura del senso comune fasciato di mille strati di pregiudizio.
«Perché allora il proletariato socialista, dopo essersi strappate le bende secolari che gli impedivano la visione della realtà, si lascerebbe applicare gli occhiali colorati attraverso i quali guardano e giudicano coloro che sono aggiogati dal giogo dei loro stipendi al carro dell’ordine vigente: e seguiterebbe a mangiare paglia per fieno come quel tal bue dagli occhiali verdi.
«Affermiamo dunque senza esitare che gli ultimi avvenimenti non ci inducono a modificare le nostre concezioni in rapporto alla guerra e la nostra intransigenza dinanzi alle finalità di essa, che nell’uno o nell’altro campo sono avverse alle idealità socialiste e all’interesse delle classi lavoratrici. Se qualche cosa urge nell’ora che volge è una maggiore saldezza di propositi e di azioni. Pessimo sintomo è dunque il blaterare della stampa avversa intorno ai nostri ravvedimenti! Auguriamoci che l’ulteriore contegno del movimento nostro sia tale da smentire e deludere queste equivoche manovre. Ma prima di indignarci contro la spiegabile tendenziosità avversaria nello sfruttare ai suoi fini certe manifestazioni, pensiamo a pretendere dai dirigenti nostri una direttiva più sicura e più socialista. Ne è tempo».
Come si è visto le interpretazioni date alla Rivoluzione di Febbraio erano molteplici e, a seconda del punto di vista di chi le esprimeva, tutte giuste. Tutte giuste perché la Rivoluzione di Febbraio aveva di certo abbattuto lo zarismo, ma in quanto al nuovo potere la cosa era molto più complicata, e delicata. Lasciamo quindi la parola a Lenin.
«La particolarità essenziale della nostra rivoluzione, quella che si impone alla riflessione nel modo più imperioso, è il dualismo del potere determinatosi nei primi giorni dopo la vittoria della rivoluzione. Questo dualismo del potere si manifesta nell’esistenza di due governi: il governo principale, il vero, effettivo governo della borghesia, il “Governo provvisorio” di Lvov e soci, che detiene tutti gli organi del potere, e il governo supplementare, collaterale, “di controllo”, rappresentato dal Soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado, che non detiene gli organi del potere statale, ma si appoggia direttamente sulla maggioranza incontestabile del popolo, sugli operai in armi e sui soldati. L’origine di classe di questo dualismo del potere e il suo significato di classe consistono nel fatto che la rivoluzione russa del marzo 1917 non ha soltanto spazzato via la monarchia zarista e consegnato tutto il potere alla borghesia, ma è giunta fin quasi alla dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini. Proprio questa dittatura (cioè il potere che poggia non solo sulla legge, ma sulla forza immediata delle masse armate della popolazione), che è la dittatura delle due classi indicate, è rappresentata dal Soviet pietrogradese e dagli altri Soviet locali dei deputati degli operai e dei soldati.Lenin sentiva il pericolo che minacciava la rivoluzione, pericolo che non era costituito dalle armi del nemico di classe, ma dall’inquinamento dell’ideologia piccolo borghese che quotidianamente guadagnava terreno all’interno degli organismi proletari, e perfino del partito.
«Un’altra particolarità molto importante della rivoluzione russa è che il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado, che, secondo tutti gli indizi, gode della fiducia della maggioranza dei Soviet locali, consegna volontariamente il potere statale alla borghesia e al suo Governo provvisorio, cede volontariamente a quest’ultimo la priorità, stipulando con esso un accordo per sostenerlo, limitandosi a osservare e controllare che venga convocata l’Assemblea costituente (la cui data di convocazione non è stata ancora resa pubblica dal Governo provvisorio).
«Questa situazione estremamente originale, che, in questa forma, non ha precedenti nella storia, ha creato la compenetrazione, l’intreccio di due dittature: la dittatura della borghesia (poiché il governo Lvov e soci è una dittatura, cioè un potere che poggia non sulla legge e sulla preliminare espressione della volontà popolare, ma sulla conquista del potere, con la forza, da parte di una classe determinata, cioè da parte della borghesia); e la dittatura del proletariato e dei contadini (il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati).
«Non c’è il minimo dubbio che questa “compenetrazione” non può durare a lungo. Non ci possono essere due poteri in uno Stato. L’uno dei due deve scomparire, e tutta la borghesia della Russia già lavora con tutte le sue forze, con tutti i mezzi e in tutti i luoghi per metter da parte, indebolire e distruggere i Soviet di deputati degli operai e dei soldati, per creare il suo potere unico. Il dualismo del potere riflette soltanto il periodo transitorio dello sviluppo della rivoluzione, il periodo in cui essa ha già oltrepassato la fase democratica borghese ordinaria, ma non è ancora giunta ad una dittatura del proletariato e dei contadini allo “stato puro”» (Lenin, “I Compiti del Proletariato nella Nostra Rivoluzione”).
Lenin continua:
«La Russia è oggi in ebollizione. Milioni e decine di milioni di uomini, che dormivano politicamente da dieci anni, schiacciati politicamente dal giogo spaventoso dello zarismo e dal lavoro forzato a profitto dei grandi proprietari fondiari e degli industriali, si sono risvegliati e si sono impegnati nella vita politica. Ma chi sono questi milioni e decine di milioni di uomini? Per la maggior parte piccoli proprietari, piccoli borghesi, elementi che si trovano in una situazione intermedia fra i capitalisti e gli operai salariati. La Russia è il paese più piccolo-borghese d’Europa. Una formidabile ondata piccolo-borghese ha sommerso ogni cosa, ha schiacciato non solo con il suo numero ma anche con le sue idee il proletariato cosciente, ha cioè infettato, permeato vastissimi strati operai di concezioni politiche piccolo-borghesi. Il piccolo borghese dipende dalla borghesia, perché vive come un padrone e non come un proletario (per il suo posto nella produzione sociale), e anche per il suo modo di pensare segue la borghesia. La fiducia cieca nei capitalisti, cioè nei peggiori nemici della pace e del socialismo, ecco che cosa caratterizza l’odierna politica delle masse in Russia, ecco che cosa si è sviluppato con rapidità rivoluzionaria sul terreno economico-sociale del paese più piccolo-borghese d’Europa. Ecco la base di classe dell’ “accordo” (sottolineo che non ho tanto in vista l’accordo formale quanto l’appoggio di fatto, il tacito consenso, la subordinazione fiduciosa e inconsapevole al potere) tra il Governo provvisorio e il Soviet dei deputati degli operai e dei soldati, accordo che ha procurato ai Guckov un buon boccone, il potere effettivo, e al Soviet le promesse, gli onori (almeno per il momento), le lusinghe, le frasi, le assicurazioni, le riverenze dei Kerenski. L’insufficienza numerica del proletariato in Russia, la sua inadeguata coscienza e organizzazione, ecco il rovescio della medaglia. Tutti i partiti populistici, compresi i socialisti-rivoluzionari, sono sempre stati piccolo-borghesi; lo è stato persino il partito del Comitato d’organizzazione (Ckheidze, Tsereteli e soci); e anche i rivoluzionari senza partito (Steklov e altri) hanno ceduto all’ondata e non l’hanno superata, non sono riusciti a superarla».Ed il pericolo che maggiormente minacciava la rivoluzione, che avrebbe impedito il suo sbocco nella dittatura del proletariato, era costituito dalla teoria del difesismo rivoluzionario, che non solo era stata fatta propria da tutti i partiti borghesi e socialdemocratici, ma aveva largamente inquinato anche il partito bolscevico. «Il difesismo rivoluzionario – affermava Lenin – deve essere considerato come la manifestazione più importante e vistosa dell’ondata piccolo-borghese che ha sommerso quasi tutto. È questo il nemico peggiore dell’ulteriore avanzata e del successo della rivoluzione russa (...) La minima concessione al difesismo rivoluzionario è un tradimento del socialismo, è una rinuncia completa all’internazionalismo, quali che siano le belle frasi e le considerazioni pratiche con cui viene giustificata».
Le prime prese di posizione da parte dei bolscevichi non sono affatto intonate con le tesi sostenute da Lenin e dalla sinistra di Zimmerwald.
Eppure nel loro primo manifesto, del 26 febbraio, i bolscevichi avevano denunciato il Governo provvisorio come “un governo di capitalisti e di grandi proprietari”, e rivendicato la formazione di “un Governo rivoluzionario provvisorio” e la convocazione, da parte del Soviet, di una costituente eletta a suffragio universale, incaricata di istituire una repubblica democratica. A questo proposito Trotski scrive: «Il manifesto fu stampato sull’organo ufficiale del Soviet senza commenti né obiezioni, come se si trattasse solo di una questione accademica. Ma anche i dirigenti bolscevichi attribuivano alla loro parola d’ordine un significato puramente dimostrativo». Nel suo primo numero la Pravda aveva scritto: «Il compito essenziale è (...) l’instaurazione di un regime repubblicano», e, nelle sue istruzioni ai deputati operai il Comitato di Mosca, aveva dichiarato: «Il proletariato mira ad ottenere la libertà per lottare per il socialismo che è il suo obiettivo finale». Il vago richiamo all’“obiettivo finale” indica poca chiarezza sulla complessa questione. La Pravda del 5 marzo aveva chiesto «negoziati con i proletari dei paesi stranieri (...) per porre fine ai massacri». Si trattava incontestabilmente di una posizione internazionalista, ma ben lontana dal “disfattismo rivoluzionario” propugnato da Lenin.
Pochi giorni dopo la linea della Pravda assume una direzione del tutto opposta, e, facendo proprie le posizioni del menscevismo, dichiara la necessità della continuazione della guerra, per la difesa della rivoluzione contro l’aggressione dell’imperialismo germanico. Kamenev scrive molti articoli apertamente difesisti affermando, ad esempio, che «un popolo libero risponde alle palle di cannone con palle di cannone (...) Non facciamo nostra l’inconsistente parola d’ordine: “Abbasso la guerra!”. La nostra parola d’ordine consiste nell’esercitare una pressione sul governo provvisorio per costringerlo (...) a fare un tentativo di indurre tutti i paesi belligeranti ad aprire immediate trattative (...) Ma sino a quel momento ognuno resti al suo posto di combattimento». In un altro articolo si può leggere: «Ogni “disfattismo”, o più precisamente quello che una stampa grossolana, sotto il controllo della censura zarista, stigmatizzava con questa espressione, è morto nel momento in cui è comparso nelle vie di Pietrogrado il primo reggimento rivoluzionario».
Il 15 marzo, giorno in cui la Pravda esce con queste dichiarazioni, è un giorno di giubilo per i fautori della difesa nazionale. In tutto il palazzo di Tauride riecheggia la notizia della vittoria dei bolscevichi moderati, ragionevoli sugli estremisti.
Alla fine del mese, nonostante qualche resistenza, una conferenza bolscevica, su proposta di Stalin, approva una risoluzione nella quale si dice che il ruolo dei Soviet è quello di «appoggio al governo provvisorio nella sua azione finché continuerà a soddisfare la classe operaia». Nessuna meraviglia quindi se, nel corso della medesima conferenza, viene deliberato di prendere in considerazione la proposta di riunificazione avanzata dai menscevichi
Non è nemmeno il caso di dire come Lenin, la cui posizione era diametralmente opposta alla nuova piega che si voleva dare al partito, non perdesse occasione per far udire dalla Svizzera la propria voce. Già il 6 marzo, telegrafa a Pietrogrado, via Stoccolma: «Nostra tattica: sfiducia completa, nessun appoggio al nuovo governo; sospettare in particolare di Kerensky; armamento del proletariato, sola garanzia; elezioni immediate alla Duma di Pietrogrado; nessun riavvicinamento con altri partiti». Successivamente la rivendicazione delle elezioni alla Duma verrà lasciata cadere per puntare tutto sui Soviet. Questi punti, nella forma categorica di un telegramma, determineranno il ritorno del partito alla sua propria politica.
Lenin comincia a inviare alla Pravda le sue “Lettere da lontano” che, anche se basate su frammentarie informazioni straniere, contengono la conferma della vecchia analisi della situazione delle classi di fronte alla rivoluzione in Russia. Le notizie fornite dai giornali esteri gli permettono di arrivare presto alla verifica che il borghese governo provvisorio, con l’aiuto diretto non solo di Kerensky ma anche di Tcheize, ingannava non senza successo gli operai, presentando la guerra imperialista come una guerra di difesa nazionale.
Le disposizioni di Lenin sono perentorie: bisogna costituire una milizia operaia destinata ad essere l’organo esecutivo del Soviet; bisogna immediatamente preparare la rivoluzione proletaria; denunciare i trattati di alleanza con gli imperialisti, rifiutarsi di cadere nella trappola del “difesismo rivoluzionario”; lavorare per la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile.
I bolscevichi di Russia non accettano le direttive intransigenti di Lenin e preferiscono credere che, lontano dagli avvenimenti, fosse male informato. Così solo la prima delle quattro “Lettere da lontano” viene pubblicata. Il 17 marzo, tramite amici di Stoccolma, Lenin invia una lettera piena di apprensioni: «Il nostro partito si disonorerebbe per sempre, si suiciderebbe politicamente se accettasse una simile impostura (...) Preferirei una scissione immediata con qualunque membro del nostro partito piuttosto che cedere al socialpatriottismo».
Ma i suoi richiami all’intransigenza vengono ignorati. È tempo che il grande Nicola Lenin, suo soldato disciplinato, sia richiamato della Rivoluzione al suo posto, a Pietroburgo, al fianco, e a capo, dei comunisti che lo stanno aspettando.
Tra la ristretta cerchia dei compagni a Zurigo vennero elaborati vari piani per il viaggio, e poi subito abbandonati in quanto irrealizzabili: camuffamenti, parrucche, passaporti falsi o alterati. Fu pure progettato di far passare Lenin con il passaporto di uno scandinavo sordomuto. Alla fine si arrivò alla conclusione che l’unica soluzione era il passaggio attraverso la Germania. Si trattava di un progetto audace e rischioso, sul piano personale ed ancor più su quello politico. Recriminazioni sul salvacondotto attraverso la Germania si ebbero in seguito anche da parte di molti bolscevichi. La Krupskaja scriveva poco dopo la partenza da Zurigo: «Naturalmente in Russia i patrioti strilleranno, ma dobbiamo essere preparati a questo». Ma l’alternativa non era che restare in Svizzera.
Di fronte alle accuse mossegli dagli ambienti borghesi, e cioè di essere
un agente dell’imperialismo tedesco, l’Avanti! e Serrati si
schierarono apertamente dalla parte di Lenin. Il viaggio del “treno piombato”
fu seguito con particolare attenzione dall’organo del PSI, attraverso
le corrispondenze da Zurigo che, a loro volta, riportavano brani di interviste
concesse da Lenin prima della sua partenza. Ad un redattore del giornale
Politiken
di Stoccolma aveva dichiarato: «La vera rivoluzione è stata fatta dal
proletariato che chiedeva pace, pane e libertà. Così la guerra imperialista
si mutò in una guerra civile e in ciò sta l’origine del doppio carattere
di questa rivoluzione, la quale è soltanto la prima tappa del grande movimento
rivoluzionario».
