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Nel 1955 a Bandung, nell’isola di Giava, nella nuova Indonesia indipendente, la Conferenza delle Nazioni del Terzo Mondo – a quei tempi lo chiamavano così – decretò la fine del colonialismo: con la vittoria sugli ultimi imperi coloniali il mondo era entrato, si disse, nell’èra del dopo-colonialismo. Parve che questo nuovo slancio, nonostante una terribile guerra mondiale avesse dato un riassetto all’impalcatura imperialistica, potesse suscitare speranza di riscatto e prosperità, ed auspici per un mondo più giusto, libero dallo sfregio bestiale del colonialismo. Il Partito negò questa ottimistica prospettiva, ma riconobbe quella lacerazione nel dominio delle grandi potenze, inferta con cruento scontro d’armi e foriera di nuove contraddizioni nella dinamica degli imperialismi, e respinse la visione antidialettica dell’inutilità, ai fini della rivoluzione mondiale, delle rivoluzioni nazionali nelle ex colonie. Solo sotto il libero dominio borghese è possibile il pieno sviluppo della forza proletaria e il suo autonomo organizzarsi.
Con la stessa concezione antidialettica, ma di segno opposto, in molte parti della cosiddetta sinistra si affermò che quel processo potesse essere di sostegno e guida al movimento operaio metropolitano, che ne avrebbe tratto ispirazione ed energia. In una simile inversione, negli anni successivi presero campo nuove ideologie piccolo borghesi, come il terzomondismo ed il maoismo che, agli antipodi delle tesi e della visione storica marxista, ribaltavano il processo della emancipazione comunista la quale si fonda sulla dottrina critica del più moderno capitalismo e materialmente sul movimento del proletariato industriale organizzato nella sue massime concentrazioni.
La storia, nel suo corso necessario, non ha prodotto un moto rivoluzionario anticapitalistico nelle metropoli, pilastri del dominio borghese. Questo ha costretto il proletariato delle giovani nazioni a mobilitarsi sì ma sotto le bandiere della propria borghesia. Quindi, come previsto dalla dottrina, e dal partito, non abbiamo potuto innestare la rivoluzione comunista sul tronco di quelle rivoluzioni borghesi e il moto anticoloniale si è fermato alla metà borghese, nella forma classica di lotta per l’indipendenza nazionale, per l’emancipazione dal giogo politico di classi pre-borghesi, alleate agli Stati imperialistici, e con la formazione di Stati nazionali.
Le nazioni che si sono affrancate dal colonialismo, o hanno avuto la dimensione e la forza per svilupparsi in senso pienamente capitalistico ed imporsi sul piano economico e militare, o sono rimaste sottoposte al saccheggio senza freni, anche se formalmente libere dal diretto vincolo coloniale, strangolate dalla finanza internazionale benché i loro Stati, per beffa suprema, si dichiarino indipendenti e sovrani.
Nulla è stato risparmiato alle plebi sfruttate del terzo mondo: le democratiche borghesie uscite dalle rivoluzioni nazionali non hanno avuto alcuna remora a sfruttarle in modo non meno bestiale e spietato dei vecchi padroni coloniali.
Sono borghesie locali entrate a pieno diritto nell’ambito capitalista, legate strettamente a quell’ordine che si è esteso all’intero pianeta, travolgendo ogni ostacolo sul suo cammino. E nel girone infernale di questa dinamica son diventate spesso vittime delle contraddizioni che si generano incessantemente tra gli Stati imperialisti. Ne hanno fatto le spese tiranni e ducetti locali, ma immensamente di più hanno pagato le classi inferiori, piccoli contadini, proletari, diseredati delle città e delle campagne, travolti da guerre sordide, spietate, senza quartiere, spesso ammantate dalle infami menzogne di una nuova o ritrovata democrazia.
In questa fase storica “finale” del ciclo post Seconda Guerra mondiale – che pare avviarsi ad un terzo conflitto generale per ripartire con un nuovo ciclo – dobbiamo dichiarare chiusa l’epoca delle rivoluzioni nazionali nei paesi del “terzo mondo”, dizione che oggi è ancor meno consistente in senso storico di quando si pronunciava a Bandung.
Feroce ironia della storia, dopo sessanta anni è indetta una nuova Conferenza internazionale, a Busan, in Corea del Sud, ormai come l’Indonesia divenuta potenza industriale a scala mondiale. Presieduta ed ispirata dai governi degli Stati imperialisti più forti, Cina ed India compresi, invita i “donatori” a trovare un accordo sulle risorse finanziarie da destinare agli aiuti “umanitari”. Non riesce, ovviamente, a formulare una base comune di “cooperazione”, ciascuno Stato occupato solo a mantenere o accrescere la sua fetta di “clienti”, ad allargare la sua influenza, con gli “aiuti” veicoli solo di sfruttamento e controllo delle risorse.
Sessanta anni fa, a Bandung, si spargevano false speranze, svanite dopo
poco più di un decennio; oggi in Corea del Sud la farsa degli “aiutanti
finanziari” certifica le convulsioni finali del mondo post coloniale,
cioè pienamente nella sua fase suprema imperialista, incapace di
reggersi sulle gambe di una finanza globale che non può più tamponare
la crisi generale del capitalismo. Si riapre una prospettiva. Ma questa
volta tutta sulle spalle della classe operaia internazionale.
Origini del movimento operaio in Italia
Mazzini e l’organizzazione operaia
A proposito dei giornali mazziniani rivolti agli operai Nello Rosselli ricordava che erano «una piccola legione» e che «su tutti Mazzini, ancorché non vi collaborasse direttamente, imprimeva il suggello della sua prepotente personalità. Era sempre lui che ne tracciava il programma e i limiti e ne designava i redattori. Questi redattori venivano scelti fra i discepoli più ortodossi o erano assiduamente sorvegliati; gli scritti editi di Mazzini erano la falsariga sulla quale si compilava ogni numero; ogni fatto contingente veniva commentato ispirandosi alle sue vedute generali» (da: Mazzini e Bakunin).
Il 3 gennaio 1865 a Milano usciva il giornale Fede e Avvenire che, secondo le intenzioni di Mazzini, sarebbe dovuto divenire “il monitore della classe operaia”. Anche le sue posizioni rispecchiavano fedelmente quelle del Mazzini. Il giornale si dichiarava ottimista sulla possibilità di appianare le controversie tra capitale e lavoro: «La lotta esiste e prosegue, ma, mano mano che la civiltà avanza, il cozzo sociale si fa meno violento, la conciliazione possibile» (21 febbraio); ripudiava con nettezza le teorie socialiste: «Quelle teorie sono erronee essendoché non prendono mai l’uomo tal quale l’ha fatto natura, coi suoi istinti, colle sue passioni, colla sua varia sensibilità, ma richiederebbero uomini fatti a bella posta tutti di uno stampo» (4 aprile); gli operai non dovevano pensare di «atterrare il privilegio dei pochi, attualmente organizzato», ma rivendicare «un altro genere di privilegio, che si nasconde sotto il nome di diritto al lavoro, di gratuito capitale, di diritto alla proprietà del terreno e via via», (9 maggio).
Riconosceva il diritto degli operai allo sciopero: «Gli scioperi hanno la loro ragione d’essere nelle condizioni non di una parte soltanto ma di tutta generalmente la classe operaia» (13 giugno), però lo considerava come un’arma pericolosa e che nuoce moralmente agli operai: «Un antagonismo pericoloso sorge fra i due motori dell’industria, capitalisti e lavoratori; l’operaio offeso e nella dignità e nell’interesse si accende a sinistre idee contro l’intraprenditore; obbligato dalla sua inflessibilità a perdurare nello sciopero, stretto dal bisogno che rincrudisce a misura che il guadagno manca, guarda con rancore agli agi delle altre classi sociali, perde ogni suo sano concetto d’ordine, ogni amore al lavoro» (21 aprile).
La soluzione del problema operaio si sarebbe trovata nell’istruzione: «Oggi la legge vi impone doveri da compiere, e col pretesto della vostra immoralità e della vostra ignoranza vi impedisce l’esercizio di molti diritti; domani, soppressa la causa, cesseranno gli effetti» (21 febbraio); e nella cooperazione: prendendo come esempio il fatto di alcuni falegnami di Genova che avevano emesso un prestito per ricavare la somma necessaria ad aprire in proprio un laboratorio di falegnameria, scriveva ai redattori de L’Unità Italiana: «Desidero vivamente il successo del loro disegno [...] L’unione del capitale e del lavoro nelle stesse mani per mezzo d’associazioni volontarie è il passo più importante che l’epoca nostra deve muovere».
