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Leak in inglese significa “perdita”: un gas dalla conduttura fessurata, lo sgocciolio del rubinetto, e così via. La parola di questi tempi è molto usata, perché, in unione con un’altra che significa “svelta”, in lingua hawaiana, designa una struttura, un’organizzazione riservata e sfuggente, apparentemente minacciosa verso le bugie dei Grandi del mondo, che sta producendo un rumoroso sconquasso. Insomma un veloce fluire di documenti riservati da una falla imprevedibile nei sistemi informativo degli Stati.
Ce n’è per tutti, ogni parte può prendere quanto più le aggrada per denigrare gli avversari, per dimostrare tutto e il relativo contrario. Rivelazioni che hanno scatenato nella cosiddetta opinione pubblica giudizi di verso opposto: strumento di libertà o biechi arnesi utilizzati dagli Stati per occulte manovre di disinformazione e destabilizzazione. E si sprecano i ragionamenti “a priori” e “a posteriori”...
Dicono che questo è il bello della libera informazione “sulla Rete”, democratica fino all’anarchia, anonima e dispersiva, interclassista e illimitata, a disposizione di tutti, un ideale supermercato dell’informazione. È una libertà che il capitalismo oggi si permette di concedere, ed utilizzare ai suoi fini e che la fa sembrare una conquista definitiva e uno “strumento di democrazia”.
Questa della conoscenza sempre più ampia e diffusa è uno dei tanti aspetti mistificati che maschera la forma alienata della coscienza umana, che separa la coscienza di classe dalla reale esistenza della classe: la conoscenza dei “fatti” e delle “cose” non sistematizzata in una teoria e in una collettiva disciplina di azione si degrada ad un innocuo videogioco.
Si tratta infatti di cose che accadono nell’iridescente mondo delle sovrastrutture: una sorta di “Ideologia tedesca” nell’era internet. La solita grancassa mediatica amplifica la faccenda, non vede quello che da sempre è davanti agli occhi di tutti, la non-giudicabile guerra fra le classi e fra gli Stati, per spostare le attenzioni sulla massa sterminata di quanto è o sarà reso pubblico, la “sorpresa del secolo”, i “misteri del potere”, la spiegazione di “trame” finalmente “rivelate”. Una sorta di Machiavelli, che «gli allor ne sfronda ed alle genti svela di che lacrime grondi e di che sangue», per dirla col Poeta, che del politico della Repubblica Fiorentina non aveva capito nulla.
Se e di chi siano al soldo questi Robin Hood dei segreti governativi non ci importa nulla: se lo facciano perché convinti di una missione nei confronti dell’umanità “schiava delle menzogne dei potenti”, o per favorire sul piano della politica spicciola le mene di un imperialismo a danno di altri, ci è indifferente. Rumorosa come è scoppiata, la bolla del disvelamento dei “grandi segreti” si sta già sgonfiando, anche se altre mirabolanti rivelazioni potranno venir fuori.
In ogni caso è comico come questo mondo ultrablindato, con sicurezze e cifrature a tutti i livelli, abbia permesso la violazione di una mole così straordinaria di messaggi e corrispondenze riservate. Non che il livello dei documenti, almeno quelli diffusi, sia particolarmente elevato; anzi, è decisamente ovvio e prevedibile. È però il concetto di una “sicurezza” astratta che va in crisi, anche se le notizie fossero state fatte filtrare all’esterno ad arte, invece che carpite attraverso un “falla” dei sistemi. Il capitalismo è “insicuro”, anche e prima di tutto nei suoi confronti. E tanto più è decrepito e in crisi tanto più è insicuro. Le migliaia di funzionari che per i più svariati motivi hanno accesso ai dati sono già una debolezza gravissima nel sistema; la quantità vertiginosa di informazioni che le tecniche attuali permettono di registrare, manipolare e trasferire sono un oceano nel quale si perde anche il miglior navigatore.
Il mondo del capitalismo si cinge di sistemi di controllo sempre più raffinati e complessi, sempre più isterici, nel terrore per ogni “insicurezza” tipico dei moribondi. Oltre che incalzato dal proletariato, che sa oggettivamente rivoluzionario, ogni Stato borghese è concorrente e nemico anche dell’alleato più certo, tanto sul piano economico quanto su quello militare. Tutti spiano tutti, con i mezzi più semplici o “tecnologici”. Il numero delle “guarnizioni” che possono “perdere” cresce a dismisura nei sistemi ultra complessi di questa fase finale del capitalismo. Nei sistemi, tecnici e sociali, quando sono spinti a gradi elevati di complessità, cresce l’intrinseca fragilità, il grado di instabilità.
Questo “oltrepassare il limite” è una felice costante del capitalismo, in tutte le manifestazioni, e nella sua natura. Nel campo produttivo, in quello economico, in quello finanziario, ed in quello della tecnica. Questa ha raggiunto un alto grado di sviluppo, ma è sempre più dipendente da elementi fortemente critici. La debolezza intrinseca cresce con la complessità dei sistemi. Nella cieca volontà, e necessità, di oltrepassare in ogni modo i limiti, quando è il limite massimo del profitto il vero ostacolo ultimo invalicabile, risiede il rovinoso destino del modo di produzione capitalistico.
Il livello tecnico che è riuscito ad esprimere non solo lo rende
già pronto ma impone il trapasso ad una forma produttiva superiore, una
società dove non vi saranno segreti perché non ha più limite
e scopo nel profitto, ma nel benessere dell’umanità intera.
Origini del movimento operaio in Italia
Lumi pre-borghesi e utopismo sociale
«La storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi», si legge nel Manifesto del Partito Comunista. Il riconoscere però solo questo può portare a valutazioni completamente errate e reazionarie come, ad esempio, la necessità di un’opera tendente all’armoniosa collaborazione tra le classi in vista della realizzazione del bene comune. Questo, in fondo, è quanto, da sempre, avevano sognato gli utopisti. Con la differenza che le loro teorie, oggi reazionarie, allora ebbero una portata rivoluzionaria.
Il socialismo all’inizio, Engels ce lo insegna, «appare come una continuazione più radicale, che vuol essere più conseguente, dei principi sostenuti dai grandi illuministi francesi del XVIII secolo». Il pensiero illuminista aveva svolto un benefico ruolo demolitore: «Tutte le forme sociali e statali che sino allora erano esistite, tutte le antiche idee tradizionali furono gettate in soffitta come cose irrazionali, il mondo si era fino a quel momento lasciato guidare unicamente da pregiudizi; tutto il passato meritava solo compassione e disprezzo. Ora per la prima volta spuntava la luce del giorno; d’ora in poi la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e l’oppressione sarebbero stati soppiantati dalla verità eterna, dalla giustizia eterna, dall’eguaglianza fondata sulla natura, dai diritti inalienabili dell’uomo». Questa continuità era dimostrata poiché era «comune a tutti essi [gli utopisti] il fatto che non si presentano come rappresentanti degli interessi del proletariato, che frattanto si era prodotto storicamente. Come gli illuministi essi non vogliono cominciare col liberare una classe determinata, ma tutta quanta l’umanità ad un tempo (...) Il modo di vedere degli utopisti dominò a lungo le idee socialiste del secolo XIX e in parte le domina ancora (...) Il socialismo è per tutti loro l’espressione della assoluta verità, della assoluta ragione, della assoluta giustizia e basta che venga scoperto perché conquisti il mondo con la propria forza; poiché la verità assoluta è indipendente dal tempo, dallo spazio e dallo sviluppo storico dell’uomo, è un semplice caso quando e dove sia scoperta».
Invece, dice Engels: «Per fare del socialismo una scienza, bisognava anzitutto farlo poggiare su una base reale». Ed ancora: «Mettendosi da questo punto di vista [del socialismo scientifico] la storia dell’umanità appariva non più come un groviglio confuso di violenze insensate, tutte ugualmente condannabili davanti al tribunale della ragione filosofica, ora diventata matura, e che è meglio dimenticare al più presto possibile, ma come il processo di sviluppo della umanità stessa. Ed ora il compito del pensiero consisteva nel seguire, attraverso tutte le deviazioni, la marcia graduale di tale processo che si compie a poco a poco e dimostrarne, attraverso tutte le accidentalità apparenti, l’intima regolarità».
Il marxismo non fa derivare l’avvento del socialismo da un giudizio morale sulla “ingiustizia” dell’appropriazione, da parte della borghesia, del prodotto del lavoro degli operai, ma dalla storia della lotta fra le classi, che conduce necessariamente a questo sbocco. Dice Engels: “Secondo le leggi dell’economia borghese, la maggior parte del prodotto non appartiene ai lavoratori che lo hanno creato. Se ora diciamo: è ingiusto, ciò non deve essere, ebbene, questo non ha nulla a che vedere con l’economia, in tal caso ci limitiamo solo ad affermare che quel fatto economico è in contraddizione con il nostro senso morale. Per questo Marx non ha mai fondato su questi fatti le sue rivendicazioni comuniste, bensì sul necessario crollo, che si verifica progressivamente sotto i nostri occhi, delle forme di produzione capitalistiche”.
Il marxismo però non ha mai irriso né disprezzato le teorie degli utopisti, pur considerandole ovviamente puerili. Al contrario, scriveva Engels: «Noi preferiamo invece rallegrarci dei germi geniali di idee e dei pensieri che affiorano dovunque sotto questo manto fantastico».
Il marxismo ha fatto di più, ha dialetticamente spiegato che la natura dei loro limiti era determinata esclusivamente da fattori materiali: «All’immaturità della posizione delle classi, corrispondevano teorie immature. La soluzione delle questioni sociali, che restava ancora celata nelle condizioni economiche poco sviluppate, doveva uscire dal cervello umano. La società non offriva che inconvenienti: eliminarli era compito della ragione pensante. Si trattava di inventare un nuovo e più perfetto sistema di ordinamento sociale e di elargirlo alla società dall’esterno, con la propaganda e, dove fosse possibile, con l’esempio di esperimenti modello. Questi nuovi sistemi sociali erano, sin dal principio, condannati ad essere utopie: quanto più erano elaborati nei loro particolari, tanto più dovevano andare a finire nella pura fantasia».
Se a tutti sono noti gli esperimenti comunistici di Owen, certamente meno conosciuto è quello del re delle Due Sicilie Ferdinando IV che nessuno, nemmeno per sbaglio, avrebbe il coraggio di chiamare “socialista”, anche se effettivamente utopista lo fu. Fu infatti per volere di Ferdinando IV che nei pressi della reggia di Caserta venne costituita, a partire dal 1773, una comunità nota come Real Colonia di San Leucio, regolata da un apposito statuto, stilato «più in forma d’istruzione di un Padre a’ suoi Figli che come comandi di un Legislatore a’ suoi sudditi». Il codice, che stabiliva delle regole valide solo per questa comunità, rispecchiava le aspirazioni del dispotismo dell’epoca dei lumi nel vago tentativo di costituire una società basata su ideali di uguaglianza sociale, economica e tra i sessi.
Le varie lavorazioni dell’industria serica impiantate a S. Leucio, oltre che dare impiego agli abitanti locali, attirarono maestranze specializzate anche dalla Francia, dal Piemonte, da Genova, da Messina, che, allettate dai molti benefici di cui usufruivano, vi si stabilirono. Ai lavoratori delle seterie, così come alle nuove coppie, veniva assegnata una casa all’interno della colonia. Le abitazioni erano state progettate tenendo conto delle regole urbanistiche dell’epoca, dotate di acqua corrente e servizi igienici. A S. Leucio venne istituita la prima scuola dell’obbligo d’Italia, femminile e maschile, che includeva anche la formazione professionale gratuita. L’orario di lavoro all’interno degli opifici era di 11 ore a differenza delle 14 nel resto di Europa. All’interno della comunità non esisteva nessuna differenza tra gli individui qualunque fosse il lavoro svolto, l’uomo e la donna godevano di una totale parità. Era abolita la proprietà privata, garantita l’assistenza agli anziani e agli infermi, ed esaltato il valore della solidarietà.
Si trattò di un esperimento sociale, all’epoca, di assoluta avanguardia.
In seguito alla necessità di allargare la colonia per le nuove esigenze
industriali dovute alla introduzione della trattura della seta e della
manifattura dei veli, Ferdinando IV aveva progettato la costruzione di
una nuova città da chiamare Ferdinandopoli, concepita tutta su una pianta
circolare con un sistema stradale radiale ed una piazza al centro con la
sede reale. Il progetto non venne realizzato: si incominciava a costruire
i nuovi edifici quando sopravvennero Napoleone, la rivoluzione del 1799
e la Repubblica Partenopea, e con ciò ebbe fine, prima di nascere, quell’oasi
utopica di comunismo.
Utopismo borghese
Non meno utopiche, ma più spregevoli, sono quelle teorie, dette di Socialismo giuridico, che successivamente, sul finire dell’Ottocento, si diffusero ad opera di ritardatari epigoni italiani del Juristen-Sozialismus. Secondo questa scuola il socialismo avrebbe potuto realizzarsi per decreto. Veniva proposto un nuovo Diritto Privato nel quale il vecchio Codice Civile fondato sulla Persona Giuridica fosse man mano sostituito dalla nuove istanze del “diritto sociale”, con lo Stato che avrebbe dovuto assumere la funzione di tutore e curatore degli interessi della intera comunità. Gli apostoli del Diritto Sociale immaginavano realizzabile una società regolata da un unico Diritto, uguale per tutti, sistematico e conseguente, convinti che una giustizia che garantisse a tutti l’uguaglianza giuridica, fosse al tempo stesso garanzia di libertà per tutti e realizzasse la società perfetta.
A questa fantastica illusione, e cioè alla realizzazione della “Giustizia per volere Sovrano”, aveva aderito anche il “grande rivoluzionario” Bakunin che, di fronte al decreto imperiale sull’abolizione della servitù della gleba del 1861, aveva affermato: «Nel campo della Russia ufficiale tutti sono nemici del popolo, tutti eccetto lo zar (...) Non è stato lo zar che ha emancipato i contadini contro la volontà dei nobili, contro il desiderio generale dei funzionari? (...) Alessandro II potrebbe divenire l’idolo popolare, il primo zar dei contadini, potente, non per il timore, ma per l’amore, per la libertà, per la prosperità del suo popolo (...) È lui, lui solo che potrebbe compiere in Russia la più grave e la più benefica delle rivoluzioni, senza versare una goccia di sangue (...) Se lo zar si mettesse con animo fermo e ardito alla testa del movimento, la sua potenza per il bene e per la gloria della Russia non avrebbe limiti (...) Diciamo la verità: noi preferiamo seguire Romanoff, se Romanoff potesse e volesse trasformarsi da imperatore pietroburghese in zar dei contadini. Ci metteremmo volentieri sotto la sua bandiera». Di fronte a simili allucinazioni non possiamo che fare nostro il giudizio allora espresso dalla Tagwacht di Zurigo: «Se non siete un agente assoldato, certo è che un agente assoldato non riuscirebbe a produrre più male di voi».
Quando il proletariato mosse i primi passi subito affermò che qualunque legge scritta nei codici borghesi, anche se prometteva l’uguaglianza dei diritti, sarebbe stata impotente a difendere la sua uguaglianza sociale ed economica.
Nel 1893 così Achille Loria, in Socialismo Giuridico, esponeva il progetto di questo statalismo filantropico-sociale: «È sorta da vari anni e và acquistando autorevoli e valorosi aderenti una scuola di giuristi, che potrebbe senza grave errore definirsi come la scuola del socialismo giuridico. Invero sono diverse le gradazioni dei vari scrittori che la compongono, sono diversamente accentuate le loro censure e i loro disegni di riforma; ma a tutti però è comune l’intento di assoggettare il diritto vigente ad una critica rigorosa, ispirandosi al criterio della politica sociale, alla necessità di elevare le sorti delle classi lavoratrici (...) Tutti, dal più ardito al più timido, questi scrittori si propongono di ottenere cogli scritti e coll’opera una modificazione del diritto, la quale faccia ragione alle esigenze legittime dei volghi poveri e li tragga a meno sconsolati destini».
A questi signori, Claudio Treves nella Critica Sociale rispondeva: Da parte di «veri rompicolli, indegni dei truffati diplomi giurisprudenziali, intonando sinfonie quasi socialiste (...) si sollevò impensatamente per opera di pochi eretici una tempesta, più fragorosa che ruinosa del resto, nella quale vennero a galla (...) le antiche ribellioni contro la schiacciante influenza del diritto romano, contro l’egoismo sordido del diritto civile, contro l’individualismo sfrenato del giure contrattuale (...) L’agitazione per un rivolgimento del diritto in senso ampiamente sociale non può che riuscire sterile fin dalle sue origini (...) Infatti, per un organismo sociale fondato sulla preminenza di una classe, per un regime che ha per trave di volta lo sfruttamento economico, il diritto privato non può essere che quello che è o presso a poco (...) Pare adunque che legittima sia la nostra affermazione: che il diritto è quale può essere, che tutti i tentativi per riformarlo sono condannati ad essere sterili finché esso è il diritto della classe in predominio: solamente noi crediamo che si potrà spingere il diritto sulle vie sociali mediante lo sforzo prepotente degli interessati. Così noi crediamo, a cagion d’esempio, in una efficace legislazione sul lavoro, se strappata dalla classe operaia alla classe capitalista per mezzo di una lotta cosciente ed organizzata. Alle ubbie filantropiche e sentimentali dei giuristi non crediamo, perché sappiamo che sta contro di esse l’interesse radicato della loro classe (...) In conclusione noi attendiamo la riforma del diritto privato da questo rigoglioso movimento di organizzazione operaia, che sale augusto ed imponente dalle grandi assise internazionali del proletariato, domandando tutela per le donne ed i fanciulli lavoranti nelle fabbriche, ridotta a termini normali ed umani di fatica, assistito il lavoratore in quel duello dispari che è il contratto di lavoro, frenata la concorrenza, ecc. A tutto questo l’opera dei giuristi non può aggiungere quasi nulla; il socialismo non può venire che per l’opera degli interessati». Treves era un riformista, ma aveva ben chiaro il concetto che “il diritto è quale può essere”, cioè borghese. Solo il proletariato avrebbe potuto ottenere qualche miglioramento della legislazione sul lavoro “mediante lo sforzo prepotente” dell’azione di classe.
Sullo stesso argomento anche Antonio Labriola con la massima decisione affermava che «fra politica borghese e socialismo (due periodi distanti della storia!) c’è tale distacco, che nessuna arte di uomini d’ingegno verrà a trarre l’una cosa dall’altra, come per magia di provvedimenti legislativi» (“Proletariato e radicali”, 1890). Ritornando, anni dopo, sulla medesima questione scriverà con sarcasmo (“Saggi sul Materialismo Storico”, 1895): «Nasceva allora, specie in Prussia, la illusione di un monarcato sociale, che, passando sopra all’epoca liberale, armonicamente risolvesse la cosiddetta questione sociale. Questa fisima si riprodusse poi, in seguito, in infinite varietà di socialismo cattedratico e di Stato. Alle varie forme di utopismo ideologico se n’è aggiunta così una nuova: l’utopia burocratica e fiscale; ossia l’utopia dei cretini (...) Fiorirono in questi ultimi anni molti giuristi, i quali cercarono nelle correzioni del Codice Civile i mezzi pratici per elevare le condizioni del proletariato. Ma perché non chiedono al Papa che si faccia capo della Lega dei Liberi Pensatori? Ameno più degli altri è il caso di quello scrittore italiano che occupandosi di recente della lotta di classe, chiede che, al codice che garantisce i diritti del capitale, ne sorga un altro a garanzia del lavoro».
Infine Labriola riportava la questione nei giusti termini: «Fin dal primo momento in cui apparve, questa nuova dottrina del comunismo [ossia il marxismo - n.d.r.] fu la critica implicita di ogni forma di socialismo di Stato, da Louis Blanc a Lassalle. Il socialismo di Stato, per quanto commisto allora a tendenze rivoluzionarie, si concentrava tutto nella favola, nell’Hokus Pokus, del diritto al lavoro. Questo è termine insidioso, se implica domanda che si rivolga ad un governo, sia pure di borghesi rivoluzionari. Questo è assurdo economico se si ha in mente di sopprimere la variabile disoccupazione, che influisce sul variare dei salari, ossia su le condizioni della concorrenza. Questo può essere artificio di politicanti, se è ripiego per sedare la turbolenza di una massa agitantesi di proletarii non organizzati. Questa è una superfluità teoretica per chi concepisca nettamente il corso di una rivoluzione vittoriosa del proletariato; la quale non può non avviare alla socializzazione dei mezzi di produzione, mediante la presa di possesso di questi: ossia non può non avviare alla forma economica, in cui non c’è né merce né salariato, e nella quale il diritto al lavoro ed il dovere di lavorare fanno uno nella necessità comune a tutti che tutti lavorino» (“In Memoria del Manifesto dei Comunisti”).
Viene spontaneo tirare il confronto: se questo era il giudizio, rigoroso e sprezzante ad un tempo, che, sui piani della teoria, della politica e dell’economia, dei socialisti spaccatamente riformisti davano a fine Ottocento del “socialismo di Stato”, con quali parole potremmo noi marchiare la “politica delle riforme” che chiedevano agli Stati gli stalinisti e che oggi chiedono gli ex-, post- ed anti-stalinisti ancora annidati nel movimento operaio ?
Ai comunisti non interessa, e rifiutano, che la “Giustizia” venga
stabilita per decreto che, nel migliore dei casi si tratterebbe di un tranello
per disorientare la classe sottomessa. Il proletariato rappresenta la negazione
della “uguaglianza” nel regno del diritto, del “giusto” nell’economia
e rappresenta l’“irrazionale” nel preteso regno della “ragione”.
La parola: Dittatura
Riconoscere l’esistenza della lotta di classe non basta. Infatti Marx, dopo la famosa affermazione: «la storia di ogni società fin’ora esistita, è storia di lotte di classi», continua: «che portò, in ogni caso, o ad una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società, o alla totale rovina delle classi in lotta». Notissima è anche l’altra affermazione di Marx: «Per quello che mi riguarda, a me non spetta né il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna né quello di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto tempo prima di me degli storici borghesi avevano descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano esposto l’anatomia economica delle classi. Quello che io ho fatto di nuovo è stato dimostrare (...) che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato».
Lo ribadisce Lenin: «Hanno assimilato l’essenza della dottrina di Marx sullo Stato solo quelli che hanno capito che la dittatura di una sola classe è necessaria non soltanto in generale ad ogni società divisa in classi, non soltanto al proletariato dopo che avrà rovesciato la borghesia, ma anche per tutto il periodo storico che separa il capitalismo dalla società senza classi, dal comunismo. La forma degli Stati borghesi è estremamente varia, ma la loro sostanza è la stessa: tutti questi Stati sono, in un modo o nell’altro, ma inevitabilmente, una dittatura della borghesia. Il passaggio dal capitalismo al comunismo non può naturalmente mancar di suscitare una quantità di forme politiche diverse, ma la loro sostanza sarà inevitabilmente la stessa: la dittatura del proletariato».
Il marxismo è quindi l’unica dottrina che supera il miraggio
della collaborazione tra le classi sociali e decreta che la lotta di classe
dovrà necessariamente sfociare nella dittatura del proletariato. Dittatura
che non prospettiamo di breve durata, ma “per tutto un periodo storico”.
Le prime grandi scissioni
In Europa i principali partiti socialdemocratici furono fondati negli ultimi tre decenni dell’Ottocento, a partire dal congresso di Eisenach, del 1869, che vide nascere la Socialdemocrazia tedesca, a quello di Minsk del 1898 dove prese forma organizzata il Partito operaio socialdemocratico russo. Furono costituiti, il danese nel 1878, il francese nel 1881, il belga nel 1885, il norvegese nel 1887, l’austriaco nel 1888, lo svedese nel 1889, l’olandese nel 1894; in Inghilterra nel 1893, nasce l’lndependent Labour Party. Dieci partiti, ognuno con proprie particolarità nazionali, ma tutti caratterizzati da una comune ideologia di classe e che prima della fine del secolo si troveranno riuniti nella Seconda Internazionale.
La fase conclusiva della formazione del Partito Socialista Italiano, nel 1892, cade subito dopo la costituzione della Seconda Internazionale, al centro di questo periodo.
A quella data il movimento operaio ed il Partito italiano, dal punto di vista della preparazione politica, non si trovano per niente in posizione di arretratezza nei confronti dei confratelli europei.
In ambito nazionale senza tema di errore possiamo affermare che quello socialista fu il primo vero partito politico che si vedeva in Italia. Per tutto il Risorgimento, infatti, i partiti borghesi erano stati qualcosa di molto diverso da come saranno concepiti ed opereranno nel Novecento. Non erano allora organizzazioni politiche nettamente individuabili, con programmi ben definiti, statuti e norme regolamentari, ma tendenze, correnti, gruppi di potere e, comunque, sempre delle consorterie. Oggi, con l’avanzato degrado della società borghese, gli attuali partiti si sono di molto riavvicinati alla incompiutezza “risorgimentale”, con la differenza che l’attuale politica borghese si trova nel ramo discendente della parabola, in posizione di capitombolo finale.
Una salda e compatta organizzazione politica, al centro e alla periferia, in Italia nascerà soltanto con il Partito Socialista, rappresentando l’opposto dei partiti tradizionali. Questi, costituiti nelle antiche forme di labili correnti di opinione, di effimere associazioni elettorali o di clientele personali di mestieranti della politica o di mafiosi, cercheranno a più riprese e vanamente di imitare lo stesso tipo di organizzazione. Il più chiaro esempio di questo tentativo di prendere in prestito dal proletariato la forma partito e i suoi metodi di organizzazione ce lo fornirà in Italia il fascismo, quell’informe movimento il cui scopo è la reazione contro la montante avanzata rivoluzionaria del proletariato.
Il differente tipo di organizzazione tra il socialista e i partiti borghesi era determinato dal diverso programma e dalla classe di riferimento, con il partito socialista che inquadrava masse di lavoratori e con le quali manteneva un continuo e costante contatto.
Ma la strada per la quale si era giunti alla sua formazione non era stata né breve né lineare avendo attraversato un difficile processo le cui origini ci riconducono non solo agli inizi dell’Unità d’Italia ma più indietro fino a prima del 1848.
Infatti è questo il periodo in cui si trovano le prime organizzazioni operaie, sebbene con caratteristiche che non hanno ancora una netta struttura di classe, ma che già superano, o tentano di superare, le antiche organizzazioni di tipo corporativo. È tutto un proliferare di quegli elementi embrionali che confluiranno nel futuro organismo complesso ed unitario: società operaie e associazioni di mutuo soccorso che, per quanto commiste di elementi solidaristici e di beneficenza, hanno già in sé il seme di uno sviluppo che, se non è nella mente dei pii fondatori, è però nelle cose stesse e che non si farà attendere a lungo.