Capitoli esposti a Parma nel maggio 2007, a Genova nel settembre e a Torino nel maggio 2008.
Il proletariato scoperta classe “nazionale”
Gli stalinisti e il sindacato
Le posizioni del PCI sono state illustrate esaurientemente nei nostri articoli su “Comunismo” titolati “Appunti per la Storia della Sinistra” e qui cercheremo di limitare al massimo le citazioni.
Al V Congresso del 1946 il PCI dichiara di aver «superato ogni residuo di settarismo e respinto qualsiasi atteggiamento esclusivistico nocivo alla causa della rinascita e ricostruzione nazionale». Ancora, «siamo riusciti a portare la classe operaia ad adempiere una funzione nuova, una funzione nazionale».
Del Carria nel suo “Proletari senza rivoluzione” scrive: «Già nel discorso del 30 ottobre 1944 a Firenze, Togliatti aveva affermato che occorreva aprire le porte a tutti, compresi i fascisti onesti e in buona fede, con esclusione però dei vecchi comunisti su posizioni di sinistra. “Nell’organizzare il Partito voi dovete avere un criterio largo nell’ammissione al partito, ma in pari tempo non dovete compromettere il partito davanti al popolo. Un comunista il quale fu tale nel ’21 e nel ’22, ma il quale abbia in seguito tradito il Partito davanti al popolo, questo comunista noi non lo riprenderemo mai nelle nostre file”». Togliatti e il PCI sostenevano, come noi, l’esigenza di un cordone sanitario intorno al partito, con la funzione però, nella loro versione, di tenere alla larga i comunisti. L’afflusso di ex fascisti verso il partito non era invece un problema, data la piena compatibilità ideale con una politica nazionale e patriottica. Ovviamente Del Carria, con le sue posizioni difficilmente definibili, azzardiamo gramsciano-maoiste, non comprende l’involuzione del PCI, che sembra dovuta non alla controrivoluzione ma alla malvagità umana e al destino cinico e baro.
Già nel dicembre 1945 possiamo leggere Scoccimarro su “Rinascita”: «Poiché oggi la ricostruzione della nostra economia su di un piano socialista non è possibile (...) la sola cosa che possiamo fare è che nella ricostruzione gli interessi e la volontà della borghesia capitalista (?) non siano l’unico fattore dominante ed assoluto».
Al Convegno economico del PCI nell’agosto 1945 Togliatti dice: «La classe operaia deve sapere che l’aumento della produttività del lavoro è una delle condizioni per riuscire a creare in Italia un regime democratico, perché se non riusciamo oggi a risolvere i problemi economici e un andazzo di non lavorare si generalizzasse sarebbero compromesse seriamente le sorti della democrazia».
Quando nel 1946 venne lanciato il Prestito della Ricostruzione il PCI invitò i borghesi ad investire proficuamente e patriotticamente i propri risparmi, in pieno accordo con la CGIL, con Di Vittorio che invitava gli operai a gareggiare con i borghesi nell’investire i propri averi (?) e portare quindi “oro alla Patria”.
Il “Nuovo Corso” di politica economica richiesto dal PCI nel settembre 1946 produsse una tregua salariale sottoscritta dalla CGIL per sei mesi rinnovabili, e quindi rinnovati. Come possiamo leggere in “Comunismo” nr.46, Togliatti alla Costituente rivendicava al suo partito il merito di aver fatto capire agli operai che «l’aver salvato le fabbriche non li autorizzava a porre il problema di una trasformazione socialista della società». Quindi: «Gli operai hanno fatto di più: hanno moderato il movimento, l’hanno contenuto nei limiti in cui era necessario contenerlo, per non turbare l’opera della ricostruzione. Hanno accettato le tregua salariale, cioè una sospensione degli aumenti salariali, e senza che vi fosse la corrispondente sospensione degli aumenti dei prezzi».
Sempre Togliatti a Montecitorio, nel settembre, diceva: «Abbiamo offerto un contratto, un contratto di lavoro che fissa un massimo di salario anziché un minimo, e ciò nell’interesse della società nazionale, nell’interesse della ricostruzione».
Nel discorso alla Costituente, pronunciato dopo l’estromissione delle sinistre dal governo, Togliatti dice riguardo agli operai: «È evidente quindi che la loro fiducia nel governo come tale non potrà esistere o sarà per lo meno una fiducia molto ridotta. Questa è la cosa che più ci preoccupa (...) Stia tranquillo onorevole Corbino. Lei ha dimostrato la sua soddisfazione per il fatto che il nostro partito, messo fuori dal governo, non ha lanciato la parola d’ordine dell’insurrezione. La cosa ci meraviglia: Lei, onorevole Corbino, avrebbe il dovere di conoscerci meglio». Evidentemente De Gasperi li conosceva meglio, dato che, sempre alla Costituente, dichiara: «Il governo riconosce i meriti della Confederazione Generale del Lavoro che, controllando i movimenti inconsulti o magari ragionevoli ma spontanei, ha collaborato al rafforzamento della democrazia». I meriti erano evidenti. al Congresso nazionale della CGIL di Firenze, contemporaneo alla cacciata dei partiti di sinistra dal governo, Di Vittorio parla di “governativismo extragovernativo”. La CGIL e il PCI si facevano cioè carico dei problemi di governo pur essendone fuori.
Il Congresso del PCI di Milano nel 1948 non poteva che confermare le precedenti posizioni. La Costituzione, diceva Togliatti, «parla non di più astratti diritti di libertà dell’uomo e del cittadino, ma del nuovo diritto di tutti gli uomini e di tutte le donne al lavoro, e a una retribuzione sufficiente ai bisogno dell’esistenza». Sufficienti quindi, diciamo noi, a non morire di fame. Ancora: «I sacrifici devono essere fatti dalle due parti, dagli operai e dai padroni». Come abbiamo già osservato nel nostro testo citato, il programma mussoliniano di San Sepolcro era più “a sinistra” di quello togliattiano del 1948.
All’interno del PCI la posizione eccessivamente esplicita di Togliatti era avversata da una corrente, tutt’altro che rivoluzionaria, rappresentata da Pietro Secchia. Nel suo scritto presentato a Mosca nel dicembre 1947, “Relazione sulla situazione italiana”, affermava: «Noi lottiamo per realizzare le riforme di struttura, la pace e la libertà, si tratta di obiettivi democratici, però questa lotta non possiamo combatterla solo in parlamento». La risposta fu negativa. Racconta Secchia: «Non si trattava di porre il problema dell’insurrezione, ma di condurre lotte economiche e politiche più decise, con maggiore ampiezza. Ma, si disse, nella sostanza ciò che dici porterebbe inevitabilmente a quello sbocco. Oggi non si può». Stalin preferiva la linea di Togliatti, meno rischiosa rispetto a quella dell’altro nazional-comunista Secchia: quando si mette in moto il proletariato non si sa se e quando si fermerà, e Stalin non aveva nessuna intenzione di fare la fine dell’apprendista stregone.
Alcuni anni fa Giulio Andreotti, una delle menti più lucide della classe
dirigente borghese italiana, nell’ennesima intervista sui crimini “del
comunismo”, disse che Stalin, come Togliatti, Di Vittorio ed altri, hanno
avuto anche dei meriti che saranno prima o poi riconosciuti dalla storia.
Dal punto di vista della borghesia Andreotti ha perfettamente ragione:
costoro hanno avuto il merito di far trionfare la controrivoluzione riuscendo
là dove fascismo e democrazia non erano riusciti. A Bolzano c’è un
monumento a Di Vittorio: in realtà la borghesia dovrebbe farne molti a
lui, a Togliatti e soprattutto a Stalin, suo vero eroe. Se la borghesia
potesse dire la verità ci sarebbero statue di Stalin in ogni piazza con
la seguente targa: ”A Stalin, affossatore del comunismo e sterminatore
di comunisti, la borghesia eternamente riconoscente”.
Sindacato “vecchio” e “nuovo”
La CGIL rinacque come sindacato “tricolore”, con un’operazione dei vertici frutto del nuovo assetto inter-imperialistico.
Il riformista Sergio Turone scrive nella sua “Storia del sindacato in Italia dal 1943 ad oggi”: «C’è una sensibile differenza tra lo spirito con cui i lavoratori italiani occuparono le fabbriche nel 1920 e lo spirito che caratterizzò le gestioni operaie dopo la liberazione. Nel 1920 i consigli operai erano intesi come Soviet, un’azione esplicitamente volta a riprodurre in Italia le condizioni della rivoluzione in atto in Russia. Nel 1945 il convincimento prevalente tra i ceti operai era che l’Unione Sovietica, ormai vittoriosa sul piano internazionale, potesse e volesse aiutare i proletari di tutti i paesi a liberarsi dal giogo della borghesia. Si diffuse così una serie di “rivoluzionarismo d’attesa”, che già conteneva in sé il germe uguale e contrario della rassegnazione».
Una volta tanto le accuse d’attendismo e di nullismo non sono rivolte a noi che, nella vulgata togliattiana e staliniana, eravamo chiusi in un aristocratico e settario isolamento, mentre i pletorici partiti nazional-comunisti stavano “edificando il socialismo”. Il fatto che questi ultimi avessero fatto gettito del programma storico comunista era ovviamente un dettaglio che solo noi, dogmatici e abituati a cercare il pelo nell’uovo, potevamo sottolineare.
Al Congresso di Firenze ebbe la forza di partecipare anche una rappresentanza operaia del nostro partito e di presentare una mozione che concludeva così: «Per il sindacato di classe, organo di battaglia del proletariato, contro il sindacato-prigione, feudo dei partiti di governo e riserva strategica dell’imperialismo». La frazione sindacale comunista internazionalista fu l’unica voce di classe in tale congresso, e quindi inevitabilmente soffocata. La nostra, allora, “Battaglia Comunista” del giugno 1947 riferiva: «Di Vittorio, coll’appoggio di tutti i suoi collaboratori di qualsiasi corrente politica – socialisti, azionisti o democristiani – si oppose a che i delegati della frazione sindacale comunista internazionalista, i rappresentanti cioè di una mozione regolarmente presentata al Congresso e rappresentanti soprattutto di migliaia di lavoratori organizzati e delle loro reali battaglie sul piano della lotta di classe, parlassero, sostenendo che non esprimevano una corrente politica costruttiva». Quindi già allora la CGIL era di fatto chiusa alla parola dei comunisti, aperta solo sul piano “virtuale e statutario”.
Veniamo quindi alla relazione di Di Vittorio al Congresso, che ha ancora una volta il pregio della chiarezza nella formulazione di posizioni patriottiche e interclassiste, e quindi anticomuniste.
«Noi ci siamo liberati di quanto il vecchio movimento sindacale libero italiano conteneva di primitivo e di antistorico, di superato dalla storia, e abbiamo costruito un edificio nuovo corrispondente alle esigenze moderne delle masse lavoratrici. Le classi lavoratrici, ieri ricacciate ai margini della società nazionale, ai margini dello Stato, e la loro attività sindacale quasi del tutto limitata alla lotta quotidiana per il miglioramento salariale e dell’orario di lavoro, oggi hanno compiti nuovi. Oggi occorre un sindacato con compiti più vasti che siano in relazione allo sviluppo e al progresso delle condizioni di vita in cui vivono i lavoratori, che tengano conto e interpretino le necessità della Nazione. Possiamo affermare che oggi, attraverso l’unità che realizza la CGIL fra le grandi masse lavoratrici il grande divorzio storico, ingiustificato inspiegabile che vi è stato fra proletariato e medio ceto va scomparendo».
Quindi, per di Di Vittorio, le masse lavoratrici, già “ai margini” dello Stato, nel regime post-fascista sarebbero pienamente “nello Stato”: un post-fascismo che è il vero realizzatore delle istanze del fascismo, così come il fascismo era stato il realizzatore delle istanze socialdemocratiche, un vero super-fascismo che tutt’ora costituisce la ideologia di base financo delle correnti della “sinistra estrema”, una dottrina così priva di dubbi e universalmente accettata e radicata che nemmeno ha bisogno di chiamarsi fascista.
Ancora: «Non si devono formulare rivendicazioni quando si sa che, pur rispondendo esse a bisogni reali ed a criteri di giustizia, non sono realizzabili nella situazione generale del paese o particolare di quel ramo dell’industria. Non vi sono interessi dei lavoratori che siano estranei agli interessi generali della Nazione. Così non è possibile risolvere questi problemi senza inquadrarli nei grandi problemi che interessano la vita, il progresso, lo sviluppo della Nazione. Questo deriva dalla coscienza che oggi ha il proletariato, la classe operaia, i lavoratori manuali ed intellettuali di avere finalmente strappato di mano ai ceti privilegiati e reazionari il monopolio della rappresentanza degli interessi generali della Nazione e dell’ideale della Patria».
Dall’intervento di Alberganti, della Camera del Lavoro di Milano: «La Repubblica e la libertà oggi si difendono con la lotta economica, sul terreno della legalità, sul terreno della Costituzione. Che i sindacati stabiliscano, nel loro Statuto, di sentire come loro dovere la difesa della libertà, significa che la classe operaia è consapevole della sua funzione nazionale, che ad essa non intende abdicare. Per questo motivi penso che nello statuto della CGIL è necessario l’articolo 9».
L’intervento di Santi, della componente del PSI, sulle Cooperative, torna sul tema cruciale del rapporto fra movimento sindacale e Stato borghese: «Noi, considerando che la cooperazione deve muoversi ancora oggi in una economia di mercato, non attribuiremo possibilità miracolistiche a questo movimento. Tuttavia esso può essere di grande utilità dal punto di vista della educazione e della pratica solidaristica. Noi dobbiamo tendere a sostituire all’effettivo governo economico della Confindustria il governo economico della CGIL. Lo Stato democratico, espressione della volontà delle masse popolari, deve essere con noi. Il sindacalismo italiano è uscito da tempo da una posizione negativa nei confronti dello Stato. Questa era spiegabile quando il movimento era una piccola minoranza e le sue funzioni nella società erano limitate al puro fine salariale. Oggi lo Stato democratico non è più il nemico dei lavoratori che vietava lo sciopero e segnava il cammino dei lavoratori con la pietra tombale degli eccidi proletari. Non deve più essere! Man mano che lo Stato si democratizza noi tendiamo ad affidargli funzioni di interesse collettivo, servizi, gestioni, ecc. sotto il controllo dei lavoratori-consumatori». Qui si conferma la tesi di uno Stato “non nemico” dei lavoratori.
Ferrari-Bravo, della Camera del Lavoro di Milano, affronta ancora la questione: «Sull’ordinamento sindacale italiano è di attualità la approvazione, recentemente avvenuta alla Costituente, dell’art. 35 che prevede il riconoscimento giuridico dei sindacati attraverso l’istituto della registrazione. Per noi socialisti questo articolo ha un significato politico che si incontra col pensiero già illustrato dall’on. Di Vittorio nella sua relazione, e cioè il sindacato non è più ai margini della vita politica nazionale. Il sindacato si inserisce nello Stato anche se non fa parte integrante dello Stato stesso, e se non è divenuto suo organo. A noi sembra che l’istituto della registrazione rifletta abbastanza felicemente questo nostro concetto e cioè, pur allontanandosi dalla concezione volontaristica del sindacato quale fu nella prima fase del movimento operaio, fase che noi chiamiamo “eroica” del movimento operaio, non è ancora un organo di Stato perché lo Stato che abbiamo non è lo Stato dei lavoratori».