Intanto il 9 ottobre 1863 si era aperto a Parma il decimo congresso delle Società Operaie italiane. La sala era adorna di busti e motti di Garibaldi o a lui inneggianti. L’Eroe dei due Mondi, che era stato invitato a presiedere il congresso, aveva inviato una lettera nella quale si esortavano i convenuti a non trascurare le questioni politico-patriottiche.
Precedentemente la commissione permanente di Firenze e la giunta di Asti, riunitesi a Genova il 13 settembre 1863, avevano congiuntamente predisposto l’elenco dei quesiti da sottoporre al congresso, e tra questi non avevano escluso quelli a carattere politico, ma li avevano confinati in fondo alla lista, lasciando alla sovranità dell’assemblea la decisione se e quali di essi si sarebbero dovuti discutere. Ma questa disponibilità da parte dei democratici non impedì ai filo-governativi di scatenare il loro boicottaggio invitando apertamente le Società Operaie a disertare il congresso. Questa campagna fu portata avanti soprattutto dalla Gazzetta del Popolo di Torino, e dalla Gazzetta di Parma, fiancheggiate da tutta la stampa governativa. In confronto al congresso di Firenze, quello di Parma era ridotto alla metà come numero di rappresentanti e a meno della metà come numero di Società rappresentate; in più, se si tiene conto di quelle che si ritirarono nel corso dei lavori, si deve concludere che il congresso fu un fiasco.
In questo clima pochi furono i quesiti presentati, malamente dirette e inconcludenti le discussioni. Ritornò fuori l’eterna questione della “politicità” e di nuovo venne discusso il problema dell’istruzione popolare. A questo riguardo una nota di colore fu portata dal francescano garibaldino Fra’ Pantaleo, rappresentante della Società Operaia di Palermo, che pronunciò un infiammato discorso a favore della diffusione dell’istruzione nelle campagne «per emancipare i contadini dall’influenza pretina e per diffondervi lo spirito d’associazione».
Di questioni importanti all’ordine del giorno vi era quella dell’unificazione delle Società Operaie, la creazione di un giornale e il solito chiodo fisso della fondazione di una banca del lavoro. Riguardo alla prima delle questioni il congresso, alla quasi unanimità, dichiarò che le «Associazioni italiane proclamavano e stabilivano un patto federativo la cui azione fosse esercitata dalla Commissione permanente, conservando a ciascuna Società la propria autonomia» e che «la Commissione [...] procedesse a formare un regolamento da approvarsi dalle Società». Riguardo la delibera di fondare un organo ufficiale delle Società operaie, la Commissione fin dal 3 gennaio 1864, diede vita al Giornale delle Associazioni operaie italiane. Quanto alla banca operaia, il congresso se la cavò in maniera diplomatica istituendo una speciale commissione che ne avrebbe studiato le possibilità e i particolari tecnici per riferirne al successivo congresso. Quindi, eletta la nuova Commissione permanente e spediti gli indirizzi di rito a Garibaldi e Mazzini, il congresso si sciolse.
Mazzini si entusiasmò soprattutto per la unione delle Società di mutuo soccorso, fiducioso che alla delibera sarebbe immediatamente seguita l’approvazione dello Statuto: quello da lui proposto già per il congresso di Firenze. Il fatto è che, se si escludono i due mazziniani dichiarati che facevano parte della commissione e che certamente avrebbero accettato il progetto del maestro, non così la intendevano gli altri membri i quali rifiutavano tutta quella conditura di considerazioni religiose e morali che vi erano premesse. Giustamente, in quanto avrebbero potuto allontanare molti elementi, concordi nel volere l’emancipazione operaia ma non per questo disposti a ingozzarsi di formule religiose. Ormai ci si cominciava ad orientarsi verso posizioni sempre più radicali e laiche mettendo in discussione, da sinistra, quelli che erano i capisaldi dell’ideologia mazziniana.
Così i membri della Commissione permanente incaricata di compilare lo statuto si rivolsero a Cattaneo, che elaborò un Regolamento per la Federazione delle Società Operaie italiane (6 marzo) e lo mise a disposizione della Commissione, a patto però che il suo nome non comparisse: «Non intendo che ne facciate menzione al Congresso o altrimenti come di cosa mia». Questo progetto servì alla Commissione per completare quello proposto da Mazzini e smussarlo delle parti a sfondo religioso.
Per esempio Mazzini agli articoli dello statuto aveva posto la seguente premessa: «Credenti in Dio, in una Legge Morale che ci comanda di lavorare e progredire moralmente, intellettualmente, economicamente pel bene comune, nell’Associazione delle forze come nel solo mezzo efficace a raggiungere quel fine...». Cattaneo saltava queste astrattezze ed entrava subito nel vivo: «Le Società Operaie italiane costituiscono un potere federale all’intento di provvedere ai propri bisogni morali e materiali». Secondo Mazzini compito della Commissione era quello di promuovere fra gli operai «le tendenze al dovere, al sacrificio giovevole a tutti [...] educarli alla coscienza della loro missione». Al contrario Cattaneo non nominava mai le parole “dovere”, “sacrificio”, o simili, limitandosi a suggerire quali sarebbero stati i mezzi capaci di elevare il livello morale ed economico delle classi operaie: scuole, biblioteche, banche artigiane, cooperative di consumo.
Un altro aspetto distintivo era costituito dal fatto che Cattaneo riteneva della massima urgenza fare sì che il mutuo soccorso si diffondesse «nelle classi agricole, finora quasi dimenticate» mentre Mazzini, abbiamo visto il rimprovero di Marx, si disinteressava del tutto dei contadini ignorandone perfino l’esistenza.
Sulla fine di luglio del 1864 la loro fatica era giunta al termine e
il nuovo Atto di Fratellanza fu comunicato alle Società perché lo ponessero
in discussione. In sostanza la commissione si era attenuta al progetto
mazziniano, valendosi del contributo di Cattaneo come di un vaglio critico
cui sottoporne ogni punto. Il preambolo morale-religioso era stato eliminato,
ma non è detto che i concetti presi a prestito dal progetto di Cattaneo,
anche se laici, fossero sempre più radicali di quelli espressi da Mazzini.
Se da un lato era stata introdotta l’idea di diffondere il mutuo soccorso
tra le classi agricole “troppo neglette finora”, dall’altro era stata
eliminata la richiesta del suffragio universale.
Primi voti d’internazionalismo
Il 25 ottobre 1864, sotto stretta sorveglianza della polizia, si aprì a Napoli l’undicesimo congresso delle Società Operaie. Il Popolo d’Italia di quel giorno scrisse che la città pareva “in stato d’assedio”.
In apparenza il congresso, con l’approvazione dell’Atto di Fratellanza, sembrò celebrare il trionfo del mazzinianesimo, ma in realtà, scarsamente partecipato (solo 57 Società, 12 delle quali napoletane, vi erano rappresentate), segnò l’inizio di una lunga pausa dei congressi operai. E non si sbaglia dicendo che l’importanza di questo congresso risieda unicamente nell’approvazione dello Statuto.
I quesiti discussi praticamente furono solo tre. Il primo riguardava la richiesta di esclusiva attribuzione dei lavori pubblici agli operai italiani, ed al riguardo fu stabilito di presentare una petizione al parlamento ed al consiglio dei ministri. Il secondo verteva sulla opportunità di organizzare un’inchiesta sui salari agricoli-industriali, ed il congresso affidò alla commissione permanente il compito di organizzarla.
Il terzo, presentato da Gennaro Bovio, delegato della Società operaia di Trani, domandava: «Può convocarsi a quando a quando un congresso internazionale fra le Società Operaie delle diverse nazioni, acciò provvedendo a’ loro comuni bisogni, ne detti un comune regolamento, che sempre più ne avvicini a quell’unità morale fra le nazioni o popoli, ch’è la più sublime ispirazione del nostro secolo?». Naturalmente questo quesito rappresentava un’eco di quanto era appena avvenuto a Londra: la nascita dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Perciò la proposta del Bovio venne approvata con immenso entusiasmo e si deliberò di far rappresentare gli operai italiani al futuro Congresso dell’Internazionale... ammesso che si disponesse dei mezzi necessari per fronteggiare le spese di viaggio di un rappresentante.