È utile ripercorrere il cammino del progressivo affermarsi dell’ideologia socialista all’interno del movimento operaio italiano ed il conseguente suo passaggio da generico movimento a partito di classe. Questa lenta evoluzione viene bene in luce attraverso le risultanze dei successivi congressi operai in cui chiaramente si vede il declino delle vecchie impostazioni e l’affermarsi delle nuove, e come il mutuo soccorso e il paternalismo borghese, agli inizi dominanti, passino via via in secondo piano, mentre prende campo la coscienza e, necessariamente, la pratica della lotta di classe.
Questa evoluzione si configura dapprima attraverso lo scontro fra le correnti politiche borghesi per affermare il proprio predominio sulle classi lavoratrici: o escludendo dalla politica le associazioni operaie (liberali moderati) o tentando di farne la base di un partito democratico (mazziniani e poi radicali).
In seguito si assiste ad una faticosa affermazione dell’autonomia politica del movimento operaio che sente la necessità vitale di liberarsi dalla tutela dei partiti borghesi.
L’anarchismo rappresentò la primitiva forma di ribellione del movimento operaio in Italia contro la democrazia borghese ed il suo Stato. Ma, non riconoscendo la necessità del partito, smarriva la visione piena della lotta di classe; arrivando a negare tutto ciò che rappresenta organizzazione ricadeva infine nell’interclassismo. Al contrario il momento determinante nella storia del socialismo italiano è quando si afferma la necessità del partito perché la lotta di classe, oltre che strumento di difesa, diventi mezzo per la emancipazione del proletariato.
Tutti i momenti essenziali di questo processo storico si svolgono in occasione dei congressi operai e nei congressi ricevono convalida. Possono essere indicati in quattro scissioni che coprono quattro decenni: 1861, scissione dei mazziniani dai moderati; 1871-72, scissione degli internazionalisti dai mazziniani; 1879-80, prima scissione dei socialisti dagli anarchici; 1891-92, seconda scissione dei socialisti dagli anarchici.
Lo sviluppo determinante, nel nostro senso, avviene fra l’80 e il
‘90, quando si afferma la centralità della lotta di classe. Questa modifica
profondamente il tipo della organizzazione operaia, determinando la sua
trasformazione da mutuo soccorso a strumento per la resistenza e la lotta
di emancipazione. Il movimento operaio in Italia raggiunse questo traguardo
quando in altri paesi d’Europa si era già da decenni affermato.
Marx ed Engels sul 1848 in Italia
Marx, presentando il programma della Neue Rheinische Zeitung, aveva affermato in una lettera scritta al giornale fiorentino L’Alba, e pubblicata il 29 giugno 1848: «Difenderemo la causa dell’indipendenza italiana, combatteremo a morte il dispotismo austriaco in Italia, come in Germania e in Polonia. Tendiamo fraternamente la mano al popolo italiano e vogliamo provargli che il popolo tedesco si rifiuta di prendere parte all’oppressione esercitata su di voi dagli stessi uomini che da noi hanno sempre combattuto la libertà. Vogliamo fare tutto il possibile per preparare l’unione e la buona intelligenza di due grandi e libere nazioni che un nefasto sistema di governo ha fatto credersi finora nemiche l’una dell’altra. Domandiamo dunque che la brutale soldatesca austriaca sia senza ritardo ritirata dall’Italia, e che il popolo italiano sia messo nella posizione di poter pronunziare la sua volontà sovrana rispettando la forma di governo che vuole scegliere».
Il movimento rivoluzionario che nel 1848 dilagò per tutta Europa e tanti brividi freddi fece venire a governi e coronati era iniziato in Italia, a Palermo per la precisione. Come descritto nelle note di Marx e di Engels, che vedremo, furono sempre i proletari a dare slancio alla rivoluzione, mentre la pavida borghesia si dava alla latitanza prima e successivamente interveniva per “moderarne” la portata. Esempio tipico può esser considerato quello di Milano dove la classe operaia era stata spossessata della vittoria dalla borghesia moderata e, successivamente, da Carlo Alberto, entrato in lizza solo per tema di una degenerazione del movimento popolare in movimento repubblicano.
Scriveva Cattaneo: «Pare certo che in un manifesto a tutte le corti d’Europa il re [Carlo Alberto] attestasse che, invadendo il Lombardo-Veneto, egli intendeva solo d’impedire che vi sorgesse una repubblica; la quale poi di terra in terra, e per mera virtù d’imitazione, avrebbe abbracciato tutta la penisola».
Pure nella fuga il Savoia non dimenticò la sua funzione controrivoluzionaria: dopo avere lanciato un manifesto al popolo di Milano in cui confermava la solenne promessa di combattere ad oltranza contro l’Austria, concludendo: “io rimango tra voi, con i miei figli”, disarmava la città delle sue artiglierie e munizioni, faceva prelevare dalla zecca milanese quattro milioni, ricavati dall’oro donato dai cittadini alla causa della patria; trattava con Radetzky che riceveva dai piemontesi la consegna di Porta Romana nel momento stesso in cui Carlo Alberto, travestito da carabiniere, usciva da Porta Vercellina.
Il 1848 aveva visto insorgere, tra il gennaio e l’aprile, Palermo e Parigi, Vienna e Milano, Praga e Berlino, e combattere, a seconda dei casi, per la cacciata di una dominazione straniera, contro un’oligarchia di parassiti, contro un sistema feudale, contro il dispotismo monarchico, altrove per la rivendicazione dei diritti popolari e la difesa delle classi più deboli. Il ’48 non vinse, perché dappertutto ai primi, improvvisi successi popolari seguirono rovinose sconfitte; ma diede ai popoli la coscienza della loro forza, dimostrando che ciò che conta è soltanto la forza organizzata su base di classe.
In effetti Marx ed Engels guardavano con molta attenzione all’Italia e confidavano nel proletariato italiano che, malgrado l’assenza di organismi di classe, aveva dato sempre prova di grande combattività ed audacia, mentre non si stancavano di evidenziare il ruolo controrivoluzionario svolto dal governo piemontese.
Per esempio Engels metteva in evidenza come «da Napoli e dalla Sicilia era partita la prima delle rivoluzioni di quest’anno [1848]. Ma il torrente rivoluzionario, che è dilagato sulla vecchia Europa, non si lascia arginare da complotti e colpi di Stato assolutisti. Con la controrivoluzione del 15 maggio, Ferdinando di Borbone ha posto la prima pietra della Repubblica italiana. Già la Calabria è in fiamme, un governo provvisorio è proclamato a Palermo; anche gli Abruzzi insorgeranno» (Neue Rheinische Zeitung, 1 giugno 1848).
Ancora Engels: «Con la stessa rapidità con cui, nel marzo, furono cacciati dalla Lombardia, gli austriaci sono ora tornati da trionfatori, e già sono entrati a Milano. Il popolo italiano non ha indietreggiato dinanzi a nessun sacrificio. A prezzo del suo sangue e dei suoi averi esso era pronto a condurre a termine l’opera iniziata e a conquistare con la lotta la sua indipendenza nazionale. Ma al suo coraggio, al suo entusiasmo, al suo spirito di sacrificio, in nessun luogo hanno risposto coloro che detenevano il potere. Apertamente o segretamente, hanno fatto di tutto, non per mettere in opera i mezzi ad essi affidati per la liberazione dalla brutale tirannia austriaca, ma per paralizzare la forza popolare e per ripristinare in sostanza, il più presto possibile, l’antico ordine di cose (...) Tra i principi nazionali il nemico principale della libertà italiana è stato ed è Carlo Alberto (...) Di Ferdinando di Borbone non c’era da avere gran paura: da molto tempo era ormai smascherato. Carlo Alberto, invece, si faceva osannare come “la spada d’Italia”, come l’eroe il cui brando avrebbe rappresentato la più sicura garanzia della libertà e dell’indipendenza d’Italia (...) La reazione e la restaurazione è completa. Ma è solo provvisoria. Lo spirito rivoluzionario è troppo profondamente penetrato nel popolo, perché esso possa esser domato a lungo. Milano, Brescia ed altre città hanno mostrato nel marzo di che cosa sia capace questo spirito. L’eccesso dei mali condurrà ad una nuova sollevazione» (Neue Rheinische Zeitung, 12 agosto 1848)
Marx: «Finalmente, dopo sei mesi di sconfitte quasi ininterrotte della democrazia, dopo una serie dei più inauditi trionfi della controrivoluzione, finalmente appaiono di nuovo i sintomi di una prossima vittoria del partito rivoluzionario. L’Italia, il paese la cui sollevazione ha costituito il prologo della sollevazione europea del 1848, la cui caduta è stata il prologo della caduta di Vienna, l’Italia si solleva per la seconda volta. La Toscana ha ottenuto un ministero democratico, e Roma si è ora conquistato il suo (...) E mentre il nord dell’Europa è già ripiombato nella servitù del 1847, o difende faticosamente dalla controrivoluzione le conquiste dei primi mesi, l’Italia di nuovo improvvisamente si solleva. Livorno, la sola città italiana che dalla caduta di Milano è stata spronata ad una vittoriosa rivoluzione, Livorno ha finalmente comunicato il suo slancio democratico a tutta la Toscana, ha imposto un ministero decisamente democratico, più decisamente democratico di quel che non si sia mai avuto con una monarchia, e così decisamente democratico quale solo pochi se ne sono avuti con una qualsiasi repubblica; un ministero che, alla caduta di Vienna e al ristabilimento dell’Impero austriaco, risponde con la proclamazione dell’Assemblea costituente italiana. E l’incendio rivoluzionario, che questo ministero democratico ha acceso tra il popolo italiano, ha attecchito: a Roma il popolo, la Guardia nazionale e l’esercito sono insorti come un sol uomo, hanno abbattuto il ministero esitante, controrivoluzionario, hanno conquistato un ministero democratico» (Neue Rheinische Zeitung, 30 novembre 1848).
Engels: «Contro il tradimento e la pusillanimità del governo c’è un solo rimedio: la rivoluzione. E probabilmente saranno necessari proprio un nuovo tradimento di Carlo Alberto, un nuovo atto di infedeltà della nobiltà e della borghesia lombarde per fare fino in fondo la rivoluzione italiana e insieme ad essa la guerra di liberazione italiana. Ma allora guai ai traditori!» (Neue Rheinische Zeitung, 28 marzo 1849).
Engels: «Carlo Alberto, che temeva i repubblicani di Genova e di Torino più degli austriaci, meditava fin da principio il tradimento (...) Ma cosa diciamo mai! Guerra rivoluzionaria, insurrezione di massa e terrore sono cose che la monarchia non accetterà mai. Concluderà la pace col suo peggiore nemico dello stesso rango piuttosto che allearsi col popolo» (Neue Rheinische Zeitung, 4 aprile 1849).
Marx: «L’insurrezione di Milano è significativa in quanto è un sintomo della crisi rivoluzionaria che incombe su tutto il continente europeo. Ed è ammirevole in quanto atto eroico di un pugno di proletari che, armati di soli coltelli, hanno avuto il coraggio di attaccare una cittadella e un esercito di 40 mila soldati tra i migliori d’Europa mentre i figli italiani di Mammona danzavano, cantavano e gozzovigliavano in mezzo alle lacrime e al sangue della loro nazione umiliata e torturata» (New York Daily Tribune, 8 maggio 1853).
Marx: «Aurelio Saffi, che controfirmò il proclama di Mazzini e che ha fatto un giro per l’Italia prima dell’insurrezione, ammette in una lettera al Daily News che “le classi superiori sono immerse o nell’indifferenza o nella disperazione”, e che soltanto il “popolo di Milano”, i proletari abbandonati senza guida ai loro istinti, hanno conservato la fiducia nei destini della patria e, di fronte al dispotismo dei proconsoli austriaci e agli assassini legali dei tribunali militari, si sono preparati all’unanimità a far vendetta. Ora, è un grande progresso per il partito mazziniano l’essersi finalmente convinto che, persino nel caso di insurrezioni nazionali contro il dispotismo straniero, esistono quelle che si è soliti chiamare differenze di classe, e che nei moti rivoluzionari, ai giorni nostri, non è alle classi superiori che si deve guardare. Forse i mazziniani faranno un altro passo avanti e arriveranno a capire che devono occuparsi seriamente delle condizioni materiali della popolazione italiana delle campagne se vogliono che il loro “Dio e popolo” abbia un’eco» (New York Daily Tribune, 4 aprile 1853).
Marx a Joseph Weydemeyer, 11 settembre 1851: «Ritengo che la politica di Mazzini sia fondamentalmente sbagliata. Col suo insistere affinché l’Italia si metta ora in movimento, fa il gioco dell’Austria. D’altra parte trascura di rivolgersi a quella parte dell’Italia che è oppressa da secoli, ai contadini, e in tal modo prepara nuove riserve alla controrivoluzione. Il signor Mazzini conosce soltanto le città con la loro nobiltà liberale e i loro citoyens éclaires. Naturalmente i bisogni materiali delle popolazioni agricole italiane – dissanguate e sistematicamente snervate e incretinite come quelle irlandesi – sono troppo al di sotto del firmamento retorico dei suoi manifesti cosmopolitico-neocattolico-idelogici. Certo ci vorrebbe del coraggio per dichiarare ai borghesi e alla nobiltà che il primo passo, per fare l’indipendenza d’Italia, è la completa emancipazione dei contadini e la trasformazione del loro sistema di mezzadria in libera proprietà borghese. A quanto pare per Mazzini un prestito di 10 milioni di franchi è più rivoluzionario che conquistare 10 milioni di uomini. Io temo che il governo austriaco, in caso di estrema necessità, cambierà esso stesso i rapporti di proprietà in Italia e farà riforme di tipo “galiziano”».
Marx ad Engels, 13 settembre 1851: «Anche il Comitato italiano si è
scisso. Una notevole minoranza è uscita. Mazzini racconta con dolore questo
avvenimento nella Voix du Peuple. I motivi principali dovrebbero
essere: d’abord Dio. Ils ne veulent pas de Dieu. Ensuite, et
c’est plus grave, ils reprochent à Maître Mazzini de travailler dans
l’intérêt autrichien en prêchant l’insurrection, cioè en la précipitant.
Enfin: ils insistent sur un appel direct aux intérêts materiels des paysans
italiens, ce qui ne peut se faire sans attaquer de l’autre côté les
intérêts matériels des bourgeois et de la noblesse libérale, qui forme
la grande phalange mazzinienne [Prima di tutto Dio. Essi non vogliono
Dio. Inoltre, ed è la cosa più grave, rimproverano al Maestro Mazzini
di lavorare nell’interesse degli austriaci predicando l’insurrezione,
cioè facendola precipitare. Infine: essi insistono su di un appello diretto
agli interessi materiali dei contadini italiani, ciò che non può avvenire
senza, d’altro canto, intaccare gli interessi materiali dei borghesi
e della nobiltà liberale, che formano la grande falange mazziniana]. Quest’ultima
cosa è di enorme importanza. Se Mazzini, o chiunque si metta alla testa
dell’agitazione italiana, non trasforma questa volta franchement
e immediatement i contadini da métaires in liberi proprietari
– la situazione dei contadini italiani è spaventosa, ora ho sgobbato
a fondo su questa merda – allora il governo austriaco in caso di rivoluzione
farà ricorso a mezzi galiziani. Ha già minacciato nel Lloyd “una completa
trasformazione della proprietà” e “l’annientamento della irrequieta
nobiltà”. Se a Mazzini non si aprono ancora gli occhi, è un bestione.
Senza dubbio c’entrano gli interessi dell’agitazione. Da dove prendere
i 10 milioni di franchi, se egli si mette contro i borghesi? Come conservare
la nobiltà ai suoi servizi, se le deve annunziare che si tratta anzitutto
della sua espropriazione? Queste sono difficoltà per siffatti demagoghi
della vecchia scuola».
Tragica condizione di proletari e contadini
In effetti Mazzini, al pari del governo piemontese, temeva più una rivoluzione delle classi popolari che non l’Austria stessa. In una lettera del 1834 aveva scritto: «Pur vi sarebbe una molla, ma a tentarla ci vorrebbero ora mezzi ed uomini che non abbiamo; una fratellanza di popolo, vo’ dire di quello che chiamano popolo (...) Questo pensiero di una lega di proletari che pare un sogno, non lo sarebbe ove si toccassero certe molle che un giorno potrebbero diventar pericolose, ma che son sempre potenti nel popolo: e guerra fra il popolo e la tirannide non s’è posta ancora in Italia (...) E parliamo di altro, perché non possiamo realizzare: l’ho detto a te, e non è a dirsi ad altri, perché il solo pensiero spaventerebbe i più» (Mazzini a Gaspare Ordono de Rosales).
La condizione dei contadini e della classe lavoratrice in generale era tragica se si pensa che Carlo Cattaneo si augurava che il progresso scientifico finalmente riuscisse a «pascere la fame, dar ospizio alla vecchiezza e conforto all’infermità, interporre una qualche più umana differenza tra il pasto del bestiame e l’avaro e acido pane del lavoratore; tra le fatiche del giumento e quelle della povera contadina, prolungarle d’un qualche anno le forze della gioventù».
Anche se in modo certamente approssimativo possiamo affermare che tra Piemonte e Lombardo-Veneto in pratica vi era una situazione di identità nello sfruttamento padronale e nelle condizioni di vita dei contadini. Trattando in modo specifico delle risaie, Cattaneo scriveva: «L’estate è terribile nelle risaie dove la vita degli uomini si miete abbondantemente quasi come il riso raccolto». E la Belgioioso Trivulzio, dopo avere descritto lo spietato lavoro di quella povera gente «con i piedi nell’acqua stagnante, battuti dai raggi di un sole cocente che arde loro il capo, mentre agghiacciansi le gambe» ci dice a che punto arrivasse la miseria della popolazione rurale: «questo modo di lavorare, sorgente inesausta di febbri quotidiane, terzane, quartane, ecc. è scopo ai desideri dei giovani, dei vecchi e perfino degli infermi, che non di rado si trascinano fuori dai letti per tuffarsi in quel fango e toccare una buona mercede, e tanto vi si trattengono, finché ai compagni conviene portarli alle case» (“Della condizione dei contadini della Bassa Lombardia”. 1846).
Il vitto dei contadini era formato quasi esclusivamente di granoturco, soprattutto in forma di polenta e la conseguenza implacabile è la pellagra. Agli anni di carestia, ‘46 e ‘47, i contadini erano già arrivati stremati dal sistema fiscale che colpiva al massimo grado l’agricoltura e riusciva a essere particolarmente odioso attraverso le pesantissime imposte dirette, la lunga coscrizione obbligatoria che privava di valide braccia le famiglie contadine.
Tali erano le condizioni dei contadini della pianura padana piemontese e lombarda, non diverse da quelle degli abitanti le zone montane e le campagne dello Stato Pontificio e del Regno delle Due Sicilie.
Invece, per rendersi conto di quella che, in questo periodo preparatorio della moderna industria, doveva essere la condizione operaia, basta prendere in esame il lavoro dei fanciulli nelle fabbriche. Nel V Congresso degli Scienziati, nel 1843, a Lucca, Giuseppe Sacchi levava l’allarme contro «la misera condizione dei fanciulli industriali in diverse località, per lavori sempre penosi, spesso mortiferi e fatalmente durevoli da 10 fino a 14 ore al giorno; per la negletta igiene dei locali e forse degli alimenti; in fine per quella voracità industriale che, in niun conto ponendo i principi di sociale carità, attinge le sue regole nella bilancia di un iniquo ed impudente tornaconto». Nel rapporto, presentato dallo stesso Sacchi e da altri colleghi, al VI Congresso si legge che nelle fabbriche lavoravano persino fanciulli dell’età di quattro anni per un orario, che talvolta arrivava alle sedici ore giornaliere. Questi bambini erano il terzo o la metà delle maestranze e, spesso reclutati negli orfanotrofi di carità, erano condannati a marcire nelle fabbriche. Particolarmente là dove l’industria tessile si sviluppa, in breve tempo la filanda li trasforma in gialle larve e la mortalità è altissima. Il Sacchi parla di tratta dei bianchi e denunzia che «nel solo distretto di Busto Arsizio, si ritirarono 405 trovatelli dall’ospizio degli Esposti di Milano, dal 1834 al 1839, per occuparli nelle filature di cotone».
Nel 1843 un’ordinanza pubblica proibirà l’impiego dei fanciulli al di sotto di dodici anni nel lavoro notturno e di adottare, nei loro riguardi pene corporali! Ma la Camera di Commercio di Milano, nel 1846, definiva tutto questo “lavoro innocuo e semplice”.
Dalle varie statistiche e testimonianze riportate dal Prato per il Piemonte, risulta che generalmente, il salario di una giornata era inferiore – e anche notevolmente – al costo dell’alimentazione per una giornata. Se ne può dedurre quale fosse la condizione dell’operaio in Piemonte, quell’operaio a cui molti rimproveravano l’imprevidenza e consigliavano il risparmio. In confronto ai salari percepiti dai proletari delle città, quelli delle fabbriche sparse nelle campagne erano molto più bassi, dove la gente contadina, oltre a subire complessi atavici di soggezione era abituata ad accettare il lavoro come un atto di bontà del padrone.
Quanto a Roma, scriveva ai princìpi del secolo il De Cesare: «Il ceto popolare era indigente più che non fosse, o non sembrasse, nelle altre grandi città di Europa; ma soccorrevano infinite istituzioni di beneficenza. Gli operai, che lavoravano senza l’aiuto della beneficenza, costituivano la minoranza della classe; il lavoro era intermittente, tutto personale, non collettivo, non sorretto dal piccolo credito. L’artista era operaio di sé stesso, e si abbandonava, liberamente, durante il lavoro ad ogni riposo o distrazione. Spesso dissipava in un giorno il guadagno di una settimana. Tale irregolarità nella vita era anche effetto della convinzione che in nessun caso sarebbe morto di fame perché avrebbero provveduto le istituzioni di beneficenza» (G. Trevisani, “Storia del movimento operaio italiano”). Era questa la caratteristica di quell’enorme sottoproletariato parassita, così bene descritto dal Belli, che viveva ai margini della corte pontificia, delle case magnatizie, di chiese, conventi e pellegrinaggi.
Per descrivere le sorti delle classi lavoratrici ci vorrebbe uno lavoro
esclusivamente dedicato a questo problema, ed i brevi cenni che abbiamo
dato sono appena sufficienti a dare una parziale immagine della situazione.
Ma anche da questa brevissima descrizione si può comprendere come il patriota
Giuseppe Mazzini si guardasse bene dal rivolgere la sua propaganda verso
il contadiname ed il proletariato, perché, come lui stesso scrive: “il
solo pensiero spaventerebbe i più” e quei “più” erano coloro ai
quali Mazzini si rivolgeva per il “prestito di 10 milioni di franchi”.
In più, lo spettro del comunismo spaventava Mazzini non meno di quanto
spaventasse Pio IX.
Il proletariato si mette in movimento
Mazzini aveva ben chiaro che «esistono in Italia come da per tutto due classi di uomini: gli uni possessori esclusivamente degli elementi di ogni lavoro, terre, credito o capitali; gli altri, privi di tutto fuorché delle loro braccia, affranti dalla miseria, tormentati dal lavoro e dalla insufficienza dei salari». Ma sapeva, e temeva, il fatto che «fra i molti operai italiani che viaggiano fuori d’Italia, parecchi sono legati ad associazioni straniere, specialmente francesi (...) Le più hanno scritto sulla loro bandiera: comunione dei beni, abolizione della proprietà».
Di agitazioni operaie e di scioperi precedenti al ‘46 si hanno scarse notizie. Ciò è spiegabile sia per l’esiguità della classe operaia sia per la sua frammentazione; perciò le agitazioni e gli scioperi, non impegnando ancora le categorie, nascevano e si risolvevano nell’interno di una fabbrica o fra un limitato gruppo di lavoratori.
Eppure già attraverso queste prime agitazioni e scioperi, anche se locali, si andava formando una coscienza di classe. Durante le crisi del ‘46-’47 le manifestazioni operaie si estesero. Violenti furono, ad esempio, nel marzo 1847, gli scioperi a Malalborgo e S. Pietro in Casale, nel Ferrarese, per ottenere aumenti salariali; la polizia intervenne contro gli scioperanti. Anche la Toscana, dove gli operai avevano goduto, fino ad allora, oltre che di un limitato benessere di un certo clima di libertà, fu interessata dalle sommosse proletarie. Nel febbraio a Firenze la polizia fu sopraffatta dalla popolazione che assaltò le carceri del Bargello e liberò i detenuti per debiti.
A Livorno, dove grazie all’attività del porto il proletariato cominciava ad avere una certa consistenza, verso la fine del ‘47 si ebbe uno sciopero di garzoni fornai e panettieri e nel gennaio dell’anno successivo avremo notizia di una coalizione di operai per l’aumento del salario e la riduzione del lavoro. Vedremo fra pochi mesi questo proletariato scendere in lotta per le sue rivendicazioni.
A Milano, i segni della determinazione della classe operaia, anche se non organizzata, sono precedenti all’insurrezione e fu sangue proletario quello versato il 3 gennaio 1848, durante lo “sciopero del fumo”, per colpire l’erario: gli operai uscivano dalle fabbriche con le mani in tasca, respingendo l’offerta di sigari fatta da provocatori.
Il popolo che a Milano sale sulle barricate e, alla quinta giornata, lasciando a “i sciuri” l’eroismo della sesta, mette in fuga da Porta Tosa l’esercito austriaco, non è un amalgama di ceti popolari, con mescolanze borghesi o piccolo borghesi; e non è nemmeno sottoproletariato: è schietta, autentica, classe operaia. Il motivo per cui borghesi e nobili a Milano si astennero dal partecipare alla rivoluzione fu il terrore della sua pericolosa portata internazionale e sociale. Il carattere esclusivamente proletario del moto lo dimostrò Carlo Cattaneo rendendo noto il registro mortuario delle barricate di Milano. Dopo avere enumerati i caduti delle altre classi commentava: «ma la maggior turba delli uccisi doveva essere tra gli operai: le barricate e li operai vanno insieme ormai come il cavallo e il cavaliere».
Nel ‘48 e nel ‘49 gli operai che combattono per la libertà non appaiono con una loro propria fisionomia di classe, perché vengono compresi sotto la generica accezione di “popolo”, in una massa che dagli strati più umili del ceto medio scende fino al sottoproletariato. Ma è già individuabile la loro funzione rivoluzionaria e da protagonisti del movimento popolare.
A Milano, pochi giorni dopo la liberazione scoppia lo sciopero dei garzoni sarti e calzolai. A Genova scioperano il 4 aprile i carrozzieri e i facchini, e il 5 e il 6 i tipografi dei quotidiani per rivendicare il miglioramento salariale e la riduzione dell’orario di lavoro. I tre giornali locali riuscirono a reclutare crumiri solo per stampare un comunicato comune, nel quale, tra l’altro, dopo allusioni agli avvenimenti francesi, si affermava: «L’esempio può essere contagioso. I sussurratori non mancano; tali sono sovente gli autori di storte idee politiche non reggenti alla discussione; essi vanno vendicandosi nelle tenebre; sommuovono le più vili passioni. Vigiliamo! per l’onore di questa città, per amore della causa italiana!».