Interessante è anche la “Carta unitaria della gioventù lavoratrice”: «Il Congresso della CGIL rivolge il suo saluto ardente e fraterno alla nuova gioventù lavoratrice d’Italia, fonte di energie nuove per la Patria, avvenire della rinascita nazionale. Il Congresso saluta i giovani lavoratori della città e della campagna, i ricostruttori del Paese e la speranza del rinato grande movimento sindacale, coloro che raccoglieranno la fiaccola della tenacia, del lavoro e del sacrificio degli organizzatori sindacali, che sapranno far proprio il loro attaccamento alla causa della Nazione e dell’emancipazione del lavoro e condurranno la lotta fino alla vittoria. Il Congresso della CGIL dichiara che è dovere fondamentale di tutta la Nazione risolvere il problema della gioventù italiana creando ai giovani migliori condizioni di vita economiche e morali, per ridare loro la fiducia nella Patria, nella democrazia e nel loro avvenire». La convergenza riformismo-fascismo-stalinismo è palese perfino nel linguaggio.
Possiamo leggere poi: «Basi del nuovo ordinamento sindacale italiano. Il Primo Congresso Unitario della CGIL prende atto con compiacimento dell’avvenuto inserimento delle organizzazioni sindacali negli ordinamenti della Repubblica Italiana e lo interpreta come la conferma che lo Stato democratico intende porre le sue fondamenta sulle forze del lavoro, come è sancito nell’art. 1 della Costituzione.
«Consiglio Nazionale del Lavoro. Esaminate le linee fondamentali del nuovo ordinamento del lavoro, il Congresso sollecita la creazione di un Consiglio Nazionale del Lavoro con la rappresentanza nazionale di tutte le organizzazioni professionali e avente compito di promuovere una legislazione sociale moderna e di esaminare i progetti di leggi sociali; in collegamento a questo organismo ritiene necessaria la creazione di consigli locali del lavoro».
Qualche reminiscenza di posizioni di classe la troviamo solo nell’intervento
di un anarchico, Azzimonte: «La Segreteria ha chiesto delle critiche e
siccome mi pare che di critiche serie non ne siano state fatte mi arrogo
questo diritto. Prima critica. Tregua salariale. Anzitutto rimprovero alla
segreteria di aver posto i lavoratori dinanzi al fatto compiuto senza prima
averli interpellati. Voglio analizzare un po’ la cosa. Si dice che per
la tregua salariale tutta la colpa è degli industriali in quanto il prezzo
della vita cresce e i salari non sono sufficienti a correrle dietro. Allora
io non vedo, stando così le cose, per quale motivo si debba fare la tregua
salariale. Fra sei mesi la situazione sarà senza dubbio peggiorata. La
tregua salariale secondo la mia opinione in definitiva non serve a un bel
niente perché stiamo andando verso l’inflazione più di prima. Si è
parlato di identità di interessi fra patria e lavoratori. Non riesco a
capire questo linguaggio. Per me la patria è rappresentata solo da quella
parte che lavora. Quindi il compito dell’organizzazione sindacale è
di trasformare tutti i cittadini in lavoratori. Adesso credo sia sufficiente
parlare di classe lavoratrice e detto questo si è detto tutto. Fino ad
allora non si potrà parlare che di lotta di classe fra sfruttati e sfruttatori».
La “politica dei sacrifici”
La CGIL, che abbiamo già visto nascere come “patriottica” per iniziativa dei partiti del CLN, approvò un documento nel direttivo del 23 settembre 1945 dove possiamo leggere che «le masse lavoratrici sono pronte ad accollarsi altri sacrifici» (leggi riduzioni d’orario e di paga e licenziamenti) «per alleviare le condizioni dalle aziende aventi personale in soprannumero». Quindi, «perché l’Italia rinasca, perché il popolo italiano esca dal marasma e dalla miseria attuale, bisogna sviluppare la produzione, incrementare il lavoro, che costituisce la sola vera via di salvezza». Ancora: «Soltanto attraverso la diretta partecipazione delle maestranze alla gestione dell’azienda, realizzabile per opera di consigli di gestione, è possibile suscitare la “febbre del lavoro”, l’entusiasmo delle masse lavoratrici nello sforzo produttivo. I consigli di gestione, già in atto nelle più importanti officine dell’Alta Italia, hanno dato risultati pienamente positivi, giudicati tali anche dai datori di lavoro».
Afferma Di Vittorio nella relazione al Congresso nazionale della CGIL: «Ciò implica la coscienza nei lavoratori di saper sacrificare, quando occorra, gli interessi particolari, di gruppo e di categoria, agli interessi generali di tutti i lavoratori e di tutta la Nazione. Noi dobbiamo sentire questo senso di responsabilità e dobbiamo elevarci alla comprensione profonda, piena, concreta di questa esigenza e saper accettare i sacrifici che essa comporta. Ebbene, nella miseria profonda e terribile di cui soffre la grande maggioranza del nostro popolo, per cui ancora oggi milioni di bambini sono denutriti, per cui ieri centinaia di migliaia sono morti di denutrizione e malattie, malgrado questa miseria e questi dolori, noi siamo riusciti a tenere le masse popolari in una compostezza che ci deve essere invidiata da altri paesi molto più ricchi di noi!
«Credo che i piccoli industriali produttori, i commercianti, gli artigiani, il medio ceto produttore, tutti coloro che hanno investito il loro capitale nella produzione e si astengono da operazioni di carattere speculativo, e non solo i piccoli, ma anche i medi agricoltori e produttori, possano essere alleati con noi in questa lotta contro l’inflazione (...) Chi è che ci guadagna su questo continuo rincorrersi dei prezzi? Ci guadagna il grande industriale, ci guadagna il grande commerciante, ed una categoria speciale di commercianti: i grossisti. Noi possiamo avere alleati in questa nostra lotta, gli strati più vasti della società nazionale e gli strati più produttivi (...) Ebbene, noi con tutte le forze che sono interessate con noi a porre un freno efficace alla speculazione, al rincorrersi del costo della vita, agli artifici speculativi, possiamo realizzare un largo fronte unico, possiamo realizzare una grande unione che può portare alla nostra società nazionale una grande distensione sociale e concentrare la lotta di tutti contro gli esponenti della plutocrazia, ai quali sono associati i grandi latifondisti (...)
«Il problema fondamentale per l’Italia, è che dobbiamo aumentare la produzione. Dobbiamo sentirci responsabili di questa esigenza fondamentale: aumentare la produzione, abbassare i costi per inserire l’economia italiana nella economia mondiale ed accelerare gli scambi economici con tutto il mondo (...) I lavoratori italiani hanno coscienza della loro situazione e di quella generale del paese e delle esigenze di ricostruzione. Sanno che la ricostruzione esige dei sacrifici da tutti: li accettano e li accetteranno. Noi, nello spirito della solidarietà necessaria e possibile delle forze produttive della nazione, per la ricostruzione del paese abbiamo confermato la tregua.
«Ma noi non ci siamo fermati alla tregua (...) abbiamo presentato alla Confindustria un piano economico, un piano di lotta comune contro l’alto costo della vita, contro l’inflazione, per la stabilizzazione della situazione economica. E abbiamo chiesto agli industriali alcune realizzazioni che implicano dei sacrifici da parte loro. Alcune fra le proposte del piano della Confederazione del Lavoro alla Confindustria sono: 1) Rinunzia da parte degli industriali a realizzare alti profitti e accontentarsi dei profitti normali, abbassando i prezzi; 2) Pubblicazione dei prezzi di vendita all’ingrosso, per poter seguire i prodotti e vedere dove sorge la maggiorazione speculativa, perché si possa intervenire per impedirla. In particolare domanderemo al governo di esercitare il controllo sulle grandi banche, perché il risparmio nazionale venga utilizzato non per finanziare imprese di speculazione, ma per finanziare la produzione. Bisogna assicurare a chi lavora ciò che è indispensabile per vivere, tanto per ragioni umane, per ragioni sociali, nazionali, politiche (...) Bisogna che il governo intervenga nell’economia in tutte le misure possibili per stimolare la produzione, non mortificando, ma anzi incoraggiando l’iniziativa privata.
«Occorre un decisivo intervento statale. L’iniziativa privata oggi va aiutata; noi non ci poniamo un problema di sconvolgimento delle basi della società; ci poniamo il problema di organizzare la società, sviluppando al massimo la produzione. Perciò bisogna utilizzare tutte le possibilità, tutte le forze, tutte le iniziative; bisogna stimolare l’iniziativa privata. Ma ove l’iniziativa privata non risponda, perché non ha immediata convenienza, a questo deve supplire l’organizzazione dello Stato e della società. Noi insistiamo sulla nazionalizzazione dei principali servizi pubblici e della industria elettrica, motore di tutta la vita industriale ed economica del paese (...) Noi lavoratori, che facciamo consapevolmente dei grandi sacrifici per la ricostruzione del paese, non vi domandiamo di sconvolgere tutta la società e l’economia italiana, ma di fare alcune riforme indispensabili alla vita della nazione».
Riepilogando, Di Vittorio nel suo intervento fa una polemica contro la grande industria e la grande finanza che è identica a quella di Mussolini contro i “pescecani” e i “plutocrati”; identico è anche il fine, cioè la sottomissione della classe operaia al regime borghese tramite l’alleanza con i ceti medi. Ribadisce quindi Di Vittorio l’importanza dell’iniziativa privata e di una serie di nazionalizzazioni che non sono affatto in contrasto con essa e con il sistema capitalista.
Veniamo ora all’intervento di Roveda, segretario della FIOM: «Noi siamo per il potenziamento dell’iniziativa privata, anzi noi dobbiamo sforzarci perché l’iniziativa privata collabori alla ricostruzione del paese. Passiamo ora alla tregua. I lavoratori sono stati delusi in parte dalla passata tregua. La speranza che i prezzi sarebbero stati bloccati in breve tempo è svanita e i lavoratori si sono trovati ad avere il blocco sui salari e ad avere i prezzi che marciavano per loro conto. Ciò non di meno è evidente che la tregua ha dato ai lavoratori un minimo di garanzia, che forse i lavoratori non avrebbero avuto se la tregua non fosse stata stipulata. I lavoratori in fondo non chiedono grandi cose. Chiedono di lottare per la libertà, di fare i sacrifici necessari per conservare la libertà, potenziare il paese, ma chiedono nello stesso tempo di non essere più dissanguati come lo sono stati durante il periodo fascista, e anche dopo la liberazione, dalla speculazione».
Interessante anche l’intervento di Teresa Noce, segretaria della Confederazione dei tessili: «Insieme al problema della lotta contro l’inflazione, la Confederazione ha posto il problema del raggiungimento non dell’aumento dei salari, ma dell’aggiustamento di quelle situazioni che erano effettivamente più arretrate (...) un minimo di salario che garantisca agli operai, non diciamo una vita facile, ma almeno quel trattamento indispensabile per poter vivere. Oggi la classe operaia è una classe nazionale che difende gli interessi di tutti i lavoratori ed è soltanto nella misura in cui essa li saprà difendere, soltanto nella misura in cui noi agiremo per difendere gli interessi della maggioranza del popolo, che noi potremo veramente dire che stiamo sulla strada buona, quella del progresso e del rinnovamento dell’Italia».
Dall’intervento di Sferza, vicesegretario della Confederazione: «Quale è la politica salariale e la politica contrattuale della Confederazione Generale del Lavoro? Vi sono due vie dinanzi a noi. Quella di puntare sulla rivalutazione dei salari. L’altra via è quella di consolidare semplicemente quella poca capacità di acquisto, quel misero tenore di vita che oggi i lavoratori di alcune categorie hanno faticosamente conquistato. La seconda, compagni, è quella che ha trovato la sua espressione nell’accordo che va sotto il nome di tregua salariale e che è stato recentemente confermato, dopo le trattative con la Confindustria. È la via del sacrificio, della compressione salariale; è la via che addossa ai lavoratori la parte più onerosa del processo di ricostruzione. Ma vorrei affermare dinanzi al Congresso come questa seconda via di autolimitazione che la classe lavoratrice si impone, è la risposta a tutte le accuse della borghesia e del capitalismo, che vedono nell’organizzazione sindacale un mezzo di perturbamento, di ritardo del processo economico, mentre oggi l’organizzazione sindacale è l’unica forza viva, reale, della ricostruzione; è l’unica forza che permette ai lavoratori di affrontare un peso che sarebbe troppo pesante senza questa fede per la loro attività».
I bonzi sindacali odierni dicono esattamente le stesse cose. Di Vittorio aveva affermato: «Su moltissimi generi vi è un largo margine alla speculazione, sia da parte dei produttori sia da parte dei grossisti e dei commercianti. La nostra lotta contro il carovita non è mai stata diretta a mortificare il produttore onesto. Dobbiamo però colpire i produttori che vogliono guadagnare il cinquanta o il cento per cento. Agli industriali abbiamo detto: noi accettiamo il rinnovamento della tregua salariale, però vogliamo la contropartita. Cioè voi dovete rinunciare ai larghi profitti. I lavoratori italiani, nelle condizioni di miseria in cui si sono trovati e si trovano, hanno dato prova di tale senso di civismo, di tale sensibilità per l’interesse nazionale del paese che veramente sentirsi dire (...) che in Italia le agitazioni sono state troppe, mentre al contrario sono state minime nei confronti degli altri paesi e nei confronti dell’altra guerra che in Italia ebbe conseguenze economico-finanziarie molto meno gravi di quelle attuali, è una falsità che non possiamo sopportare.
«Poche parole sulle 40 ore di lavoro. Come principio noi dobbiamo tener
ferma questa rivendicazione. Però devo aggiungere, compagni, che a mio
avviso questa rivendicazione oggi deve essere interpretata in questo senso:
che noi domandiamo 40 ore solo alle industrie in cui la disoccupazione
esiste allo scopo di dar lavoro a un certo numero di disoccupati. Ma oggi
ridurre l’orario lavorativo a 40 ore nelle industrie in cui non vi è
disoccupazione, credo significherebbe una riduzione della produzione, ciò
sarebbe contrario agli interessi della Nazione e perciò non dobbiamo domandarlo.
Ci batteremo per il principio delle 40 ore e il pagamento straordinario
delle ore che si faranno in più, ma passeremo alla graduale applicazione
di questo principio perché in nessun modo e in nessun momento noi vogliamo
nuocere alla intensità della produzione; invece dobbiamo cercare con tutte
le forze di sviluppare nel nostro paese la produzione stessa. Malgrado
tutti gli sforzi, noi da soli non potremo eliminare la disoccupazione in
Italia. Di qui l’esigenza di una politica di emigrazione».