Otto anni più tardi, nel gennaio 1872, in una lettera indirizzata “ai rappresentanti dell’Internazionale in Londra” il Bovio ricorderà questa delibera che assegnava «all’Italia un diritto che la storia le ha acquistato, quello cioè di essere stata almeno tra le prime nazioni a concorrere per l’iniziativa dell’Internazionale». Quello che il Bovio non rilevava, e forse non era nemmeno in grado di rilevare, era però il fatto che l’Atto di Fratellanza approvato al congresso di Napoli era lo stesso che il maggiore Wolff aveva presentato a Londra come proposta per gli Statuti Provvisori e che Marx aveva rielaborato di sana pianta. Gli rispose Engels: «Riconosciamo volentieri che al tempo dove qui in Londra si realizzava per la prima volta una lega internazionale degli operai, voi, nella remota Puglia avete raccolto quella medesima idea [...] Vi ringraziamo d’averci comunicato questo fatto, perché contiene una nuova prova che l’alleanza degli operai del mondo incivilito intiero fu riconosciuta, già nel 1864, come una necessità storica anche nei paesi coi quali non potevamo allora metterci in relazioni» (17 aprile 1872).
Tornando al congresso di Napoli, possiamo concludere dicendo che molti dei quesiti presentati non furono nemmeno discussi; tra questi: la durata dell’orario di lavoro, la protezione da accordarsi agli operai ai quali venisse diminuito il salario, il suffragio universale, l’impossibilità per i padroni di poter «licenziare capricciosamente un giovine che adempie al proprio dovere», etc.
Commentando i risultati del congresso, Il Popolo d’Italia scriveva: «L’aspirazione di tanti anni si è realizzata. Uno statuto fu approvato, che se non è perfetto, è però un’opera che racchiude i germi del progresso morale e perciò politico ed economico. La libertà vi è adottata come mezzo e come fine. Noi speriamo che sarà fedelmente applicato, e nell’applicazione vi sarà anche maggiore diffusione di libertà. È necessario di darsi ogni sollecitudine per allargare un’istituzione che trasforma la plebe in popolo provvido e pensante» (27 ottobre 1864).
Chiaramente si trattava di un entusiasmo esagerato; le associazioni che avevano partecipato al congresso e che avevano approvato lo Statuto non arrivavano a 60, neppure un decimo di quelle esistenti in Italia. La nuova Commissione permanente restò inoperosa per tutto il 1865, le prime adesioni all’Atto si cominciarono a raccogliere nel ’66, ma il lavoro venne interrotto dalla guerra, e la convocazione del nuovo congresso praticamente fu rimandata sine die.
Inoltre la classe operaia si era mantenuta piuttosto estranea a quei
congressi, partecipati soprattutto da esponenti democratici. Gli operai
il loro impegno lo dovevano mettere nella quotidiana lotta per la sopravvivenza,
tant’è che in quegli ultimi anni gli scioperi si erano succeduti con
frequenza sempre maggiore e assumendo proporzioni più vaste, cosa che
rivelava l’esistenza ed il radicarsi di organizzazioni operaie. La combattività
dimostrata e le prove di forza avevano cominciato a preoccupare seriamente
gli ambienti borghesi. Lo sciopero cominciava ad imporsi nella pratica
delle lotte del lavoro, e con esso l’ammissione della lotta di classe.
Mazzini e l’Internazionale
Prima di procedere è importante puntualizzare, anche se in maniera succinta, la posizione di Mazzini nei confronti dell’Internazionale. A questo scopo ci limiteremo a riportare quanto scritto dallo stesso Mazzini e la replica di Engels.
Affermava Mazzini: «Quest’Associazione, fondata anni addietro in Londra e alla quale io ricusai fin da principio la mia cooperazione, è diretta da un Consiglio, anima del quale è Carlo Marx, tedesco, uomo d’ingegno acuto ma dissolvente, di tempra dominatrice, geloso dell’altrui influenza, senza forti credenze filosofiche o religiose, e, temo, con più elemento d’ira, s’anche giusta, che non d’amore nel cuore. Il Consiglio, composto d’uomini appartenenti a paesi diversi e nei quali sono diverse le condizioni del popolo, non può avere unità di concetto positivo sui mali esistenti e sui rimedi possibili, ma deve inevitabilmente conchiudere più che ad altro a semplici negazioni [...] Un nucleo d’individui che s’assuma di governare direttamente una vasta moltitudine d’uomini diversi per patria, tendenze, condizioni politiche, interessi economici e mezzi d’azione, finirà sempre per non operare o dovrà operare tirannicamente. Per quest’io mi ritrassi e si ritrasse poco dopo la Sezione Operaia Italiana, appartenente in Londra all’Alleanza Repubblicana» (La Roma del Popolo, 13 luglio 1871).
Gli replicava Engels: «Ecco i fatti. Dopo la riunione del 28 settembre 1864 nella quale l’Associazione internazionale degli operai fu fondata, tostoché il consiglio provvisorio eletto in quell’assemblea si radunò, il maggiore L. Wolff presentò un manifesto ed un progetto di Statuto steso da Mazzini stesso. Nel qual progetto non solamente non si trovava difficoltà “a governare direttamente una moltitudine” ecc., non solamente non si diceva che questo “nucleo d’individui [...] finirà sempre per non operare, o dovrà operare tirannicamente”, ma al contrario lo Statuto era ispirato ad una centralizzata cospirazione, dando poteri tirannici al corpo centrale. Il manifesto era nello stile solito di Mazzini: la democrazia borghese che offriva diritti politici agli operai, onde poter conservare i privilegi sociali delle classi medie e superiori. Questo manifesto e progetto di Statuto furono naturalmente rigettati. Gli italiani rimasero membri sino a che alcune questioni non furono di nuovo messe fuori per causa di certi borghesi francesi che volevano servirsi dell’Internazionale. Non essendo questi riusciti, Wolff dapprima e poscia gli altri si ritirarono. E così l’Internazionale la fece finita con Mazzini [...]
«Mazzini chiama Marx uomo “d’ingegno [...] dissolvente, di tempra dominatrice”, ecc. forse perché Marx ha saputo molto ben dissolvere la cabala ordita da Mazzini a danno dell’Internazionale, dominando talmente la mal dissimulata libidine di autorità del vecchio cospiratore, da renderlo per sempre innocuo all’Associazione. Se è così, l’Internazionale dev’essere ben lieta di possedere fra i suoi membri un ingegno ed una tempra, che in tal guisa dissolvendo e dominando l’ha tenuta in piedi per sette anni, lavorando più che ogni altro uomo per portarla alla sua attuale superba posizione [...] È mestieri che gli operai italiani osservino che il grande cospiratore ed agitatore Mazzini non ha per essi altro consiglio che: educatevi, istruitevi come meglio potete (come se ciò potesse esser fatto senza mezzi!), adopratevi a creare più frequenti le Società cooperatrici di consumo (nemmeno di produzione!) e fidate nell’avvenire!!!» (Il Libero Pensiero, 31 agosto 1871).
Marx, in una lettera del 18 novembre scriveva: «Mazzini is rather disgusted che i suoi uomini sottoscrivano con noi; mais il faut faire bonne mine à mauvais jeu». Lo scopo di Mazzini, infatti, era quello di impossessarsi dell’Internazionale, e a questo fine la Società Operaia Italiana di Londra, da lui controllata, era entrata in massa presentando un entusiastico comunicato di adesione, letto nella Seduta del Consiglio Centrale del 3 gennaio 1865, nel quale, tra l’altro si affermava: «L’associazione per il progresso comune, fondata tra gli operai italiani residenti a Londra approva in pieno i vostri scopi ed i vostri metodi. Si associa alla vostra convenzione e si impegna ad assumersi gli obblighi ivi contenuti. Poco tempo addietro, al Congresso operaio di Napoli è stata realizzata l’unione della maggioranza delle organizzazioni operaie italiane. Vi è stata eletta una direzione centrale e noi non dubitiamo che da quella direzione centrale prossimamente sarà fatta propria la presente dichiarazione». Nel documento non potevano mancare le tipiche posizioni mazziniane come quando si parla di «scopo grandemente morale e veramente religioso», ma veniva anche prospettato «l’inizio di un’era nuova che abolirà l’ineguaglianza, l’ignoranza e l’attuale sistema di lavoro salariato».
Il giornale genovese L’Unità Italiana, che poteva essere considerato come la gazzetta ufficiale mazziniana, in data 18 febbraio 1865, faceva un dettagliato resoconto sulla nascita dell’Internazionale e ne riproduceva integralmente Indirizzo e Statuti. Il maggiore Wolff, inoltre, di ritorno dall’Italia, annunciava che le Società operaie di Alessandria e di Brescia lo avevano incaricato di esprimere al Consiglio i loro amichevoli sentimenti nonché la loro cordiale approvazione dei fini dell’Associazione con la speranza di poter presto entrare in questa unione fraterna (Seduta del Consiglio Centrale del 28 febbraio 1865).