A breve distanza si verificano, a Napoli, dimostrazioni in cui la classe operaia profitta del nuovo clima politico per avanzare rivendicazioni economiche; infatti nell’aprile del 1848 si ebbero dimostrazioni di fabbricatori e di sarti. Un assembramento di tipografi fu disperso a fucilate da parte della Guardia Nazionale. A Torino, il 22 maggio, ebbe luogo una dimostrazione di operai che chiedevano lavoro.
Particolarmente attiva fu la classe operaia in Toscana: agitazioni a Lucca e moti popolari a Firenze, a Fucecchio, a Empoli e altrove. Ma gli avvenimenti più notevoli si ebbero a Livorno. L’8 maggio 1848 si ebbe un tumulto di muratori che preoccupò soprattutto i borghesi democratici. A più riprese Guerrazzi e altri del centro democratico intervennero per impedire che il controllo del movimento uscisse dalle mani della borghesia. Particolarmente gravi furono i tumulti del 23 agosto 1848, iniziati da facchini ed altre categorie operaie. Queste manifestazioni di lotta ebbero notevoli ripercussioni in tutta la Toscana e spaventarono a morte borghesi di ogni tinta, conservatori e democratici. Gino Capponi definì Livorno “centro maggiore dell’azione malefica”.
A Bologna, dove il popolo minuto versava nella miseria più nera, la sommossa dell’8 agosto 1848, alla Montagnola, fu sostenuta dai facchini, attacchini, lavoranti la canapa, a cui si era aggiunta la gente della campagna. Insurrezione spontanea in cui le richieste politiche si mescolavano a quelle economiche dettate dalla miseria.
A distanza di un anno circa, la classe operaia era protagonista, a Brescia, delle eroiche dieci giornate.
Gli avvenimenti del ‘48 avevano messo in evidenza di quale importanza fosse per lo sviluppo della rivoluzione italiana l’atteggiamento delle masse popolari, dimostrando che dove artigiani, operai, contadini erano stati disposti a battersi, là la lotta era riuscita vittoriosa; ma nel corso della rivoluzione era anche apparso chiaramente che le masse, quando erano scese sul terreno dell’azione, si erano messe in movimento soprattutto perché avevano identificato la lotta per la libertà e l’indipendenza, contro i principi assoluti e contro l’Austria, con la lotta per il miglioramento delle loro condizioni di vita, fosse questa la lotta per una esistenza più civile nelle città, o la lotta per la terra e per patti meno vessatori nelle campagne.
A dimostrazione del fatto che i nuovi governi borghesi democratici non sono affatto più disposti di quelli assoluti a prendersi cura delle necessità della classe operaia, ma caso mai il contrario, ricorderemo solo che lo Stato Sardo, nel decennio del ’40 fu teatro di ininterrotte agitazioni e scioperi per rivendicazioni salariali, poiché la crescente pressione fiscale letteralmente strangolava la popolazione. Tutte le categorie operaie furono costrette a scendere in piazza, ma soprattutto fu dura la lotta dei tipografi e quella dei facchini del porto di Genova. Fu in questa occasione che Cavour diede all’intendente della città di Genova le seguenti disposizioni: «Il governo è deciso a reprimere ogni tentativo di disordine con suprema energia. Faremo come in Inghilterra. Si va a rilento a far fuoco, ma quando si sparano i fucili, si tira a cintura d’uomo, non in aria».
Questa era la situazione del proletariato in Italia quando nacquero
le prime associazioni operaie.
(Continua del numero scorso)
(Indice)
I Cavalieri del Lavoro
Le origini dei Cavalieri del Lavoro (Knights of Labor, K.L.) risalgono ai tempi della National Labor Union, anche se la loro presenza si rese evidente solo molti anni più tardi. Nel 1869 un piccolo gruppo di lavoratori dell’abbigliamento costituì a Philadelphia il “Noble and Holy Order of the Knights of Labor”, dopo il disfacimento di un precedente sindacato della categoria. Alla base della nuova organizzazione stava la convinzione che i precedenti sindacati avevano fallito per mancanza di segretezza. Si diede quindi una strutturazione da società segreta, con adepti che al vertice avevano titoli stravaganti come Gran Maestro Lavoratore (segretario generale, il primo fu Uriah Stephens), Venerabile Saggio, Cavaliere Sconosciuto, Caposquadra Meritevole, ecc.
Numerosi erano a quell’epoca i sindacati con titoli pomposi per i loro dirigenti ed elaborate cerimonie, ma nessuno si avvicinò ai rituali dei K.L. Quando un candidato era invitato a unirsi a loro (e fino al 1878 non poteva che essere un salariato) partecipava a una riunione segreta nella quale come prima cosa doveva rispondere a tre domande: «Credi tu in Dio, Creatore e Padre di tutti noi? Obbedisci tu alla Regola Universale di Dio, per cui dovrai guadagnarti il pane con il sudore della tua fronte? Vuoi tu prendere un impegno solenne che ti leghi alla segretezza, obbedienza e mutua assistenza?» Gli veniva quindi richiesto di impegnarsi a rispettare le leggi e i regolamenti dell’ordine, e a «difendere vita, interessi, reputazione e famiglia di tutti gli autentici membri dell’Ordine, aiutare e assistere i Fratelli, occupati e disoccupati, sfortunati o in disgrazia, e procurare lavoro, garantire una giusta remunerazione, sollevare dal disagio invitando anche altri ad aiutarli, in modo che tutti i Fratelli e le loro famiglie possano ricevere e godere i giusti frutti del lavoro e esercitare la loro arte».
Dopo la promessa il nuovo membro veniva condotto alla Base del Santuario, la sala di riunione, per ricevere istruzioni dal Caposquadra Meritevole. Qui gli veniva spiegato che l’organizzazione dei lavoratori era resa necessaria in quanto, in ogni settore produttivo, il capitale «unisce e, coscientemente o no, schiaccia le tante speranze dei lavoratori, calpestando nella polvere la povera umanità». Ma i K.L. non propugnavano «alcun conflitto con l’impresa legittima, né antagonismo con il capitale», solo denunciavano che uomini «accecati dall’interesse» trascuravano i diritti degli altri «e talvolta addirittura violavano i diritti degli indifesi». Per prevenire tali violazioni i K.L. intendevano «creare una sana opinione pubblica sul lavoro (il solo creatore del valore), e su quanto giusto fosse che questo ricevesse la piena, giusta quota del valore del capitale creato». Avrebbero quindi sostenuto tutte le leggi tendenti «a armonizzare gli interessi del lavoro e del capitale (...) e anche quelle leggi tendenti ad attenuare la durezza del lavoro». Non approvavano gli scioperi generali, ma ove si rendesse «giustamente necessario sollecitare un oppressore, noi proteggeremo e aiuteremo ogni nostro adepto che possa ricevere danno, e, nei limiti del possibile, estenderemo il nostro aiuto a tutti i settori dell’onesto lavoro».
Dopo essere stato istruito sugli obbiettivi dei K.L. il candidato veniva
affidato al Venerabile Saggio, che gli illustrava la organizzazione segreta
dell’Ordine, controlli, parole d’ordine, e come sapere le date di riunione.
Le riunioni, spesso tenute nei boschi, erano convocate da scritte comprensibili
solo per gli iniziati, su marciapiedi o staccionate. Fino al 1879 il nome
dell’Ordine non veniva mai pronunziato ed era chiamato “Cinque stelle”
poiché si firmava con cinque asterischi.
Utopismo e religione
Per capire meglio gli scopi dei K.L. sarà utile seguire il pensiero di U. Stephens, che fu tra i fondatori dell’Ordine e suo Maestro Lavoratore fino al 1878. La parola “solidarietà” era fondamentale; il movimento operaio doveva essere potente e unificato per affrontare la forza del capitale organizzato. La sola organizzazione operaia capace di fronteggiare il potere del capitale sarebbe stata quella che avesse unito i lavoratori di tutti i mestieri, e che avesse scopi universali. Considerava i sindacati troppo ristretti, nella composizione e nell’azione: invece di unire tutti i lavoratori escludevano i non specializzati, i negri, e altri gruppi operai. Siccome tutti i lavoratori avevano interessi comuni, avrebbero dovuto appartenere ad un’unica associazione, uniti da legami di “fratellanza universale”. Un’unità da conquistare attraverso l’applicazione di tre principi: segretezza, cooperazione e educazione. La segretezza serviva tre scopi: avrebbe protetto l’operaio dalle persecuzioni del padrone ostile ai sindacati; avrebbe impedito la scoperta dei progetti degli operai da parte dei padroni; infine, i riti segreti avrebbero sottolineato per l’adepto l’importanza dell’organizzazione cui aderiva. Nel segreto delle sale di riunione tutte le differenze di mestiere, religione, nazionalità, razza e politica scomparivano.
Per Stephens non erano sufficienti i miglioramenti che si potevano ottenere all’interno del sistema basato sul salario; un obbiettivo dei K.L. era il raggiungimento di «una completa emancipazione dei produttori di ricchezza dall’asservimento e sofferenza della schiavitù salariata». Attraverso la cooperazione i K.L. avrebbero potuto garantire migliori condizioni di vita, e gradualmente sostituirla al capitalismo.
Una ispirazione profondamente religiosa stava alla base dell’Ordine: «L’associazione deve basare le sue rivendicazioni su qualcosa di più elevato che la partecipazione ai profitti e alle retribuzioni e la riduzione delle ore e della fatica del lavoro. Questi non sono altro che gli effetti fisici e gli obbiettivi di natura più grossolana e, anche se sono fondamentali, rappresentano solo il punto di partenza per una causa più elevata, di più nobile natura. La ragione ultima, quella vera, deve fondarsi sulla più alta e divina natura dell’uomo, la sua nobile capacità di fare il bene. La fatica eccessiva e la paga limitata riducono, ottundono e degradano queste divine facoltà, fino al punto che diventa irriconoscibile l’immagine di Dio, a somiglianza della quale l’uomo fu creato perché, secondo il disegno del suo Creatore, sempre la potesse esibire».
Quindi non solo e, almeno inizialmente, non tanto lotte, quanto attività come l’educazione sarebbero servite ad abbattere pregiudizi e antagonismi che dividevano la classe operaia, ed erano quindi fondamentali per il raggiungimento dei fini ultimi e immediati dei K.L. In questo senso le riunioni erano molto attive, e l’economia politica un campo rilevante di discussione e formazione, anche in vista della partecipazione degli iscritti alla vita politica.
Lo scopo era quindi di unire tutti i lavoratori in una organizzazione generale di massa senza distinzione di credo, sesso, razza. «Non pretendo di possedere poteri profetici – pare abbia detto Stephens – ma vedo nel futuro un’organizzazione che coprirà il mondo. Sarà composta di uomini e donne di ogni mestiere, credo e colore».
Sicuramente una visione più vasta rispetto alle organizzazioni operaie dell’epoca, essendo queste, quelle che sopravvivevano, rinchiuse in angusti orizzonti di categoria o addirittura di fabbrica; né gli argomenti discussi esulavano da quelli prettamente sindacali come salario e condizioni di lavoro. Senza grandi basi teoriche, la base ideale dei K.L. si potrebbe ascrivere alla categoria di uno utopismo stantio e volgarizzato all’americana.
Ma il portato dei K.L., soprattutto negli anni che seguirono, fu ben
maggiore e diverso da quello che profetizzavano i suoi teorici. Intanto,
nei primi anni solo comprovati lavoratori dell’abbigliamento, e in particolare
i tagliatori, erano ammessi alle sezioni e le loro riunioni assomigliavano
in tutto a normali riunioni sindacali di categoria. Nel novero dei lavoratori
erano però inclusi anche i padroni, anche se la componente borghese non
poteva superare il quarto degli effettivi di ciascuna sezione, e con esclusione
di banchieri, medici, tagliatori di cedole e produttori di liquori, considerati
membri non produttivi della società; il che rispecchia l’idea dei fondatori,
che vi fosse una fondamentale comunanza di interessi tra padroni e operai.
Le donne furono ammesse solo a partire dal 1882, mentre non erano accetti
gli asiatici, cioè i cinesi. Le regole legate alla categoria operaia rimasero
valide fino a che l’Ordine si estese alle regioni del carbone e della
siderurgia della Pennsylvania occidentale, nel corso della lunga depressione,
e solo allora l’Ordine cominciò a far presa sulla classe.
Scopi e metodi
I K.L. rimasero nell’ombra per diversi anni non tanto per la segretezza quanto per la loro scarsa penetrazione nella classe. Furono gli anni della depressione a farli lentamente salire di popolarità tra i lavoratori. Tra il 1873 e il 1875 la loro attività si allargò da Philadelphia agli Stati confinanti e verso l’ovest della Pennsylvania, zona di miniere e di siderurgia. Si trattava di una crescita irregolare: gruppi di operai aderivano per poi spesso andarsene quando capivano che i K.L. facevano ben poco per aiutarli ad avere migliori salari. Siccome spesso all’adesione seguivano cocenti delusioni, le dipartite erano tanto frequenti quanto gli arrivi.
In ogni modo crescita vi fu: a fine 1877, in seguito al grande sciopero ferroviario, i K.L. erano presenti in 8 Stati, dall’Illinois al Massachusetts, al West Virginia; nel 1880 gli Stati interessati erano saliti a 26. Durante lo sciopero i militanti K.L. avevano partecipato a titolo individuale, mentre l’Ordine si era limitato a raccomandare moderazione, metodi pacifici, isolamento degli elementi più radicali. La necessità di regole e di una struttura organizzativa degna di questo nome si faceva sentire via via che l’organizzazione si espandeva, mentre appariva altrettanto necessario il rigetto della segretezza, che costituiva un punto debole dell’immagine dell’Ordine, oltre a rendere difficile il proselitismo, e anche l’azione sindacale.
Una convenzione quindi, nel 1878, stese un “Preamble and declaration of Principles”, che sarebbe rimasto l’unico documento programmatico dell’Ordine in tutta la sua storia. Dopo aver denunciato il pericolo dovuto all’aggressività dei grandi capitalisti in quanto tendente a impoverire e degradare le masse lavoratrici, il documento afferma che questa ingiusta accumulazione, e il potere che ne deriva, vanno messi a freno, se si vuole godere in pieno delle benedizioni della vita. Un compito cui solo i lavoratori possono assolvere. Il documento continua: «Abbiamo costituito l’Ordine dei Cavalieri del Lavoro, allo scopo di organizzare e dirigere la forza delle masse operaie». Non «come partito politico», anche se quando si vota si dovranno sostenere i candidati favorevoli alle misure «che solo attraverso la legislazione possono essere raggiunte», indipendentemente dal partito di appartenenza.
Tra gli scopi dell’Ordine si elencano sinteticamente i più significativi: Assicurare ai lavoratori il pieno godimento della ricchezza che creano, sufficiente tempo libero in cui sviluppare le loro facoltà. Per garantire questi risultati si chiede allo Stato: un Ufficio Statistico per conoscere le reali condizioni delle masse lavoratrici; che le terre pubbliche siano riservate a chi le lavora; abolizione delle leggi che comportano ingiustizia nei confronti del lavoro; misure per la salute e sicurezza dei lavoratori; riconoscimento, per incorporazione, di sindacati e simili; paga corrisposta ogni settimana per legge; istituzione dell’arbitrato obbligatorio; divieto di impiegare fanciulli al di sotto dei 15 anni di età; divieto di impiegare lavoro di forzati; tassazione progressiva; proibizione dell’importazione di lavoro a contratto dall’estero; nazionalizzazione di tutti i servizi più importanti...
Sono impegni dell’Ordine: istituzioni cooperative che possano superare il sistema del salario; garantire a entrambi i sessi salario uguale per uguale lavoro; otto ore di lavoro giornaliere; convincere i padroni ad accettare l’arbitrato, affinché si stabiliscano rapporti di simpatia e gli scioperi divengano superflui.
A questo punto vale la pena di ricordare che il termine “arbitrato” per lungo tempo negli Stati Uniti avrà un significato diverso da quello che gli si attribuisce oggi, a quell’epoca indicava “contratto di lavoro”, ogni accordo raggiunto per via di contrattazione collettiva. Non era facile, in quei tempi di battaglie sindacali degne di questo nome, costringere i padroni alla trattativa.
In realtà lo sciopero era però aborrito, e il riferimento a una legislazione appropriata, per migliorare le condizioni di vita della classe operaia, la dice lunga sulla bellicosità dell’Ordine. Restava il proponimento di organizzare l’intera classe, e il programma di abolire, “gradualmente”, la schiavitù salariata, con metodi non solo non adeguati ma controproducenti.
Si costituì un organo direttivo, la General Assembly, che aveva in teoria tutti i poteri. Anche se statutariamente appariva una organizzazione altamente centralizzata, nella realtà le assemblee locali e le sezioni dell’Ordine erano autonome, e agivano a loro piacimento; il che significava che si muovevano in funzione delle reali necessità delle strutture sindacali e di lotta che erano presenti localmente, e quindi secondo indirizzi spesso assai diversi da quelli teorizzati dai dirigenti. Si evidenziò ben presto un conflitto tra vertice e base. Mentre i proletari veri non avevano bisogno che si insegnasse loro che le conquiste si ottenevano solo con scioperi e altri tipi di azione diretta, i capi non facevano che ripetere quanto futili gli scioperi fossero, e che solo con il lavoro fatto in proprio, il “self employment”, si potevano ottenere vittorie durature. Gli scioperi non potevano risolvere i problemi della classe operaia, disse nel 1882 Terence V. Powderly, che era succeduto a Stephens nel 1879, perché «gli scioperi non possono modificare il sistema dell’apprendistato, uno sciopero non può cambiare regole ingiuste nell’amministrazione della giustizia; né può uno sciopero regolare la legge della domanda e dell’offerta, perché se blocca l’offerta taglia anche la domanda, con lavoratori che perdono il lavoro e quindi il loro potere d’acquisto».
Considerazioni evidentemente opinabili, generate dalle sconfitte degli anni settanta, ma in base alle quali la dirigenza invitava a destinare i fondi per creare cooperative piuttosto che nel sostegno di lotte sindacali. Fu escogitato anche un meccanismo di consultazioni talmente complicato da rendere impossibile la decisione di sostenere uno sciopero. Per esempio dal 1886 non si poteva scioperare se in una votazione a scrutinio segreto non si raggiungevano almeno i due terzi dei voti; si poteva scioperare solo dopo che un membro del comitato esecutivo avesse tentato un arbitrato, e lo sciopero doveva essere indetto dallo stesso esecutivo.
Ma tutto ciò non fu sufficiente a convincere gli iscritti dell’inutilità degli scioperi; anche perché, se negli anni settanta le lotte si risolvevano in sconfitte, la cosa cominciò a cambiare negli anni ottanta. Anche i padroni lo compresero, e non si peritarono di fare serrate e licenziare membri dei K.L. Non meno insicuro fu l’atteggiamento dell’Ordine nei confronti dei sindacati di categoria. Agli inizi Stephens difendeva l’idea di una grande associazione generale, ritenendo l’associazionismo di categoria storicamente superato; poi si ammisero all’interno dell’Ordine gruppi organizzati per categoria. Negli anni successivi le posizioni in merito oscillarono più volte, rispecchiando il contrasto tra le idee della dirigenza e il bisogno di organizzazione dei proletari. Alla fine prevalse l’accettazione di federazioni sindacali di mestiere, anche grazie all’emergere di una organizzazione rivale, nel 1881, la Federation of Organized Trades and Labor Unions of the United States and Canada, quella che sarebbe dopo qualche anno divenuta l’A.F.L.
Poco dopo la convenzione che approvò la “Declaration”, nel 1882,
l’Ordine divenne pubblico presentandosi apertamente ai lavoratori d’America
e informandoli dei suoi obbiettivi. Cerimonie di iniziazione e rituali
furono aboliti. L’Ordine vide i suoi effettivi crescere rapidamente:
da poco più di 9.000 membri nel 1878 erano saliti a oltre 28.000 nel 1880,
e saltò a quasi 52.000 nel 1883; ma era solo l’inizio.
La classe incontra i Cavalieri del Lavoro
Eppure la situazione in quegli anni non era del tutto favorevole. Nel 1883 era iniziata una nuova depressione e la lotta di classe faceva i conti con una serie di sconfitte. Il decollo vero avrebbe avuto luogo in seguito a due eventi verificatisi nel 1885, il successo nei boicottaggi e gli scioperi, vittoriosi, contro tre compagnie ferroviarie di Gould, uno dei “robber barons”, plutocrati senza scrupoli, quali Carnegie, Morgan, Rockefeller, che ben rappresentavano il capitalismo rapace e spietato dell’America fine secolo.
I boicottaggi consistevano nel rifiuto degli aderenti alle organizzazioni proletarie di acquistare da aziende, giornali, negozi che assumevano posizioni o agivano contro i loro interessi. Funzionavano anche per tenere uniti i lavoratori quando non si riusciva a proclamare uno sciopero o per continuare un minimo di mobilitazione dopo che uno sciopero era fallito. Fu un’ondata di attivismo che riuscì a costringere alcune aziende a cambiare atteggiamento verso le organizzazioni operaie.
Ma il grande salto negli effettivi dell’organizzazione i K.L. l’ottennero grazie al loro ruolo negli scioperi, arma che i dirigenti non amavano ma che dovettero impugnare e brandire in forza degli avvenimenti e della pressione della classe operaia.
Di tutti i robber barons Jay Gould era il più odiato, Marx lo definisce “il tentacolare re delle ferrovie e truffatore della finanza”. La sua filosofia sindacale si riassumeva nella frase: “Posso assoldare la metà della classe operaia per uccidere l’altra metà”. Si vantava inoltre della sua abitudine di assumere operai a paghe da fame, e di mantenerli a quel livello finché gli servivano.
Nel 1883 i K.L. guidarono con successo uno sciopero di telegrafisti, parte dei quali dipendenti della Western Union, una società ferroviaria controllata da Gould. I sindacati di questa società erano stati brutalmente repressi e i lavoratori costretti a firmare giuramenti impegnativi. Questo però richiamò su Gould l’attenzione dell’Ordine, il quale concentrò la sua attenzione su una serie di categorie di ferrovieri, prevalentemente manovalanza non rappresentata nei sindacati più forti, che tutelavano solo macchinisti, fuochisti, frenatori, conduttori. Quando nel febbraio 1885 la Missouri Pacific Railroad e altre società del Sud-Ovest ridussero del 5% i salari degli operai delle officine e dei magazzini, dopo averli abbassati del 10% nell’ottobre precedente, la risposta fu immediata e si estese a tutto il sistema ferroviario del Texas, Kansas e Missouri. Le sezioni locali dei K.L. furono pronte a sostenere gli scioperanti e fu poi decisivo il sostegno dei sindacati delle altre categorie. Il traffico merci della regione si bloccò completamente, e a Gould non restò che rimangiarsi tutti i tagli salariali.
La principale conseguenza della sonante vittoria fu l’ascesa del prestigio dei K.L., che si tradusse in adesioni di migliaia di singoli e di intere società operaie locali. Gould non si rassegnò, e tentò di colpire i K.L. più attivi tra i ferrovieri, licenziandoli e chiudendo le officine. La risposta fu un’ulteriore mobilitazione in tutto il settore ferroviario che minacciava di ripetere la rivolta del 1877. Che non vi fu solo perché Gould capì che era il momento di mutare radicalmente atteggiamento di fronte alla mobilitazione organizzata della classe: proclamò addirittura di credere nel sindacalismo operaio e nell’arbitrato, e di essere stato frainteso da malintenzionati. I sindacalisti licenziati tornarono al loro posto, e la società si impegnò per il futuro a non utilizzare tattiche discriminatorie nei loro confronti. Per la prima volta un’organizzazione di lavoratori aveva trattato su un piano di parità con il più potente capitalista del Paese.
Ancora una volta il successo determinò un’ondata di iscrizioni all’Ordine: sezioni nascevano ovunque, e il numero degli iscritti aumentò, dal luglio 1885 all’ottobre 1886, da 110.000 a 700.000 (e qualcuno ha stimato un milione). Finalmente erano cancellate le umiliazioni ricevute dalla classe nel corso dell’ultima depressione; dei K.L. si dimenticò una serie di insuccessi anche importanti conseguiti nel biennio precedente, per il suo atteggiamento tutt’altro che convinto e combattivo.
I K.L. fondarono sezioni in altre parti del mondo, Australia, Nuova
Zelanda, Inghilterra, Irlanda, e anche in paesi non anglosassoni quali
Francia, Belgio, Italia. E, naturalmente, in Canada.
Atteggiamento verso le minoranze all’interno della classe
Nonostante i K.L. avessero come caratteristica l’attitudine a inquadrare tutti i lavoratori, senza distinzione di sesso, razza o nazionalità, l’atteggiamento verso gli asiatici, cioè in particolare i cinesi, fu ben altro. Il Grand Master Workman Powderly affermò che gli asiatici non potevano divenire membri dell’Ordine, e che non avrebbero nemmeno dovuto risiedere negli Stati Uniti. Rappresentanti dell’Ordine non si peritarono di sostenere davanti al Congresso che i cinesi dovevano essere espulsi dal Paese, e rivendicarono dei meriti nell’approvazione di una legge anti-cinese del 1882. Alcuni, della costa occidentale, si vantarono addirittura di aver fomentato terrorismo xenofobo, come a Rock Spring, Wyoming, dove minatori bianchi avevano attaccato una comunità cinese, uccidendone a decine, dando fiamme alle case, ecc. Invece di denunciarli Powderly attaccò i lavoratori cinesi, incolpandoli delle violenze, pur deplorando in modo generico la violenza.
Dall’interno dell’Ordine una reazione venne da operai che non ammettevano che, sotto la bandiera dei Knights of Labor, si commettessero tali atrocità contro proletari con cui condividevano lotte, fatica e miserie. Una minoranza all’interno dell’Esecutivo dei K.L. tentò di far passare una risoluzione che consentiva l’organizzazione di sezioni cinesi (già erano stati organizzati per una lotta a New York, e anche a Philadelphia), ma la maggioranza non lo permise, ammettendo però l’esistenza di sezioni miste. D’altronde i cinesi avevano dimostrato di essere in grado di esprimere combattività, come nel caso dello sciopero per salari più alti dei raccoglitori di luppolo in California; lo sciopero riuscì perché, quando i padroni cercarono di rimpiazzare i cinesi con i negri, questi si rifiutarono di fare i crumiri.