Funzione di collaborazione delle Commissioni Interne
Andiamo ora a leggere i verbali della seduta del direttivo della CGIL del 15 luglio 1946, dove il segretario Giuseppe Di Vittorio, riguardo ai consigli di gestione ereditati dalla guerra, dice: «A mio giudizio la questione dei consigli di gestione non deve assumere nessun carattere rivoluzionario, perché nessuno oggi ha in Italia all’ordine del giorno il problema rivoluzionario di carattere classista. Noi in Italia siamo tutti d’accordo di dover costruire un solido regime democratico che assicuri la libertà a tutti i cittadini, che assicuri l’iniziativa privata nell’ambito degli interessi generali della Nazione. Noi abbiamo degli esempi, a Milano e a Torino, dove i consigli di gestione hanno potuto funzionare bene d’accordo con gli industriali, riuscendo a migliorare il rendimento del lavoro e ad abbassare i costi di produzione». E prosegue: «Dobbiamo tener conto dello stato d’animo delle masse, che tendono a sfuggire anche dalle mani stesse delle nostre organizzazioni... Le masse hanno fatto lo sciopero generale senza la Camera del Lavoro ed hanno degenerato in violenze». Di Vittorio conclude ricordando l’impegno della CGIL «per contenere il movimento delle masse, per moderare le rivendicazioni dei lavoratori, per evitare degli scioperi, delle agitazioni».
Naturalmente il Turone, che riporta le parole di Di Vittorio e di altri a cominciare da Togliatti, lascia trasparire l’ammirazione per tali posizioni, e dal suo punto di vista, che è quello nazionale e non certo quello proletario, ha perfettamente ragione.
Notevole il fatto che già nel 1946 si fosse giunti, e si fosse potuto organizzare un sciopero generale “senza la Camera del Lavoro”.
È interessante leggere una “lettera aperta” scritta da Riccardo Lombardi, segretario del Partito d’Azione, pubblicata su “L’Italia libera” del 10 ottobre 1946 e destinata alla CGIL: «Ai lavoratori si potranno chiedere sacrifici solo se ed in quanto essi abbiano il controllo – ed il modo di influire – sulla gestione delle aziende e soprattutto – questa è cosa essenziale – sul modo in cui vengono reinvestiti i profitti. La ricerca di tali investimenti non si può lasciare all’interesse individuale dei privati, ma deve essere indirizzata secondo un piano controllato dai lavoratori. Il problema del reinvestimento dei profitti non è risolto dai consigli di gestione, i quali, passata la fase rivoluzionaria, sono organi di collaborazione di classe agli effetti ristretti dell’azienda singola e perfino troppo facilmente degeneranti in compromessi corporativi fra padroni e operai. L’organizzazione del controllo pubblico sulla gestione delle aziende economiche è cosa che si può organizzare in breve tempo ed è a nostro avviso la misura più costruttiva e coraggiosa di socialismo moderno, equivalente di per sé a molte più abbondanti ma assai meno sostanziose rivendicazioni».
Il patriottismo e il collaborazionismo di classe del Partito d’Azione sono scontati, ma l’interesse di questa lettera, che non ebbe risposta, sta nel fatto che la CGIL veniva considerata troppo moderata anche dal P.d’A, che si preoccupava della credibilità del sindacato presso i proletari e quindi della sua capacità di chiedere ad essi i sacrifici necessari all’economia nazionale.
L’intervento di Cosso, della Camera del lavoro di Roma: «I piani sono necessari: i Consigli di gestione possono fornire alla Confederazione e allo Stato notizie e controlli indispensabili per conoscere il costo della produzione, lo stato degli impianti, e per migliorare la loro efficienza. Pensiamo anche che, se necessario, la CGIL anziché consentire che ci siano scioperi per l’aumento dei salari, usi di questa arma per fare sentire la sua volontà nel campo dell’economia».
Circa i consigli di fabbrica e di gestione la nostra posizione emerge chiarissima dalla Conferenza di Torino del 1946 del Partito Comunista Internazionalista, riportata in “Comunismo” n.43: «È dunque chiaro che la funzione controrivoluzionaria attuale dei sindacati o di qualunque altra forma d’organizzazione del proletariato non deriva da una sua presunta natura di classe capitalista (come gli altri organismi statali: parlamento, esercito, polizia, ecc.) ma soltanto dalla situazione politica generale che, malgrado fermenti di ripresa proletaria, rimane tuttora controrivoluzionaria e favorevole alla borghesia: il problema non consiste dunque nella forma di organizzazione del proletariato, ma nel rapporto di forze tra proletariato e borghesia in una certa situazione. Perciò la posizione dei compagni che preconizzano di sostituire l’organizzazione dei consigli di fabbrica ai sindacati esistenti non è giusta. Nella situazione attuale dei consigli di fabbrica in luogo dei sindacati farebbero esattamente la stessa politica».
Dopo il Congresso di Firenze, sindacati e padroni si accordarono per definire il ruolo delle Commissioni Interne, come affermiamo su “Comunismo”: «Abbiamo definito le Commissione Interne una polizia di fabbrica. Il termine è quando mai esatto, dato che queste dovevano essere consultate dagli industriali prima di procedere a licenziamenti individuali o collettivi. L’accordo prevedeva che sarebbe stata la commissione interna a richiamare l’operaio accusato di scarso rendimento a produrre di più, e non più il padrone. Gli operai si trovano quindi licenziati dalle Camere del Lavoro, magari perché contadini d’origine, e quindi considerati in stato di minore difficoltà, o perché accusati d’essere responsabili di disordini in occasione di scioperi non organizzati dalla Confederazione».
Sempre da “Comunismo”: «Prima considerazione: secondo i ducetti
sindacali nazional-comunisti non sono i salari da fame percepiti dagli
operai i responsabili degli scioperi, ma i “provocatori”. Mentre i
fascisti spedivano al confino gli operai combattivi, i post-fascisti li
gettano sulla strada e, con la disoccupazione dilagante, condannano alla
disperazione loro e le loro famiglie. Seconda considerazione: in democrazia
per poter lavorare ci vuole la tessera proprio come sotto il ventennio
fascista. Tra i “provocatori fascisti” licenziati vi era anche un nostro
compagno il quale, recatosi alla commissione interna per sapere i motivi
del suo licenziamento si sentì rispondere: “Se non te ne vai subito
ti rompiamo il muso”. Terza considerazione: le squadracce fasciste non
avrebbero fatto di peggio».
Capitolo esposto alla riunione di Genova nel settembre 2007.
Parte seconda
A) La Cina nel mondo antico
Per questo capitolo abbiamo utilizzato: Il Programma Comunista,
n. 3-8 del 1958; Storia Universale, Accademia delle Scienze dell’Urss;
J. Genert, Il mondo cinese.
1. Premessa
Si intende comunemente per Medio Evo il periodo storico che intercorre dalla caduta della antica società schiavista a quello del sorgere del moderno capitalismo, in cui si formano nuovi popoli e nuove organizzazioni statali, che saranno i soggetti degli eventi dei secoli successivi, come Inghilterra, Francia, Germania, Russia, Polonia, gli Stati scandinavi, Turchia, quelli Arabi e, in Oriente, il Giappone. La Cina, gli Stati dell’Indocina, dell’India, l’Iran e dell’Asia centrale si erano formati in epoche più remote, ciascuno con le proprie peculiarità e notevole importanza storica.
Intorno al III-V secolo di quella che in Occidente si chiama era cristiana, sono presenti sul globo cinque poli di civiltà evolute e consolidate, organizzate in grandi imperi. Furono: l’impero della dinastia Han in Cina, terminata nel 220 d.C.; il regno Kushan in Asia centro occidentale; l’impero dei Gupta in India; il regno dei Sassanidi che includeva l’Iran, la Mesopotamia e una parte dell’Asia centrale; l’impero romano in Europa occidentale e meridionale, Africa settentrionale e vicino Oriente.
In altre grandi organizzazioni statali come l’Armenia o il vasto regno di Axum, che comprendeva l’Abissinia, parte della Nubia e altre regioni limitrofe, il modo schiavista di produzione era fortemente radicato e ancora privo delle contraddizioni interne che avevano già minato gli altri agglomerati umani.
Diversamente, presso le tribù dei celti, dei germani e degli slavi, che abitavano l’Europa nord occidentale, settentrionale e orientale, in questo periodo aveva luogo il processo di decadenza dei primitivi rapporti comunitari, nascevano le classi e cominciavano ad apparire i germi dell’organizzazione statale. Presso le tribù turche, mongole e quelle dell’Asia centro orientale invece predominava ancora l’ordinamento comunitario primitivo.
Il passaggio al feudalesimo non fu simultaneo nei vari paesi d’Europa e in alcuni d’Asia perché le forze produttive e i corrispondenti rapporti di produzione si erano sviluppati in modo diverso. In molti il passaggio dall’ordine schiavistico a quello feudale prese forme diverse da quelle che si ebbero nell’impero romano. Altri popoli sono passati al feudalesimo direttamente dall’ordinamento comunitario primitivo senza passare da quello schiavista, come la maggior parte degli slavi occidentali e delle tribù germaniche, molte tribù turche e mongole in Asia e i coreani nell’Oriente estremo.
La scelta del V secolo è qui determinata dal fatto che, per quanto riguarda l’area europea, nel 476 Odoacre, capo di una schiera di barbari Eruli, deposto il giovane imperatore Romolo Augustolo, anch’egli di origini unne, invece di proclamarsi imperatore egli stesso, inviò le insegne imperiali a Costantinopoli all’imperatore d’Oriente Zenone dichiarando che avrebbe governato in Italia in nome di lui. Formalmente l’impero romano d’Occidente era finito anche se la sua morte era avvenuta parecchio tempo prima.
Prima di esporre lo sviluppo economico e politico dell’antica Cina occorre ricordare, e non si sbaglia né annoia mai a farlo e rifarlo, che da noi «la concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale; che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti, e con essa l’articolazione della società in classi o Stati, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e sul modo come si scambia ciò che si produce» (Engels, Antidühring). Inoltre «le epoche economiche si distinguono non per cosa che viene prodotto, ma per come, con quali mezzi di lavoro, viene prodotto. I mezzi di lavoro non servono solo a misurare i gradi di sviluppo della forza lavorativa dell’uomo, ma servono pure ad indicare i rapporti sociali nel cui ambito è effettuato il lavoro» (Il Capitale, I).
Nella nostra ricostruzione alla prima fase del comunismo primitivo segue la forma secondaria di produzione che si sviluppò secondo tre varianti. Quella antico-classica, come in Grecia e a Roma, dove il lavoro degli schiavi finisce per diventare la base portante della produzione materiale; qui la proprietà della terra è privata, la produzione mercantile, hanno diritti civili solo i proprietari. La seconda è la variante germanica in cui l’individuo è fortemente legato alla comunità razziale, titolare del possesso della terra. Infine la terza, la variante asiatica, in cui il presupposto della produzione è il lavoro collettivo nelle irrigazioni e nelle grandi opere di interesse generale, organizzato da una unità centrale di comando.
Nella variante asiatica si opera una razionale separazione, mai opposizione, tra centro e periferia: da una parte lo Stato detiene le funzioni economiche delle opere pubbliche necessarie all’attività produttive, guerre comprese, mentre le comunità locali organizzano direttamente la produzione materiale. L’unità suprema che le coordina si presenta come il proprietario unico perché le comunità locali godono solo del possesso ereditario del suolo. Di più, poiché le comunità e gli individui possono produrre solo grazie ai lavori collettivi, la base comunitaria è solida e ostacolerà fortemente l’evoluzione verso la proprietà e produzione individuale, come invece avvenne nella variante antico classica. La chiave dello sviluppo della variante asiatica è quindi lo Stato centralizzato, di lunga tradizione ed esperienza in Cina, nel quale confluiscono e si concentrano tutti i legami comunitari.
Molti storici borghesi, che ovviamente usano altri criteri di analisi,
confondono la variante asiatica del modo di produzione secondario con il
feudalesimo europeo, dal quale differisce in modo inequivocabile: in occidente
la proprietà della terra è concessa al feudatario locale e non è commerciabile,
l’autorità centrale è debole e sovente solo simbolica, mentre là essa
invece è l’anima dello Stato organizzatore di grandi imprese collettive
del tutto assenti nel feudalesimo europeo.
2. Le prime formazioni statali cinesi
Le grandi culture neolitiche cinesi apparvero tra il VI e il V millennio nel bacino del Hwang-Ho, o Fiume Giallo, 4.000 anni dopo quelle presenti nel bacino mediorientale, sorte intorno al X millennio a.C. Favorevoli condizioni ambientali fecero sviluppare al Nord insediamenti umani prevalentemente sedentari dediti a caccia e pesca, mentre non altrettanto favorevoli erano le condizioni a Sud introno al Yangtze Kiang, o Fiume Azzurro, dove persistettero a lungo primitive comunità di cacciatori raccoglitori. Un’organizzata civiltà neolitica, detta cultura Hsiao-t’un, comparve tra il III e il IV millennio a.C. lungo il corso inferiore del Fiume Giallo; alle sue origini vi sarebbe l’epoca dei “cinque sovrani”, mitici saggi-imperatori che avrebbero regnato sulla Cina in un periodo compreso tra il 3000 e il 2200 a.C. A questa sarebbe succeduta una non meglio accertata dinastia Hsia fondata da Yu il Grande attorno al 2205 a.C. Nello stesso periodo sulle sponde del Nilo erano da tempo terminate le costruzioni delle tre grandi piramidi di Ghiza, espressione di una società organizzata sul modo secondario di produzione nella variante asiatica, là apparsa prima nel tempo. La forma secondaria in Egitto non si evolse, decadde e venne assorbita dalla variante classica, prima dal mondo greco, poi da quello romano.
Il primo Stato cinese storicamente accertato risale al 1751 a.C. quando la dinastia Shang, la cui esistenza è confermata da testimonianze archeologiche ed epigrafiche, assunse il controllo del corso inferiore dello Hwang-Ho.
Quella degli Shang era ancora una coltura neolitica ove l’agricoltura prosperava grazie a una fitta rete di canali e di pozzi e si basava soprattutto sulla coltivazione del riso, miglio, canapa e seta. Le funzioni di governo erano esercitate da un re che era anche capo dell’esercito e primo sacerdote. Le terre da lui direttamente possedute costituivano il nucleo dello Stato ed erano circondate da territori di altri principi che avevano un rapporto di dipendenza personale dal re. Durante questa dinastia si diffuse la scrittura, prima pittografica poi ideografica, si sviluppò pienamente la fusione del bronzo e migliorarono le tecniche militari con l’introduzione del cavallo e del carro da guerra. Si completò inoltre la netta divisione sociale tra classe dominante al vertice che viveva in città-palazzo e le comunità locali, per lo più dedite all’agricoltura con una manifattura dimensionata sui bisogni puramente locali.
Queste ricostruzioni storiche e archeologiche ci dicono, sempre secondo il nostro metodo di analisi materialistico, che in quel periodo la fase del comunismo primitivo almeno nelle aree più evolute è definitivamente scomparso e si è passati a un modo di produzione successivo in cui vigono nuovi e diversi ordinamenti economici e sociali. Solitamente un grande capo locale o Signore, che dispone di una forza armata, obbliga i villaggi, che vivono in modo autosufficiente di lavoro agricolo, a farsi suoi tributari. Si forma così un sistema di staterelli o principati. Ogni tanto uno più potente sottopone ed associa i vicini formando Stati più estesi. Questa forma asiatica tipica differisce sia dalla schiavitù delle società classiche sia dalla servitù feudale del Medioevo europeo, ma sviluppa aspetti di entrambe. Le grandi opere collettive sono realizzate anche col lavoro forzato di masse di prigionieri schiavizzati; nel villaggio agrario tributario al signorotto non vi sono uomini liberi.