Ma questi cordiali rapporti con Mazzini lo erano solo in apparenza. Infatti il 25 febbraio Marx scriveva che Mazzini era «fuori di sé perché la sua Società Operaia di Londra ha mandato per il mondo il mio indirizzo tradotto in italiano, facendo a meno del desiderato permesso del signor Mazzini». Subito dopo avvenne la formale rottura: il 14 marzo Wolff presentava le sue dimissioni, ed il successivo 4 aprile si dimisero tutti gli altri italiani.
Ciò non significa però che Mazzini rinunciasse a fare dell’entrismo,
infatti, in una lettera del successivo 26 aprile, indirizzata ad un certo
Traini, Mazzini scriveva: «Entrate pure nell’Associazione Internazionale.
Gli elementi inglesi sono buonissimi; altri non tanto. Ed è necessario
stare in guardia contro influenze che mirano ad accrescere l’antagonismo
aperto fra le classi operaie e le classi medie, ciò che nuoce senza raggiunger
lo scopo».
Bakunin e l’Internazionale
Il 1864 fu dunque l’anno di nascita della Prima Internazionale, l’anno della unificazione (anche se più formale che sostanziale) delle Società operaie italiane e l’anno della calata in Italia di Bakunin.
Bakunin in Italia era già venuto, nel gennaio di quello stesso anno arrivava a Genova con presentazioni scritte sia di Mazzini sia di Saffi, conosciuti in Inghilterra, lettere che lo dichiaravano fervente democratico. Grazie a queste presentazioni a Genova incontrava Agostino Bertani, e, tramite quest’ultimo, si recava a Caprera da Garibaldi. Poi, fino all’agosto, si stanziava in Firenze.
A Firenze Bakunin annodò numerose relazioni, quasi esclusivamente nell’ambiente democratico massonico. Tant’è che da molte parti si diceva fosse entrato a far parte della massoneria. Secondo il metodo invariante della politicantismo borghese, losco ed intrigante, Bakunin, in una lettera agli amici Herzen e Ogar�v del 23 maggio 1866, affermava assurda «l’idea ch’io sia iscritto alla frammassoneria; forse la frammassoneria potrebbe ancora servirmi da maschera o da passaporto». Secondo i suoi piani la massoneria gli avrebbe permesso di introdursi con facilità all’interno dell’ambiente democratico e, soprattutto, all’interno della frazione mazziniana, allora in strettissimi rapporti con la setta. Il medesimo atteggiamento opportunista Bakunin lo teneva nei confronti di Mazzini. «Presso noi – scrisse molti anni dopo Andrea Giannelli – Bakunin fece tesoro della sua amicizia con Mazzini altamente lodandone le qualità politiche tanto ch’egli riuscì ad attirare le nostre simpatie» (30 luglio 1895).
Attraverso l’uso delle sette segrete Bakunin si riprometteva di selezionare una élite di uomini che avrebbero costituito lo stato maggiore rivoluzionario in vista di prossimi moti sociali. Questa era stata l’attività svolta da Bakunin in Italia immediatamente prima dell’incontro con Marx.
Ai primi di novembre fa il suo ritorno in Italia, con anche l’incarico di consegnare a Garibaldi l’Indirizzo Inaugurale dell’Internazionale.
Per quanto avesse assicurato a Marx che avrebbe posto delle mine contro Mazzini, anche in questa occasione arriva a Genova munito di una lettera di presentazione di Mazzini, indirizzata a Federico Campanella: «Di’ a Mosto che andrà a cercarlo un amico mio russo con la moglie: che mi preme sia ben accolto dai nostri; che lo faccia conoscere ai coniugi Sacchi e Casaccia per gli operai [...] Starà pochissimo in Genova. Questo russo ti darà una prima lettera russa, in francese. È lavoro interessante assai» (12 novembre 1864).
Tornato a Firenze, Bakunin provò a fondare una associazione segreta composta di pochi legionari, coperti dal più profondo mistero, ai quali sarebbe stato vietato di mettersi in comunicazione gli uni con gli altri; gli affiliati dopo essere stati messi a parte del programma rivoluzionario ne sarebbero diventati i propagandisti. I componenti il Comitato centrale, supremo dirigente, avrebbero dovuto anche procurarsi tutte quelle nozioni militari che avrebbero potuto metterli in grado di guidare eventuali moti armati. Pene tremende sarebbero state comminate ai traditori ed agli apostati, e una selettività molto severa doveva presiedere l’accettazione di nuovi fratelli.
Notizie di questa Società segreta provengono dalle memorie di Angelo De Gubernatis, che fu il primo, e forse l’unico affiliato a detta confraternita che, a detta di Bakunin, era retta da un triunvirato segreto ed estendeva le sue trame da Firenze a Parigi, da Ginevra a Londra. «Si doveva fra lui e me – racconta De Gubernatis – stabilire un cifrario misterioso ch’egli ed io soli avremmo dovuto conoscere [...] Ciò che allora premeva era ch’io entrassi presto a far parte del Consiglio supremo. Ma prima di essere ricevuto nel consesso, sarebbe stato necessario che io mi sottoponessi a un interrogatorio il quale sarebbe fatto da uno dei triumviri della Repubblica toscana del 1848, Giuseppe Mazzoni di Prato, il pezzo più grosso della massoneria. Perché poi un capo massone, che non faceva parte del triunvirato rivoluzionario, dovesse esaminarmi per sapere se io ero degno di entrare nel Supremo Consiglio, non ho mai capito».
Il De Gubernatis aderisce all’organizzazione segreta e compone anche un inno, “La Sociale”, che avrebbe dovuto essere la Marsigliese della nuova rivoluzione.
Appena ottenuta questa prima adesione alla sua millantata organizzazione
segreta internazionale, Bakunin si affretta a comunicare a Marx il risultato
della sua attività, assieme ad una relazione sulla situazione italiana,
cercando anche, timidamente, di batter cassa: «Carissimo, formalmente
tu hai il diritto di essere in collera con me perché ho lasciato senza
risposta la tua seconda lettera ed ancora non ho risposto alla terza [...]
Secondo il tuo desiderio ho inviato a Garibaldi un esemplare dell’Indirizzo
del Comitato Internazionale ed ancora attendo la sua risposta. Oltre a
ciò io aspetto che sia stampata la traduzione italiana per inviatela [...]
La mancanza di denaro inceppa ogni lavoro attivo. Oltre a ciò, la grande
maggioranza degli italiani, demoralizzata dal fiasco completo e dagli errori
del partito democratico [...] è adesso fortemente malata di scetticismo
e di stanchezza. Soltanto la propaganda socialista, appassionata, energica
e conseguente, può ancora far ritornare in questo paese la vita e la volontà.
Ma per tutto ciò occorre tempo perché qui occorre incominciare tutto
dal principio. In Inghilterra evidentemente, voi andate avanti a gonfie
vele. Noi, al contrario, azzardiamo appena ad aprirle a poco a poco. Ti
mando una poesia fiorentina: spero che ti piacerà [si tratta, molto probabilmente,
dell’inno scritto dal De Gubernatis]. Purtroppo l’organizzazione è
un affare molto più difficile che le poesie. Anch’essa va innanzi, in
vero, ma molto lentamente....» (7 febbraio 1865).
Fra Mazzini e il socialismo
Se proprio volessimo individuare tracce dell’attività svolta da Bakunin a Firenze e della sua influenza esercitata nell’ambiente democratico, forse potremmo citare la fondazione del settimanale Il Proletario, che vi inizia le pubblicazioni il 20 agosto 1865, diretto dal massone Nicolò Lo Savio.
Sia l’unificazione nazionale sia la propaganda ed il programma mazziniano avevano lasciato irrisolto il gravissimo problema sociale, che anzi era andato acuendosi. E l’esigenza di una soluzione cominciava a manifestarsi all’interno della parte più radicale dello stesso movimento mazziniano. Il Proletario si definisce quindi giornale “economico socialista per la democrazia” e si fregia di questo motto: “Che cosa è il capitale? Tutto. Che cosa è il lavoro? Niente. Che cosa sarà il Capitale? Niente. Che cosa sarà il lavoro? Tutto”. Rivolgendosi agli operai dichiara: «Voi esistete come classe sociale distinta dalle altre classi [...] Il popolo si trovò lasciato a sé stesso e in opposizione alla classe dei proprietari e dei capitalisti, formò la classe dei salariati o dei proletari. Questa classe è quella che costituisce la parte principale della democrazia operaia; la quale ormai si afferma nella società come essere collettivo, morale e libero; si sente distinta dalla classe borghese perché ha un’idea propria, ha interessi separati da quelli della borghesia; professa in economia sociale massime tutte differenti da quelle dell’economia borghese [...] ed invero non vi ha forza al mondo che possa ormai cancellare dall’ordine del giorno sociale il diritto al lavoro, l’abolizione del salariato, la ricostituzione della proprietà, l’associazione, l’estinzione del pauperismo, ecc. ecc.»