Il punto XX della Dichiarazione dei Princìpi del 1878 recitava: “Garantire a entrambi i sessi salario uguale per uguale lavoro”, in questo riprendendo una posizione della National Labor Union che risaliva al 1868. Ma allo stesso tempo non era previsto l’accesso all’Ordine alle donne. La soluzione del problema si trascinò finché nel 1881 si costituì una sezione completamente femminile e la questione si concluse nel 1882 con un emendamento allo Statuto. L’afflusso femminile presto divenne consistente, anche perché le donne continuavano ad essere escluse da quasi tutti gli altri sindacati, e nel 1886 si calcola che esse costituissero l’8-9% degli iscritti. Le donne si dimostrarono ben presto un contributo notevole per l’Ordine: oltre che decise nella lotta, partecipavano attivamente ai picchetti, umiliavano i crumiri e davano sostegno morale e di lavoro agli scioperanti, al punto che Powderly dovette ammettere che esse erano “gli uomini migliori dell’Ordine”. Nonostante gli inizi incerti, si invitarono le donne nell’Ordine, nelle assemblee ebbero lo stesso peso degli uomini, e al pari di loro erano ascoltate.
Nel Sud, gli operai negri, a causa di una diffusa e aperta ostilità, che poteva arrivare a esprimersi in linciaggi, dovettero ricorrere a misure organizzative di estrema segretezza, con servizi di sentinelle per sfuggire a incursioni, e dando nomi di fantasia alle organizzazioni affiliate ai K.L. Ricordiamo che, finito il periodo della “Ricostruzione”, si era passati al periodo della “Redenzione”, in cui il Nord, rinunciando a condurre fino in fondo il rinnovamento della rivoluzione borghese, lasciava mano libera ai bianchi del Sud per ricondurre i negri a una condizione non molto lontana dalla schiavitù, probabilmente peggiore, e comunque di completa sottomissione e di apartheid, che sarebbe durata fino a non molti decenni fa, ammesso che sia oggi del tutto scomparsa. Ma nonostante le grandi difficoltà e pericoli, i negri affluirono nei K.L. a decine di migliaia, la gran parte di loro per la prima volta inquadrati in un movimento sindacale. Nel 1886 si pensa non fossero in numero inferiore a quello delle donne; in entrambi i casi le cifre sono alte se si calcola il basso impiego dei due gruppi di lavoratori in grandi imprese manifatturiere: alta era la disoccupazione tra i negri, poche in percentuale le donne operaie.
Anche per i negri, come era stato per le donne e i cinesi, vi furono
resistenze all’interno dell’Ordine, e non pochi furono i dirigenti
contrari a organizzarli. Ma furono atteggiamenti che non potevano avere
successo, in quanto sul posto di lavoro l’unità bianco-negro si sviluppò
nel comune interesse di difendersi dalla protervia dei padroni, nel corso
di lotte anche assai dure. Negli anni del declino, tuttavia, l’atteggiamento
dell’Ordine verso i negri peggiorò notevolmente.
I Cavalieri del Lavoro in azione
Una delle caratteristiche dell’epopea dei Cavalieri del Lavoro fu la dimensione della massa umana inquadrata, il numero mai prima contato di proletari che nell’Ordine riposero fiducia. Ma non si trattò di un potenziale pienamente dispiegato, e fu utilizzato dai vertici dell’organizzazione quasi sempre controvoglia. La dirigenza non fu mai in sintonia con le reali esigenze della classe, e si trovò sempre per qualche motivo in contrasto con la base, spesso anche con i funzionari ad essa più vicini. Questo perché, come abbiamo visto, l’ideologia dei K.L. non apprezzava la lotta sindacale, preferendo di gran lunga auspicare la cooperazione come modello di società futura, e l’educazione come mezzo per raggiungerla.
Erano favorite conferenze, biblioteche, addirittura nei centri più importanti spesso sorgeva un “Tempio del Lavoro”, una specie di Casa del Popolo o della Cultura ante litteram, dove si svolgeva la gran parte della vita sociale e culturale della comunità. Niente di male, sennonché l’attività culturale tendeva a sostituire l’azione diretta in difesa delle condizioni proletarie. «Sostanzialmente, la nostra è una organizzazione educativa. La nostra più santa missione, alla quale dedicare i nostri sforzi negli anni avvenire, è propagare la sana dottrina economica... Non chiediamo altro [ai nostri iscritti] che studiare le verità della scienza sociale e economica. E quando avranno ben studiato la lezione, allora l’azione».
La base operaia però non vedeva l’educazione in funzione di un distante futuro, ma come una guida per l’azione nelle lotte che quotidianamente dovevano sostenere. Lotte che alla dirigenza dei K.L. non interessavano minimamente: Powderly considerava le lotte per il salario “un lavoro miope”, che mirava a “guadagnare qualche centesimo in più al giorno”. “Anche parlare di ridurre le ore di lavoro è una perdita di tempo. Quello che si guadagna con la riduzione dell’orario di lavoro sarà recuperato dai padroni in un altro modo”. La via immediata e sicura doveva essere la cooperazione, anche se si era da tempo dimostrata un’utopia nelle varie esperienze, anche sul territorio americano, come abbiamo visto in precedenza, e parlarne nell’epoca dello sviluppo delle grandi corporations era follia o tradimento.
Le energie investite nei programmi cooperativi toglievano preziose energie alla lotta vera. Era diffuso il pregiudizio antisindacale, teorizzato da elementi legati al socialismo lassalliano, nonostante i sindacati di mestiere avessero dovuto essere obtorto collo ammessi nell’Ordine. I sindacati, dicevano, sarebbero stati resi obsoleti dalla diffusa introduzione delle macchine, ed incapaci di combattere efficacemente il nascente capitalismo monopolistico. La rivoluzione industriale avrebbe ridotto, grazie alla specializzazione e semplificazione dei processi, il numero di operai specializzati necessari, e quindi l’utilità dei sindacati di mestiere. Inoltre l’orizzonte strettamente economico, categoriale e locale dei sindacati avrebbe reso inefficace la lotta, in quanto gli appartenenti ad altri sindacati avrebbero potuto continuare a lavorare, svolgendo le mansioni degli scioperanti. I sindacati erano interessati solo a miglioramenti immediati, salari più alti, orari più corti, migliori condizioni di lavoro. Come dissero a una Assemblea Generale del 1884: «Il nostro Ordine prevede un cambiamento radicale, mentre i sindacati (...) accettano il sistema industriale così com’è, e cercano di adattarvisi. Il nostro atteggiamento è invece di guerra al sistema attuale».
I sindacati, superati, dovevano essere sostituiti da organismi territoriali, dai confini di classe indefiniti, nei quali tutti avrebbero ricevuto l’educazione necessaria a porre fine ai malanni della servitù salariale. Conclusioni errate, quindi, coerenti con la natura borghese dei dirigenti i K.L., insofferenti davanti alla realtà e alle necessità del proletariato, rappresentato dai semi e non specializzati, dai negri, dalle donne e dagli stranieri immigrati.
La confusione della forma sindacato con la forma partito era allora già storicamente superata, benché non fossero pochi i sindacati che negli anni ’80, grazie alla propaganda dei marxisti, contemplavano nel futuro della classe “cambiamenti radicali dell’attuale sistema”, e lavoravano per “realizzare il cambiamento”. Chiaramente si trattava di inquadrare le avanguardie operaie attorno al programma politico del comunismo, senza rinunciare ad affasciare tutti i lavoratori nelle lotte rivendicative. Questa dimensione i Cavalieri del Lavoro non potevano darla; al contrario, tutte le volte che riuscirono ad imporre le loro convinzioni utopiste ed interclassiste danneggiarono gravemente le lotte e la solidarietà all’interno della classe. Solo il marxismo era riuscito ad impostare correttamente il rapporto dialettico tra i livelli della coscienza e dell’azione di classe, quello politico e quello sindacale. Possiamo già anticipare che questo collegamento, se si realizzò solo in alcuni gloriosi svolti in Europa, non riuscì mai ad attuarsi al di là dell’Atlantico.
Molto significativamente, mentre i dirigenti insistevano nel minimizzare
l’importanza della lotta sindacale e che soluzioni durature potevano
venire solo dall’azione politica, nelle riunioni di sezione era proibito
parlare di politica, argomento evidentemente riservato ai capi: un anticipo
della “bolscevizzazione” staliniana. Naturalmente la proibizione ebbe
poco effetto, e spesso delegati dei K.L. furono eletti a varie cariche
a organi rappresentativi negli Stati in cui erano forti. Invece, nonostante
le roboanti enunciazioni di principio, l’azione politica dei K.L. come
organizzazione unitaria fu quasi inesistente.
Inizio del declino
L’inizio della fine dei Cavalieri del Lavoro si può datare proprio dall’anno in cui avevano raggiunto il massimo delle adesioni, il 1886.
Il padrone Gould non era per niente rassegnato a cedere agli operai, nonostante le promesse dell’anno prima. I salari non furono riportati ai livelli precedenti lo sciopero, e i sindacalisti erano discriminati e perseguitati. Quindi i lavoratori delle ferrovie del Sud-Ovest tornarono a scioperare; ma le categorie più specializzate (macchinisti, conduttori, ecc.) non aderirono come avevano fatto l’anno prima, il che rappresentò sin dall’inizio una debolezza. Ma lo sciopero non era ancora perduto, finché Powderly non entrò in scena di persona: mentre si atteggiava a grande negoziatore Gould continuava la sua azione antioperaia, con tutti i mezzi a disposizione. Nelle città teatro dello sciopero la lotta fu molto dura, condotta dalle due parti con i loro strumenti tipici: gli operai con il boicottaggio e il picchettaggio, i padroni con un ampio dispiegamento di forze armate pubbliche e private, giudici ammaestrati, crumiri.
Ma mentre i padroni erano molto meglio organizzati rispetto al 1877, e intervenivano con grande unità ed efficacia, i lavoratori non trovavano nei K.L. il sostegno che avrebbero potuto, e dovuto avere: mentre gli sceriffi, la milizia, le truppe private picchiavano, incarceravano, uccidevano a decine gli operai, l’Ordine non sapeva fare di meglio che predicare la pace, in attesa messianica che il Gran Maestro Lavoratore riuscisse chissà come a convincere Gould a trattare. Alla fine, traditi dalle categorie privilegiate, abbandonati dai dirigenti (ovviamente quelli dei ranghi più bassi erano in piazza con gli operai), perseguitati dalle forze dell’ordine e della reazione padronale, gli operai cedettero; lo sciopero fu sconfitto, e gli operai dovettero anche sopportare la vendetta di Gould, che non riassunse gran parte degli scioperanti (tutti gli iscritti ai K.L.), mettendoli su liste nere che li rendevano invisi agli altri padroni. L’unico a sentirsi sollevato fu Powderly.
Pochi mesi dopo lo stesso Gran Maestro Lavoratore consumò un altro
tradimento nei confronti degli operai dei macelli di Chicago in sciopero,
forse peggiore perché intervenne con tutta la sua pompa proprio quando
i padroni stavano per cedere. All’improvviso ordinò agli operai di abbandonare
la loro richiesta delle otto ore, e di tornare al lavoro. Dopo un iniziale
smarrimento, gli operai rifiutarono di obbedire, e Powderly li minacciò
di espulsione dall’Ordine. Naturalmente i padroni lo vennero a sapere,
e il loro atteggiamento si trasformò da rassegnato a bellicoso, interrompendo
le trattative con i rappresentanti degli operai in lotta. In breve, lo
sciopero fu sconfitto, e i padroni ne approfittarono per chiedere agli
operai di dare le dimissioni dal sindacato se volevano continuare a lavorare.
Cosa che in quel momento, a dire il vero molti avevano voglia di fare,
almeno per quanto riguardava i K.L. Ad un meeting gli operai adottarono
una risoluzione in cui esplicitamente accusavano Powderly di aver fatto
in pieno il gioco dei padroni. Al che l’interessato rispose: “Non si
può giocare con leggerezza con le leggi del business”, e “Gli uomini
che hanno accumulato capitale non sono i nostri nemici. Altrimenti l’operaio
di oggi sarebbe domani nemico del suo compagno. In fondo quello che tutti
cerchiamo di imparare è come acquisire capitale e impiegarlo nel modo
giusto”. Evidentemente Powderly esprimeva il pensiero della stragrande
maggioranza del General Executive Board dei K.L., che respinse sempre la
sue dimissioni.
Fine della simpatia della classe operaia
L’atteggiamento antisindacale della dirigenza dell’Ordine non cambiò negli anni della rapida crescita del movimento, e fu la causa principale del suo declino, mentre i sindacati di mestiere si rafforzavano e si univano in una forte Federazione.
L’occasione di una irrimediabile spaccatura nei confronti, più che dei sindacati, della stessa classe operaia, fu la tolleranza di un atteggiamento di tradimento da parte di una struttura all’interno dell’Ordine nei confronti di un sindacato, quello dei sigarai: mentre questi (6.000 operai) erano in sciopero, il sindacato legato ai K.L. offriva manodopera a costi ridotti rispetto alle richieste degli scioperanti; questo quando la lotta sembrava ormai avere sconfitto la resistenza dei padroni.
Questo comportamento di una sezione dell’Ordine era solo l’ultimo di una lunga serie, e servì ad alienare ai K.L. moltissime simpatie, da parte tanto dei sindacati aderenti quanto di singoli lavoratori: questi e quelli cominciarono ad abbandonare l’Ordine, soprattutto dopo un’assemblea generale che si tenne a Richmond nell’ottobre 1886. Già nel luglio 1887 gli iscritti erano scesi da circa 700.000 a poco più di 500.000, per precipitare a circa 220.000 a metà 1888.
Gli storici riassumono il perché del declino dell’Ordine essenzialmente: 1) nella dura opposizione padronale, che non mancò mai e che non sopportava qualsiasi organizzazione di lavoratori, soprattutto quando, come nel caso dei K.L., tendeva a unire tutti, senza distinzione di mestiere, qualifica, razza, sesso, religione, nazionalità; 2) nella difficoltà a tenere insieme una organizzazione così eterogenea nella composizione, nei fini e nei mezzi; 3) nel tipo di struttura organizzativa, adatta a muovere molti lavoratori di diverse località in azioni di massa, ma poco a seguire adeguatamente i particolari problemi quotidiani di specifici mestieri e città. L’inevitabile conflitto tra base e dirigenza su un po’ tutte le azioni che l’Ordine intraprendeva, si tradusse in tattiche e strategie quasi sempre contrarie agli interessi veri dei proletari in lotta. Del resto sempre più prendevano posto ai massimi livelli elementi non operai, che come abbiamo visto erano ammessi all’Ordine.
L’imposizione di un indirizzo non proletario delle lotte portò a che gli operai si trovavano a lottare contemporaneamente contro i padroni e contro la dirigenza dell’Ordine. Ogni volta Powderly invitava gli scioperanti a liberarsi degli “elementi radicali”, e a rassicurare i padroni della loro disponibilità a vivere in pace perpetua con il capitale. I lavoratori, sconfitti, oltre a ritornare a lavorare alle condizioni capestro contro le quali avevano lottato (se non erano iscritti sulle liste nere, e spesso i militanti K.L. lo erano), erano anche costretti a uscire dalla loro organizzazione.
Questo atteggiamento rinunciatario rafforzò la tracotanza del padronato. Che dette così sfogo violento al proprio livore antioperaio, particolarmente negli Stati del Sud, dove l’odio di classe si nascondeva sotto al razzismo, che riprendeva vigore: molti furono le aggressioni, gli omicidi, i linciaggi, che culminarono con un attacco di centinaia di bianchi armati in un quartiere di scioperanti negri, col massacro di almeno 30 di questi. Powderly, che nella sua gestione mai denunciò i massacri nel Sud, si vantò allora che “il movimento operaio non è mai stato rispettato come in questo momento”.
Ma quello che contava erano i “rapporti armoniosi” con i padroni e con la Chiesa cattolica, grazie alla lotta senza quartiere contro gli elementi radicali. Alla Convenzione di Minneapolis del 1887 Powderly dedicò il suo intervento alla questione della “anarchia all’interno dell’Ordine”, e attaccò le sezioni che avevano preso posizione in favore dei martiri di Haymarket, accusati di mettere in pericolo l’intero Ordine solo perché chiedevano la commutazione della pena di morte in pena detentiva. Atteggiamento che gli valse l’aperta accusa di “codardia morale” da un gran numero di sezioni, e il plauso degli organi di stampa della borghesia. Ormai l’unica linea politica di Powderly era la caccia all’anarchico, e l’epurazione dell’Ordine dagli elementi infedeli, cioè dai funzionari che a qualsiasi livello adottavano iniziative sindacali di classe.
Iniziò quindi un esodo di sindacati e sezioni territoriali verso l’unica
alternativa esistente, l’American Federation of Labor, svuotando della
loro componente proletaria i K.L., sempre più chiusi nella loro visione
educazionista e conciliatoria, in definitiva miseramente piccolo borghese.
Gradualmente l’Ordine si ridusse, per lo più nei piccoli centri rurali,
ad inquadrare in maggioranze agricoltori coltivatori diretti. Nel 1893
gli iscritti assommavano a 73.000. L’ordine vivacchiò in un’agonia
che ebbe termine verso la fine del secolo.
Un bilancio
Certamente la prima cosa che si può dire è che l’Ordine dei Cavalieri del Lavoro fu grande in un dato periodo della storia del movimento operaio americano nonostante l’Ordine stesso, cioè della sua dirigenza e della ideologia di falsa emancipazione che perseguiva. La sua fine fu determinata dal conflitto fra questa impostazione borghese e la difesa dei veri bisogni della classe operaia.
I K.L., loro malgrado, riuscirono ad incanalare, in un momento di grande crescita della combattività della classe operaia, la naturale tendenza alla fratellanza tra sfruttati, e la necessità di una unica organizzazione. Una delle ragioni, forse la principale, del successo dei Knights of Labor nell’organizzare tanti lavoratori e creare tante sezioni, rispetto ai sindacati che li avevano preceduti, fu che in precedenza era stato difficile mettere insieme localmente un numero sufficiente di proletari dello stesso mestiere, per le caratteristiche intrinseche della società nordamericana e del suo capitalismo. L’Ordine superò il problema creando sezioni intercategoriali, e accettando anche semi specializzati, non specializzati, giornalieri, donne e negri. La parola “Chi colpisce uno colpisce tutti” infiammò grandi masse operaie in tutto il Paese. Quando l’Ordine fu al suo apice il rapace capitale monopolistico degli USA, in quegli anni in pieno sviluppo, si trovò per la prima volta sfidato con successo con scioperi, boicottaggi e un minimo di azione politica.
Ma la dirigenza dei K.L. riuscì in pochissimo tempo a distruggere sia una vasta struttura nazionale che non aveva precedenti, sia il morale e la speranza di una generazione di proletari, che erano comunque riusciti ad esprimere la necessità di una organizzazione generale della classe. L’esperienza, negativa, dei K.L. spinse a cercare delle vie diverse e più diritte da quelle predicate da politicanti, tradeunionisti d’ispirazione borghese, preti e intellettuali. La classe era ormai pronta ad accettare il verbo socialista, che in quegli anni dall’Europa stava giungendo di nuovo in America.
Insieme all’organizzazione dei Cavalieri del Lavoro se ne andò per
sempre la sua ricerca del plauso dei padroni e l’insofferenza mai abbastanza
celata verso la lotta operaia. Sennonché con quella se ne andarono, per
tornare solo dopo diversi decenni, gli aspetti positivi del movimento,
che non trovarono accoglienza nell’A.F.L., primo tra tutti l’apertura
a tutti i proletari. Tornarono ad a essere diffuse le gelosie di mestiere
che
mettevano in contrasto gruppi di operai, e soprattutto l’esclusione di
grandi masse proletarie. Condizioni che avrebbero consegnato alla borghesia
un proletariato diviso e che negli anni successivi sarebbe stato con facilità
aggiogato alle necessità dell’economia nazionale, delle guerre borghesi,
delle privazioni nella più grande crisi capitalistica della storia.
[Indice del lavoro]
Capitolo esposto alla riunione di Cortona, 28-29 settembre 2008 [RG102].
Parte terza - Il capitalismo
B) La borghesia al potere
Dalla Bastiglia al 18 Brumaio
1. 1789-1791: i risultati della violenza rivoluzionaria
La presa della Bastiglia aveva assunto un significato enorme: per la prima volta, dopo secoli di continua ascesa e di dominio assoluto e incontrastato, la monarchia scendeva a patti con altre forze politiche. Questo terribile colpo non solo toglieva al Re il ruolo di arbitro ma faceva scorgere e prevedere la spoliazione di ogni suo residuo di potere e perfino l’abolizione dell’istituto monarchico.
A confermare i nuovi rapporti fra le classi e a stabilire più chiaramente la subordinazione del potere monarchico, giungono rapidamente le giornate del 5 e 6 ottobre, con le quali la violenza della piazza impone il trasferimento da Versailles a Parigi del Re, che si era rifiutato di ratificare alcuni decreti legge che dovevano dar corso al nuovo ordine borghese e alla stessa Assemblea. È interessante rilevare che queste dimostrazioni popolari, che condussero il Re a Parigi in condizioni di vero e proprio prigioniero della folla, furono meno spontanee delle precedenti perché organizzate in parte dalla nuova Comune insurrezionale e videro il concorso della Guardia Nazionale, embrione di esercito della classe borghese.
Ben presto ai suoi vertici furono posti prevalentemente dei borghesi, e ciò già rivela la preoccupazione della borghesia di avere una forza armata a sua disposizione, guidata da uomini di sua fiducia. Le fu subito affidato un altro compito, quello di difendere la proprietà e la legge borghese dalle sommosse popolari. Questa natura contraddittoria nel corso della Rivoluzione la farà spesso ondeggiare fra le forze moderate, borghesi e monarchiche, e quelle radicali piccolo-borghesi e proletarie.
Rispetto la gran quantità di argomenti che questi eventi inevitabilmente sollevano, in questo lavoro ci limiteremo a quelli afferenti la “questione militare”. Non è accademia ma preparazione del partito alla conoscenza della storia e ai compiti di domani.
I risultati dei primi atti insurrezionali della Rivoluzione francese appariranno nei decreti che tradurranno in articoli di legge i principi della Dichiarazione dei Diritti, in attesa che la prima nuova Costituzione sia completata nel 1791. Questi consistono essenzialmente in alcune importanti riforme politiche, tra cui la ripartizione del potere tra Re e “popolo”, cioè la borghesia, la sostituzione per tutto il paese degli Intendenti regi con i Governi municipali, il riconoscimento della Guardia Nazionale, ecc. Altre riforme riguardavano l’economia: l’agraria con l’abolizione delle decime, l’incameramento dei beni ecclesiastici, ecc. ecc.
La nuova legge elettorale dimostra da sola la natura di classe di un potere irreversibilmente in mano alla borghesia, ben determinata a gestirlo in modo esclusivo, abrogando quanto inizialmente stabilito dall’Assemblea Costituente, che concedeva i diritti politici a quanti, superati i 25 anni d’età, avevano possibilità di pagare un’imposta diretta pari a tre giornate di lavoro. Successivamente la Costituzione del 1791 si baserà sulla distinzione di censo tra cittadini “attivi”, circa quattro milioni, che votano perché proprietari, e quelli “passivi”, circa 22 milioni, che non votano perché non proprietari. Gli “attivi” scelgono 50mila grandi elettori, che a loro volta eleggono 745 deputati dell’Assemblea Legislativa, nonché i rappresentanti dei consigli comunali, provinciali e relative giunte. I diritti politici vengono quindi limitati ad un numero esiguo di cittadini, i più abbienti. Il censo elettorale toglieva ogni illusione ed ogni contenuto alle parole Eguaglianza, Fraternità, Libertà.
Qui, però, si noti: «Questo riconoscimento politico della differenza di ricchezza non è tuttavia essenziale: al contrario, esso denota un grado inferiore dello sviluppo dello Stato», così Engels ne L’Origine della famiglia... Per individuare la natura di classe di un dato regime politico occorre risalire al processo storico che l’ha generato, all’epoca in cui fu rivoluzionario. Con la legge elettorale l’alta borghesia “liberale” non volle permettere che più radicali rappresentanti sedessero al nuovo parlamento, perché li temeva. L’elaborazione della Costituzione, con le primitive intenzioni di creare il parlamento sul modello inglese con una Camera Alta, rifugio per gli aristocratici, ed una Bassa, dimostra la timidezza della borghesia e la sua condiscendenza rispetto ai vecchi ordini. Se si pervenne al sistema unicamerale ciò fu merito ancora una volta della pressione popolare che portò alla prima scissione del partito borghese in due ali divergenti: la “moderata”, di indiscussa fede monarchica e desiderosa del compromesso con la nobiltà, e la “radicale”, più “democratica”, cioè sensibile alle spinte dal basso e al necessario ricorso alla forza dei Sanculotti e delle braccia nude.
Anche le riforme economiche provano come la Rivoluzione finora sia stata
fatta a metà. L’incameramento dei beni ecclesiastici e delle proprietà
dei nobili emigrati si tradusse in un vero e proprio trasferimento di ricchezza
a favore della borghesia più potente, perché le terre furono vendute
a grandi lotti o espropriate con il principio del riscatto. Da qui la generale
delusione dei contadini, aspiranti a diventare piccoli proprietari, e si
spezza così quel circuito rivoluzionario città-campagna che solo il Terrore,
vero governo rivoluzionario, ripristinerà per trionfare sulla rivolta
nella Vandea, anche questa in buona parte dovuta alla mancata attuazione
delle promesse fatte all’inizio ai contadini.
2. Prime leggi contro il movimento operaio
La legge antisindacale Le Chapelier del 14 giugno 1791, introdotta per proteggere i profitti borghesi dalle azioni difensive dei proletari organizzati, è un’altra dimostrazione dei forti contrasti di classe presenti sul terreno economico, che la classe al potere cerca di combattere.
In Francia alla fine del secolo XVII esistevano numerose categorie di proletari salariati: dagli operai delle manifatture centralizzate e di quelle sparse, apprendisti degli artigiani, operai edili, portuali, braccianti, manovali, garzoni, servi, ecc. Questi lavoratori non avevano alcun tipo di diritti e dipendevano completamente dall’arbitrio dei padroni, con bassi salari e una giornata lavorativa di 14-18 ore. Il loro flagello era la disoccupazione, notevolmente aumentata soprattutto alla vigilia della Rivoluzione, a causa della grave crisi commerciale e produttiva che a Parigi in quel periodo colpiva 80mila lavoratori su un totale stimato di 300mila salariati. Disagio e miseria erano generalizzati. Nell’agosto dell’89 circa 3mila operai delle sartorie organizzarono una manifestazione per un aumento delle paghe, ma furono dispersi dalla Guardia Nazionale. Seguì subito quella degli sterratori, anch’essa dispersa con la forza. Nei due anni seguenti si fondarono delle organizzazioni operaie di mutuo soccorso, a base professionale, soprattutto tra i tipografi e i carpentieri, i più attivi e organizzati.