La civiltà dei re-sacerdoti Shang durò fino verso l’anno 1000 a.C. quando il regno venne conquistato dalla dinastia Chou, proveniente dal Nord. Questa attuò una politica meno accentratrice degli Shang e concesse ampie autonomie alle famiglie dei feudatari che ora potevano esercitare un potere locale pressoché assoluto. Il potere centrale di conseguenza si indebolì rendendo così più facili le incursioni di invasori dal Nord. Queste furono particolarmente forti nell’VIII secolo a.C. per cui i Chou dovettero trasferire la loro capitale in zone più tranquille mentre esplosero all’interno forti scontri tra gli Stati interni, durati dal VI fino al III secolo a.C. Questo periodo, detto dei “regni combattenti”, è definito come di antico feudalesimo aristocratico. «Esso sarebbe in un certo senso paragonabile al feudalesimo di tipo germanico che prevalse in Europa dopo la caduta dell’Impero Romano, in quanto il potere centrale era vago e debole, mentre pesante era la dominazione provinciale dei nobili. Il periodo è caratterizzato da una totale anarchia dei poteri e da incessanti lotte tra quelli locali e tra le famiglie rivali; esso ben ricorda quelli del medioevo europeo quando il potere dell’imperatore era vago e lontano mentre le grandi monarchie unitarie non esistevano ancora (Il Programma Comunista, 5/1958).
Le guerre si modificarono con l’introduzione delle armi in ferro al posto di quelle in bronzo, della cavalleria e delle truppe mercenarie. In questo periodo si affermarono in tutta la Cina le dottrine del confucianesimo, del taoismo, della scuola di Mozi e legista.
Nel corso del IV secolo a.C. tra gli Stati in lotta emerse la dinastia dei Ch’in i quali nel 256 a.C. sconfissero una coalizione di Stati in lotta ponendo fine alla dinastia Chou. Dal nome di questa dinastia deriva poi il nome Cina. «Da tale data comincia non solo l’unificazione territoriale di tutta la Cina col ributtare i barbari da tutte le frontiere, ma una nuova e radicalmente diversa organizzazione dello Stato. La sua centralizzazione non sta più soltanto nel simbolo dell’Imperatore divinizzato, “Figlio del Cielo”, ma assume una forma concreta nuovissima. Debellati del tutto o anche soppressi i capi delle varie signorie locali che avevano usurpata l’ereditarietà al posto dell’antica investitura da parte dell’Imperatore, il potere venne affidato a funzionari del centro governativo che aveva sede presso l’Imperatore. La rete da allora fu doppia, civile da una parte, militare dall’altra. Sotto il suo aspetto legittimista la rivoluzione, che dista da noi quasi duemiladuecento anni, fu assolutamente radicale, e non anticipò le forme romane di pochi secoli dopo quanto quelle europee del 1600 e 1700, a Stato centralizzato. Volendo infatti trovare un confronto con questo regno di Cheng Huang-Ti, primo della serie, ossia Sublime e Divino, dobbiamo pensare al Roi Solei, al secolo di Luigi XIV con le sue vittorie e i suoi splendori. La doppia gerarchia burocratica assicura l’ordine in tutto il paese, e i due rami dell’amministrazione hanno al vertice un Primo Ministro e un Maresciallo dell’Impero e si ricongiungono nella persona dell’Imperatore. Il territorio si divide tutto in province, le province in distretti, e in ciascun grado si ripete la doppia gerarchia» (Ivi).
Il processo di riunificazione fu completato dal re Shih Huang-ti (221-207 a.C.) che con l’aiuto del ministro Li-Shu, compì la gigantesca opera di centralizzazione dell’impero, imponendo a tutta la Cina l’unità amministrativa, militare, giuridica, monetaria, fiscale e della scrittura. Gli storici chiamano questo come il periodo del feudalesimo burocratico che si sostituì a quello aristocratico.
Nel 246 a.C. era iniziata la costruzione della Grande Muraglia, concepita per fermare le incursioni dei popoli del Nord, che terminerà nel 600 d.C. Il re Shih, nell’intento di tagliare di netto col passato, nel 213 a.C. ordinò di bruciare tutti i libri eccetto quelli tecnici, ma molti si salvarono perché imparati a memoria e successivamente riscritti, tra cui anche la famosa Arte della Guerra del generale Sun Zu. Recentemente ne è stato trovato il mausoleo funebre col suo imponente sotterraneo corteo di dignitari in terracotta. La forma di Stato che si originò non si dissolse mai più, pur con grandi sconvolgimenti, fino al 1911, data della Rivoluzione dei Giovani Cinesi.
Per tirare un parallelo, nel Mediterraneo, nel 216 avanti Cristo, siamo alla battaglia di Canne.
L’anno seguente la morte violenta di Shih Huang-ti la dinastia Han si impadronì del potere governando la Cina per quattro secoli fino al 220 d.C., pur con alterne fortune, in cui il rafforzarsi dell’autorità centrale fu molto spesso contrastata da vigorose lotte delle grandi famiglie nobili che rivendicavano una loro autonomia. Altro elemento di instabilità furono le continue incursioni, quando non invasioni degli Hsiun-Nu o Jong-Nu da noi noti come Unni, i quali però non arrivarono mai a scardinare alle radici l’impianto della società cinese.
La Cina nel III secolo aveva già alle spalle due millenni di storia e per grandezza di territorio, numero di abitanti, grado di centralizzazione statale ed evoluto livello di civiltà era pari solo all’impero romano. In Cina era rimasta una ridotta schiavitù di tipo familiare destinata ai lavori agricoli e a una prima manifattura.
Un avvenimento cardine fu la caduta dell’impero Han, una delle più importanti dinastie dell’antico mondo cinese. L’impero Han si estendeva su un enorme territorio dall’oceano Pacifico all’Asia centro occidentale, dalla Manciuria, la parte settentrionale della penisola coreana e la parte nord orientale dell’Indocina. Secondo il censimento del 2 a.C., nel paese si contavano più di 59 milioni di contribuenti.
Passò alla storia il movimento dei “Turbanti Gialli” nel 184 d.C., per il copricapo che distingueva gli insorti, portato anche dai membri e contadini liberi delle comunità agricole e dagli schiavi in rivolta contro l’esasperato sfruttamento nelle campagne. Queste rivolte furono soffocate nel sangue dal governo centrale e dalla nobiltà locale. Ma l’impero crollò non solo per le rivolte nelle campagne con la fuga in massa dei contadini dai campi e per i lunghi periodi di grandi calamità naturali, quanto per le sue contraddizioni interne che emersero quando nel 192 i tre capi militari dell’esercito divisero tra di loro il territorio del paese.
La fine dell’impero Han data ufficialmente nel 220 con l’inizio
del periodo dei “Tre regni”: Wei al nord, Wu e Shu al sud e segna la
definitiva affermazione del feudalesimo statale o dell’Impero
Unitario in Cina, come altri storici lo chiamarono.
3. L’impero Chin e le leggi agrarie nei secoli III e IV
In un rapporto di Shu-ma Lang, uno dei ministri del re Ts’ao Ts’ao del regno settentrionale Wei, si denunciava l’esistenza di un’enorme superficie di terre incolte e si rimarca la necessità di far tornare al lavoro i contadini che avevano abbandonato i fondi, di cui avevano il possesso ereditario come quota delle antiche proprietà comuni: “Oggi la terra non ha più padroni, il popolo non ha una fissa dimora”. Il ministro aveva proclamato le terre abbandonate dai contadini appartenenti al demanio statale e intendeva riportarli al lavoro dando loro in affitto tali fondi e renderli così dipendenti dallo Stato. Questo processo però ebbe pieno avvio solo dopo la riunificazione dei tre regni, nel 280, ad opera del regno Wei con una nuova dinastia Chin (nella storia cinese è molto frequente il processo dell’unificazione della Cina ad opera di una potente dinastia, il successivo decadere e il frammentarsi in diversi regni per poi riunificarsi sotto una nuova dinastia egemone). Il kung t’ien, la proprietà statale della terra, esisteva già prima nel periodo Han ma non era la forma predominante, mentre lo diviene ora, accanto a quella dei vecchi possessori che ne avevano continuato la coltivazione.
Lo sviluppo dei nuovi rapporti fu sancito con una legge fondiaria secondo cui i contadini dovevano ricevere due appezzamenti di terra: uno per il loro fabbisogno, l’altro coltivato a favore dello Stato; i contadini dovevano pagare un’imposta sul terreno coltivato per uso personale, sotto forma di prodotti agricoli o artigianali quali seta o prodotti finiti. Inoltre i coltivatori degli appezzamenti venivano impiegati nei lavori di utilità pubblica: la costruzione, riparazione e manutenzione degli impianti di irrigazione, la bonifica dei terreni, la lotta contro le piene dei fiumi e costruzioni di vario genere, pratica derivata dall’antica variante asiatica che fu l’anima di tutta la florida economia cinese.
Questa perdurò fino all’arrivo degli inglesi che, come in India, distrussero questa vitale funzione statale demolendo alla base il presupposto dell’intera produzione agricola.
La terra era considerata proprietà statale a disposizione del governo centrale; il reggente dello Stato era considerato il detentore supremo del potere statale sulla terra.
Gli appezzamenti messi a disposizione dei contadini erano di tre tipi: arativi per riso e miglio, per colture non alimentari come il gelso e la canapa, e infine per abitazioni, magazzini e manifatture.
Gli arativi venivano assegnati in base al numero degli abitanti: uno per ogni uomo abile al lavoro, metà per le donne. Se il contadino possedeva degli schiavi riceveva mezzo appezzamento per ogni schiavo mentre ai proprietari di bestiame erano attribuiti terreni supplementari in proporzione al numero dei capi. Le dimensioni dei poderi per colture particolari, manifatture e abitazioni erano determinate dal numero dei lavoratori; questi terreni venivano consegnati in blocco alle famiglie contadine. Gli arativi dovevano essere restituiti all’erario in caso di morte del coltivatore, della sua età avanzata o nell’impossibilità di poterla lavorare, mentre le parcelle con le abitazioni ritornavano allo Stato solo in caso di morte di tutti i membri della famiglia abili al lavoro.
I tributi in natura da versare erano calcolati non in base alla produzione bensì al numero di addetti, cioè all’estensione dei vari appezzamenti, il che veniva a incentivare il lavoro dei contadini; oltre a queste imposte c’era anche l’obbligo della prestazione gratuita della mano d’opera, compreso il servizio militare.
Questo sistema di distribuzione delle terre dava origine anche all’organizzazione territoriale amministrativa: cinque fattorie vicine ne formavano l’anello più piccolo, 25 quello medio e 125 quello superiore. A capo di ciascuna di queste unità c’era un anziano scelto fra i suoi membri i cui compiti erano di organizzazione, controllo per conto dello Stato, calcolo e riscossione delle imposte, restituzione all’erario in caso di morte o per reati di vario tipo commessi dal contadino, la riscossione delle imposte, il controllo del reclutamento della forza lavoro per i lavori collettivi e la sorveglianza delle colture come quantità e qualità negli appezzamenti affidati ai contadini: un vero amministratore per conto dello Stato centrale.
Nel 485 (nell’area del Mediterraneo l’impero romano d’occidente era crollato da nove anni), una legge sull’utilizzazione delle terre statali così avvertiva i riottosi contadini: «Non è permesso rifiutarsi di lavorare o abbandonarsi all’ozio. Laddove vi è terra sufficiente è proibito andare in un’altra località senza fondati motivi». In altre parole il contadino è legato stabilmente alla terra, tipico vincolo feudale; ciò permette la continuità della produzione agricola, della piccola manifattura artigianale dimensionata sui bisogni locali e per le riserve contro le avversità.
La rendita allo Stato pagata dai contadini con prestazioni di mano d’opera gratuita non durò a lungo: all’inizio del IV secolo fu sostituita da una rendita in natura, che permise un ulteriore sviluppo dell’economia da parte del contadino, ora non più costretto ad allontanarsi dai campi per lunghi periodi e segno questo che lo Stato centrale disponeva di accresciute risorse per assumere alla bisogna forza lavoro in esubero dai campi e con migliori competenze. La Grande Muraglia e molte città fortificate sono l’espressione di questo ordinamento economico e sociale.
Accanto alla proprietà statale esistevano anche altre forme di proprietà della terra: una di queste era quella dei vari feudatari, condizionata e confinata entro i limiti della proprietà statale che rimaneva comunque il maggior proprietario fondiario. Questa concessione di terre era legata alla necessità della complessa e ben articolata macchina amministrativa e militare: i funzionari statali ricevevano un appezzamento, dimensionato secondo il grado e l’importanza nella gerarchia, che veniva coltivato dai contadini locali. Ma il funzionario perdeva la dotazione fondiaria appena fosse trasferito o sollevato dall’incarico, né poteva disporne a piacere né lasciarlo in eredità.
Le tasse raccolte non andavano all’erario bensì al funzionario locale che le “custodiva” per conto dello Stato, ovvia necessità dovuta all’enorme estensione dell’impero. Anche il possesso fondiario concesso a signori locali come premio dell’autorità centrale per particolari meriti in ogni caso poteva essere revocato; ma i diritti su queste terre erano ereditari, sempre finché la famiglia restasse fedele all’imperatore.
Illimitato era invece il titolo di proprietà delle terre della grande nobiltà vicina all’autorità suprema, dette appunto “proprietà titolari”. Esistevano inoltre le terre che i monasteri possedevano in grandi estensioni, sia per gratifiche concesse nel tempo sia in conformità al sistema di distribuzione delle terre normalmente in vigore.
Complessivamente questi rapporti sociali consentirono un rapido sviluppo delle forze produttive e le fonti dell’epoca parlano del miglioramento delle tecniche agricole ed irrigue e dell’introduzione di nuove colture quali il tè, la canna da zucchero e il cotone.
In quel periodo quindi il produttore principale in Cina era il libero
contadino, che paga le imposte.
4. Tecnica siderurgica e guerra
Nel periodo più antico e all’epoca dei Chou la guerra era di tipo nobiliare: il possesso di cavalli, carri da guerra, e armi di bronzo era riservata, per il loro costo, ad una ristretta cerchia di uomini, divenuta poi nobiltà dominante, che faceva della guerra l’unica attività. La fanteria, assoldata fra i contadini, svolgeva solamente una funzione di appoggio. Aveva grande rilievo la prova di forza e di valore dei singoli guerrieri.
Ma quando si trattò, come ovunque poi successe, di affrontare guerre più estese, con un maggior numero di combattenti, anche il modo di organizzare le guerre cambiò sia nella quantità dell’armamento sia per l’impiego di strateghi di comprovata capacità. Dal V al III secolo il consistente sviluppo della fanteria ridusse progressivamente utilizzo dei carri e l’importanza negli scontri della nobiltà. L’avvento della spada, probabilmente mutuata dai guerrieri delle steppe verso la metà del IV secolo, della carica della cavalleria e della balestra mutarono ulteriormente la tecnica militare. Su di essa si iniziano a scrivere numerosi trattati: pare fossero 790 i testi di arte militare scritti nei quattro secoli prima dell’era cristiana, poi andati perduti.