Il settimanale fiorentino definisce la borghesia «aggiogatrice e borsaiuola», però intende riferirsi soltanto alla «aristocrazia industriale e mercantile, ossia a coloro che nelle loro mani concentrano estesissime proprietà e gran massa di capitali, e ne fanno monopolio»; al contrario «i piccoli industriali, i piccoli proprietari, i piccoli commercianti [...] hanno più conformità di interessi con la classe proletaria che con l’aristocrazia borghese». In altra parte viene affermato che «la classe media e la classe salariata son quelle che costituiscono la democrazia operaia».
Il giornale sembra porsi a metà strada tra il mazzinianesimo ed il socialismo. Si fa difensore della proprietà privata e prospetta agli operai il sistema cooperativo, ma allo stesso tempo dichiara la presenza nella società di classi antagoniste e la necessità di uno sforzo tenace da parte della classe operaia per raggiungere la propria emancipazione senza sperare nell’aiuto della borghesia; finisce con il prospettare una società basata sull’eguaglianza di tutti i cittadini, ossia interclassista. Si vede come ci siano molte idee e molta confusione, e soprattutto come ancora sia estraneo il concetto della lotta di classe.
Altrove si legge: «Se gli operai pervenissero ad intendersi fra loro e ad organizzarsi è chiaro che padroni del lavoro, e per mezzo del lavoro stesso producendo continuamente nuovi capitali, essi avrebbero ben tosto riconquistato da loro il capitale alienato; attirerebbero ad essi dapprima la piccola proprietà, il piccolo commercio, la piccola industria; poi la grande proprietà e le grandi imprese; infine le imprese più vaste, come a dire le miniere, i canali e le strade ferrate; così diverrebbero i padroni di tutto senza spoliazione dei proprietari. Il socialismo non fa guerra ai ricchi, ma ai principi; i socialisti non sono spogliatori». È interessante notare come ciò che viene esposto, anche se con parole diverse, in definitiva sia la tesi classica del capitalismo: i proletari sono poveri perché mancano di iniziativa.
Di citazioni da questo giornale, che avrà la breve vita di soli 5 mesi, se ne potrebbero estrapolare a iosa in un senso e nell’altro: ossia di ispirazione mazziniana oppure socialistica. Ciò dimostra come ormai non si possa più fare a meno di affrontare il problema sociale e di questo, se non Mazzini, i mazziniani si rendevano conto. Bisogna dire che Il Proletario è tra i primi giornali italiani che cominciano a dare notizie sulla attività dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, ed il 12 novembre 1865 riporta il verbale del Consiglio Generale svoltosi dal 25 al 29 settembre a Londra.
A Firenze il proselitismo di Bakunin non ha nessuna fortuna, così nella primavera del 1865 abbandona la Toscana per recarsi nel napoletano, dove rimane fino al settembre del ’67. A Napoli, ancora una volta, si inserisce nell’ambiente democratico-massone, indirizzandosi direttamente alla redazione del garibaldino Popolo d’Italia che rappresenta, allora, il centro direttivo del movimento.
Come a Firenze anche a Napoli si vive la necessità di un profondo rinnovamento.
Il 2 settembre 1865 esce Libertà e Lavoro, giornale che viene distribuito
gratuitamente tra gli operai e nei quartieri popolari. Anche in questo
caso la redazione è composta da mazziniani di sinistra che, tuttavia,
indicano nella nuova istituzione sorta a Londra lo strumento idoneo a realizzare
l’unione di tutte le forze del lavoro: «I tempi si appressano, le sperperate
membra della famiglia artigiana sono incominciate alacremente a riunirsi
sotto il nome di Associazione Internazionale dei Lavoratori, e noi, operai
italiani, quando rispondiamo a questo interessante appello? L’associazione
è cosa vitale per voi, pei vostri interessi [...] L’associazione, fratelli
operai, è l’unico mezzo per diventar forti nella battaglia che combattiamo
coi nostri più vitali bisogni» (10 marzo 1866). Pochi giorni prima il
giornale aveva pubblicato l’Indirizzo del Consiglio Generale.
Crollano le illusioni nazionali
Ma, come abbiamo accennato, già una evoluzione sta maturando all’interno del movimento mazziniano, così descritta da Atanasio Dramis: «Io feci intendere che a me pareva già esaurita la formola mazziniana, la quale, a mio giudizio, aveva bisogno di rinnovarsi nella nuova formola democratica della questione sociale, non sembrandomi più possibile il seguito delle masse popolari sventuratamente ingannate da movimenti esclusivamente politici. Le mie idee vennero accettate, e si formolò un programma che alla classica autorità dei doveri mazziniani associava la redenzione delle plebi lavoratrici con la rivendicazione dei diritti del lavoro, la cui giuridica servitù al salariato era la causa immediata dell’abbrutimento morale del proletariato e della sua miseria. Ma non fu possibile piegare quel Grande [Mazzini] all’approvazione dello statuto che dopo il suo veto restò campato in aria. Invano io insistevo sulle necessità di un battesimo novello del “Dio e Popolo” nel lavacro della “Libertà e Giustizia” [...] Fu tutto inutile: la rigidezza del sommo italiano, non avvertì che alla marea dei tempi nuovi bisognava opporre ben altri argini, a cui non bastava il classico apostolato delle sue dottrine».
Questa evoluzione in senso demo-radicale tende a generalizzarsi. Per esempio Il Popolo d’Italia del 13 febbraio 1866 riporta alcuni interventi ad un incontro tenutosi a Napoli i giorni precedenti; nel resoconto si leggono affermazioni di questo genere: «L’astro della rivoluzione [si riferisce al movimento rivoluzionario nazionale per l’unità d’Italia] cominciò a poco a poco ad oscurarsi [...] E poi cademmo così da equivoci in equivoci, da inganni in inganni. Tratto in errore il popolo, disarmato, vide scomparire l’una dopo l’altra tutte le sue più belle illusioni [...] Il governo italiano non si contentò di rinnegare i principi della rivoluzione [...] Il governo italiano non si contentò di transigere con i nemici della rivoluzione, con i preti e con i borbonici, venendo con gli uni a convenzioni, con altri talune fiate ad amplessi scandalosi [...] È tempo ormai che la voce dell’operaio debba essere ascoltata, imperocché la libertà non lo considera uno strumento nelle mani della tirannide [...] Quindi se al presente sono stati conculcati i suoi diritti dalle inique caste in cui componesi la umana società, oggi in lui si è risvegliato il sentimento della propria potenza, della propria dignità. L’operaio oggigiorno si prefigge di vedere abolite le privilegiate caste, avanzo pestifero del medio evo».
Vediamo quanto questo orientamento di adesione alla causa sociale, da parte di intellettuali, sia molto debole, ma tuttavia questa sensibilità si fa strada. C’è da osservare come i democratici di oggi non sono affatto più evoluti di quelli di 150 anni fa.
Bakunin invece non fa affidamento sulle masse operaie della grande industria, abituate alla disciplina e alla coesione, ossia, secondo lui, alla mancanza di libertà, a quelle masse cui non ripugna l’idea dello Stato, di uno Stato dei lavoratori. Ripone invece la sua fiducia nell’istinto delle masse contadine che, vittime di un secolare sfruttamento, sono più proclivi a sanguinose rivolte e che basta una scintilla per far prorompere il loro odio contro il proprietario, il borghese, il cittadino. Ecco quello che scrive nel 1870, esaltando il rivoluzionario “in potenza” che si cela dentro ogni contadino italiano: «Risvegliate soltanto l’istinto profondamente socialista che è sopito nel cuore di ogni contadino italiano; rinnovate in tutta l’Italia, ma con un fine rivoluzionario, la propaganda che il cardinale Ruffo aveva fatto in Calabria, sulla fine del secolo scorso; gettate soltanto questo grido: la terra a chi lavora con le sue braccia! E vedrete se tutti i contadini italiani non sorgeranno per fare la rivoluzione sociale».
Secondo Bakunin gli operai sono stati rovinati dal contatto con la borghesia. Il patriottismo è un veleno, che Mazzini e Garibaldi hanno inoculato negli operai italiani che si lasciano trascinare «ciecamente dalla loro borghesia radicale e liberale, parlano di marciare su Roma, come se dal Colosseo e dal Vaticano possano venir loro la libertà, il riposo e il pane [...] Queste preoccupazioni esclusivamente politiche e patriottiche sono molto generose, senza dubbio, da parte loro. Ma bisogna anche confessare che sono molto stupide». Al contrario le masse contadine serbano intatto l’istinto rivoluzionario: «Sotto il rapporto della rivoluzione sociale, si può dire che le campagne d’Italia sono anche più avanzate delle città».