Nella primavera del 1791 avvennero a Parigi grandi scioperi tra le categorie professionali più importanti che allarmarono non poco il padronato che si affrettò a rivolgersi all’Assemblea Costituente chiedendo di prendere misure significative contro gli scioperanti. Il deputato Le Chapelier prontamente li soccorse con un decreto che così Marx commenta nel Capitale, Libro I cap. 24/3: «Sin dai primi sintomi della bufera rivoluzionaria la borghesia francese arrivò a togliere agli operai quel diritto di associazione che avevano appena conquistato. Mediante il decreto del 14 giugno 1791 essa dichiarò che ogni coalizione operaia era un “attentato contro la libertà e contro la dichiarazione dei diritti dell’uomo” e che doveva essere punita con 500 “livres” di multa e con la privazione per un anno dei diritti di cittadino attivo. Questa legge, che con l’aiuto della polizia statale impone alla lotta di concorrenza tra capitale e lavoro dei limiti convenienti al capitale, è sopravissuta a rivoluzioni e a cambiamenti di dinastie. Lo stesso regime del Terrore la lasciò inalterata».
Due articoli di questo decreto ben esprimono la grande paura verso i
proletari, a nemmeno due anni dalla presa della Bastiglia, segno che la
borghesia ha già individuato nel suo ex alleato il proprio nemico e becchino,
e si organizza contro di esso. Con una disgustosa scusa legalitaria: «Articolo
1: Dato che la soppressione di ogni genere di corporazioni di cittadini
dello stesso stato e dello stesso mestiere è uno dei fondamenti della
costituzione francese, si fa proibizione di ripristinarle di fatto, sotto
qualunque pretesto e sotto qualunque forma». Più esplicitamente contro
i salariati così recita l’Articolo IV: «Qualora cittadini che esercitano
le stesse professioni, arti e mestieri prendono accordi o convengono di
rifiutare unanimemente o di concedere solo a un certo prezzo l’aiuto
della loro industria o del loro lavoro, tali accordi (...) saranno denunciati
quali incostituzionali e attentati alla libertà e alla dichiarazione dei
diritti dell’uomo (...) cioè quali delitti contro lo Stato».
3. La spinta rivoluzionaria incalza
A questo punto la borghesia, specialmente quella moderata, era già paga del risultato; eliminati tutti i regolamenti e privilegi feudali, conquistate ed acquisite al demanio nazionale le proprietà ecclesiastiche e quelle dei nobili fuggiti all’estero, liberalizzati i commerci, soppressi i dazi. La Francia era divenuta una monarchia costituzionale, al Re era mantenuto il potere esecutivo, la nomina del governo con diritto di veto sulle leggi, mentre il potere legislativo era ben saldo nell’Assemblea Legislativa, formata prevalentemente dalla borghesia che la controllava con il blocco del censo. Era ora pronta ad organizzare tutto il sistema economico e sociale a favore del suo sviluppo, quando successe “l’incidente imprevisto”.
Il tentativo di porre fine alla Rivoluzione sarebbe riuscito se re Luigi e la regina Maria Antonietta, sostenuti dal Clero e dalla nobiltà reazionaria, sia in Francia sia riparata nelle corti estere, non avessero avuto il proposito e tentato di restaurare la monarchia assoluta con l’aiuto dei sovrani stranieri. Per realizzare questo piano tentarono di fuggire all’estero il 20 giugno 1791: riconosciuti nei pressi della frontiera furono fermati, riportati a Parigi ed arrestati. I più accesi rivoluzionari poterono allora chiedere l’abolizione della monarchia e l’instaurazione della repubblica.
La fuga del Re aveva spezzato in due il Terzo Stato: da una parte la borghesia benestante e moderata, soddisfatta dei risultati conseguiti e desiderosa di ritornare ai “buoni commerci”, e dall’altra una sua ala più radicale, formata da Cordiglieri, Giacobini e Arrabbiati, sostenuti dai Sanculotti, lo strato proletario poco o niente rappresentato nell’Assemblea nazionale in quanto cittadini “passivi”. Tutti questi volevano spingere oltre il cammino rivoluzionario: proclamare la repubblica, introdurre il suffragio universale, varare provvedimenti economici a favore dei più poveri, per realizzare il loro grande falso mito, irrealizzabile in una società divisa in classi, dell’uguaglianza politica e della giustizia sociale.
La manifestazione popolare organizzata a questo scopo al campo di Marte fu sciolta con le armi della Guardia Nazionale, diretta da La Fayette, su iniziativa del governo municipale e consenziente l’Assemblea, che sparò sulla folla, uccidendo 50 dimostranti. Il “quadro delle alleanze” con il proletariato, in questo contesto storico, si fa più delineato con l’esclusione della grande borghesia. Perché la Guardia Nazionale, istituita per difendere la Rivoluzione dalle minacce del Re, sparò sul popolo? Perché l’Assemblea nazionale, dominata dalla borghesia moderata, temeva che il “popolo”, sconfitti gli aristocratici, rivolgesse le sue picche, e ora anche i fucili, contro di essa.
Agì con la prontezza del caso. Dopo il Campo di Marte restaurò al
potere il governo del Re e varò nel settembre di quell’anno la Costituzione,
che sancì il suo predominio con i limiti di censo. Dopo regolari elezioni
fu eletta l’Assemblea Legislativa e sciolta l’Assemblea Nazionale,
primo e spontaneo organo di governo in mano alla borghesia rivoluzionaria.
4. La prima controrivoluzione
Come è sempre avvenuto nella storia, anche durante la Rivoluzione francese le vecchie classi non si sono subito rassegnate alla sconfitta ed hanno tentato di riprendere la posizione di privilegio economico e politico alla quale da secoli erano assuefatte. Noi chiamiamo controrivoluzione quelle forze di resistenza che la storia incontra sul cammino dello sviluppo sociale.
Quella francese, proprio perché era la “Grande Rivoluzione” della borghesia ed era destinata dalla storia a diffondere il nuovo modo di produzione, non suscitava solo una controrivoluzione interna, ad essa si unì subito quella esterna, in primo luogo, quella proveniente da quei paesi più esposti al contagio rivoluzionario, come Prussia e Austria, dove la nobiltà feudale, i principi e i re temevano le conseguenze minacciose dell’infezione sulle masse sfruttate ed oppresse da secoli.
L’indebolimento della posizione di Luigi XVI ad opera della Rivoluzione, in un primo momento non era riuscita sgradita ai feudali sovrani d’Europa, gelosi della potenza egemonica che fino allora i Borboni avevano esercitato sul continente; ciò ritarderà il loro intervento armato contro la Francia rivoluzionaria. Per contro la gelosia tra la borghesia francese e quella inglese, entrambe tese a stabilire il proprio predominio sul mercato mondiale, farà in seguito passare anche l’Inghilterra nel campo della controrivoluzione; anzi, sarà essa a finanziare le coalizioni europee ed a corrompere gli elementi moderati ed indecisi della stessa Francia. Incredibile ma vero, saranno più di tutti i borghesi inglesi a fornire un contenuto ideologico alla controrivoluzione ed a pretendere di “voler salvare la civiltà” con il diffuso testo di Burke, “Riflessioni sulla rivoluzione francese”, del 1790.
Con il pretesto delle forti pressioni della nobiltà francese emigrata e valutando a loro favore lo schieramento delle forze in campo, Austria e Prussia minacciarono con una pubblica dichiarazione l’intervento militare contro la Francia. A Parigi la dichiarazione fu presa sul serio con rabbia e sdegno. L’Assemblea Legislativa fu subito del parere di rispondere con le armi alla provocazione. Con differenti, molto significative, motivazioni: i moderati speravano che la guerra distogliesse i Sanculotti dalle loro rivendicazioni più estreme, sulla via dell’uguaglianza, fino alla distruzione di quel diritto di proprietà che era stato dichiarato sacro ed inviolabile; i Girondini contavano di diffondere con la guerra i principi della Rivoluzione in Europa; infine il Re sperava nella sconfitta per un ritorno dell’assolutismo. Invano Robespierre e i Giacobini si opposero, convinti di dover completare la Rivoluzione all’interno “prima di portare la libertà in casa d’altri”. In sostanza erano due mondi, quello feudale e quello borghese che non potevano più convivere sul continente europeo.
Il 20 aprile 1792 l’Assemblea approva la proposta reale di dichiarare guerra all’Austria, poi alla sopraggiunta Prussia. La giustificazione che fu data era che la guerra avrebbe rafforzato la Rivoluzione e l’avrebbe trasformata da nazionale in internazionale, che sarebbe stata una “guerra rivoluzionaria”. Nel secolo successivo i partiti borghesi così imposteranno la loro propaganda; ma la tesi sarà fatta a pezzi da Lenin e dalla sinistra comunista, sia sul piano teorico, siamo già infatti nella fase controrivoluzionaria del capitalismo, sia su quello pratico.
Nel 1792 una “guerra rivoluzionaria” era in effetti possibile, ma c’era un duplice ostacolo politico e militare che impediva di tradurla in pratica. In Francia la borghesia non aveva ancora basi solide, cioè non possedeva ancora i requisiti fondamentali per potersi accingere ad un’operazione tanto ambiziosa e gravida di rischi: le mancavano un governo ed un esercito veramente rivoluzionari. Il governo era ancora nelle mani del Re, che tramava con i controrivoluzionari interni ed esterni, e le forze militari erano insufficienti, disorganizzate e fedeli al Re. Gran parte degli ufficiali del vecchio esercito permanente, in quanto nobili, erano emigrati all’estero. La Guardia Nazionale, che avrebbe dovuto affiancare l’esercito regolare, era pure senza quadri perché, durante l’ancien regime ai borghesi era vietato l’accesso al corpo degli ufficiali. In queste precarie condizioni la guerra non poteva avere che oscure prospettive e non tardarono infatti a registrarsi i primi insuccessi sui vari fronti.
Tuttavia, per dialettica storica, sono proprio questi insuccessi militari a maturare la rivolta che creerà le condizioni per far fronte ai pericoli esterni. In giugno e in luglio, sotto la pressione delle masse che si spingono fin nella sede dell’Assemblea, i Girondini chiedono urgenti e seri provvedimenti di difesa: in particolare, un campo di 20mila guardie nazionali intorno a Parigi. Il rifiuto del Re e la dichiarazione del duca di Brunswick che minacciava l’esecuzione militare contro chiunque osasse offendere il Re, provocarono la grandiosa rivolta parigina che culminò nella giornata del 10 agosto 1792, in cui una nuova Comune rivoluzionaria venne eletta dalle sezioni popolari e si sostituì a quella legale. Sotto la sua direzione i Sanculotti presero d’assalto le Tuileries, imprigionarono il Re nel Tempio sospendendolo da ogni funzione e sostituendolo con un governo provvisorio in cui entrò Danton, il principale organizzatore della nuova Comune.
L’Assemblea, ormai dominata dalle masse rivoluzionarie guidate dai
Giacobini, si affrettò ad annunciare nuove grandi riforme economiche e
politiche. In primo luogo la convocazione di una nuova Assemblea (la Convenzione)
da eleggere a suffragio universale e la creazione di un governo di sua
emanazione. Se la Rivoluzione del 14 luglio 1789 aveva salvato la Costituente,
quella del 10 agosto 1792 aveva condannato la Legislativa, esteso i diritti
politici e portato praticamente alla Repubblica.
5. Dalla Repubblica, al Terrore, al 18 Brumaio
Ma prima che si facciano sentire gli effetti benefici di questa seconda Rivoluzione nuovi insuccessi militari vengono a confermare le apprensioni di quanti a suo tempo avevano osteggiato la guerra: il 20 agosto Longwy è attaccata e Verdun capitola. Questi fatti, più l’incombente minaccia dell’occupazione di Parigi ed il tradimento di La Fayette, che dopo l’arresto del Re passa agli Austriaci, mettono nuovamente in moto le masse decise a difendere ad ogni costo la Rivoluzione e a non tornare più indietro. Nelle giornate del 5 e 6 settembre 1792 invadono le prigioni e massacrano i nobili, i preti e gli altri controrivoluzionari che vi avevano prima rinchiusi. Grazie a questa nuova e salutare azione del primo terrore rosso, la Francia accorre alle armi per difendere “la patria in pericolo”, come proclamano i Giacobini che, d’ora in poi, diverranno i “patrioti” per antonomasia. È questo un caso della storia in cui “la difesa della patria” assume un significato rivoluzionario. Nel secolo XX, in Europa, nella fase attuale di pieno imperialismo, l’appello della difesa della patria è invece atto puramente controrivoluzionario e solo vecchi e nuovi stalinismi potranno tradire il proletariato portandolo a difendere interessi non suoi.
Come abbiamo visto, proprio quelle forze che si erano prima opposte alla dichiarazione della guerra, ne sono poi diventate le più fervide sostenitrici: i pericoli per la Rivoluzione previsti e paventati erano diventati realtà; di conseguenza l’unico dovere era di farvi fronte con la massima energia, battendo nel contempo i reazionari interni, dichiarati o semplicemente sospetti.
L’afflusso di energie fresche e patriottiche dei volontari rafforza l’esercito diretto dal generale Dumouriez che, grazie anche alla guerriglia dei contadini, il 20 settembre ferma i prussiani a Valmy e li costringe il mese seguente a ripassare la frontiera. Il 6 novembre a Jemappes egli riporta la prima grande vittoria militare e libera il Belgio dalla dominazione austriaca. Nel marzo 1793 la Francia raggiungerà anche ad Est le sue frontiere naturali. Giova ricordarlo: queste importanti vittorie militari sugli eserciti stranieri furono il risultato delle prime sconfitte della guerra rivoluzionaria.
Con il 10 agosto 1792, cioè con l’arresto del Re, un altro grande risultato era stato raggiunto dalla Rivoluzione: la monarchia era di fatto caduta. La testa del Re cadrà dal patibolo il 23 gennaio 1793. Ufficialmente la repubblica sarà decretata il 21 settembre, l’indomani della vittoria di Valmy, giorno in cui si riunisce per la prima volta la Convenzione, eletta dopo le stragi di settembre. In quello stesso giorno la nuova Assemblea dei rappresentanti della borghesia, che ormai ha in mano tutto il potere, decreta all’unanimità la repubblica. Ma anche questa unanimità è il frutto della pressione delle masse che hanno incominciato a invadere la sede dell’Assemblea quando si devono prendere importanti decisioni: è questo un esempio di “parlamentarismo rivoluzionario” nel quale appunto la minoranza rivoluzionaria dei Giacobini riesce ad imporre la sua volontà alla numerica maggioranza moderata dei Girondini.
Qui ora non seguiremo tutto il faticoso percorso della Rivoluzione, che ebbe bisogno del periodo del Terrore per resistere a tutti gli attacchi che le furono portati, interni ed esterni, e all’enorme sforzo che essa dovette sopportare. La Vandea e le altre province insorte furono duramente punite; l’esercito con la leva di massa aveva raggiunto un milione di uomini e, sconfitti gli invasori a Fleurus, dilagava nel Belgio, nell’Olanda e nella Renania. Era la vittoria.
Il Terrore, salvata la Repubblica, aveva esaurito il suo compito e non serviva più. Robespierre e il suo programma democratico avevano i giorni contati: il 10 Termidoro (27 luglio 1794) salì al patibolo anche lui. Ma ciò che si designa come reazione termidoriana non va considerata come una controrivoluzione feudale e monarchica. Si tratta invece di un ritorno alla realtà degli interessi di classe della grande borghesia commerciale, industriale, rurale e finanziaria che ora vuole godere i frutti della Rivoluzione da essa iniziata e che altre classi avevano portato a termine.
Si tratterà però, essenzialmente, di frutti più economici che politici. Era infatti del tutto illusorio pensare che, in condizioni ancora obiettivamente difficili, i rappresentanti di tali ceti e classi potessero riuscire a governare entro i limiti del liberalismo borghese sancito dalla Costituzione del 1795, ancor più antidemocratica di quella del 1791. La politica inaugurata dai termidoriani e continuata poi dal Direttorio, tesa appunto a riprivatizzare quel poco che era stato nazionalizzato (fabbriche di armi, forniture e trasporti per l’esercito, ecc.) ed a eliminare i controlli sugli accaparramenti di derrate, sugli speculatori vari, doveva presto rivelarsi fallimentare a causa di nuove crisi e di nuove lotte in seno alla borghesia, di cui cercarono più volte di approfittare i nostalgici realisti (come ad esempio l’insurrezione monarchica del 5 ottobre 1795).
Alla base di questa instabilità di potere stava essenzialmente una nuova ragione. Dopo un periodo di demoralizzazione la classe operaia, alla testa di tutti gli altri ceti popolari, aveva ripreso la sua lotta; e in questa non aveva più i vecchi nemici feudali da combattere. I nuovi padroni sfruttatori, quelli che hanno il potere nelle mani, ora sono i borghesi e perciò la lotta di classe che si combatte è quella essenzialmente moderna fra proletariato e borghesia.
Per quest’ultima la “Cospirazione degli Uguali”, o di Babeuf, del 1796 sarà un campanello di allarme. La borghesia si trova ora in una situazione difficile e paradossale: per beneficiare dei frutti della Rivoluzione aveva dovuto abbattere la dittatura giacobina. Ora si accorge che la “libertà” economica, da essa pretesa per meglio sfruttare il lavoro altrui non la può avere che alla condizione di stabilire un “governo forte”, non c’è altra strada che quella della dittatura militare! Ad essa la borghesia affida l’esercizio del potere in nome dei propri interessi di classe.
Così, governo politico ed esercito, queste due forme del potere, si fondono ancor più intimamente e, dopo il colpo di Stato del 18 Brumaio (9 novembre 1799) si accentrano nelle mani di Napoleone Bonaparte. Sull’onda delle sue vittorie potrà consolidarlo e trasformarlo in Impero.
Come un tempo la monarchia assoluta aveva occupato una posizione di
arbitro tra nobiltà e borghesia, così il nuovo monarca assoluto, l’imperatore
Napoleone I, finirà per svolgere lo stesso ruolo, in una situazione di
quasi equilibrio tra le nuove classi in lotta: la borghesia e il proletariato
alla testa delle forze popolari.
6. Le forze della borghesia rivoluzionaria
Prima del 1789 i conflitti europei, per qualunque motivo scoppiassero, erano soprattutto “giochi di re”, come li definì Voltaire, che li considerava criminali, ridicoli ed incomprensibili alla gente comune. Erano condotti con grande prudenza e lentezza, per non spendere troppo e, come già ricordato usando una citazione di Mehring, non miravano alla distruzione del nemico, ma a qualche concreto vantaggio da scambiare al tavolo della pace: una piazzaforte, qualche colonia, una provincia. Tutto ciò era l’espressione del ridotto grado di sviluppo del mondo feudale, limitato nei suoi confini e orizzonti. I soldati, poi, erano reclutati a forza tra i contadini poveri, sbandati di ogni tipo e mercenari; sottoposti ad una ferrea disciplina per impedirne la fuga, non avevano alcuna possibilità di carriera perché gli ufficiali erano scelti solo fra i nobili. L’organizzazione tecnica di questi eserciti era determinata da questi presupposti.
Con la Rivoluzione invece la guerra divenne uno scontro frontale tra le due diverse concezioni della società e cambiò anche il concetto complessivo della guerra stessa. I soldati capirono ben presto che la guerra poteva anche essere un buon affare perché, spazzati via gli aristocratici, “ufficiali per nascita”, i gradi venivano dati per anzianità ma soprattutto per coraggio e merito sui campi di battaglia. Era quindi possibile una rapida carriera per cui ben presto l’esercito della repubblica fu comandato da giovani ufficiali di origine popolare. L’ex stalliere, Lazare Hoche che aveva partecipato alla presa della Bastiglia come soldato, divenne generale a 25 anni; il generale Marceau, caduto a 27 anni, era un ex scrivano; il generale Kléber era figlio di un muratore mentre l’ex operaio orafo Rossignol dopo la partecipazione alla presa della Bastiglia fu nominato generale e messo a capo dell’esercito della Vandea. Bonaparte, che conosceva bene i suoi uomini perché era uno di loro ed era diventato generale di brigata a soli 25 anni, prometteva ai suoi soldati, nel più completo spirito dell’ideologia borghese, onore, gloria e ricchezza.
La Rivoluzione borghese aveva in un primo momento distrutto insieme allo Stato feudale anche l’esercito, ma subito dopo dovette preoccuparsi di ricostruire l’apparato militare in parallelo a quello politico. La dura necessità della situazione imponeva di darsi una ferrea organizzazione se non si voleva veder fallire la Rivoluzione per opera sia della reazione interna sia di quella esterna, degli altri Stati rimasti feudali decisi a difendere l’ancien regime dall’infezione rivoluzionaria. Per questi Stati, che portarono l’attacco al cuore della giovane repubblica di Francia, la guerra aveva un carattere di “difesa reazionaria”. Al contrario la guerra di difesa della Francia era di “attacco rivoluzionario”.
Insieme alla Guardia Nazionale si creò anche un esercito regolare. Ma al generale Domouriez per organizzare una sola armata di 60-80mila uomini occorsero ben tre anni: dal 1789 al 1792. Se pure Domouriez vinse a Valmy gli eserciti di Prussia, Austria e Piemonte è incontestabile che l’esercito francese era ancora disorganizzato e mancava del cemento essenziale che distingue un esercito vero e proprio: la disciplina. Come avrebbe potuto la Francia fronteggiare il blocco europeo nel quale l’Inghilterra svolgeva un ruolo di primo piano? Forse con l’ascendente dei generali? Evidentemente l’influenza di costoro si potrà manifestare solo dopo l’esito vittorioso di diverse battaglie, non certo nei momenti di maggior pericolo per le sorti della Rivoluzione. Non c’era che un mezzo per riuscire nello scopo: il terrore nella politica interna, ovvero la dittatura militare.
Subito dopo le prime vittorie si ha la leva in massa del 1793: l’esercito è espressione della “nazione armata”. Il provvedimento imposto duramente, con ferocia, con eccessi spaventosi, salva, sia pure a caro prezzo, la Francia. Engels spiega che l’esercito francese del 1794 non era una truppa vibrante di entusiasmo e decisa a morire per la Repubblica ma una very fair army, cioè un esercito non ben strutturato, governabile con fatica. Ma già valeva assai più dei disciplinati e ben equipaggiati eserciti della Coalizione, pesanti e lenti nei movimenti complessivi per farsi accompagnare da una lunga fila di carri con le provviste, le armi e materiale occorrente di ogni tipo. Prosegue Engels: «I generali francesi erano sì migliori di quelli della Coalizione, anche se facevano molte gaffe; ma era la ghigliottina che assicurava l’unità di comando e l’armonia delle operazioni».
Dopo aver rotto il Blocco, nel 1795, la Francia si prepara a varare nuove leggi per l’organizzazione dell’esercito, come richiede la situazione, cioè il suo carattere di massa divenuto molto diverso da quello feudale. Nel 1798 si ha la legge sulla coscrizione obbligatoria: questo sistema di reclutamento non solo diventerà normale nella Francia borghese, ma sarà assimilato anche dagli altri Stati, con tutti gli aggravi finanziari che ne derivano per le casse statali a tutto vantaggio in primis di banchieri e finanzieri di tutta Europa.
Cambiò di conseguenza anche la tattica militare: la gran quantità di soldati a disposizione permise ai generali francesi di condurre offensive su larga scala, con marce rapidissime perché con un carriaggio molto ridotto, che disorientavano il nemico, gran uso dell’artiglieria e sanguinosi assalti alla baionetta che sfondavano le linee nemiche. In meno di 15 anni Napoleone chiamò alle armi nella sola Francia 1,8 milioni di giovani; di questi 800mila non ritornarono alle loro case, quasi la metà: era nata la guerra della borghesia e del capitale con un’accresciuta disponibilità di mezzi materiali e umani dovuti alla poderosa accelerazione delle forze produttive sviluppate con la rivoluzione sociale e industriale.
La classe dei borghesi, perché numericamente inferiore, ha sempre bisogno
del proletariato per formare i suoi grandi eserciti, ma deve sempre tenerli
sotto ferreo controllo perché ha compreso che sta addestrando e armando
il suo nemico.
7. La guerra moderna del Leone del Nord
Prima di analizzare i profondi mutamenti strategici introdotti da Napoleone dobbiamo però fare un passo indietro, nella storia militare, e ricordare Gustavo Adolfo di Svezia, detto “il Leone del Nord”, in quanto è un precursore della guerra moderna. Non ci stancheremo mai di ricordare che nella nostra concezione della storia ogni azione o personaggio che appaia una pietra miliare isolata nel percorso dell’umanità, ha alle sue spalle una precisa origine e collocazione materiale ed è a sua volta punto di partenza per ulteriori passi: una serie di anelli di congiunzione di una formidabile catena di esperienza umana socializzata che a dati momenti della storia bruscamente si spezza per ricostituirsi su un livello superiore.
Gustavo introduce la “tattica lineare”, poi rimasta praticamente invariata fino alla prima Guerra Mondiale. I suoi successi appartengono ad una guerra che ha toccato solo marginalmente l’Italia ed è lontana dalla nostra storia, la Guerra dei Trent’anni (1618-1648). Gustavo è ancor oggi considerato uno tra i comandanti più completi della storia militare, attuò numerose modifiche tecniche all’armamento dell’epoca ma soprattutto nell’uso delle armi da fuoco, dove meglio espresse le sue capacità.
Alleggerì il moschetto dimezzandone il peso; adottò, se addirittura non inventò, la cartuccia a carica fissa e con palla annessa. Una specie di “caramella” preparata in precedenza che al momento della carica veniva strappata con i denti. In questo modo non solo veniva reso più spedito il tiro, ma conferita un’uniformità balistica prima sconosciuta.
Gustavo Adolfo fu anche il padre della moderna artiglieria, innovandola tecnologicamente e introducendo il concetto di fuoco mobile di massa, mai praticato prima. Diminuì peso ed ingombro delle artiglierie, riducendone il numero ed uniformandone i calibri ai soli 24, 12 e 3 once, facilitando enormemente i problemi logistici. L’artiglieria diventò definitivamente il mezzo di distruzione principe sul campo di battaglia, decisivo per il suo esito finale.
Nella tattica rielaborò in maniera originale i precetti di Maurizio di Nassau; trovò in pratica il modo migliore per realizzare la tattica delle armi combinate nell’epoca della picca e del moschetto. L’alta cadenza di tiro dei suoi moschettieri e soprattutto l’invenzione della salva di fucileria, mediante la quale una linea di moschettieri scaricava contemporaneamente i suoi colpi sul bersaglio, provocava nei ranghi nemici non solo perdite ma anche una pericolosa disorganizzazione.
Gli svedesi di Gustavo Adolfo praticarono per primi questa salva di fucileria, serrando in tre i precedenti sei ranghi di fanteria: il primo in ginocchio, il secondo in piedi, il terzo puntava il fucile nel varco tra il primo e il secondo, poi, all’ordine del fuoco, la formazione sparava insieme. Va ricordato che, prima dell’adozione della cordite come polvere da sparo nel 1892, i campi di battaglia dopo pochi minuti di fuoco erano oscurati dal fumo della polvere pirica o della polvere nera. La salva contemporanea dava modo a questo fumo di diradarsi un poco tra un tiro e l’altro consentendo una migliore visibilità.