La balestra, più potente e precisa dell’arco retroflesso a doppia curvatura dell’antichità e dei nomadi, tesa col piede, divenne l’arma più in uso negli eserciti cinesi; si ritiene di fissarne la sua diffusione dal V secolo e sarà perfezionata fino al X secolo dell’era cristiana.
I moderni storici hanno messo in evidenza il ruolo fondamentale svolto nel IV e nel III secolo dalla diffusione degli attrezzi di ferro, che soprattutto in agricoltura permisero un’aratura più profonda, un migliore dissodamento del suolo e quindi migliori rese. Gli attrezzi non sono fucinati ma fusi: grazie a una elevata conoscenza dell’arte del fuoco la tecnica cinese pervenne direttamente alla fusione senza passare per il lungo stadio intermedio della fucina. La prima menzione di un oggetto fuso in ferro risale all’anno 513 a.C. mentre testimonianze archeologiche fissano una vasta produzione in serie di oggetti in ghisa intorno al 400 a.C. con asce, vanghe, coltelli, spade ecc. La ghisa, più fragile e meno tagliente del bronzo, aveva però il grande vantaggio di essere prodotta in abbondanza e in serie tramite gli stampi; grazie alla combinazione della ghisa con la martellatura queste armi divennero presto migliori delle precedenti in bronzo.
I cinesi giunsero a produrre acciai fin dal II secolo a.C. mentre in Europa bisognerà attendere il Medioevo per avere le prime fusioni in serie del ferro e ancor più per l’acciaio. Tale divario tecnico si spiega con la grande esperienza cinese nella fusione del bronzo, con la scarsità di rame e stagno, e per il perfezionamento delle fonderie già all’epoca dei Regni Combattenti. Durante il periodo Han comparirà il primo mantice a pistone a doppio effetto che permette di ottenere, tramite un sistema di valvole, un getto d’aria continuo, più potente, e quindi temperature più alte e costanti.
Sviluppo delle forze produttive e delle tecniche militari anche qui,
ovviamente, vanno di pari passo.
Ogni epoca storica non solo ha una particolare forma politica, ma anche una sua tipica forma di ipocrisia. Una volta i popoli si scannavano a vicenda in nome di dio, soprattutto in nome del dio dell’Amore e del Perdono. Oggi fare guerra in nome di dio viene considerato come qualche cosa di estremamente retrogrado; quando avviene, si parla di “scontro di civiltà”, della necessità di difendere la “nostra civiltà”, occidentale, progredita e laica, dai pericoli di riflussi antistorici che farebbero ripiombare l’umanità intera in situazioni tipo medioevo o peggio ancora.
I borghesi Stati progressisti quando affamano e massacrano intere popolazioni lo fanno in nome della democrazia e, soprattutto, della pace. Questa forma di ipocrisia non è solo nostra contemporanea ma è tipica di tutta l’epoca capitalistica, e soprattutto della sua fase finale, l’imperialismo. Perciò tutti gli argomenti che oggi sentiamo propalare dai ciarlatani di turno sono gli stessi che vennero abusati fin dagli anni precedenti lo scoppio della Prima Guerra mondiale. Anche allora fu preceduta da un periodo di “guerra fredda”: l’arco di circa dieci anni che precedette la guerra guerreggiata era stato allora definito di “pace armata”. In effetti altro non vi era stato se non una guerra ininterrotta, combattuta in terre coloniali, di massacro dei popoli di Asia ed Africa. Le analogie con l’attuale pace democratica sono lampanti.
Un’altra analogia tra quel periodo e l’attuale è costituito dal fatto che, sebbene vi si contasse un gran numero di conflitti e di stermini, non essendoci state guerre tra paesi “civili”, allora fin dal 1871, oggi dal 1945, nel sentimento comune borghese, e purtroppo anche quello proletario, si era consolidata l’opinione secondo la quale l’incessante crescita degli eserciti ed il giganteggiare degli armamenti non rappresenterebbe un pericolo bensì sarebbe una garanzia per la pace, una garanzia tale da permettere un avvicinamento graduale ma certo verso un nuovo ordine internazionale, basato sul Diritto e non sulla forza delle armi. Nelle armi, secondo questa teoria, risiederebbe la garanzia dell’abolizione delle armi. Ovviamente questa è una dottrina che non fu mai confutata né dagli Stati capitalisti né dai poteri economici e finanziari internazionali né, tantomeno, mai denunciata dai partiti della sinistra borghese e democratica.
Nel frattempo però veniva, e viene, preparato il conflitto mondiale nei suoi vari aspetti, dal militare al sociale, psicologico, sciovinista, religioso (che non è e non verrà mai accantonato), e soprattutto socialista patriottico.
Noi comunisti rivoluzionari ci guardiamo bene dal denunciare tutto questo come un “falso pacifismo” contrapposto ad uno “vero” che potrebbe, magari, essere il nostro. E questo non solo perché noi pacifisti non siamo, rivendicando la guerra di classe e prospettando il suo naturale sbocco nella presa del potere attraverso l’uso della violenza rivoluzionaria, ma soprattutto perché il pacifismo, teoricamente e politicamente, si basa sulla dottrina dell’armonia e della pace sociale tra i differenti interessi di classe. Solo chi è pronto ad accettare la possibilità di una graduale attenuazione della lotta di classe fino alla sua totale estinzione, è anche pronto ad accettare la graduale attenuazione e regolamentazione dei conflitti internazionali. Guarda caso il pacifismo è la più alta espressione del sentimento, delle aspettative, delle illusioni del piccolo borghese, dovute alla coscienza della sua estrema debolezza, schiacciato com’è tra due nemici: da una lato il grande capitale, dall’altro il proletariato.
Le stesse premesse su cui si basa tutta la teoria pacifista danno anche gli argomenti alla piccola borghesia, in mutate situazioni economiche e sociali, per il suo trapasso nel più feroce sciovinismo guerrafondaio. Infatti al pacifismo viene assegnato un ruolo di prim’ordine nel gioco politico della preparazione alla guerra. I governi democratici e i loro capi di Stato hanno la necessità di mostrarsi nelle vesti dei più strenui difensori della pace per avere poi la possibilità di presentare il ricorso alle armi come inevitabile necessità appunto per la difesa e il mantenimento degli ideali di pace, infranti da una guerra sempre iniziata, o minacciata, dagli altri.
Questa parte venne egregiamente interpretata dall’uomo al quale i socialisti del “non aderire né sabotare” guardavano come a colui che avrebbe potuto ricondurre i capi degli Stati belligeranti alla ragione e far cessare il conflitto: il presidente americano Wilson, il paladino della pace e della libertà dei popoli.
Sembra stranamente ironico, ma strano non è, il destino del pacifismo ufficiale di Wilson, che fornì la più potente arma per l’adempimento di questo compito, cioè l’addomesticamento delle masse con i metodi del militarismo pacifista. Non solo la piccola borghesia ma anche grandi masse popolari e perfino proletarie si convinsero che se il governo americano, sotto la guida di un pacifista di fama internazionale come Wilson, poteva entrare in guerra, ci doveva pur esser una ragione, una causa giusta e necessaria per fare la guerra. Gli stessi argomenti, come se si trattasse di attori che leggessero il medesimo copione, venivano declamati dall’altra parte del fronte bellico: pace, disarmo, libertà dei popoli, difesa della patria, difesa della civiltà minacciata dal nemico.
Fino a qual grado giungesse l’ipocrisia delle nazioni democratiche non tardò a dimostrarsi. Se la guerra era stata guerra di rapina, anche la pace fu pace di rapina. Ottenuta la vittoria sugli Imperi Centrali, reazionari e militaristi, i popoli che gemevano sotto il tallone degli Asburgo e degli Hohenzollern non ricevettero la libertà dai vincitori, ma si trovarono a dover sopportare due padroni l’uno più famelico dell’altro.
Le borghesie dei due separati schieramenti, tanto nemiche durante gli anni del conflitto così come nella restaurata pace imperialista, non mancarono però di trovare una identità di intesa e di azione nel combattere e nello schiacciare inesorabilmente il proletariato rivoluzionario che, dopo un calvario durato cinque anni, aveva deciso di scrollarsi di dosso una volta per tutte il giogo del potere capitalistico, sotto qualunque veste si presentasse.
I documenti che ripubblichiamo sono a commento del ruolo e della
funzione della borghesia internazionale e degli Stati capitalistici, non
migliori in tempo di “pace” che di guerra imperialista. Sono il prodotto
di una Internazionale Comunista al suo culmine, in totale coerenza con
la dottrina e l’indirizzo di azione del marxismo rivoluzionario.
5 marzo 1919
Risoluzione riguardo l’atteggiamento nei confronti
delle correnti socialiste
e la conferenza di Berna
I
Già nel 1907, al congresso internazionale socialista di Stoccarda, quando la Seconda Internazionale affrontò la questione della politica coloniale e delle guerre imperialistiche, risultò che più della metà della Seconda Internazionale e la maggior parte dei suoi capi erano molto più vicini, in tali questioni, al punto di vista della borghesia che non al punto di vista comunista di Marx e di Engels.
Malgrado ciò il congresso di Stoccarda accettò un emendamento proposto dai rappresentanti dell’ala rivoluzionaria, Lenin e Rosa Luxemburg, formulato come segue: «Tuttavia, se scoppia una guerra, i socialisti sono tenuti ad adoperarsi perché abbia fine al più presto e a volgere a proprio vantaggio, con tutti i mezzi possibili, la crisi economica e politica generata dalla guerra per destare il popolo ed accelerare così il crollo del dominio capitalistico». Al congresso di Basilea, convocato nel novembre del 1912, al tempo della guerra balcanica, la Seconda Internazionale dichiarò: «I governi borghesi non dimentichino che la guerra franco-tedesca provocò l’insurrezione rivoluzionaria della Comune e che la guerra russo-nipponica mise in moto le forze rivoluzionarie della Russia. I proletari ritengono il massacro reciproco un crimine a vantaggio del capitalismo, delle rivalità dinastiche e della proliferazione dei trattati diplomatici».
Alla fine di luglio e all’inizio d’agosto del 1914, ventiquattro ore prima dell’inizio della guerra mondiale, gli organi e le istituzioni competenti della Seconda Internazionale continuavano a condannare il conflitto imminente come il più grande delitto della borghesia. Le dichiarazioni formulate in quei giorni dai partiti dirigenti della Seconda Internazionale costituiscono l’atto di accusa più eloquente contro i suoi capi.
Ai primi colpi di cannone che piovvero sui campi della strage imperialistica, i partiti principali della Seconda Internazionale tradirono la classe operaia e sotto l’etichetta della “difesa nazionale” passarono ciascuno dalla parte della “propria” borghesia: Scheidemann ed Ebert in Germania, Thomas e Renaudel in Francia, Henderson e Hyndman in Inghilterra, Vandervelde e De Brouckère in Belgio, Renner e Pernerstorfer in Austria, Plechanov e Rubanovic in Russia, Branting e il suo partito in Svezia, Gompers e i suoi compari in America, Mussolini e compagni in Italia esortavano i proletari a stipulare una “tregua” con la borghesia del “loro” paese, a rinunciare alla guerra contro la guerra, e, in realtà, a diventare carne da cannone per gli imperialisti. Questo fu il momento in cui la Seconda Internazionale fece definitivamente fallimento e perì.
La borghesia dei paesi ricchi ebbe la possibilità, grazie al decorso dello sviluppo economico in generale, di corrompere e sedurre, con le briciole dei suoi enormi profitti, i vertici della classe operaia, cioè l’aristocrazia operaia. I “compagni di strada” piccolo-borghesi del socialismo affluirono nelle file dei partiti socialdemocratici ufficiali e orientarono gradatamente la loro politica verso la borghesia. I dirigenti del movimento operaio parlamentare e pacifico, i capi sindacali, i segretari, i redattori e gli impiegati della socialdemocrazia vennero a costituire un’intera casta di burocrazia operaia che aveva i propri egoistici interessi di gruppo e che in realtà era ostile al socialismo.
A causa di tutte queste circostanze la socialdemocrazia ufficiale degenerò in un partito antisocialista e sciovinista.
Già nel seno della Seconda Internazionale si evidenziano tre tendenze fondamentali. Nel corso della guerra fino all’inizio della rivoluzione proletaria in Europa, i profili di queste tre tendenze si delinearono con inequivocabile chiarezza:
1. La corrente socialsciovinista (tendenza della “maggioranza”), i cui tipici rappresentanti sono i socialdemocratici tedeschi che dividono oggi il potere con la borghesia tedesca e che si sono trasformati negli assassini dei capi dell’Internazionale comunista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. I socialsciovinisti si sono ora interamente rivelati come nemici del proletariato e perseguono quel programma della “liquidazione” della guerra che la borghesia ha loro suggerito: far gravare la maggior parte delle imposte sulle masse operaie, intangibilità della proprietà privata, riaffermazione dell’esercito come strumento della borghesia, scioglimento dei soviet operai sorti ovunque, mantenimento del potere politico nelle mani della borghesia, “democrazia” borghese contro il socialismo. Per quanto i comunisti abbiano finora lottato contro i “socialdemocratici maggioritari”, gli operai non hanno ancora chiara coscienza del pericolo che minaccia il proletariato internazionale nelle persone di questi traditori. Aprire gli occhi a tutti i lavoratori sull’azione di tradimento dei socialsciovinisti e mettere, con la forza delle armi, questo partito controrivoluzionario nell’impossibilità di nuocere, ecco uno dei compiti più importanti della rivoluzione proletaria internazionale.
2. La “tendenza centrista” (socialpacifisti, kautskiani, indipendenti). Tale corrente cominciò a formarsi ancor prima della guerra, soprattutto in Germania. All’inizio della guerra, i principi fondamentali del “centro” coincidevano quasi in ogni punto con quelli dei socialsciovinisti. Il capo teorico del “centro”, Kautsky, debuttò con la difesa della politica seguita dai socialsciovinisti tedeschi e francesi. L’Internazionale era solo uno “strumento di pace”: “lotta per la pace”, “lotta di classe in tempo di pace”, così suonavano le parole d’ordine di Kautsky. Dall’inizio della guerra in poi il “centro” fu per 1’ “unità” con i socialsciovinisti. Dopo l’assassinio di Liebknecht e di Rosa Luxemburg, il “centro” continua a predicare questa “unità”, cioè l’unità degli operai comunisti con gli assassini dei capi comunisti, Liebknecht e Rosa Luxemburg. Già all’inizio della guerra il “centro” (Kautsky, Victor Adler, Turati, MacDonald) cominciò a predicare “l’amnistia reciproca” per i capi dei partiti socialsciovinisti della Germania e dell’Austria da una parte e della Francia e dell’Inghilterra dall’altra. Questa amnistia il “centro” la predica anche oggi, dopo la guerra, impedendo così agli operai di spiegarsi le cause del fallimento della Seconda Internazionale. Il “centro” ha mandato i suoi rappresentanti a Berna, alla conferenza internazionale dei socialisti del compromesso e ha facilitato così agli Scheidemann e ai Renaudel l’obiettivo di ingannare gli operai. È assolutamente necessario staccare dal “centro” gli elementi rivoluzionari, e ciò è possibile soltanto con la critica implacabile e la denunzia dei capi del “centro”. La rottura organizzativa con il “centro” è un’assoluta necessità storica. È compito dei comunisti di ogni paese determinare il momento di questa rottura in base alla fase di sviluppo che il movimento ha raggiunto all’interno di ogni paese.