In una lettera del 18 luglio 1866, indirizzata ad Herzen ed Ogar, scrive: «In questi ultimi tre anni la mia unica preoccupazione è stata l’organizzazione di una società segreta socialista rivoluzionaria [...] Nell’Italia meridionale soprattutto, il basso popolo accorre in massa verso di noi, e non è certo la materia prima che manca [...] sebbene lentamente noi progrediamo ogni giorno». L’affermazione secondo cui il basso popolo accorresse in massa verso di lui è semplicemente risibile: i suoi incitamenti alla rivoluzione non conquistano che un piccolo entourage di giovani borghesi e, solo in un secondo tempo, anche di operai ed artigiani. Ma gli stessi suoi affiliati spesso si rifiutano di eseguire i suoi ordini, problema evidente in modo particolare in occasione della guerra austro-prusso-italiana, quando, malgrado la sua ostilità, accorrono tutti volontari nelle file garibaldine.
Bakunin in una lettera del 23 maggio 1867 riferisce che il prefetto
di Napoli lo ha denunciato come «promotore e capo del movimento in Sicilia,
soprattutto a Palermo, e in genere nell’Italia meridionale», il che
è poco credibile. Aldo Romano nella sua Storia del Movimento Socialista
in Italia scrive: «È significativo il fatto che nelle carte della
polizia napoletana non vi siano tracce, neppur lievissime, dell’attività
del Bakunin a Napoli pei due anni da lui trascorsi in quella città».
Fine dell’influenza di Mazzini
A guerra finita il suo gruppo napoletano si allarga. Mazzini avverte il colpo e cerca di correre, inutilmente, ai ripari. Si illude di esorcizzare lo spettro del socialismo non nominandolo: «Non esprimeva che un desiderio, s’evitasse un nome, socialismo, che per consenso di tutti ha un valore di sistema e di sistemi, che danno una soluzione falsa del problema e allarma tutta una classe numerosissima senza pro’» (lettera a Campanella, 24 settembre 1866)
Mazzini può anche evitare di nominarlo il socialismo, ma questi, fregandosene del buon Giuseppe, progredisce in tutta Europa e comincia a mettere radici, per quanto incerte, anche in Italia. Il 23 gennaio 1867 Mazzini scrive (ad Ernesto Forte): «In Napoli l’Alleanza ha un comitato, ma inerte [...] L’inerzia del Mezzodì è fatale». Il 1° aprile 1867 (a Giuseppe Libertini): «Vagano dietro un socialismo che senza la repubblica è un sogno da infermi. Ripugnano ricevere un po’ di direzione da me, come se potessero trovarne una altrove». Ed il 15 aprile 1867 (a Procaccini): «Ho deciso di non mandar più sillaba ad essi o ad altri. Sento che fra me e gli influenti di Napoli non v’è quella che Foscolo chiamava ‘colla cordiale’ [...] Taluni sono tormentati dalla malattia dell’inerzia, altri non m’amano perché credo in Dio [...] altri si divertono a ricopiare Proudhon [...] o qualche altro socialista francese dimenticando che i mutamenti sociali non possono venire che dalla repubblica e dimenticando, quanto a me, che fin dal 1840 io predicava, scrivendo, l’abolizione del salario e che le Associazioni operaie liguri riconoscono l’origine loro da me».
Mazzini tenta allora di formare una nuova organizzazione in concorrenza con l’Internazionale. Marx scrive ad Engels: «Il signor Mazzini non ha avuto pace finché non ha formato contro di noi un International Republican Committee» (17 maggio 1866). Sorge così l’Alleanza Repubblicana Universale.
Mazzini può anche tentare di esorcizzare il socialismo rifiutandosi di pronunciare quella parola, ma un dato di fatto diviene evidente: il mazzinianesimo ha fatto il suo tempo. Come La Situazione, foglio volante stampato a Napoli, scrive nell’ottobre del 1866, «Mazzini ha voluto ciò che la monarchia in parte ha fatto, e dice di voler compiere: l’unità d’Italia e la sua grandezza storica. Sola ed unica differenza fra loro la forma pubblica con tutte le conseguenze ad essa proprie. Nei principi fondamentali costitutivi, queste due forme politiche s’accordano interamente, stante la base comune che le sostiene. Pel popolo la suddetta differenza è nulla nella sostanza; forse è solo il nome perché tolto il re e sostituito il presidente, vale tanto lo stesso [...] Noi non abbiamo fede che nella rivoluzione fatta dal popolo per la sua positiva e completa emancipazione – rivoluzione che costituirà l’Italia libera repubblicana - di liberi comuni nella libera nazione – liberamente uniti fra loro».
Indipendentemente da tutto gli operai insistono nella via delle agitazioni e degli scioperi, che aumentano e si dilatano di mese in mese. A questi preoccupanti segni di malcontento della massa operaia altri se ne aggiungono, che danno la misura dello stato d’animo dei contadini. In moltissime località si verificano tumulti contro l’inasprimento delle tasse.
Ai primi del 1867 a Napoli è fondata l’associazione Libertà e Giustizia, i promotori sono tutti esponenti del partito democratico: Saverio Friscia, Carlo Gambuzzi, Atanasio Dramis, etc., tutti elementi che avranno una parte notevole nel sorgere del movimento socialista italiano. Il questore di Napoli, che per avere in passato militato nello stesso partito era in condizioni di avere dettagliate e tempestive informazioni sull’attività di questi uomini, nel dare al Prefetto la notizia dell’avvenuta costituzione lo informava che, a breve, l’ Associazione avrebbe avuto anche un proprio giornale e gli anticipava la copia del programma già stampato, non mancando di segnalare che si trattava di “utopie”.
Questo Manifesto parte con una sintetica rassegna della situazione italiana, definita disastrosa: l’economia nazionale è in rovina, il popolo è tormentato dalla miseria; il paese necessita di una completa riorganizzazione che tenga conto delle esigenze della classe più numerosa della società perché «ogni organizzazione che si compia fuori del popolo e senza il suo efficace concorso sarebbe illusoria, anzi malefica, e non risponderebbe alla grande opera [...] E bando ai vecchi partiti, alle vecchie bandiere, ai grossi nomi, noi proclamiamo a tutti gli amici sinceri del popolo che il nostro programma è benessere sociale, la nostra bandiera è Libertà e Giustizia». In altra parte si legge: «Le masse [...] benché col loro immenso lavoro costituiscano l’unica e vera base dell’esistenza di tutta quanta la società, sono [...] sfruttate, immiserite, abbrutite e oltraggiosamente governate mediante istituzioni intese alla garanzia di una minoranza oziosa e privilegiata. Ci facciamo quindi un dovere il sostenere la redenzione politica e sociale delle moltitudini».
Seguono quindici articoli programmatici con le classiche riforme della democrazia radicale più l’ultimo che richiede la emancipazione del lavoro dalle condizioni di servaggio in cui lo tiene il dispotismo della terra e del capitale per mezzo dell’istruzione e dell’associazione proletaria.
Se l’associazione Libertà e Giustizia è stata fondata da elementi
strettamente legati a Bakunin, il programma ha poco in comune con le sue
idee. Non vi è accenno ad insurrezioni, anzi l’attuazione del programma
viene presentata come raggiungibile attraverso progressive riforme sociali.
Verso il socialismo e verso l’Internazionale
Libertà e Giustizia, del quale movimento non si conosce la portata effettiva, più che frutto dell’attività rivoluzionaria di Bakunin, come nei casi precedentemente esaminati, può considerarsi spontaneo sviluppo della parte più radicale della democrazia risorgimentale che andava evolvendo nella direzione del socialismo.
Nell’articolo intitolato “Le Associazioni Operaie”, apparso sul primo numero di Libertà e Giustizia, rivolto agli operai, si legge: «Non aspettate nulla dalla provvidenza dei preti [...] Non aspettate nulla dalla provvidenza del governo [...] Non aspettate nulla dai capitalisti, dai banchieri, dai renditieri [...] il segreto della vostra redenzione sta nelle vostre mani, nel lavoro; il capitale ed il credito necessario al lavoro stanno nel vostro numero, nelle associazioni. Che le associazioni non siano quindi meramente negative o passive, siccome lo sono quelle dette di mutuo soccorso e che meglio si chiamerebbero delle disgrazie. Esse debbono essere essenzialmente positive ed attive, debbono trasformarsi in associazioni cooperative di produzione, di consumazione e di credito al lavoro, assorellarsi fra loro con libero vincolo [...] Il nostro giornale si costituisce fin d’ora organo internazionale fra le associazioni cooperative in Italia e quelle esistenti fuori, che hanno il loro comitato centrale permanente a Londra». Questo è il primo documento di adesione all’Internazionale da parte di un gruppo politico italiano.