Inoltre i moschetti del tempo non erano affatto precisi: si diceva che se si veniva presi di mira da un archibugio oltre i 150 metri si era al sicuro come fra i muri di una cattedrale. Si danneggiava seriamente il nemico solo sparandogli contro a breve distanza, meglio sotto i cento metri, e con un tiro coordinato di unità. Altrimenti l’effetto sul nemico era praticamente nullo. L’effetto morale, le perdite, il disordine provocato dalla caduta dei morti e dei feriti che ostacolavano l’avanzata delle file nemiche, rallentava se non fermava l’avversario. In quel momento entravano in scena i picchieri che lo colpiva con le picche abbassate. Anche se il loro attacco non sfondava le linee nemiche davano ai moschettieri il tempo di ricaricare gli archibugi per una nuova salva di copertura e di preparazione per un nuovo attacco dei picchieri; e così via carica dopo carica, fino alla distruzione dell’avversario.
Durante la Prima Guerra Mondiale e in buona parte della Seconda, centinaia di migliaia di fanti, se non milioni, in tutti i campi di battaglia europei furono lanciati all’assalto con la baionetta delle linee nemiche dopo un fuoco di copertura di artiglierie, lanciafiamme, gas di ogni tipo. Quelle successive ondate di assalti temerari nel tentativo di sfondare le linee nemiche, usavano in sostanza quel tipo di combattimento derivato dalla Guerra dei Trent’anni.
La cooperazione tra moschettieri e picchieri in unità miste aveva già due secoli di vita ma Gustavo Adolfo la perfezionò con lo schieramento a diamante, o a T, con il quale si costruivano veri e propri corridoi di fuoco, protetti dai picchieri, che incrociavano il tiro contro il nemico da più direzioni. Enorme fu anche la rivoluzione nella cavalleria che abbandonò la “carica a caracollo”, manovra con la quale i cavalieri si avvicendavano facendo fuoco con le pistole, per reintrodurre la carica a briglia sciolta: un’innovazione che sconvolse i campi di battaglia, riportando in auge le unità a cavallo fino alla guerra di Crimea, dopo di che queste persero ogni utilità nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale.
Gustavo Adolfo rivalutò l’importanza dell’urto di cavalleria. Per
sopperire alla sua ridotta potenza di fuoco, i cavalieri dovevano prima
scaricare le pistole poi caricare il nemico con la sciabola, facendo accompagnare
gli squadroni da speciali distaccamenti di moschettieri che compensavano
con le loro salve. Sul campo di battaglia il sistema di armi così combinate
massimizzava i punti di forza di ciascun tipo di truppa compensandone i
difetti, ottimizzando la combinazione complessiva del dispositivo bellico.
Un meccanismo veramente ammirevole mediante il quale gli svedesi poterono
affrontare e vincere nemici molto superiori di numero ed anche in vantaggio
strategico.
Statistiche esposte alla riunione di Parma il 18-19 settembre
2010
Il 1974-1975 vide la fine di ciò che i vari propagandisti hanno chiamato “i trenta gloriosi”, cioè la fine di quel periodo derivato dalle distruzioni massicce e dal massacro della Seconda Guerra mondiale, che hanno permesso al capitalismo di uscire dalla crisi del 1929 e un lungo ciclo di accumulazione a ritmo sostenuto. Sono aumentati sempre più i settori sottomessi al capitale, eliminando quelli ancora rimasti alla fase piccolo borghese (agricoltura, artigianato, piccoli commerci, ecc.).
Intanto le contraddizioni proprie del capitalismo, la riduzione tendenziale del saggio di profitto e la sovrapproduzione di merci, preparavano nuove crisi, come tra le due Guerre, ma ad una scala ingigantita. Uno spettro oggi incombe sul mondo, quello di una catastrofica crisi di sovrapproduzione, che trascinerà, una spirale senza fine di deflazione dei prezzi, la distruzione massiccia del capitale. Il capitalismo l’ha già sperimentato in passato, ad esempio nel 1848 e nel 1929. Due date famose e clamorose. Ed ogni volta ad una scala superiore rispetto alla precedente.
Per ritardarlo, le borghesie dei diversi paesi industrializzati non hanno altra risorsa che spremere sempre più il proletariato allo scopo di aumentare il saggio del plusvalore per controbilanciare la caduta del saggio di profitto, e spingere gli Stati ed i privati in un indebitamento sempre più colossale, in una fuga in avanti allo scopo di assorbire la massiccia sovrapproduzione di merci.
Le misure economiche e sociali adottate dai vari Stati, smantellamento dei servizi pubblici, revoca dell’indicizzazione dei salari sull’inflazione, ricorso massiccio al subappalto, ricorso al precariato, liberalizzazione dei licenziamenti, immiserimento crescente del proletariato, aumento vertiginoso della produttività con aumento del carico di lavoro, ecc., senza potere eliminare lo spettro della crisi, hanno permesso alla borghesia di rinviarlo nel tempo.
Diversamente che nella prima grande crisi di sovrapproduzione a scala mondiale, quella del 1929, in questo dopoguerra non si è ancora verificato un precipizio nella deflazione e di crollo della produzione ma si è avuta una successione di crisi: 4 o 5 secondo i paesi. Ma vari fattori sembrano segnalare che ormai la borghesia mondiale ha sparato le ultime cartucce e che si avvicina il momento in cui non sarà più possibile evitare il processo tanto temuto della deflazione.
La deflazione implica la rovina della piccola e grande borghesia. E quest’ultima preferisce la guerra alla rovina.
Proviamo a confrontare la crisi che s’è aperta alla fine del 2008 con quella del 1974-75, che per la sua ampiezza era stata la maggiore in questo dopoguerra.
Se prendiamo gli USA, la crisi di 1974-75 è iniziata nell’ottobre per concludersi nel gennaio 1976: durata 15 mesi. Quella attuale è cominciata nel febbraio 2008 e dura ancora, cioè già 32 mesi senza che il capitalismo americano veda la fine del tunnel. Osserviamone l’intensità: caduta della produzione nell’anno rispetto al precedente, nel 1975 -9,2%; nel 2008 -3,2% e nel 2009 -9,4%, cioè -12,3% in tutto! Si confrontino i picchi della variazione del mese rispetto a 12 mesi prima: da gennaio a maggio 1975 si ha questa serie: -11,8%; -12,5%; -14,1%; -13,2%; -11,3%. In seguito i picchi negativi diminuiscono d’intensità. Invece da gennaio ad agosto 2009 si ha: -10,1%; -11,0%; -12,2%; -13,6%; -13,2%; -13,0%; -11,1%; -9,2%. Le peggiori cadute mensili della produzione sono simili al 1975, ma la durata della crisi è più lunga e quindi anche la sua intensità globale.
Dal novembre 2009 l’incremento mensile sull’anno precedente ritorna positivo. Con un rallentamento per gli ultimi mesi: da maggio a settembre abbiamo 8,0%; l’8,3%; 7,7%; 6,2%; 5,4%. Anche nei valori assoluti si assiste ad una risalita lenta della produzione, senza tuttavia raggiungere ancora i massimi precedenti: la produzione è ancora inferiore del 7,8% al suo massimo del 2007.
Passiamo alla Germania, il primo esportatore mondiale. La grande crisi di 1974-75 va dall’agosto 1974 all’aprile del 1976: 21 mesi. La presente recessione è cominciata nell’ottobre 2008, dura ancora e non sarà certamente chiusa alla fine dell’anno; durata attuale già 25 mesi. La presente crisi è dunque più lunga di quella del 1974-75, come per gli USA. Caduta della produzione annua nel 1974, -1,8%, nel 1975, -5,4%, cioè in tutto, 1975 sul 1973, -7%. Nel 2009 la caduta della produzione è stata, in un anno, del -16,4%! più del doppio che nel 1975 in due anni. È quello che prevediamo per tutto il capitalismo mondiale: di tali cadute su molti anni di seguito. E se confrontiamo i picchi della caduta di produzione peggiori, da dicembre a giugno 1975 abbiamo: -10,5%; -8,4%; -8,7%; -4,3%; -10,9%; -6,0%; -10,9%. E da gennaio ad ottobre 2009: -21,7%; -23,7%; -12,6%; -28,4%; -19,3%; -20,0%; -17,7%; -16,9%; -13,1%; -12,4%. Conclusione, questa crisi per la sua durata e per la sua intensità supera di molto quella del 1974-75. Gli incrementi negativi sono dell’ordine di quelli che si vedono durante una grave crisi deflazionistica e sono paragonabili a quella del 1929.
Per il momento la produzione si trova al -10,7% rispetto al massimo del 2007, che è quindi escluso si raggiunga entro l’anno.
La Germania è un capitalismo più giovane dell’Inghilterra e della Francia. Inoltre le enormi distruzioni dell’ultima guerra hanno rinnovato la composizione organica del capitale, cosa che ha permesso alla Germania di raggiungere forti ritmi di crescita in questo dopoguerra. La gravità della crisi è tanto maggiore quanto più il capitalismo è giovane ed i suoi ritmi di crescita sono stati elevati.
Il Giappone è la seconda economia mondiale ed un capitalismo relativamente giovane, anche se già appare più moribondo degli altri grandi paesi imperialisti.
La recessione di 1974-75 va da giugno 1974 a gennaio 1977: la durata di 43 mesi già batte allora tutti i record. Di fatto il Giappone è quasi in deflazione dal 1992. La produzione industriale, dopo avere raggiunto un massimo nel 1991, segna poi più cicli di aumento e diminuzione, ma senza mai riuscire a raggiungere il massimo del 1991. Ogni volta che vi si avvicina, la produzione cade nuovamente. Soltanto nel 2007 il massimo del 1991 sarà superato, per ricadere brutalmente nei due anni successivi.
Globalmente, in due anni, la produzione nel 1974-75 cadrà del 13%. Nel 2008-2009 del 24%! quasi il doppio. Se, come per gli altri paesi, si confrontano gli incrementi annui, si ha, dall’agosto 1974 al novembre 1975: -7,9%; -8,1%; -11,0%; -14%; -15,0%; -18,3%; -20,3%; -18,5%; -14,3%; -15,1%; -11,0%; -10,2%; -7,8%; -5,6%; -3,3%; -3,4%. Certo una crisi grave. Ma la recessione attuale ha fatto di peggio: da ottobre 2008 a novembre 2009 si ottiene questa serie: -6,4%; -16,1%; -20,1%; -29,8%; -37,6%; -32,8%; -30,1%; -28,2%; -22,0%; -21,8%; -17,8%; -17,1%; -14,0%; -2,9%. In seguito gli incrementi sull’anno precedente, già in recessione, ritornano positivi.
Ma rapportando la media degli indici dei primi 8 mesi del 2010 al massimo del 2007 abbiamo ancora -13,5%! Il capitalismo giapponese è lontano d’essersi cavato d’impaccio.
Gli indici assoluti tornano a crescere dal dicembre 2009 con un tasso annuo che raggiunge un massimo in febbraio e marzo con il +30,1% ed il +30,5%. Gli incrementi diminuiscono in seguito regolarmente per cadere al +14,2% ed il +15,4% in luglio ed agosto. Il vigore della ripresa è proporzionale alla caduta: ma man mano che si avvicinerà al massimo del 2007, questi incrementi dovrebbero diminuire per tendere verso zero poiché c’è poca possibilità di un nuovo ciclo di crescita.
Passiamo alla Francia. La crisi del 1974-75 si estende da settembre 1974 ad agosto 1976, cioè su 24 mesi. Nella presente crisi siamo già a 27 mesi e l’uscita ancora non si vede. Annualmente la produzione è caduta del -7,3% nel 1975 e del -14,4% nel biennio 2008-2010. La Francia è un paese capitalista più vecchio, con ritmi di crescita più deboli, come l’Inghilterra. I suoi picchi verso il basso sono dunque più deboli di quelli della Germania o del Giappone. Ciò non vuole dire che potrà sfuggire alla spirale infernale della recessione con forte deflazione e non subirà la stessa sorte degli altri.
Vediamo le serie degli incrementi. Da settembre 1974 a novembre 1975 segna: -1,6%; -3,0%; -8,1%; -6,9%; -7,7%; -7,6%; -8,5%; -9,2%; -13,8%; -10,0%; -12,4%; -15,0%; -8,9%; -7,0%; -3,2%. Non male per un vecchio capitalismo moribondo. Gli organismi sociali rispondono alle crisi come quelli biologici: quando sono giovani le malattie sono acute e li scuotono con violenza; diventano croniche con la vecchiaia. Ma finiscono, comunque, per portarsi via il moribondo.
Dall’ottobre 2008 al dicembre 2009 si ottiene: -6,4%; -13,4%; -7,5%; -16,2; -18,9%; -13,3%; -21,5%; -16,0%; -12,8%; -13,9%; -9,8%; -9,3%; -10,9%; -1,3%; -1,7%. Una bella crisi, anche nel vecchio!
Se si fa la media degli indici di questi ultimi 8 mesi, si ottiene -12,4% rispetto agli stessi mesi del massimo del 2007. Quindi questo massimo non sarà raggiunto entro l’anno, tanto più se si osserva il netto rallentamento da maggio in poi: 9,3%; 7,3%; 5,5%; 3,2%.
La Gran Bretagna è il più vecchio capitalismo industriale che ha regnato sul mondo intero dalla fine del 18° secolo fino a metà al 20°. I risultati, come è da aspettare per questo vegliardo, non sono brillanti. La grande crisi del 1974 si estende da dicembre 1974 fino a maggio 1978: per ben 42 mesi! Caduta massima della produzione non tanto grave: nel 1975, -7%. I maggiori rinculi mensili sono -9,1% nel gennaio 1974, e, da maggio ad agosto 1975, -9,2%; -9,1%; -7,0%; -9,3%.
Ma la crisi attuale ha fatto di meglio. In primo luogo l’Inghilterra è in recessione dal 2001! Infatti tra il 2000 ed il 2007 la crescita annuale media è stata del -0,6%! Quanto alla caduta della produzione nel 2008 e 2009, rispetto al massimo del 2000, abbiamo -6,8% e -16,5%. Gli incrementi annui mese-mese sono, da ottobre 2008 a febbraio 2010: -6,3%; -13,4%; -4,5%; -12,0%; -14,1%; -8,6%; -13,5%; -14,6%; -9,2%; -11,1%; -11,0%; -10,3%; -3,1%; -5,2%, -4,5%. In seguito la serie degli incrementi sull’anno precedente ridiventa positiva. Anche qui le cadute mensili sono nettamente più forti che nel 1974 e 1975.
In Italia la recessione inizia dall’ottobre 1974 per concludersi nel novembre 1975, cioè 14 mesi. Tuttavia l’Italia aveva già conosciuto una piccola recessione nel 1971.
Nell’anno la caduta della produzione nel 1975 è uguale -10%, peggiore di quella contemporanea dell’Inghilterra, della Francia o degli Stati Uniti: il capitalismo italiano è più recente di quello in questi tre paesi
Vediamo le serie mensili: -3,7%; -11,8%; -8,8%; -14,1 -6,0%; -14,3%; -9,5%; -17,7%; -8,2%; -9,8%; -21,1%; -6,9%; -3,8%; -0,9%. Indubbiamente peggio che per i 3 citati.
E la crisi attuale? Come l’Inghilterra l’Italia è in recessione dal 2001! Nel 2008 e 2009, rispettivamente al massimo del 2000, abbiamo -3,2% e -18,4%. Quindi anche in Italia, per durata ed intensità, la presente crisi è superiore a quella del 1974-75.
Ciò è anche confermato dagli incrementi mensili correnti da ottobre 2008 a gennaio 2010: -5,6%; -12,0%; -15,3%; -24,4%; -25,2%; -19,9%; -27,0%; -23,7%; -20,4%; -18,2%; -15,4%; -15,6%; -15,1%; -6,0%; -2,9%; -3,4%. Incrementi molto più negativi di quelli del 1975.
Se facciamo la media degli indici dell’anno 2010 che abbiamo a nostra disposizione, otteniamo 1290,8: il confronto con il massimo del 2000 ci dà: -20,5%! L’Italia produce oggi un quinto in meno rispetto a dieci anni fa.
Il capitalismo in Russia non ha accusato recessione nel 1974-75, ma invece una drammatica caduta della produzione su parecchi anni, che ha portato a disintegrare l’unità dell’URSS. Da 22457, indice della produzione industriale allora, è passato a 9985 nel 1998, cioè a meno della metà! Tuttavia questa crisi non è stata accompagnata dalla deflazione ed assomiglia alle recessioni che si sono avute in questo dopoguerra, con una caduta della produzione in coincidenza con l’inflazione.
Invece che portare alla rovina la borghesia, questa crisi ha visto al contrario un arricchimento mostruoso in tutti gli strati di parassiti della società russa. Stampando moneta a più non posso la borghesia russa è riuscita a scaricare il peso della crisi sul proletariato.
Per di più questa rovina è stata interpretata nella confusione più totale, ancora una volta la propaganda borghese, sia dall’ovest sia dall’est, è riuscita a farla passare per la crisi del socialismo. Quello al quale abbiano assistito non è stato il fallimento di un socialismo inesistente, bensì del capitalismo russo e della teoria staliniana che pretendeva di poter controllare la legge del valore e l’accumulazione del capitale tramite la proprietà statale dei mezzi di produzione. Il “socialismo” in salsa staliniana non era altro che capitalismo di Stato, e con un grande settore privato nell’agricoltura. Questo capitalismo di Stato, battezzato “socialismo”, è morto di indigestione, di una crisi classica di sovrapproduzione di merci, soprattutto nel settore dell’industria pesante, la sezione I di Marx, e di una riduzione del saggio del profitto. Esattamente come è avvenuto in Occidente.
Oggi l’industria russa non ha ancora raggiunto il massimo del 1989, 21 anni fa. Anche per il capitale russo, come per la Germania ed il Giappone, questa crisi è determinata dalla fine dell’epoca favorevole del dopoguerra, con incrementi produttivi che facevano invidia ai concorrenti, e la sua entrata nella crisi mondiale del capitalismo.
Come nel resto del mondo capitalista, la Russia ha conosciuto una forte recessione nel 2009: -9,4% rispetto al 2008 e -28% rispetto al 1989. Per quanto riguarda la serie mensile, abbiamo da ottobre 2008 ad ottobre 2009: -2,47%; -11,5%; -14,0%; -13,5%; -15,7%; -15,3%; -15,2%; -14,3%; -11,9%; -10,7%; -10,8%; -8,3%; -5,6%. Veramente una forte contrazione industriale. Rispetto ai massimi del 2008 e del 1989 la media degli indici dei primi 9 mesi segna una diminuzione del -3,1% e del -22,6%.
Come per gli altri paesi, man mano che ci si avvicina al massimo precedente, gli incrementi diminuiscono: da giugno, in cui l’incremento ha toccato il massimo, a settembre abbiamo: 8,3%; 7,7%; 6,2%; 5,4%.
La Cina è un capitalismo giovane rispetto agli altri grandi paesi imperialisti, ma ciò non gli ha evitato due gravi recessioni: nel 1961 con un enorme -42%, poi nel 1962 con -11%, cioè -48% in tutto, e nel 1967 e 1968 con rispettivamente -14% e -9%, ossia in totale -22%. La prima crisi fa seguito al “grande balzo davanti” che aveva ritirato un grande numero di braccia dall’agricoltura, senza sostituirle con macchine, il che ha portato al crollo della produzione agricola e ad una grave crisi di sovrapproduzione industriale. La crisi fu particolarmente drammatica poiché causò una carestia nelle città che comportò milioni di morti.
La seconda recessione fu conseguenza di ciò che è stato chiamato “rivoluzione culturale”, cioè un tentativo disperato, con metodi volontaristi, di produrre “una marcia forzata” del capitale.
Tuttavia, benché esagerati, i ritmi di crescita della produzione industriale cinese riflettono un capitalismo giovane e pieno di resistenza. Dal 1949 al 1975 la crescita annuale media è stata pari al 12,7%. In seguito dal 1975 al 2009 dell’11,0%. Sul periodo 1949-2009 la crescita annuale media è dell’11,7%.
Se nel 1976 la produzione industriale cinese ha conosciuto un rinculo di -2,5%, le altre recessioni mondiali si sono tradotte in Cina soltanto con un semplice rallentamento: 1,9% e 5,5% per la recessione del 1981-1982, 3,8% e 3,2% per quella del 1989-1990, e 9,3% e 8,4% per il 2008-2009.
Occorre osservare che il calcolo degli indici cinesi non segue la metodologia internazionale, a tal punto che l’ONU, benché la Cina sia membro permanente del Consiglio di Sicurezza, non inserisce le sue statistiche industriali nel suo Bollettino mensile. I dati riguardanti il commercio paiono più affidabili. Per calcolare l’indice della produzione industriale gli statistici borghesi nel resto del mondo hanno abbandonato la loro ideologia e si comportano da “marxisti”: ammettono, di fatto, che ciò che aggiunge valore alle materie prime è il lavoro dell’operaio, quello che loro chiamano il “valore aggiunto”. Escludono dunque giustamente il valore delle materie prime trasformate nel corso del processo e l’usura del capitale fisso. Calcolare, come fanno i cinesi, l’indice della produzione sulla base della cifra d’affari, conteggia più volte il prezzo delle materie prime e l’usura delle macchine, già prodotte in processi precedenti. Questo viene a gonfiare gli indici, in particolare attribuendo più peso alle industrie di trasformazione finali.
Inoltre nelle statistiche ufficiali cinesi appare una incongruenza tra gli indici mensili e quelli annuali. Insomma, questi indici devono essere presi ancora con più cautela di quelli forniti dagli altri Stati. Probabilmente dove appaiono indici molto bassi, come nel 1981-82 e 1989-90, dovremmo sostituire indici negativi.
Ecco la serie mensile per il periodo ottobre 2008 - agosto 2009: 5,0%; 2,3%; 2,6%; 2,6%; 7,7%; 5,1%; 4,1%; 5,7%; 7,4%; 7,5%; 9,0%. Si ha dunque un rallentamento. Occorre mettere in parallelo questi incrementi con il vero crollo del consumo di elettricità nello stesso periodo e sul quale le autorità cinesi non hanno dato nessuna spiegazione. Si può dunque presumere che al posto degli incrementi deboli, ma positivi, si dovrebbero segnare degli incrementi negativi.
È però certo che il capitalismo cinese è stato duramente coinvolto nella crisi del 2008-2009. E le ricette applicate sono state le stesse di ovunque: investimento di molte centinaia di miliardi di dollari in lavori per stimolare l’industria, abbassamento dei tassi d’interessi e controllo del credito per le banche e l’industria. L’esposizione del credito bancario è cresciuta nei primi 8 mesi del 2009 al 27%, contro il 16% nel 2008. Però almeno la metà del credito è stata utilizzata dalla borsa e nel settore immobiliare, cioè ha preso la strada della speculazione, che dilaga ad una scala mai vista. Questo è un netto indice di una situazione di sovrapproduzione e del fatto che la Cina si trova anch’essa alla vigilia di una grave crisi deflazionistica.
E ripetiamo: più i ritmi di crescita sono stati forti, più la caduta sarà brutale.
Se l’India è un grande paese quanto a numero di abitanti, 1.185
milioni, e per la sua estensione, 3.287.000 Kmq, resta tuttavia un paese
secondario per l’industria. Anche il volume delle sue esportazioni ed importazioni
rimane inferiore a quello della Svizzera, che, per altro, e molto industrializzata,
in rapporto alla dimensione.
La nascita del capitalismo indiano non è recente perché vi
fu introdotto dalla Gran Bretagna a metà Ottocento, con le ferrovie e
tutte le industrie relative. Più vecchio del capitalismo cinese, i suoi
incrementi saranno quindi inferiori, ma ancora tipici di un capitalismo
giovane.
La nostra serie di indici, ottenuta dall’Annuario dell’Onu, parte dal 1952, ma ci sarà possibile risalire più indietro grazie agli studi sul capitalismo indiano, prevalentemente in lingua inglese.
Anche il capitalismo indiano ha conosciuto le sue recessioni in questo dopoguerra e non è sfuggito alle crisi mondiali, benché meno marcate che nei paesi di più antica industrializzazione. Si possono distinguere tre cicli: 1953-1966, con un incremento medio annuale del 6,9%; 1966-1972, con il 4,4% di aumento medio annuo; e dal 1972 ad oggi. Se facciamo terminare questo ciclo al 2007 otteniamo come incremento 6,2%, di più che nel precedente ciclo 1966-1972.
La crisi peggiore in questo dopo guerra è stata quella del 1973-74 nella quale si ha rispetivamente 0% e 1,8% di incremento annuo. Più precisamente la recessione è durata dal febbraio 1973 all’ottobre 1974 con questa serie di incrementi: -3,5%; 1,0%; -3,4%; -5,1%; -4,8%; -2,1%; 0%; -2,7% e -3,9%.
Nelle altre "recessioni" non si ha diminuzione delle produzioni ma una debole crescita o una stagnazione. Nella serie mensile gli ingrementi negativi si alternano ai positivi, il che dà una bassa media annuale. Così per il 1979 e il 1980 abbiamo 0,81% e 0,80%; dal 1991 al 1993: 1,91%; 3,76% e 0,90%. Infine per il 2008 e il 2009 abbiano 2,73% e 10,4%, essendo riprese le produzioni nel 2009. La serie mensile da agosto 2008 a maggio 2009 ci dà: 1,7%; 6,0%; 0,1%; 2,5%; -0,3%; 1,0%; 0,2%; 0,3%; 1,2% e 2,0%, cioè stagnazione!
La statistica delle produzioni nel capitalismo non è certo una scienza
esatta! Tuttavia, malgrado tutte le riserve che si possano fare, riflette
la realtà, sebbene deformata. Il capitalismo indiano non ha ancora il
peso di quello cinese e i suoi starnuti non hanno ripercussioni sul resto
del mondo come quelli di Cina e Usa. Ma il suo debole peso sul mercato
mondiale non gli impedirà di conoscere a sua volta una forte crisi di
sovrapproduzione e di deflazione.
Il prossimo mese di gennaio ricorrerà il 90° anniversario della fondazione del Partito Comunista d’Italia (Sezione della Internazionale Comunista). Nell’occasione riportiamo in questa sezione di Archivio della Sinistra alcuni documenti, tanto della III Internazionale quanto della Frazione comunista, che precedettero ed anticiparono la scissione di Livorno.
Lenin, al suo ritorno in Russia, nell’aprile 1917, oltre a ritracciare le grandi linee del programma del Partito comunista, parlò anche di ricostituzione dell’Internazionale. Disse che quest’opera doveva poggiare su due basi essenziali: la eliminazione dei socialpatrioti e dei socialdemocratici, ossia quei socialisti della II Internazionale che ipotizzavano la possibilità dell’emancipazione del proletariato senza una lotta di classe spinta fino all’insurrezione armata e senza la necessità di instaurare un regime di dittatura del proletariato dopo la vittoriosa presa del potere.