3. I comunisti. In seno alla Seconda Internazionale, dove questa tendenza
difese le concezioni comuniste-marxiste sulla guerra e sui compiti del
proletariato (risoluzione Lenin-Luxemburg al congresso di Stoccarda, 1907),
la corrente era in minoranza. Il gruppo della “sinistra radicale” (più
tardi Lega Spartaco) in Germania, il partito dei bolscevichi in Russia,
i tribunisti in Olanda, le organizzazioni giovanili in Svezia, l’ala
sinistra dell’Internazionale giovanile, hanno formato il primo nucleo
della nuova Internazionale. Fedele agli interessi della classe operaia,
questa corrente annunciò sin dall’inizio della guerra la parola d’ordine
della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile. Questa
tendenza si è ora costituita come Terza Internazionale.
II
La conferenza socialista di Berna, del febbraio 1919, era un tentativo di risuscitare il cadavere della Seconda Internazionale.
La composizione della conferenza di Berna mostra chiaramente che il proletariato rivoluzionario mondiale non ha nulla a che vedere con essa.
Il proletariato vittorioso della Russia, l’eroico proletariato della Germania, il proletariato italiano, il partito comunista del proletariato austriaco e ungherese, il proletariato svizzero, la classe operaia della Bulgaria, della Romania, della Serbia, i partiti operai di sinistra della Svezia, della Norvegia, della Finlandia, il proletariato ucraino, lettone, polacco, la parte migliore del proletariato organizzato dell’Inghilterra, l’Internazionale giovanile e l’Internazionale delle donne si sono decisamente rifiutati di partecipare alla conferenza di Berna dei socialpatrioti.
I partecipanti alla conferenza di Berna che hanno ancora qualche contatto con l’autentico movimento operaio del nostro tempo hanno formato un gruppo di opposizione che almeno sul problema essenziale della “valutazione della rivoluzione russa” si è opposto all’andazzo dei socialpatrioti. La dichiarazione del compagno francese Loriot, che ha bollato la maggioranza della conferenza di Berna come puntello della borghesia, riflette l’opinione di tutti gli operai del mondo con una coscienza di classe.
Nella cosiddetta “questione delle responsabilità” la conferenza di Berna si è mossa sempre nel quadro dell’ideologia borghese. I socialpatrioti francesi e tedeschi si sono scambiati gli stessi rimproveri che si erano reciprocamente rivolti i borghesi tedeschi e francesi. La conferenza di Berna si è persa in dettagli meschini su questo o quel passo dei ministri borghesi prima della guerra, e non ha voluto riconoscere che i principali responsabili della guerra erano il capitalismo, il capitale finanziario delle due coalizioni e i loro servi socialpatrioti. La maggioranza dei socialpatrioti a Berna voleva rintracciare il responsabile della guerra. Sarebbe bastato uno sguardo allo specchio perché tutti si riconoscessero colpevoli.
Le dichiarazioni della conferenza di Berna sulla questione territoriale sono piene di equivoci. L’equivoco è proprio ciò di cui ha bisogno la borghesia. Il rappresentante più reazionario della borghesia imperialistica, il signor Clémenceau, ha riconosciuto i meriti che, di fronte alla reazione imperialistica, può vantare la conferenza socialpatriota di Berna, ricevendone una delegazione alla quale ha proposto di partecipare a tutte le commissioni della conferenza imperialistica a Parigi.
Quanto alla questione coloniale, è risultato chiaro che la conferenza di Berna era a rimorchio di quei politici borghesi liberali fautori della colonizzazione che giustificano lo sfruttamento e l’asservimento delle colonie da parte della borghesia imperialistica e cercano di camuffarli con frasi filantropico-umanitarie. I socialpatrioti tedeschi hanno richiesto che le colonie tedesche siano conservate al Reich, cioè che il capitale tedesco continui a sfruttare le colonie. Le divergenze che si sono manifestate a tale proposito mostrano che i socialpatrioti dell’Intesa hanno le stesse opinioni dei negrieri e che ritengono del tutto naturale l’asservimento delle colonie francesi e inglesi da parte del capitale metropolitano. Con ciò la conferenza di Berna ha mostrato di aver dimenticato la parola d’ordine “libertà per le colonie!”.
Nella valutazione della Società delle Nazioni la conferenza di Berna ha dimostrato di seguire le orme di quegli elementi borghesi che, dietro l’ingannevole apparenza della cosiddetta “lega dei popoli”, vogliono mettere al bando la rivoluzione proletaria che avanza in tutto il mondo. Invece di smascherare le mene della conferenza degli alleati a Parigi per quello che sono, cioè per gli intrighi di una banda che pratica lo strozzinaggio sulle popolazioni e sulle risorse economiche, la conferenza di Berna le favorisce, abbassandosi a farsene strumento.
L’atteggiamento servile della conferenza, che ha lasciato il compito di risolvere il problema della legislazione sulla protezione del lavoro ad una conferenza governativa borghese a Parigi, dimostra che i socialpatrioti si sono coscientemente dichiarati per il mantenimento della schiavitù capitalistica del salariato e che sono pronti ad illudere, con meschine riforme, la classe operaia.
I tentativi, ispirati dalla politica borghese, di indurre la conferenza di Berna ad una deliberazione secondo la quale un eventuale intervento armato in Russia sarebbe stato sostenuto economicamente dalla Seconda Internazionale, sono naufragati solo grazie agli sforzi dell’opposizione. Il successo dell’opposizione di Berna sugli elementi sciovinisti dichiarati è per noi la prova indiretta che il proletariato dell’Europa occidentale simpatizza con la rivoluzione proletaria russa ed è pronto a lottare contro la borghesia imperialistica.
L’ossessivo timore di occuparsi, anche minimamente, di un fenomeno
storico di portata mondiale come i consigli operai mostra chiaramente la
paura che domina questi servi della borghesia di fronte alla sua inevitabile
espansione. I consigli operai costituiscono il fenomeno più importante
dopo la Comune di Parigi. La conferenza di Berna, ignorando la loro esistenza,
ha dato prova della sua meschinità spirituale e del suo fallimento teorico.
Il congresso dell’Internazionale comunista considera 1’ “Internazionale”,
che si cerca di ricostituire con la conferenza di Berna come l’Internazionale
gialla dei crumiri, che è e resterà solo uno strumento della borghesia.
Il congresso invita tutti gli operai di tutti i paesi ad ingaggiare la
lotta più energica contro l’Internazionale gialla e a difendere le masse
da questa Internazionale di menzogna e di tradimento.
13 maggio 1919
Manifesto del comitato esecutivo dell’Internazionale
Comunista
sul trattato di pace di Versailles
Abbasso la pace di Versailles!
Viva la rivoluzione comunista!
Ai lavoratori di tutto il mondo!
I governi che cinque anni fa iniziarono la guerra di rapina cercano ora di concluderla con una pace altrettanto piratesca. La borghesia inglese, francese e americana ha dettato ai rappresentanti della borghesia tedesca, a Versailles, le cosiddette condizioni di pace. Versailles diventa una nuova Brest. Ogni punto della pace di Versailles è un cappio pronto a strozzare questo o quel popolo.
L’ira e la bramosia di vendetta da parte della borghesia imperialistica della coalizione vittoriosa non conoscono limiti. Mentre la borghesia anglo-francese e americana proclama la fondazione della Società delle Nazioni, essa cerca, in realtà, di farsi beffe della volontà di tutte le nazioni d’Europa. La borghesia dei paesi dell’Intesa si propone di smembrare la Germania, staccandone una intera serie di territori, rubandole il carbone e il pane, togliendole la flotta mercantile e infine costringendola a pagare somme vertiginose. La borghesia dei paesi dell’Intesa che aveva combattuto, a suo dire, contro l’annessione di paesi stranieri, opera ora una quantità di grossolane e ciniche annessioni. Le popolazioni delle colonie, prima appartenenti alla Germania, vengono ora contrattate come bestiame. Gli imperialisti dell’Intesa si sono armati di un grosso coltello e vivisezionano il corpo della Germania.
Ma le rapaci condizioni di pace imposte alla Germania a Versailles non formano che uno degli anelli della catena di violenze esercitate dagli imperialisti dell’Intesa. Mentre si sforzano di mutilare e sgozzare la Germania, questi imperialisti conducono anche una disperata campagna militare contro la repubblica sovietica d’Ungheria.
Questi borghesi francesi e tedeschi sono anche gli istigatori principali dei boiari rumeni, i quali scatenano attualmente le loro guardie bianche contro i nostri fratelli, gli operai ungheresi. Sono questi rappresentanti della illuminata “democrazia” francese e inglese che ispirano anche quegli eroi che, alla testa di bande furiose, scatenano pogrom contro la Budapest rossa. Sono loro che aizzano i russi ultrareazionari Kolcjak, Denikin, Krasnov nella loro sanguinosa lotta contro la classe operaia e la classe contadina russe. Sono sempre loro che hanno incitato le guardie bianche tedesche, capeggiate da Noske, Ebert e Scheidemann, ad annientare la repubblica bavarese sovietica. Gli imperialisti dei paesi dell’Intesa hanno posto come condizione al governo Scheidemann che reprimesse, prima di ogni altra cosa, il potere sovietico a Monaco.
Sono loro, i banchieri e i generali anglo-francesi e americani, che attualmente disarmano anche le truppe rivoluzionarie in Bulgaria. Sono loro che soffocano il movimento popolare rivoluzionario in Serbia e in Slovenia. Gendarmi internazionali: ecco cosa sono gli imperialisti anglo-francesi e americani che si spacciano per rappresentanti della “democrazia mondiale”.
Tutte le illusioni sono distrutte. Le maschere sono cadute. Chi non se ne era ancora convinto durante la guerra imperialistica, interminabile e spaventosa, dovrà esserlo di fronte alla pace imperialistica con cui, da Versailles, si vuole ora tacitare l’umanità. I governi che per quattro anni e mezzo hanno ingannato i loro popoli con la guerra per “l’autodeterminazione delle nazioni”, per “l’indipendenza” dei piccoli popoli, per “la libertà e la cultura”, per “la democrazia”, vengono ora smascherati come i carnefici più terribili, come spietati negrieri accecati dall’odio. La favola della Società delle Nazioni svanisce prima ancora di fiorire. Dopo le condizioni della pace di Versailles, essa non riuscirà ad ingannare molti operai. La Società delle Nazioni, nel cui cuore si annida il capo del macello, Clémenceau, è smascherata di fronte a tutto il mondo come una lega di predoni che mette in croce masse di milioni di operai d’Europa.
La pace di Versailles ricade, con tutto il suo peso, principalmente sulla classe operaia tedesca. Se la pace di Versailles si mostrasse in qualche modo duratura, ciò significherebbe che la classe operaia tedesca dovrebbe gemere sotto un duplice giogo: quello della propria borghesia e quello degli schiavisti stranieri.
È superfluo ricordare che le simpatie dell’Internazionale comunista e le simpatie degli operai onesti di tutto il mondo vanno alla classe operaia tedesca. Gli operai comunisti di tutti i paesi considerano le condizioni della pace di Versailles come un colpo per il proletariato internazionale, come un attacco che può essere evitato soltanto con le forze riunite del proletariato di tutti i paesi.
L’attuale governo tedesco, che protesta a parole contro la pace di Versailles, aiuta in realtà gli imperialisti dell’Intesa a realizzare il loro piano diabolico nei confronti della classe operaia tedesca. Il partito degli Scheidemann e degli Ebert si comporta come il più fido alleato dell’imperialismo dell’Intesa e soffoca nel sangue il movimento rivoluzionario dei lavoratori tedeschi.
Ogni volta che l’ondata del movimento operaio in Germania raggiungeva punte sensibilmente elevate, e sembrava prossima a ripulire il governo dai socialdemocratici traditori, Scheidemann ed Ebert terrorizzavano gli operai affamati con la minaccia che – in caso fosse stato costituito in Germania il potere sovietico – le potenze dell’Intesa non avrebbero passato al popolo tedesco neppure una briciola di pane.
Il Comitato centrale del partito socialdemocratico di Scheidemann afferma, nel suo proclama emanato in occasione della pace di Versailles, che la lezione di Versailles è “la migliore prova della giustezza della posizione assunta dalla socialdemocrazia nella questione della difesa della patria”. Solo l’ipocrisia e il cinismo dei socialdemocratici possono negare al conflitto testé conclusosi il suo carattere di guerra imperialista di rapina.
Le condizioni dettate dalla pace di Versailles hanno rivelato a tutti gli operai onesti qualcosa di completamente diverso. Gli operai coscienti di tutto il mondo si rendono perfettamente conto che gli imperialisti tedeschi, qualora la guerra fosse terminata con la loro vittoria, sarebbero stati altrettanto implacabili contro i vinti, così come lo sono appunto i loro avversari. E poi gli Henderson e i Renaudel si sarebbero sicuramente serviti delle stesse frasi menzognere, che usano oggi gli Scheidemann e i Noske.
Le condizioni della pace di Versailles hanno dimostrato che, finché l’imperialismo continua ad esistere, sia pure in un solo paese, continuano ad esistere anche la violenza e la rapina; non solo, ma hanno provato che l’imperialismo di qualunque coalizione è ugualmente assetato di sangue. Anche se si nasconde sotto etichette “democratiche”, l’imperialismo rimane l’incarnazione della barbarie e della sete di sangue.
Le condizioni della pace di Versailles hanno mostrato che i socialpatrioti di tutti i paesi sono diventati definitivamente i servitori della borghesia; hanno rivelato quanto sono meschini i sogni dei seguaci dell’Internazionale gialla di Berna (in particolare quelli di Kautsky e dei suoi compagni) sul “disarmo” nel regime capitalistico, sulla benevola e sincera Società delle Nazioni sotto la protezione di Wilson. Le condizioni della pace di Versailles hanno mostrato che la stessa borghesia ha lasciato una sola via aperta agli operai di tutti i paesi: la via della rivoluzione mondiale, la via che passa sul cadavere del capitalismo.
Operai di Francia! Operai d’Inghilterra! Operai d’America! Operai
d’Italia!
A voi si rivolge l’Internazionale comunista! Da
voi soprattutto dipendono oggi le sorti di milioni di operai tedeschi e
austriaci. Ora voi dovete dire la vostra! Dovete strappare dalle mani insanguinate
dei vostri governi il coltello di rapina che essi brandiscono sul capo
della classe operaia tedesca ed austriaca. Dovete provare che gli insegnamenti
dell’eccidio durato cinque anni e mezzo non sono andati, per voi, perduti.
Non dovete dimenticare, neppure per un istante, che la vittoria degli imperialisti
dell’Intesa sulla classe operaia tedesca e austriaca significa la vittoria
su di voi, la vittoria sugli operai di tutti i paesi, la vittoria sul socialismo.