A Marx viene recapitato il giornale: il 4 settembre 1967 scrive ad Engels: «Ho ricevuto da Napoli i primi due numeri di un giornale, “Libertà e Giustizia”. Nel n. 1 si dichiarano come organo nostro. L’ho dato ad Eccarius perché lo presenti al congresso. Il n. 2, che ti manderò, contiene un buon attacco a Mazzini». Tra Marx e Libertà e Giustizia ci fu un rapporto diretto tant’è che nel 3° numero, del 31 agosto 1867, pubblicherà l’Indirizzo del Consiglio Generale dell’Internazionale sull’imminente Congresso di Losanna e, nel n. 11 del 27 ottobre, verrà pubblicato un brano dell’opera Das Kapital, «dalla prefazione stataci gentilmente inviata dall’autore», «che segnerà un’epoca luminosa negli annali della letteratura sociale».
Un aspetto veramente positivo si può rilevare da come è impostata dal giornale la questione nazionale. Veniva ricordato come nel ’48 e nel ’60 i patrioti italiani avessero fatto dell’unità e di Roma una questione meramente geografica, mentre la questione romana non doveva essere solo l’occupazione di un territorio italiano, ma rappresentare la distruzione simultanea di due poteri, quello temporale e quello spirituale; la monarchia italiana potrà occupare la città, distruggere il potere temporale, ma non permetterà mai che si ponga in discussione il papato, perché i suoi stessi vitali interessi sono legati a quell’istituto politico e morale. «Perciocché giammai esso si vorrà privare di una religione privilegiata officiale. Se con la legge dell’Asse Ecclesiastico ha dispossessato i preti, li ha però salariati. Solo la rivoluzione può rendere questa ciurma di vagabondi una mano di liberi lavoratori».
Su Mazzini il giornale scrive: «Malgrado l’instancabile attività del capo, malgrado la costanza e la proverbiale intemeratezza di Mazzini, malgrado il sacro entusiasmo, onde fu sempre infiammato per la patria e per la libertà, malgrado la mondiale rinomanza di lui, in verun tempo e in veruna parte d’Italia, il partito mazziniano ha potuto solidamente costituirsi, o, costituito, durare a lungo, un’occhiata seducente della monarchia, guadagnandosi gli spaccamontagne e i più furiosi arruffapopoli, ha scombussolato tutto il partito [...] Giammai però Mazzini ha saputo indovinare il vero segreto di queste continue diserzioni e, condannato ad un vero lavoro di Sisifo, se l’ha preso con la tristizia umana. Ma la questione era semplice. L’equivoco del programma, la vuotezza ed astrattezza di una tale repubblica, le continue transazioni politiche di Mazzini, hanno generato sempre ne’ seguaci di lui l’inconsapevolezza dei principi, l’incertezza nelle azioni, pusilli tentativi, sterili conati e incessanti e colpevoli diserzioni. Senza un concetto fermo nella mente [...] allettati d’altro canto dalle lusinghe del nostro corrotto e corruttore governo, i mazziniani non formarono e perciò non formeranno mai un partito serio e potente, amando meglio di domandare la loro forza agli inani misteri delle cospirazioni che al braccio onnipotente del popolo. Le vittime immortali che ha dato questo partito si contano a decine, gli spergiuri ed i felloni a centinaia».
Questi alcuni stralci dell’articolo di cui Marx scrive ad Engels, supponendo che sotto vi fosse Bakunin. Ma molto probabilmente qui Marx si sbagliava, Bakunin non era venuto in Italia con l’intento di “prendere parte soltanto a movimenti socialisti”, ben altri progetti aveva in mente.
Dal 2 al 7 settembre 1867 si tenne a Losanna il Secondo Congresso dell’Internazionale dove apparvero chiari i grandi progressi compiuti dall’Associazione. Il suo fruttuoso intervento in importanti questioni tra industriali e lavoratori in Francia e in Inghilterra le aveva valso l’adesione di intere leghe operaie; si fondavano qua e là giornali internazionalisti, perfino in America gli operai cominciavano a guardare con fiducia verso la nuova organizzazione. In Italia, le società operaie di Napoli, Milano, Genova, Bologna, Bazzano si erano messe in corrispondenza con il Consiglio Generale di Londra; e al Congresso parteciparono due italiani: il marchese Tanari, in rappresentanza delle Società Operaie di Bologna e Bazzano; e Gaspare Stampa, in rappresentanza della Società Operaia di Milano.
La loro partecipazione al Congresso dell’Internazionale, pure avendo la sua importanza, deve però essere considerata come semplice atto di adesione: essi non rappresentavano nessuna vera e propria sezione dell’Internazionale. Per farsi un’idea di quale fu la portata della presenza italiana basti ricordare come Gaspare Stampa, delegato del consiglio centrale delle Associazioni Operaie d’Italia, fu oggetto delle risa dei membri del Congresso: nel suo rapporto, letto nella seduta del 4 settembre, asseriva che nel 1867 si contavano in Italia «almeno seicento società operaie rappresentanti più d’un milione di membri». L’Internazionale verificò, e consigliò al signor Stampa «pel decoro dell’Associazione di essere un po’ più esatto».
Degli esiti del congresso Marx si dichiarò molto soddisfatto, tant’è che scrisse ad Engels l’11 settembre: «Les choses marchent. Alla prossima rivoluzione, che è forse più vicina che non sembri, noi (ossia tu ed io) [ossia il partito] avremo questo strumento in mano nostra. Paragona a questo il risultato delle operazioni di Mazzini, ecc., da trent’anni a questa parte. E tutto ciò senza denaro e nonostante gli intrighi proudhoniani di Parigi, di Mazzini in Italia, avendo contro di noi Ogder, Cremer, Potter a Londra... e Schultze-Delitzsch e i lassalliani in Germania. Davvero, possiamo essere soddisfatti!».
In quei giorni Bakunin si trovava in Svizzera, però evitò di prendere parte al Congresso dell’Internazionale; al contrario intervenne a quello, che si tenne qualche giorno dopo a Ginevra, convocato dalla “Lega per la Pace e la Libertà”.
(Continua del numero scorso)
(Indice)
L’American Federation of Labor
La Federation of Organized Trades and Labor Unions
Il 1881 fu un anno fatidico per il movimento operaio americano. Dopo un breve prologo nell’Indiana, si tenne il 15 novembre un congresso a Pittsburgh, al quale parteciparono 107 delegati di diversi sindacati di mestiere, in rappresentanza di quasi mezzo milione di proletari. Il congresso era stato convocato per rispondere al bisogno di combinare le tante forze sorte dalla classe operaia in una struttura che le coordinasse per ottenere maggiore efficacia dalle lotte rivendicative e per condurre agitazione su particolari tematiche di interesse per la classe.
La struttura, che si diede il nome di “Federation of Organized Trades and Labor Unions of the United States and Canada”, e che intendeva ispirarsi al Trades Union Congress inglese, fin dall’inizio discusse un aspetto che sarebbe stato centrale anche per gli anni avvenire: alcuni delegati infatti proposero che fossero ammesse alla Federazione solo pure associazioni di mestiere; una scelta che avrebbe escluso i lavoratori non organizzati, in particolare i non specializzati, che contavano un gran numero di donne e di negri. La proposta fu respinta a larga maggioranza.
Fu quindi adottato il seguente preambolo alla piattaforma costitutiva, molto distante dalle enunciazioni che all’epoca esprimevano i Knights of Labor: «Una lotta è in corso in tutti i Paesi del mondo civile tra oppressori e oppressi, tra capitale e lavoro, una lotta che cresce d’intensità di anno in anno, e che può avere conseguenze disastrose per milioni di lavoratori se non si accompagna ad un mutuo sostegno. La storia dei salariati di tutti i Paesi non è altro che un succedersi di lotte e miseria, generati da ignoranza e mancanza d’unità; mentre quella dei non-produttori di tutti i tempi dimostra che una minoranza ben organizzata può fare meraviglie, nel bene e nel male. Adeguandosi al vecchio adagio “Nell’Unione è la forza”, la formazione di una Federazione che comprenda tutte le organizzazioni di mestiere e lavoro del Nord America, una unione fondata su una base grande come la terra sulla quale viviamo, è la nostra sola speranza».