Proprio a questo scopo la Frazione Astensionista del P.S.I., al Congresso di Bologna del 1919, aveva proposto ai “comunisti elezionisti” una intesa comune qualora avessero accettato il cambiamento del nome del partito e l’espulsione della destra socialdemocratica. Questo passo non ebbe esito favorevole poiché nel PSI nessuno, allora, volle abbandonare il pregiudizio dell’“unità del partito” e soprattutto perché, da parte di tutti, si prevedeva una grande e clamorosa vittoria elettorale. Così si preferì fare scendere il proletariato sul terreno legalitario, mentre dominava nelle piazze, senza capire che 156 deputati socialisti che avessero varcato la soglia del parlamento cantando bandiera rossa non avrebbero rappresentato la vittoria, ma la sconfitta del proletariato.
Solo la Frazione Astensionista impostò la sua battaglia all’interno del partito sui punti che discriminavano le due scuole che ancora coesistevano nel P.S.I.: la rivoluzionaria e la riformista, di impostazione piccolo borghese.
Il compito primario venne individuato nella necessità di riaffermare le autentiche basi teoriche del marxismo e della sua prospettiva di trapasso rivoluzionario dal potere borghese a quello del proletariato, in linea con la dottrina e il programma della Terza Internazionale di Mosca, che non erano risultati nuovi ed originali, dovuti alla vittoria della Rivoluzione russa, ma si identificavano con la autentica impostazione marxista.
Era quindi indispensabile che dalle rovine della II Internazionale risorgessero i partiti proletari, operando una spietata selezione e scissione da tutti gli elementi revisionisti e socialdemocratici, altrimenti si sarebbe corso il rischio di vedere insinuate nelle file della III Internazionale le peggiori risme del socialpatriottismo e del riformismo.
Questi elementi, che avevano interesse ad entrare nell’Internazionale Comunista, non avrebbero avuto difficoltà ad accettare, a parole, il programma comunista. In fondo ormai la guerra era passata, il problema della difesa nazionale non si poneva più immediato, sarebbe stato facile promettere che, di fronte ad un nuovo conflitto imperialista, non si sarebbe ricaduti nei vecchi errori sciovinisti. Pure la rivoluzione in Occidente non era un problema immediato e niente sarebbe stato più facile che riconoscere il potere dei soviet, la dittatura del proletariato, il terrore rosso, etc., etc. Con i dovuti distinguo, con i dovuti riconoscimenti della diversità e caratteristiche nazionali, qualunque opportunista poteva proclamare la sua adesione alla III Internazionale.
Si raccontò che il riformista italiano Modigliani, in un colloquio con il collega francese Longuet, avesse esortato quest’ultimo ad aderire al Comintern dicendo: «Perché, in fin dei conti, non dovremmo aderire alla III Internazionale? E ciò a che cosa ci obbliga? In realtà a nient’altro che inviare, ogni quindici giorni, al Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista una cartolina con una bella veduta».
Oltre l’aneddoto, vero o falso che sia, la Frazione Astensionista giustamente sentiva l’esigenza che l’Internazionale richiedesse ai partiti aderenti l’accettazione totale e senza riserve dei suoi principi, nel campo della teoria come in quello dell’azione pratica.
La maggioranza massimalista del P.S.I. dichiarava di accettare e disciplinarsi alle tesi di dottrina e di tattica della Internazionale Comunista. Ma, posta innanzi ai 21 punti delle condizioni di ammissione, che erano la pietra di paragone con la quale si misuravano le dichiarazioni di adesione, si dichiarò disposta ad accettarle tutte meno una, cioè quella che avrebbe dovuto immediatamente e tangibilmente tradurre in atto: la cacciata dei riformisti. Le condizioni di ammissione, alla cui formulazione e rigidità la Frazione Astensionista contribuì fattivamente, furono concepite in questo spirito: il rifiuto di una sola di esse avrebbe rappresentato la prova che l’accettazione di tutto il resto era da considerare insincero e inaffidabile.
Queste furono le basi programmatiche alle quali aderì la Frazione Comunista e sulle quali nacque il Partito Comunista d’Italia.
“Il Comunista” del 5 dicembre 1920 scriveva: «Abbiamo anche
udito (…) l’invito ad attenuare qualcuno dei caposaldi del nostro programma,
a piegare, sia pur di poco, la rotta a destra per attirare altre forze,
per fare un migliore giuoco contro gli unitari. Unanimi, abbiamo detto
di no (…) Non abbiamo piegato un solo lembo della bandiera. Abbiamo detto:
chi non è con noi è contro di noi. Ed abbiamo soggiunto di esser ben
certi che la vera avanguardia del proletariato d’Italia, la parte sana
e generosa del nostro partito, i comunisti sinceri e convinti, anche se
oggi ancora avvolti nelle pieghe di “casi di coscienza” non potranno
e non dovranno essere che con noi».
L’INTERNAZIONALE COMUNISTA
AL PROLETARIATO ITALIANO
Alla Direzione del Partito, a tutti i membri del Partito,
a tutto il proletariato rivoluzionario
(Il Comunista, n. 1, 14 novembre 1920)
La vostra delegazione al II Congresso Universale dell’Internazionale Comunista vi rimetterà tutti i deliberati e tutto il materiale di questo Congresso. Il Comitato Esecutivo considera inoltre indispensabile indirizzarvi la presente lettera che commenta taluni punti delle risoluzioni concernenti direttamente la Sezione Italiana della Associazione Internazionale dei proletari rivoluzionari comunisti.
I rapporti ufficiali dei vostri delegati, i giornali ed altro materiale che ci è stato portato, le numerose interviste che noi abbiamo avuto con tutti i compagni italiani venuti qui, ci hanno permesso, noi lo speriamo, di farci una esatta idea dello stato attuale delle cose nel Partito Italiano. Il progetto della presente lettera è stato sottoposto nelle sue grandi linee a tutti i delegati italiani coi quali abbiamo esaminato dettagliatamente tutti i problemi che vi sono sollevati. In questa lettera il Comitato Esecutivo si propone, con sincerità tutta proletaria, di attirare l’attenzione di tutti i membri del vostro partito su taluni lati deboli della politica del partito.
Il Comitato Esecutivo considera che questo non è soltanto suo diritto ma anche suo primo dovere. Il proletariato militante non è affatto interessato a mascherare per mezzo di procedimenti diplomatici e burocratici le colpe e gli errori che commettono le sue organizzazioni. Il nostro interesse di noi tutti, non è di farci dei complimenti reciproci, ma quello di istruirci approfittando dell’esperienza che ci offre il movimento di tutti i paesi per l’emancipazione del lavoro.
Nell’attacco internazionale contro il capitale, il proletariato italiano ed il suo partito marciano in prima fila. Il vostro partito è entrato fra i primi nella Terza Internazionale; gli è pertanto maggiormente indispensabile stabilire la linea della propria tattica con una nettezza assoluta e di vincere al più presto possibile la resistenza nefasta sorgente dalle colpe volontarie e involontarie del partito.
Compagni, noi attiriamo soprattutto la vostra attenzione sopra la situazione internazionale. È chiaro per tutti che noi entriamo nel periodo della lotta suprema contro il capitale. La guerra della Polonia capitalista contro la Russia proletaria, guerra nella quale la Polonia si trova sostenuta dal mondo intero, si trasforma inevitabilmente in una lotta europea fra il capitale e il lavoro.
Perciò il primo dovere di ogni partito che accetta non soltanto a parole, ma a fatti la dittatura del proletariato, è di prepararsi a gettare al momento opportuno sulla bilancia tutto il peso dell’energia rivoluzionaria del proletariato. Nulla è più falso attualmente che la tattica dell’attesa indeterminata della rivoluzione negli altri paesi. Se taluni compagni italiani pretendono che bisogna attendere una rivoluzione in Germania e in Inghilterra, perché l’Italia non potrebbe fare a meno di carbone importato, i compagni di altri paesi presentano argomenti analoghi.
In Germania si dice che è impossibile impadronirsi del potere per timore dell’Intesa; in Austria perché l’America e le sue colonie troncheranno ogni relazione commerciale, ecc. È chiaro che in tal modo si forma una assicurazione mutua dei capitalisti contro la rivoluzione, ritardando la rivoluzione internazionale, precisamente nel momento in cui è necessario attivarla e svilupparla.
Il Comitato Esecutivo lo sa: vi sono dei momenti in cui il proletariato ha più interesse ad aspettare che le sue forze si accrescano e quelle della borghesia diminuiscano. Ma non bisogna dimenticare che ogni ora di sosta è guadagnata ed impiegata dalla borghesia anch’essa all’organizzazione delle proprie forze per creare un esercito bianco borghese per l’armamento dei figli di papà, dei contadini ricchi, ecc.
È evidente che la borghesia italiana è lontana oggi dall’essere tanto male organizzata quanto lo era un anno fa. Essa raccoglie febbrilmente le sue forze, s’arma e nello stesso tempo cerca di scompaginare e demoralizzare il proletariato italiano con l’aiuto dei riformisti.
Il pericolo è grande, se la borghesia italiana si rafforzerà ancora ci mostrerà i denti. Impaurendo gli operai italiani con lo spettro dell’Intesa taluni leaders italiani li inducono volontariamente o involontariamente in errore. Contro la classe operaia italiana sollevata e che abbia vinto la propria borghesia, l’Intesa non potrà inviare oggi i propri eserciti. Gli avvenimenti che si svolgono attualmente in Inghilterra in seguito al tentativo degli imperialisti inglesi di sostenere attualmente la Polonia bianca ne sono una prova evidente. Gli operai inglesi sono animati da sentimenti rivoluzionari. La borghesia francese non oserà inviare i suoi eserciti per soffocare la rivoluzione proletaria in Italia, e se essa arrischiasse, si romperebbe il collo in questa avventura. Se anche taluni dirigenti spaventano gli operai italiani colla possibilità di un blocco dell’Italia in caso di una insurrezione vittoriosa del proletariato, ciò avviene per una errata impostazione del problema. Dato pure che un tal blocco fosse possibile, potrebbe essere questo un argomento contro la rivoluzione?
È chiarissimo che in nessun paese del mondo la vittoria del proletariato è possibile senza sofferenze e senza privazioni per gli operai. La Russia soviettista non sopporta forse da tre anni il blocco?
Se la rivoluzione non si svolgerà presto negli altri paesi, è probabile che al proletariato italiano sia riservato un periodo altrettanto difficile ed aspro quanto quello attraversato dal proletariato russo dal giorno della grande rivoluzione dell’ottobre 1917.
Ma vi sono assai più probabilità perché il cammino della rivoluzione italiana non sia così difficile. La Russia soviettista ha dovuto lottare molto tempo da sola contro tutto il mondo borghese. La rivoluzione proletaria italiana non sarà in ogni caso più sola.
La classe operaia d’Italia è di una unanimità meravigliosa. Il proletariato italiano è tutto per la rivoluzione. La borghesia italiana non potrebbe contare sulle sue truppe regolari: nel momento decisivo queste truppe passeranno dalla parte degli insorti. Il proletariato agricolo è per la rivoluzione.
La più grande parte dei contadini è per la rivoluzione. L’ultima parola spetta al partito operaio italiano. La borghesia italiana sente venire la tempesta, non è per nulla che essa crea tanto febbrilmente la sua guardia bianca. I continui eccidi e scontri tra operai e gli sbirri della borghesia (per esempio Ancona) dimostrano che la guerra civile si accentua. In una tale situazione ogni incertezza sulla condotta, ogni esitanza nell’interno del partito possono essere per la classe operaia sorgente di incalcolabili disastri.
Invece di assicurare i capitalisti contro la rivoluzione è necessario assicurare il successo di questa: ma non si può arrivare che accentuando la marcia della rivoluzione non con delle insurrezioni parziali e male organizzate, ma colla rivoluzione stessa.
Il Comitato Esecutivo attira la vostra attenzione sopra un altro pericolo derivante dal fatto di trascinare artificialmente in lungo l’esplosione della rivoluzione. Tutta l’Europa si trova talmente economicamente esausta che le riserve che rimangono del regime capitalista diminuiscono con una rapidità catastrofica. Tuttavia è proprio di queste riserve, frutto della lunga fatica degli operai, che il proletariato vincitore dovrà vivere durante il primo periodo del proprio dominio. È per questo che, al pari di tutte le altre condizioni, ogni giorno di inutile ritardo rappresenta un immenso ostacolo di più per la dittatura proletaria.
Lo ripetiamo ancora: «Noi siamo contro ogni provocazione artificiale di sommosse. Noi siamo contro le insurrezioni isolate ed inconsiderate. Ma non vogliamo neppure che il partito proletario si trasformi in un corpo di pompieri destinato a spegnere la fiamma della rivoluzione quando questa prorompe da tutti i pori della società capitalista».
L’Italia presenta oggi tutte le condizioni essenziali garantenti la vittoria di una grande rivoluzione veramente popolare. Bisogna comprenderlo e questo deve essere il punto di partenza. Tale è la constatazione della Terza Internazionale. Ai compagni italiani spetta di decidere tutto ciò che resta a loro a fare in seguito.
Crediamo che da questo punto di vista il Partito Socialista Italiano ha agito ed agisce con troppa esitanza. Ogni giorno ci apporta la notizia di nuovi disordini in Italia. Tutti i testimoni compresi i delegati italiani stessi, assicurano, lo ripetiamo, che la situazione in Italia è profondamente rivoluzionaria. Tuttavia il partito, in molti casi, si tiene da parte, ed in altri, si contenta di contenere il movimento invece di sforzarsi a generalizzarlo, a dargli la parola d’ordine, dargli un carattere sistematico e organizzato, trasformarlo nell’assalto decisivo contro la fortezza del capitale. In questo caso il partito abbandona, in talune località, le masse nelle mani degli anarchici, esponendosi così al pericolo di perdere la propria autorità. Tale tattica è piena di conseguenze deplorevoli delle quali è difficile misurare la portata del male che possono cagionare. Così non è il partito che conduce le masse, ma sono le masse che spingono il partito: questo non fa che trascinarsi a rimorchio degli avvenimenti, cosa che è assolutamente inammissibile.
Se noi esaminiamo le cause di un tale stato di cose, scorgiamo che la principale consiste nel fatto che il partito è contaminato da elementi riformisti o liberali borghesi, i quali nel momento della guerra civile si trasformano in veri agenti della controrivoluzione, nemici della classe proletaria.
È assurdo e ingenuo confondere la correttezza e l’onestà personale di questi individui con il danno obiettivo che essi compiono. I signori Turati, Modigliani, Prampolini, e tutti quanti, possono essere personalmente onestissimi, ma obiettivamente, essi sono i nemici della rivoluzione e come tali, non debbono punto trovar posto nel partito del proletariato comunista. Ogni discorso parlamentare, ogni articolo,ogni opuscolo riformista, è per sua essenza un’arma intellettuale per la borghesia contro il proletariato. È impossibile preparare le masse per la dittatura proletaria se nelle proprie file si hanno degli avversari, come non è possibile preparare le masse a un energico attacco quando nelle proprie file vi sono dei nemici per principio (aperti o segreti) di una tale lotta. E’ impossibile preparare le masse ad una rivoluzione violenta se ci sono nelle proprie file dei nemici della rivoluzione e dei partigiani della pacifica penetrazione del socialismo. Ma siccome questa gente continua ad essere presentemente nel partito italiano, si capisce che la tattica di questo non può essere uniforme.
La frazione parlamentare trascina seco l’ingombrante zavorra del riformismo e questo impedisce ad essa di avere una linea di azione veramente rivoluzionaria. L’utilizzazione della tribuna parlamentare è necessaria al proletariato. Ma per questo è necessario che tutta l’attività della frazione parlamentare del proletariato esprima la tattica rivoluzionaria del proletariato. Disgraziatamente non si potrebbe dire che ciò avvenga da parte della frazione parlamentare italiana. Questo stato di cose genera all’interno del partito una tendenza all’astensionismo. Tale tendenza ha torto, ma essa ha perfettamente ragione di esigere l’esclusione dei riformisti dal vostro seno.
Più grave ancora è la situazione nei Sindacati. Il proletariato non può vincere senza una regolare direzione di queste organizzazioni da parte del partito. Tuttavia taluni dei posti più importanti sono tenuti da elementi riformisti, da una cricca burocratica che detiene l’apparecchio direttivo sindacale e compie ogni sforzo per frenare lo sviluppo della rivoluzione.
Per caratterizzare la tattica di questi signori basti dire che essi non hanno riunito il Congresso dei sindacati da più di sei anni, temendo di vedersi sfuggire il timone dalle loro mani piccolo-borghesi.
Gli operai sono per la rivoluzione e i Sindacati operai sono contro la rivoluzione. I Sindacati professionali italiani, alleati al vostro partito rimangono ancora parte costitutiva della Internazionale gialla e traditrice di Amsterdam, agenzia evidente degli imperialisti. I dirigenti dei vostri Sindacati, come D’Aragona ed altri riformisti, collaborano colla borghesia nelle sue commissioni create dai capitalisti per la lotta contro la rivoluzione. Simile situazione è assolutamente inammissibile. Non è così che si prepara la dittatura del proletariato. Il Partito deve escludere dal proprio seno i capi riformisti e mettere al posto di quelli che fanno il giuoco della borghesia, i veri capi della rivoluzione proletaria.
Il Partito deve aiutare gli operai a trasformare i Sindacati in cittadelle della rivoluzione proletaria.
Il secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, non meno del primo Congresso costituente, si è pronunciato favorevolmente ad un riavvicinamentodi tutti gli elementi veramente rivoluzionari e i proletari del sindacalismo, dell’anarchismo, dei shop stewards Committee e dei I.W.W. Effettuando questo riavvicinamento, il Congresso ha giovato grandemente al movimento operaio. Deve avvenire la stessa cosa in tutti i paesi ed in Italia specialmente. Le decine di migliaia di proletari rivoluzionari i quali, per errore o per ignoranza, fanno ancora parte dei sindacati diretti dagli anarchici sindacalisti (Unione-sindacale) ci sono mille volte più vicini che i riformisti che consentono di essere considerati quali membri della Terza Internazionale, ma che in realtà ostacolano ogni passo in avanti della rivoluzione proletaria.
Non si può vincere l’anarchismo che dopo averla finita totalmente col riformismo. I compagni italiani non lo dimentichino e ne traggano conclusioni nette ed ardite intorno ai compiti dei veri rivoluzionari in epoca rivoluzionaria. Le eliminazioni degli elementi riformisti dal partito e la collaborazione cogli elementi migliori proletari dei sindacalisti e degli anarchici durante la lotta rivoluzionaria, tale è l’attuale nostra divisa.
Lottare senza mercé contro gli elementi di destra (riformisti) che sostanzialmente sono nostri nemici e nemici della classe proletaria: una propaganda costante fra le masse operaie che sono orientate verso il sindacalismo e l’anarchismo per illuminare i loro errori, l’avvicinamento sistematico nell’opera rivoluzionaria, tale è il nostro metodo.
Tutta l’arte della strategia proletaria è basata sul legame del partito colle grandi masse operaie, perciò è indispensabile che il partito presti la più seria attenzione all’importantissimo movimento dei Consigli di fabbrica e di officina; il partito deve dirigere attivamente questo movimento dal centro e sul posto, e non astenersene col pretesto sdegnoso che questo movimento porta un carattere spontaneo, infantile, non organizzato. Il dovere del partito è quello precisamente di porre rimedio a questi difetti, di aiutare il movimento a prendere la sua massima efficienza ed incanalarlo nel torrente della rivoluzione. La sorte dell’intero movimento dipende in modo considerevole dalla giusta soluzione di queste questioni. I nemici della classe proletaria si rendono perfettamente conto della situazione. Il corrispondente del giornale borghese francese L’Information ha avuto perfettamente ragione di dire che la chiave dei destini della rivoluzione in Italia si trova nelle mani del partito socialista italiano: se il partito si impegna nella via indicatagli da Turati, il capitalismo è salvo; se il partito prende la strada della lotta rivoluzionaria, il capitalismo è finito. I dirigenti in vista del vostro partito, ci hanno detto che ogni giorno in Italia gli organi influenti della borghesia italiana fanno assolutamente le stesse dichiarazioni.
Queste non sono affermazioni accidentali. In quasi tutta l’Europa sono i riformisti, i gialli e i socialisti all’acqua di rosa che costituiscono il principale sostegno della borghesia. In Germania sono gli Scheidemann, i Kautsky che salvano la borghesia, in Austria sono i Bauer e i Renner; in Svezia i Branting ed i Palmschern; nel Belgio di Vanderweld e i De Bruckere; in Olanda i Troelstra ed i Vligen; in Polonia i Darscinski ed i Pilsudski, ecc. Non è per nulla che la borghesia cerca dovunque dei ministri “socialisti”, non è per nulla che la borghesia italiana è pronta a prendere come ministri i signori Modiglioni, Duroni e consorti. Non è per nulla che il governo italiano attira sistematicamente nelle sue Commissioni i riformisti e i leaders del movimento sindacale. Il destino del capitalismo italiano dipende oggi dalla condotta del vostro partito. Il Comitato Esecutivo esprime la certezza che il Partito non prolungherà di un giorno la esistenza del capitalismo.
Perciò, in nome della solidarietà internazionale e della rivoluzione universale il Comitato Esecutivo domanda al Comitato Centrale del Partito Socialista di mettere tutte queste questioni all’ordine del giorno in tutte le organizzazioni del Partito e di risolverle, nel Congresso del Partito, il più presto possibile. Il Comitato Esecutivo crede indispensabile di dichiarare che esso considera la questione della epurazione (purificazione) del Partito e delle altre condizioni di ammissione alla Terza Internazionale in modo ultimativo. Esso non saprebbe altrimenti assumere tutta la responsabilità dinanzi al proletariato internazionale per la sua Sezione italiana. Il Comitato Esecutivo spera che il valoroso proletariato italiano non permettendo a nessuno di disertare il proprio posto occuperà nella imminente battaglia delle classi che si impegna, uno dei primi posti ed assicurerà dal canto suo il potere inflessibile della dittatura proletaria.
Il secondo Congresso della Internazionale Comunista ha deciso che i partiti comunisti debbono essere formati sul principio di una centralizzazione assoluta, e deve regnarvi una disciplina di ferro, che i Comitati Centrali debbono avere da un Congresso all’altro il più largo potere, ecc., altrimenti è impossibile diriger la guerra civile, la quale come tutte le guerre esige una disciplina ed una forte pressione di tutti gli elementi della lotta.
Ma la disciplina proletaria seria non è possibile nel Partito italiano fino a che i posti influenti siano occupati da elementi semi-borghesi.
Ogni discorso, ogni atto dei Turati, dei Modiglioni ed altri porta un colpo alla disciplina del vostro partito. La presenza stessa di questa gente nel seno del vostro partito è per se stessa la negazione di ogni vera disciplina proletaria. Il nemico è nelle vostre stesse case. È impossibile di soffrire [intendi: sopportare - n.d.r.] in questo Partito proletario gli avversari convinti e coscienti della rivoluzione proletaria. L’Internazionale Comunista ve ne supplica, operai italiani, suoi fratelli: liberate il Partito dall’elemento borghese ed allora, allora soltanto, la disciplina di ferro del proletariato e del Partito condurranno la classe operaia all’assalto delle fortezze del capitale.
Il Partito degli indipendenti di Germania il quale conta un milione di membri, il Partito Socialista francese, così come altri partiti, si sono indirizzati alla Terza Internazionale. Essi vogliono entrare nell’Internazionale Comunista. Alla loro ammissione noi abbiamo posto una serie di condizioni ultimative (21 condizioni) e noi non li accetteremo se non adempiono a queste condizioni. Noi non permetteremo di fiaccare la nostra organizzazione di combattimento. Noi non vogliamo avere delle catene ai piedi. Noi non lasceremo entrare i riformisti nelle nostre file. Queste condizioni sono obbligatorie per tutti noi ed anche per il Partito Italiano.
La battaglia decisiva si avvicina. L’Italia sarà un paese soviettista. Il Partito Italiano sarà un Partito comunista. Il proletariato italiano sarà il migliore distaccamento dell’esercito proletario internazionale.
Viva il Partito Comunista d’Italia!
Viva la Repubblica Soviettista Italiana!
Viva la rivoluzione proletaria d’Italia!
Pietrogrado/Mosca, 27 agosto 1920
Il Presidente del C.E. della Internazionale Comunista
ZINOVIEFF
I membri della C.E. della Internazionale Comunista
BUKARIN, LENIN
L’INTERNAZIONALE COMUNISTA ALLA FRAZIONE COMUNISTA DEL P.S.I.
(Il Comunista, n. 2, 21 novembre 1920)
Cari amici,
saluto di tutto cuore voi, sostenitori del Partito Comunista.
In nome del Comitato Esecutivo della Internazionale Comunista e in nome del Comitato Centrale del Partito Comunista russo, vi mando i più caldi e fraterni auguri.
Ho avuto la possibilità di conoscere il punto di vista della vostra frazione, e vedo che la vostra frazione è l’unico serio appoggio dell’Internazionale Comunista in Italia. Nel vostro paese la lotta di classe si è talmente acuita che agli occhi di tutto il mondo essa è già passata nella fase della guerra civile. Il proletariato italiano è per la rivoluzione sociale. Una parte notevole dei contadini italiani è pronta a sostenere il proletariato italiano nella sua lotta contro la borghesia. La rivoluzione che si esplica ora in Italia sarà una rivoluzione veramente popolare, nel senso migliore della parola, una rivoluzione che è solo possibile ai giorni nostri, una rivoluzione nella quale il proletariato sarà la principale forza motrice e raccoglierà intorno a sé tutti gli elementi semi-proletari capaci di appoggiare la nostra lotta.
In Italia esistono tutte le condizioni obbiettive per la vittoria della rivoluzione proletaria, manca soltanto una cosa: una migliore organizzazione della classe operaia. La classe operaia in Italia vuole fare la rivoluzione, ma questa classe operaia in Italia, disgraziatamente per sé e per noi, non è ancora abbastanza organizzata. Non vorrei essere frainteso. So bene che il proletariato italiano ha le sue organizzazioni professionali in cui figurano diversi milioni di aderenti, ha le sue grandi organizzazioni di Partito; ma il guaio è che i suoi duci riformisti dei sindacati e l’ala riformista del Partito, utilizzano con molta arte queste organizzazioni operaie appunto per attuare piani molto abili contro la rivoluzione proletaria e per aiutare la borghesia.
Compagni, noi potevamo seguire soltanto da lontano la recente lotta del proletariato italiano accompagnata dall’occupazione delle fabbriche; tuttavia ci appariva molto chiaro che in questa lotta degli operai italiani, l’ala riformista del Partito e i Sindacati, formavano l’ostacolo che intralciava il cammino degli operai italiani. D’Aragona, Turati e gli altri duci riformisti hanno salvato un’altra volta (quante volte ormai!) la borghesia strappando per essa agli operai un’altra proroga. Questo stato di cose continuerà finché non avrete liberato il vostro partito, i vostri sindacati, tutte le vostre organizzazioni operaie, dai duci del riformismo che obbiettivamente sono servi della borghesia anche se soggettivamente alcuni di essi non vorrebbero essere tali.