Siete soprattutto voi ora, che avete nelle mani la sorte del socialismo
internazionale. A voi guardano con ferma fiducia gli operai coscienti di
tutto il mondo. E noi siamo convinti che voi compirete il vostro dovere
malgrado i consigli dei vostri Scheidemann.
Operai di Germania! Operai d’Austria!
Ora vedete che non vi resta altra scelta se non
quella di distruggere immediatamente il governo dei traditori, che si chiamano
socialdemocratici, ma che in realtà sono gli agenti più pericolosi della
borghesia. Ora vedete dove vi ha condotti la politica di Scheidemann e
di Noske e constatate che la vostra unica speranza è la rivoluzione proletaria
mondiale. Ma gli Scheidemann e gli Ebert impediscono questa rivoluzione
proletaria con tutte le loro forze. Quando gli Scheidemann e i Noske si
appellano in nome vostro al proletariato internazionale, non trovano altra
risposta che disprezzo.
Gli uomini che sono rimasti in silenzio di fronte al tentativo di strangolare l’Ungheria sovietica, perpetrato da truppe al soldo dei proprietari terrieri, gli uomini che, presso Libau, combattono a fianco dei baroni tedeschi, contro gli operai e i braccianti lettoni, non possono contare sull’appoggio del proletariato internazionale. Il conte Brockdorft Rantzau, il traditore Landsberg, gli aguzzini Noske e Scheidemann non dovrebbero ora parlare in vostro nome. Fintanto che l’attuale governo tedesco sta al potere, il conflitto fra Berlino e Parigi rimane soltanto una controversia giudiziaria fra le borghesie delle due coalizioni. Nel vostro paese, l’intero potere deve passare il più presto possibile nelle mani dei consigli operai. Sono gli operai comunisti che devono parlare in vostro nome. Soltanto allora potrete salvare il vostro paese e contare sull’aiuto dei proletari di tutto il mondo.
Il tempo dell’indecisione è passato. Ora ognuno di voi si rende chiaramente conto che non vi può essere di peggio che essere condotti sull’orlo della rovina dal governo dei socialtraditori.
Operai di Germania e d’Austria!
Sappiate che i proletari di altri paesi non presteranno
fede alla socialdemocrazia tedesca ufficiale, a questa socialdemocrazia
che non ha trovato parole di protesta nel momento in cui il governo di
Guglielmo di Hohenzollern ha costretto la Russia ad accettare la pace di
Brest.
Operai di Germania e d’Austria!
Sappiate che se la pace di Brest, a cui la Russia
fu costretta nel 1918, finì così presto, questo avvenne perché gli operai
e i contadini russi avevano rovesciato il governo della borghesia e dei
socialtraditori e preso il potere nelle loro mani. Solo così gli operai
russi riuscirono a conquistare la fiducia e le simpatie dei proletari di
tutti i paesi. Soltanto grazie a questo stato di cose riuscì loro di spezzare,
relativamente presto, il laccio di Brest.
La rivoluzione proletaria mondiale è l’unica salvezza
delle classi oppresse del mondo intero.
La dittatura del proletariato e la fondazione del
potere sovietico sono l’unica conclusione della lezione di Versailles
per i proletari del mondo intero.
Fintanto che vive il capitalismo non vi può essere
alcuna pace duratura.
La pace duratura deve essere costruita sulle rovine
dell’ordine borghese.
Viva la rivolta degli operai contro i loro oppressori!
Abbasso la pace di Versailles!
Abbasso questa nuova Brest!
Abbasso il governo dei socialtraditori!
Viva il potere sovietico del mondo intero!
5 agosto 1919
Appello del comitato esecutivo dell’Internazionale
Comunista
dopo la caduta della Repubblica ungherese
dei consigli
Ai proletari di tutto il mondo!
Compagni!
È stato perpetrato il più infame dei tradimenti. Il potere sovietico in Ungheria è crollato sotto la pressione dei briganti imperialisti e in seguito al mostruoso tradimento dei socialpatrioti. I capi della Seconda Internazionale, che appoggiarono il macello imperialista, hanno fatto fallire uno sciopero internazionale di protesta. I predoni capitalisti, con a capo Clémenceau e Wilson, sono diventati insolenti. Il loro ultimatum è formulato in questi termini: “Abbattete il governo sovietico e vi lasceremo in pace”.
Si è anche manifestata tutta la bassezza dell’ex partito socialdemocratico. Esso aveva giurato fedeltà alla dittatura. Aveva firmato l’accordo con il partito comunista d’Ungheria. Anzi, si era unito a questo partito. Nelle adunanze solenni, al congresso dei soviet, al congresso del partito aveva dichiarato che avrebbe lottato sino all’ultimo sangue per il comunismo e per la rivoluzione. Con l’unificazione si era alleato con i comunisti della Terza Internazionale. Questo partito porta ora il segno di Caino sulla fronte. Esso ha venduto il proletariato, la rivoluzione, il glorioso partito dei comunisti ungheresi, l’Internazionale. Stringendo un patto segreto con gli assassini di Versailles e con i controrivoluzionari di casa propria, con l’appoggio dell’oro degli imperialisti e delle baionette dei boia, esso ha rovesciato il governo del proletariato comunista. Questi “veri socialisti” restaurano ora la proprietà privata. Le potenze della Società delle Nazioni mandano ciascuna un reggimento per dare loro appoggio. Al vertice del governo sta Peidl, l’assassino degli operai, il Noske ungherese.
Il carattere traditore dei socialpatrioti si è svelato. Così, come il gruppo di Scheidemann e di Kautsky in Germania soffoca la rivoluzione proletaria nel sangue; come i “socialrivoluzionari” russi e menscevichi aiutano obiettivamente i generali zaristi; come tutta l’Internazionale gialla di Berna vende all’ingrosso e al dettaglio la classe operaia alla rapace Società delle Nazioni, i socialtraditori ungheresi hanno sacrificato l’orgoglio del proletariato mondiale, la repubblica sovietica ungherese, riducendola a pezzi.
Non c’è posto nella Terza Internazionale per i provocatori e i boia assoldati dal capitale! Entrino pure a far parte della Seconda Internazionale, vadano da Branting e da Thomas, da Noske e da Kautsky!
Mentre è in lutto per la caduta della repubblica sovietica in Ungheria e la perdita del suo glorioso capo Tibor Szamuely, l’Internazionale comunista chiama i proletari di tutto il mondo a unirsi ancor più strettamente sotto la bandiera comunista, a rafforzare l’assalto contro le potenze del capitale.
Nella grande lotta storica dei nostri giorni ci saranno grandi vittorie e crudeli sconfitte. Tuttavia la sanguinosa esperienza della Finlandia e della Siberia ci ha mostrato che nei paesi dove ha dominato il potere sovietico, una vittoria durevole della controrivoluzione non è possibile. Ovunque si sollevano le onde dell’insurrezione. La nostra vittoria definitiva è inevitabile quanto il declino della borghesia e dei socialtraditori.
L’Internazionale comunista invita il proletariato ungherese alla risolutezza, al coraggio e alla perseveranza.
Al lavoro compagni!
Disponetevi all’organizzazione immediata di un
partito illegale!
La sanguinosa lezione dell’Ungheria ha insegnato a tutto il proletariato mondiale che non può esistere nessuna coalizione, nessun tipo di compromesso con i socialisti tanto inclini al tradimento. Lo strato corruttibile dei capi opportunisti deve essere asportato. Nuovi uomini saranno a capo del movimento. Essi emergeranno dalla classe operaia. Giacché a quest’ultima, e non ai suoi avversari, è destinata La vittoria.
L’Ungheria sovietica è caduta: viva l’Ungheria
sovietica!
Viva il Partito comunista ungherese!
Viva la rivoluzione operaia del mondo intero!
Viva il comunismo!
18 maggio 1920
Manifesto del comitato esecutivo dell’Internazionale
Comunista
sulla aggressione polacca alla Russia sovietica
Al proletari di tutti i paesi!
Operai di tutti i paesi! Altro sangue viene versato in Oriente, enormi regioni vengono di nuovo devastate dalle operazioni di guerra, le masse lavoratrici della Russia, che anelano alla pace e a rigenerare e ricostruire il loro paese, sono di nuovo costrette a ricorrere alle armi. La guerra della Polonia dei capitalisti e dei proprietari terrieri contro la Russia sovietica interrompe l’opera che mira al raggiungimento della pace, alla quale si sono accinti gli operai e i contadini russi dopo aver difeso il loro paese, le loro fabbriche, la loro libertà contro Kolcjak, Denikin e Judenic.
Chi è l’autore di questo crimine? Voi sapete che il governo sovietico ha riconosciuto l’indipendenza della repubblica polacca dal giorno della sua nascita. Sapete che il governo sovietico ha proposto più volte la pace al governo polacco. Sapete che il governo sovietico, per risparmiare il sangue dei lavoratori russi e polacchi, era disposto a concessioni di carattere territoriale ed economico; che esso, nella ferma convinzione che gli operai polacchi, alleati del proletariato russo, avrebbero preso presto o tardi il potere e che ogni ingiustizia sarebbe stata eliminata, era disposto a cedere temporaneamente alle classi polacche dominanti persino territori che in base alla loro popolazione non appartengono alla Polonia. Sapete che esso era disposto a condurre trattative di pace non soltanto a Varsavia, ma persino a Londra e a Parigi, capitali dei governi legati ai grandi proprietari e ai capitalisti polacchi. Alla proposta della Russia sovietica di stipulare un armistizio generale e di entrare in trattative di pace, la Polonia ha risposto con un attacco sleale all’Ucraina.
La Polonia combatte questa guerra per strappare ai contadini ucraini la loro terra e per consegnarla ai grandi proprietari terrieri polacchi.
Tuttavia responsabili di questa guerra non sono soltanto i proprietari terrieri e i capitalisti polacchi. Responsabili sono nello stesso modo anche i governi dell’Intesa. Sono loro che hanno armato la Polonia delle guardie bianche e che continuano ad armarla. Seguitando trattative con la Russia sovietica per la ripresa dei rapporti commerciali, essi sperano nel medesimo tempo di dissimulare la loro intenzione di spezzare il potere degli operai e dei contadini russi. In realtà appoggiano qualsiasi forza controrivoluzionaria che rappresenti una minaccia per la Russia sovietica.
I capitalisti francesi hanno inviato in Polonia non solo un enorme quantitativo di armi, ma anche 600 ufficiali (comandati dal generale Henri), che dovranno aiutare gli ufficiali polacchi a distruggere la Russia sovietica. Il governo inglese, facendo pressione sulla Polonia, ricorrendo a un solido argomento “basta con le guerre, basta con le distruzioni, tutto il mondo ha bisogno della Russia per il fatto che essa è un granaio e una sorgente di materie prime”, potrebbe arginare questa guerra, ma quello stesso governo di Lloyd George, che ha inviato al governo sovietico note in cui si appellava alla sua umanità e chiedeva amnistia per i controrivoluzionari russi di Arcangelo e di Crimea, non ha mai pensato di dire alla Polonia che sono stati versati abbastanza sangue e abbastanza lacrime. Le potenze dell’Intesa hanno lasciato mano libera alla Polonia in questa aggressione, fidando nei forti quantitativi di grano e di petrolio ucraini che questa ha promesso loro.
I responsabili di questa guerra sono i governi di tutti i paesi che appoggiano in maggiore o in minore misura gli usurpatori e i predoni polacchi.
Operai di tutti i paesi!
La Russia sovietica la spunterà contro gli svergognati
banditi dell’imperialismo polacco, come l’ha spuntata con Judenic,
Kolcjak e Denikin, che furono appoggiati dai vostri governi. I polacchi,
dopo alcune vittorie iniziali, stanno già sperimentando la collera degli
operai e dei contadini sovietici.
Ma si tratta di vedere quanto durerà questa guerra, quante devastazioni porterà ancora con sé, quante ferite infliggerà ancora alla popolazione operaia russa. Dipende da voi – operai di tutti i paesi – che questa guerra termini nel tempo più breve con la disfatta dei capitalisti e dei proprietari terrieri polacchi.
Operai delle fabbriche di munizioni di Francia, d’Inghilterra, d’Italia
e d’America!
Non fabbricate un solo proiettile, una sola arma,
un solo cannone per i polacchi. Operai dei trasporti, ferrovieri, lavoratori
dei porti e marinai! Non inviate ai polacchi né armamenti, né prodotti
alimentari, poiché tutto serve alla guerra contro il paese degli operai
e dei contadini.
Operai di tutti i paesi alleati!
Scendete nelle strade! Organizzate dimostrazioni
e scioperi con la parola d’ordine: “Abbasso l’appoggio alla Polonia
delle guardie bianche! Gli alleati devono legare il loro cane – i capitalisti
e i proprietari terrieri polacchi – alla catena, e concludere una pace
onesta con la Russia sovietica”.
Operai tedeschi e austriaci!
Voi sapete che la Russia sovietica è il pilastro
della rivoluzione mondiale, che essa soltanto può liberarvi dal giogo
dei vostri capitalisti e dal laccio che la pace di Versailles e di St.
Germain vi ha teso intorno al collo.
Ferrovieri tedeschi!
Non lasciate transitare nessun treno dalla Francia
alla Polonia!
Lavoratori dei porti di Danzica!
Non scaricate le navi destinate alla Polonia!
Ferrovieri austriaci!
Nessun treno dall’Italia per la Polonia deve attraversare
il vostro territorio!
Operai rumeni, finlandesi e lettoni!
I vostri governi bianchi, che tramite patti segreti
sono in relazione con i proprietari terrieri polacchi, possono trascinare
anche voi in questa guerra. State in guardia, concentrate tutte le forze
per evitare che ciò avvenga.
Operai polacchi!
A voi, legati al proletariato russo da una lotta
comune trentennale, non c’è bisogno di dire molto sul vostro dovere;
voi lo state compiendo durante tutta questa guerra, che i vostri capitalisti
e proprietari terrieri conducono contro gli operai e i contadini russi,
organizzando dimostrazioni e scioperi in nome della pace con la Russia
sovietica e sacrificando nella vostra lotta migliaia di militanti. La Terza
Internazionale, fra i cui fondatori si annoverano i vostri famosi capi
Rosa Luxemburg e Jan Tyszka, guarda a voi con orgoglio, la Terza Internazionale
è convinta che voi ora impiegherete tutte le forze per colpire alle spalle
le armate della Polonia bianca e per riportare, insieme con gli operai
russi, la vittoria sui proprietari terrieri e sui capitalisti polacchi.
Voi sapete che la Russia sovietica non porta alla Polonia l’oppressione,
ma la libertà nazionale, la liberazione dalle catene del capitale alleato,
la libertà nella lotta contro i suoi capitalisti. La vittoria degli operai
e dei contadini russi diventerà la vittoria del proletariato polacco,
del fratello e dell’alleato del contadino e dell’operaio russo.
All’attacco, operai polacchi!
Comincia la nostra ultima lotta, è vicino il giorno
in cui i giudici saremo noi!
Abbasso i proprietari terrieri e i capitalisti polacchi!
Viva la Russia sovietica degli operai e dei contadini!
Abbasso la guerra!
Viva pace fra le masse operaie della Polonia e della
Russia!
Abbasso il gioco criminoso dei governi alleati!
Viva la rivoluzione internazionale del proletariato!