Perché gli operai italiani possano vincere il loro nemico, non basta avere semplicemente una organizzazione, ma bisogna avere una organizzazione comunista. Quando i sindacati italiani saranno per la classe lavoratrice delle organizzazioni di battaglia, quando a capo di esse ci saranno dei figli provati della classe lavoratrice, incapaci di tradire nei momenti decisivi, quando nel Partito non ci sarà più posto per le persone che durante interi decenni hanno difeso il riformismo, cioè il punto di vista della borghesia, quando il Partito sarà tutto un blocco granitico e avrà una vera disciplina proletaria (ora continuamente infranta dai riformisti), quando in ogni fabbrica, in ogni cooperativa, in ogni caserma, avrete i vostri gruppi comunisti, quando tutto il [alcune parole illeggibili] una fitta rete di cellule comuniste, solo allora si potrà dire che la classe operaia in Italia è organizzata nei modi e nelle forme richieste per essere in grado di risolvere i problemi del giorno.
Ecco perché il problema più vitale per l’Italia è la purificazione delle organizzazioni operaie dagli elementi riformisti. Voi, cari compagni, dovete a tutti i costi risolvere questo problema nell’interesse della classe operaia italiana, nell’interesse di quella di tutto il mondo e della vittoria dell’Internazionale Comunista.
Il compagno Serrati tenta di organizzare una sua frazione speciale, che porta il nome di frazione dei “comunisti unitari”. Noi apprezziamo molto i meriti passati di Serrati. Noi vorremmo sinceramente che egli lavorasse nelle nostre file. Finora abbiamo sperato molto in lui. Ma la formazione da parte di Serrati di una simile frazione ci fa rimanere dubbiosi e ci fa domandare meravigliati: “Compagno Serrati, a chi volete unire i comunisti?” I comunisti si uniscono nella frazione comunista. Unire dei comunisti con dei non comunisti non è veramente opera da farsi specialmente ora. Il Partito italiano è già pletorico di elementi riformisti; e il problema del giorno in Italia consiste non nell’unire i comunisti con gli elementi riformisti o semiriformisti, ma nella divisione, nella scissione con loro.
Se Serrati e i suoi amici vogliono difendere la Internazionale Comunista, se veramente vogliono aiutare la formazione di un vero partito comunista in Italia, essi debbono prender posto nella vostra frazione comunista. Non ci possono essere decisioni diverse e il Comitato Esecutivo della Internazionale Comunista non potrebbe né accettare, né approvare queste diverse decisioni.
Compagni, alla vostra opera guardano ora tutti i partiti che entrano nella Internazionale Comunista. I lavoratori italiani sono per voi e per noi. Tutto sta nel dare una espressione organizzata allo stato d’animo degli operai italiani. Non bisogna perdere un minuto, bisogna organizzarsi e rafforzare l’influenza comunista sugli operai in Italia. Lavorate assiduamente. Non perdete tempo, mettete tutta la vostra energia, non nell’acquistare la considerazione di questo o di quel diplomatico del Partito, ma di attrarre a voi gli operai e le operaie; impostare chiaramente tutti i problemi, costringete i vostri avversari a gettare la maschera, non permettete a nessuno di nascondersi dietro i dettagli insignificanti di organizzazione. Le tesi e le condizioni del Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista sono state accettate perché si raggiungesse una chiara distinzione di principio. Non si tratta della persona di Turati o di Modiglioni; ma di tutto un indirizzo. Noi non possiamo rimanere nello stesso Partito insieme con la corrente riformista. Non esiste un terzo intermedio.
Guardiamo con speranza alla vostra opera. Noi siamo pienamente sicuri che la vittoria è con voi. Noi non riconosciamo in Italia altra frazione comunista che la vostra. Tutti coloro che non sono con noi, sono contro di noi. Con lo stato attuale della lotta, così acuita, noi siamo costretti ad insistere più che mai su questo.
Viva il Partito Comunista italiano!
Viva il grande proletariato italiano!
Ancora una volta un caldo saluto comunista da tutti i compagni e specialmente
da Lenin, Trotski e Bukarin.
Vostro G. Zinovieff
Stettino, 23 ottobre 1920
(Il Comunista, n. 5, 12 dicembre 1920)
Una affermazione favorita degli unitari nelle attuali polemiche è che nel nostro partito non vi sono più riformisti.
Questa asserzione riposa su di una pericolosa confusione, che anzitutto deve essere eliminata. Dalla III Internazionale e dalla sua sezione italiana non devono essere esclusi soltanto i riformisti, ma tutti i socialdemocratici. La seconda definizione è più larga della prima.
Mentre infatti si deve intendere per socialdemocratico chiunque nega che il proletariato per emanciparsi dallo sfruttamento capitalistico deve ricorrere alla rivoluzione violenta e alla propria dittatura, e ammette invece che il proletariato possa giungervi per le pacifiche vie delle conquiste democratiche, raggiungendo il potere attraverso la maggioranza dei mandati elettivi dello Stato borghese, ed esercitandolo in forma democratica, cioè tollerando i rappresentanti politici della borghesia, divenuti minoranza, riformista è invece quel socialdemocratico che, per giungere a questo, rinunzia anche al principio della lotta di classe, al metodo della intransigenza, collabora nelle elezioni e nel governo con una parte della borghesia, poiché pensa che anche prima della conquista dei poteri politici il proletariato possa, con questi mezzi, iniziare la trasformazione del meccanismo economico capitalistico nel senso dei suoi interessi e dei principi socialisti, col mezzo delle riforme attuate da un governo borghese o borghese-proletario.
Aggiungiamo subito che il riformista è il socialdemocratico più logico e più completo: la fede nella intransigenza classista perde ogni senso se non giunge alle sue logiche conseguenze: se è vero che i rapporti di produzione capitalistici non verranno mai attaccati da un governo borghese o borghese-proletario, bisogna conchiudere che la borghesia non cederà mai il potere dinnanzi ad una maggioranza numerica e formale, ma solo dinnanzi alla forza; né rinunzierà a riconquistarlo colla forza dopo la prima sconfitta pel fatto solo che le si consenta il diritto ad una rappresentanza di minoranza.
Quindi il socialdemocratico intransigente dovrebbe, secondo la logica astratta, divenire un comunista; ma secondo la dialettica della storia diviene spesso, nella fase decisiva della lotta di classe, insieme al riformista, un autentico controrivoluzionario. Perciò entrambi devono uscire oggi dalle nostre file, nelle quali vogliamo solo coloro che riconoscono la necessità della rivoluzione e della dittatura, e ad esse preparano le masse proletarie.
Questa premessa ci permette di conchiudere che se anche nel nostro partito non vi fossero riformisti, ciò non vorrebbe dire che non vi sia ancora da realizzare la divisione da noi invocata: comunisti da una parte, socialdemocratici dall’altra, per tutte le ragioni che abbiamo esposto e andiamo esponendo.
Ma i riformisti ci sono in Italia, ed è riformista nel vero senso della parola tutta la destra del partito, nel suo pensiero e nella sua attività.
La dimostrazione sta nel Convegno di Reggio Emilia, per chi ancora conservasse dei dubbi al riguardo. Non nella mozione, nella quale il vero spirito di quella adunanza è subdolamente mascherato, togliendo definitivamente alla estrema destra del nostro partito un merito che talvolta le abbiamo riconosciuto, quello della onestà e della sincerità.
Ma a darci una dimostrazione evidente dell’esistenza dei riformisti e del riformismo vengono in buon punto gli articoli di U.G. Mondolfo nell’Avanti! L’autore di essi si propone infatti, e lo dichiara abbastanza apertamente, di mostrare il vero contenuto delle decisioni di Reggio, a dispetto della stessa mozione votata sperando di sfuggire – l’unitarismo aiutando – alle doverose sanzioni della III Internazionale.
Gli articoli del Mondolfo, nella loro esposizione della crisi sociale conseguita alla guerra e delle sue prospettive, e nella discussione delle condizioni di maturità per la rivoluzione proletaria, comeché costituiscano la solita falsificazione del marxismo, meritano una speciale confutazione. Vogliamo però oggi servircene solo allo scopo di dimostrare ai semplicistici unitari come il riformismo – e che riformismo! – esista ancora tra noi.
L’articolo di Mondolfo è scritto apposta per confondere i concetti dello sviluppo dal capitalismo al comunismo, ai quali la Internazionale comunista ha il compito di preparare la coscienza delle masse. È proprio uno di quegli articoli che noi – attraverso la invocata scissione – non vogliamo più stampare nei giornali del partito di classe del proletariato, per lasciare che la borghesia li pubblichi a sue spese.
Giocando volutamente sull’equivoco – visto che non possiamo parlare di ignoranza in materia così elementare da parte del Mondolfo – questi crea la confusione tra il metodo comunista e quello riformista, insinuando che la III Internazionale, che Lenin, che i massimalisti italiani attendano da una rivoluzione violenta il miracolo della attuazione del comunismo in toto, e cercando la prova della necessaria gradualità nel passare dal meccanismo borghese a quello comunista dell’economia, non nelle esplicite affermazioni di tutti i comunisti, da Marx a Lenin, ma in pretese delusioni e patteggiamenti del governo russo col capitalismo.
La vostra conquista del potere con l’insurrezione armata presenta la eventualità della sconfitta del proletariato – ci dice il Mondolfo. Il suo metodo invece è sicurissimo, e tende, in fondo, a quello stesso gradualismo. Quelle che... sono le norme economiche del potere dei Soviet in Russia, sarebbero in Italia i risultati della legislazione di Turati e C., ministri per grazia di Dio e volontà della nazione. Solo, per i Reggiani, queste misure prendono il nome nuovo ed elegante di approssimazioni socialiste.
Il Mondolfo accenna a queste misure economiche che, secondo lui, rappresenterebbero lo spianamento della via al socialismo. Basta leggere l’accenno che egli ne dà per comprendere che queste misure non sono lontanamente paragonabili a quelle attuate in Russia. L’accenno allo stupendo opuscolo del social-opportunista Bauer su “La via al socialismo” ce lo conferma. Non si tratta dei primi colpi di piccone al fondamento del capitalismo, ma di misure che, nei quadri del suo meccanismo economico, tenteranno di eliminarne le contraddizioni e le tragiche conseguenze, eludendo le rivolte proletarie contro i rapporti di produzione capitalistici. La socializzazione delle industrie, delle miniere, del latifondo, accennata da Mondolfo-Bauer, è forse perfino quella espropriazione con indennità che i comunisti, da Marx a Pannekoek, hanno dimostrato essere una semplice conversione formale del privilegio capitalistico. Il controllo sulla produzione e la disciplina nel lavoro per le aziende non ancora socializzate – e lo stesso dicasi per quelle statizzate secondo il metodo suddetto – equivale alle peggiori risorse e restrizioni conservatrici del capitalismo.
Ma quand’anche le misure sociali fossero le stesse che noi concepiamo immediatamente possibili per la dittatura proletaria – dato e non concesso ciò per un momento solo – è evidente l’abisso che separa questi concetti da quelli del comunismo marxista. Giacché il meccanismo statale borghese non è stato spezzato e sostituito da quello proletario – perché cioè non v’è stata rivoluzione e dittatura – le riforme più audaci non hanno altro effetto che quello di prolungare la vita del capitalismo, rendendone i rapporti meno intollerabili al proletariato. Le stesse misure, che dopo il rovesciamento del potere borghese rappresenteranno realmente l’inizio del processo di sostituzione dell’ingranaggio capitalistico a quello comunistico, se fosse possibile attuarle prima, da parte di un regime social-democratico, avrebbero opposto effetto. Sarebbero rabberciature della crollante baracca capitalistica, invece di essere gli atti di dispotico intervento sui rapporti dell’economia previsti dal Manifesto dei Comunisti, e che solo una dittatura rivoluzionaria del proletariato può realizzare.
Non è la tesi del Mondolfo che inseguiamo nella polemica; è solo la dimostrazione che detta tesi è riformista e perciò reazionaria.
Ma non taceremo un argomento: i provvedimenti da lui affacciati risentono di tutta la preoccupazione di far seguitare a funzionare la struttura economica capitalistica – che la borghesia non sa più far funzionare: basti accennare che egli si propone con essi di restaurare il valore della moneta, mentre chi ha inteso e studiato il processo economico che si svolge oggi in Russia, e che è seguace del pensiero marxista – non coll’intento di diffamare il primo e castrare il secondo – sa che, nella trasformazione del meccanismo produttivo e distributivo in senso comunista, il valore della moneta deve discendere per precipitare fino allo zero. Per lo Stato borghese ciò è il fallimento, per il regime proletario ciò è una grande tappa sulla via del comunismo.
Qui è la prova che lo Stato socialdemocratico di Mondolfo resta nettamente uno Stato borghese.
Ma se anche il processo economico visto da Mondolfo, invece di esserne la negazione storica, fosse la stessa cosa di quello a cui noi tendiamo e di cui la dittatura rivoluzionaria contiene le possibilità, non resterebbe meno assurda teoricamente e insidiosa praticamente la proposta dei riformisti reggiani.
Di fronte ad essa la borghesia non cederà che nel caso in cui si convinca che rappresenta l’unica sua probabilità di sopravvivere e di evitare la rivoluzione. Ma se, come Mondolfo pretende, questo esperimento di governo socialista costituisce la massima possibile accelerazione per la sparizione del capitalismo, è evidente che la borghesia, accorgendosi di questo, si opporrebbe colla forza, sia al momento della formazione di un tal governo, sia ad un certo momento della attuazione del suo programma. Le forze dello Stato borghese non risponderebbero alle disposizioni di un ministero socialista, ma essendo l’apparecchio esecutivo, burocratico, militare, poliziesco, rimasto intatto (vedi la meravigliosa dimostrazione comunista di Lenin nel suo “Stato e Rivoluzione”) entrerebbero in azione contro il proletariato. Questo d’altra parte avrebbe, nella illusione di possedere il potere, rinunziato alla preparazione di un proprio apparecchio d’azione armata – il trionfo della reazione borghese sarebbe assicurato. Nell’altra ipotesi – che cioè il governo socialista non attuasse (come certamente sarà) le misure anticapitalistiche – le masse sarebbero parimenti impotenti, perché impegnate sulla via democratica e pacifista, a ritornare a mezzi estremi.
Mondolfo lo dice chiaramente. È necessario che il proletariato – ossia il Partito, unito grazie ai Serrati – appoggi l’esperimento di governo, che dovrà seguire i modi e le forme della democrazia.
Si tratta dunque di garantire l’impotenza rivoluzionaria del proletariato impegnando tutti i suoi organismi di classe su questa via dell’andata al potere. Questa andata al potere, d’altra parte, esige il consenso della borghesia.
La maggioranza parlamentare oggi non c’è – meno ancora ci sarebbe in una eventuale nuova Camera – e, se anche ci fosse, è sempre dal potere borghese che dipenderà la scelta tra l’accettare i socialisti al potere pacificamente, o lo sfidare il proletariato all’assalto rivoluzionario. Come dunque un tale esperimento differirebbe dalla classica collaborazione ministeriale predicata da tanti anni dall’autentico riformismo? Se le riforme si chiamano oggi approssimazioni socialiste, la collaborazione al governo si chiama non meno gesuiticamente cooperazione di elementi tecnici. Come assai bene diceva ad lmola Gennari, non è l’utilizzazione dei borghesi come tecnici, ossia nella produzione, ma la spartizione del potere con i tecnici della politica borghese. Tanto è vero che, dice Mondolfo, ciò si farebbe per eliminare la resistenza della borghesia. Ma la borghesia userà tutte le sue forze di resistenza, prima di perdere il controllo dell’apparecchio statale. Essa rinuncerà ad usarle, conservandole intatte, dinnanzi all’esperimento socialdemocratico, solo perché saprà che lo si compie nel suo interesse.
Siamo dunque alle ultime conseguenze del riformismo ministerialista e possibilista. È vero che, secondo la lettera e lo spirito di quanto a Reggio Emilia deliberammo nel 1912, i fautori di questo indirizzo erano già dichiarati incompatibili col partito. Ma nella applicazione si accettò purtroppo il criterio, sopravvisuto a Bologna, della disciplina... che si sa quanto la destra ha rispettato da allora ad oggi.
Il riformismo dunque ha vissuto e vive nel Partito. V’è di più. Allora, prima della guerra mondiale, esso poteva avere una parvenza di giustificazione. Il regime capitalistico sembrava contenere allora queste possibilità di pacifici sviluppi. Oggi la guerra ha distrutto anche le apparenze di questa ipotesi. Eppure il riformismo, come ieri si giustificava colla floridezza del capitalismo, sofisticamente si giustifica oggi colla decomposizione di esso. E si avvia chiaramente alla sua finalità storica: la reazione antiproletaria.
Questo trapela dallo stesso articolo di Mondolfo: il governo dei riformisti si baserà sull’aperta e piena democrazia, ma in caso di necessità ricorrerà alla dittatura. Modigliani fu a Reggio più esplicito, e nelle sue parole era il funerale della cavalleria politica democratica. Anche a noi servirà la violenza, diss’egli. Non vedete in ciò il preludio, non già di un incontro tra destri e sinistri, auspice qualche Alessandri, nella tesi di una dittatura proletaria tradotta non dal russo in italiano, ma dalla virilità marxista alla sterilità piccolo-borghese – bensì della dittatura socialdemocratica che come in Germania, in Polonia, in Ucraina, in Georgia, nei rispettivi periodi, non potrà essere che l’ultima forma della dittatura e della reazione contro il proletariato? Il preludio è chiarissimo in questo gioco politico (non ci infastidite cogli argomenti della onestà personale, e del Noske che non c’è, orecchianti della politica di classe!): impegnare tutto il proletariato a rinunziare al suo armamento ideale e materiale e ad accettare un governo ad etichetta socialista, senza avere spezzato gli attuali apparecchi di potere – ossia di difesa armata organizzata – della borghesia.
Il riformismo c’è, ed esso fa la sua fatale strada, avvelenando sempre più di sé il partito, verso la controrivoluzione. Ecco il pericolo.
Ma un pericolo peggiore di questo, contro cui dovrebbe bastare il grado di coscienza classista acquisito dal proletariato italiano, ha in sé il nostro partito.
Questo più grave pericolo si chiama la cecità degli unitari. E, nella
implacabile dialettica della storia, cecità e complicità sono la stessa
cosa.
(Il Comunista, n. 6, 19 dicembre 1920)
Il convegno di Imola non credette opportuno di pronunciarsi sull’atteggiamento che la nostra frazione dovrà tenere nel caso che il voto del Congresso Nazionale ci ponga in minoranza, e non volle farlo più che altro per non contraddire al suo carattere di convegno radunato per un lavoro di frazione per organizzare la conquista della maggioranza del partito e del Congresso.
D’altra parte, come Gramsci osservò, il Convegno aveva la sensazione di preparare, colla sua opera, più che una vittoria di Congresso, la costituzione di un nuovo Partito. E il vero obiettivo di tutto il nostro intenso lavoro è proprio questo. Occorre dunque tener presente che una questione così importante come il costituirsi in Italia del partito comunista non sarà giudicata in ultima istanza dalla maggioranza del Congresso Nazionale; è anzi dopo il voto di questo che se ne potrà direttamente affrontare la soluzione. Gli elementi di essa sono in tutta l’esperienza e la preparazione politica della sinistra del partito attuale – del partito di sinistra, anzi, tra i due che finora insieme convivono – e più ancora nel contenuto di programma e di azione della Internazionale comunista.
Antidemocratici anche in questo, non possiamo accettare come ultima ratio l’espressione aritmetica della consultazione di un partito che non è un partito. Il riconoscimento della giustezza della opinione espressa dalla maggioranza comincia dove comincia l’omogeneità di programma e di finalità: non lo accettiamo nella società presente divisa in classi, non nel senso del “proletariato” dominato necessariamente dalle aggressioni borghesi, non nel senso di un partito che comprenda troppi elementi piccolo-borghesi, ed oscilli storicamente tra la vecchia e la nuova Internazionale, e non sia quindi, nella sua coscienza e nella sua pratica, il “partito di classe” di Marx.
Ed allora dobbiamo prospettarci da ora tutte le eventuali situazioni al domani di un voto che non dovrà e non potrà interrompere lo sviluppo continuo della nostra azione verso quel fondamentale obbiettivo. Premettiamo una considerazione nella quale è appunto il risultato importantissimo del Convegno di Imola. I comunisti voteranno la loro mozione, nel testo già deliberato dal convegno, senza accettare di introdurvi modifiche e attenuazioni sia pur minime. Se vi saranno elementi oscillanti tra noi e gli unitari, noi non faremo alcuna concessione per accaparrarci i loro voti. Non resta dunque che esaminare le due ipotesi che nella nostra mozione si raccolga la maggioranza oppure la minoranza dei voti.
Sia nell’uno che nell’altro caso noi dobbiamo farci guidare dalle medesime direttive. Il vero bivio al quale si trova il movimento proletario italiano non è tra la politica di Reggio Emilia e la politica del comunismo: il bivio si presenta tra il nostro programma d’azione e quello degli unitari social-comunisti. Benché questi ripetano di divergere da noi solo per secondarie valutazioni, ma di essere sullo stesso tronco programmatico, la realtà è che la destra fa la sua politica con le loro mani; un riformismo puro se si delineasse sarebbe tosto livragato, mentre lo sforzo dei riformisti si esercita secondo le leggi della minima resistenza, cioè mirando alla permeazione del loro metodo nel grosso del partito pletorico sotto l’etichetta di tendenze intermedie.
Non esiste, tra unitari e riformisti, un taglio netto. Tutta la loro argomentazione in questo vivacissimo fervore di dibattiti è quasi comune. Gli unitari difendono ovunque tutta la politica della frazione di destra e soprattutto quella della Confederazione del Lavoro. Essi sottolineano che la loro epurazione del partito da qualche destrissimo, è sullo stesso piano della epurazione dai sinistrissimi.
Un’altra prova: un argomento favorito dagli unitati è quello di battere contro il contegno e l’opera, da Bologna ad oggi, della attuale direzione del partito, per imputare ad essa gli insuccessi rivoluzionari della azione del proletariato italiano, scagionandone i riformisti, quasi che politicamente, storicamente – a parte la posizione presa oggi personalmente dai vari membri di essa – la Direzione attuale non fosse la esecutrice della maggioranza massimalista e unitaria di Bologna, capitanata da Serrati. Gli unitari non vedono che la Direzione non ha potuto fare una politica schiettamente massimalista appunto perché non si poteva farla sulla equivoca base unitaria. Essi non si accorgono di recare così argomenti contro la loro tesi e contro il loro passato politico, e non se ne accorgono perché in realtà vanno facendo proprie tutte le posizioni polemiche del riformismo contro il massimalismo in genere, come è anche provato dal fatto che tutto il problema delle condizioni e possibilità rivoluzionarie essi le pongono così come i destri. Una parte della maggioranza massimalista va dunque oltre Bologna, l’altra rincula dalle posizioni di Bologna, e l’abisso s’apre tra loro.
Tra unitari e comunisti il taglio è netto, aspro, la discussione talvolta violenta oltre misura. Questo preciso distacco non è per nulla attenuato da quelle sfumature diverse che possono esservi tra gli estremisti e che vanno utilmente integrandosi nella elaborazione di una migliore coscienza in tutti del metodo da seguire uniti e compatti. Le discussioni locali mostrano ovunque schierati in due campi opposti i comunisti e gli unitari dietro i quali mal differenziati manovrano i destri. Non è strano che sia così. Come la borghesia delega la sua difesa nei momenti critici al riformismo, così il riformismo, quando perde terreno fra le masse, si sforza di delegare la sua funzione contro-rivoluzionaria a quel centrismo, etichettato da comunismo di destra, che vediamo all’opera in tutti i paesi. La sensazione precisa che si ha oggi assistendo alle assemblee ed ai congressi di Partito è che sono proprio i comunisti e gli unitari quelli che si separeranno per sempre, quelli la cui convivenza è divenuta impossibile.
La conclusione è questa: noi dobbiamo tendere a formare un partito comunista non influenzato da quella politica equivoca che oggi si afferma sulle tesi della unità del partito, non diretto in collaborazione con gli esponenti dei comunisti unitari di oggi. Lenin ci dice questo molto bene nel suo articolo e questo dev’essere il nostro aperto obbiettivo.
Io non auguro che tutti i comunisti unitari si distacchino da noi per fare coi riformisti il partito socialdemocratico o indipendente dato che la nostra situazione è almeno tanto matura quanto quella tedesca. I comunisti unitari, gli indipendenti nostrani, devono nella loro massa essere sbloccati, mettendo a riposo i loro leaders.
Perciò se noi saremo maggioranza, colla sicura applicazione della nostra mozione d’Imola li sbloccheremo dando l’ostracismo ai destri e ai destreggianti, e assicurando tutti gli organi direttivi del partito esclusivamente alla tendenza comunista estremista.
Ma se saremo minoranza? Noi non potremo subire né la situazione di un partito diretto da unitari, né quella di una direzione in comune tra noi ed essi. Il nostro compito di frazione è finito. Con la attuale concentrazione dei gruppi estremisti del partito sulla base delle delibere di Mosca, del nostro programma, della nostra mozione, e con questa ultima lotta interna nel Partito col riformismo e con le sue indirette manifestazioni si apre il compito nostro come partito. Noi non resteremo, per riprendere il duro lavoro di persuasione ed immobilizzare noi ed il proletariato fino ad un altro congresso. E nemmeno faremo il delittuoso sproposito di affidare il movimento proletario italiano alla direttiva mista ed imprecisa tra il comunismo ed il centrismo; questo sarebbe il trionfo della tesi unitaria, già condannata in Italia e nella Internazionale.
Ed allora balza evidente la soluzione logica, coraggiosa e tatticamente squisita della immediata uscita dal partito e dal Congresso appena il voto ci avrà posti in minoranza. Ne seguirà, sotto norme da noi segnate, lo sbloccamento del centro: anzi io penso che questo nostro importante obbiettivo potrà, in questo caso, essere meglio raggiunto.
Prepariamoci dunque a questa soluzione: oltre a tutto essa è l’unica che possa corrispondere alle direttive della Internazionale, ed è quindi fuor di luogo supporre che questa non ci approverebbe, e rinviare per questo un atto che, ritardato, perderebbe tutti i suoi effetti benefici e positivi.
Io penso che i gruppi della frazione dovrebbero affrontare questo problema, e dire qualche cosa al proposito ai loro delegati al Congresso. Su questa base però: la nostra frazione, che è il nocciolo di un partito vero e vitale, non potrà e non dovrà, in nessun caso dividersi e si moverà a ragion veduta, tutta in un blocco, come un uomo solo. Sono sicuro che in questa attitudine ci troveremo concordi alla quasi unanimità.
Guardiamo dunque bene in faccia la situazione e sappiamo assumere tutte le responsabilità. Quella che conduciamo è una battaglia senza quartiere contro tutte le esitazioni e tutti gli equivoci.