Nella Piattaforma venivano enunciati numerosi principi di tipo sindacale
e politico da difendere, primo tra tutti l’abolizione del lavoro minorile,
ma sin dall’inizio fu ben chiaro che l’obbiettivo fondamentale dei
convenuti era quello di difendere efficacemente il salario e le condizioni
di lavoro nei confronti di un capitale sempre più agguerrito. Come ebbe
a dire F.K.Foster, il primo segretario: «Il crescente potere del capitale
associato deve essere combattuto dal lavoro associato. Federazione è il
motto del futuro».
Lo scontro con i Knights of Labor
Nei primi anni la Federation of Organized Trades and Labor Unions of the United States and Canada ebbe una vita stentata. I sindacati che ne facevano parte le davano poca importanza, né erano larghi nella concessione di fondi; la Federation produsse quindi ben poco al di là di dichiarazioni che restavano sulla carta. I K.L. davano ancora la sensazione di essere all’altezza di difendere gli interessi dei proletari, e ancora nel 1884 il segretario Frank Foster doveva ammettere assenza di progressi nell’attirare i maggiori sindacati, nell’azione politico/legislativa e nell’unificazione del movimento operaio. Ma alla stessa convenzione furono espresse due risoluzioni che avrebbero avuto effetti profondi sul futuro del movimento: l’istituzione del Labor Day, Festa del Lavoro, e del May Day, come ricorrenza per celebrare la lotta per le 8 ore, entrambe intese come astensioni dal lavoro, quindi come scioperi generali di tutta la classe.
Le iniziative ricevettero una risposta entusiastica da parte della classe: mentre il Labor Day si sarebbe tenuto il primo lunedì di settembre, fu stabilito che il 1° maggio 1886 sarebbe entrato in vigore l’orario di 8 ore. Il primo obbiettivo fu realizzato senza grandi problemi: entro pochi anni molti Stati lo accettarono come pubblica ricorrenza e divenne una festa nazionale nel 1894.
Meno facile fu il percorso dell’iniziativa per le otto ore, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Ma il fatto di esserne stata la fautrice fece crescere la considerazione della Federation all’interno del movimento sindacale. Allo stesso tempo i K.L. facevano del loro meglio per alienarsela, con atteggiamenti sempre più antioperai e collaborazionisti, come abbiamo descritto in precedenza.
Il punto di svolta fu l’occasione di una dura lotta degli operai sigarai di New York: il padronato nel 1886 decise di applicare un taglio salariale del 20% in tutto il settore. La Cigar Makers’ International Union, affiliata ai K.L., rifiutò il taglio e come conseguenza i padroni decretarono la serrata in 19 fabbriche. Dopo 4 settimane la lotta stava per essere vinta, con i padroni che offrivano rami d’olivo. Ma a New York esisteva un altro sindacato, la Progressive Union, affiliato anch’esso ai K.L., con il quale l’International Union non aveva mai avuto buoni rapporti a causa dei suoi atteggiamenti equivoci. La Progressive Union offrì ai padroni lavoro a salario ridotto, con la sola condizione che fossero assunti solo suoi iscritti. La International Union si appellò agli organi centrali dei K.L.; ma questi, nei quali ormai prevalevano le posizioni antisindacali, diedero ragione alla Progressive Union. La conseguenza immediata fu che in tutto il mondo sindacale si comprese che con i K.L. non si poteva rimanere se si voleva condurre delle lotte conseguenti, e si cominciò a guardarsi intorno alla ricerca di altre strade che portassero ad una maggiore unità della classe.
Fu convocata una conferenza per il 18 maggio 1886 a Philadelphia, i cui partecipanti rappresentavano quasi 400.000 operai organizzati. Questi prepararono un documento nel quale in sostanza si chiedeva autonomia dei singoli sindacati di mestiere, ma che non escludeva che continuasse il ruolo centrale del K.L.; ma la dirigenza dell’Ordine, ad un’assemblea tenutasi a Richmond in ottobre, troppo sicura del suo potere e della maggioranza nelle assemblee, rigettò ogni richiesta ed intimò agli iscritti alla Cigar Makers’ International Union di scegliere tra restare nel loro sindacato o nell’Ordine. Al che i dirigenti di molti sindacati, oltre a quello dei sigarai, capirono che non c’era più niente da fare e che l’arroganza dei capi dei K.L. avrebbe prima o poi colpito tutti, e cominciarono un esodo che fu poi definito “ferita mortale” per l’Ordine.
I dirigenti che avevano organizzato la conferenza di Philadelphia convocarono
tutte le organizzazioni sindacali a Columbus, Ohio, per l’8 dicembre
1886. La convenzione decise di unire in una Federazione tutte le organizzazioni
sindacali presenti, una cinquantina tra nazionali e locali, la quale prese
il nome di American Federation of Labor. La Federation of Organized Trades
and Labor Unions trasferì tutti gli agitatori e i mezzi nella nuova organizzazione,
e cessò di esistere come tale. Samuel Gompers fu eletto presidente della
nuova organizzazione.
I primi passi
Quindi la nuova organizzazione ricevé in dote molte delle caratteristiche della vecchia. Il preambolo del 1881: «Una lotta è in corso in tutti i Paesi del mondo civile tra oppressori e oppressi, tra capitale e lavoro...» aveva scontentato l’opinione pubblica al di fuori del sindacato, e qualcuno sperava in un maggiore spirito di concordia tra capitale e lavoro; ma il momento era particolarmente infuocato, dopo l’attentato di Haymarket e l’offensiva padronale che ne era seguita, e il preambolo rimase nel nuovo statuto, per voto unanime.
Per il resto non c’erano innovazioni rilevanti; attenzione fu posta nel sottolineare l’autonomia dei singoli sindacati, e l’appartenenza alla classe dei lavoratori salariati degli iscritti, in aperta polemica con il recente passato.
La nuova Federazione non ebbe un’esplosione di iscrizioni come era stato per i K.L., ma crebbe in modo regolare e ininterrotto. I 13 sindacati nazionali che avevano fondato l’A.F.L. nel 1886 erano divenuti 40 nel 1892; molti erano piccoli, ma ve ne erano anche di importanti, come quelli dei fonditori, dei carpentieri, dei tipografi, dei siderurgici, dei sigarai. I primi anni furono duri per gli attivisti del sindacato, che gli si dedicavano senza alcuno stipendio né rimborso, rischiando tutto, spesso anche la vita, per difendere i principi nei quali credevano. Qui non è possibile raccontare nemmeno succintamente l’epopea di questi veri eroi del movimento operaio, che si trovavano a operare in presenza del più spietato e sanguinario capitalismo, sostenuto senza esitazioni da altrettanto sanguinari apparati dello Stato.
Nonostante le difficoltà, uno dei punti fermi della politica sindacale difesa da Gompers fu l’esclusione dal sindacato di qualsiasi elemento che non fosse un puro salariato. In questo si rifaceva addirittura a Carlo Marx, che aveva letto in tedesco (aveva imparato la lingua appositamente); gli elementi non operai quindi, il cui sostegno d’altra parte veniva considerato prezioso, non potevano nemmeno essere ammessi a gestire il sindacato. Si riteneva che la loro presenza tendesse ad allontanare i proletari dai problemi immediati che avevano davanti: questa era stata una delle cause del fallimento dei K.L., e l’A.F.L. non doveva ricaderci.
Negli anni successivi Gompers sarebbe arrivato a negare perfino l’esistenza della lotta di classe, ma, in quel periodo giovanile della Federazione, sul primo numero del The Union Advocate, suo organo ufficiale, del giugno 1887, scriveva: «Nel migliore dei casi la vita è una dura lotta contro forze avverse. La vita del lavoratore è doppiamente dura a causa dell’avarizia delle arroganti e tiranniche classi padronali. Essendo queste avide e sopraffattrici, e cercando in ogni momento di strappare al lavoratore la loro libbra di carne, mentre la ricchezza si concentra in un numero sempre minore di mani, è necessario che si formino organizzazioni dei lavoratori stessi per impedire a queste tendenze di continuare a crescere, per non essere precipitati in un abisso di disperazione».
Gompers, avverso alla dottrina difesa da Powderly e altri, secondo la quale gli interessi di capitale e lavoro potevano convivere in armonia, all’epoca sosteneva che erano impossibili rapporti armoniosi «con padroni crudeli e iniqui, e con aziende che si preoccupano solo di dividendi, piuttosto che dei cuori e dei corpi degli uomini (...) La produzione di profitti è il fondamentale e costante oggetto del sistema capitalistico».
La prima conseguenza di queste considerazioni fu un totale e incondizionato sostegno all’uso dell’arma dello sciopero, anche questa in rottura netta rispetto alla tradizione dell’Ordine.
Ma c’è di più, negli anni verdi dell’A.F.L. uno dei suoi obiettivi,
si dichiarava nel 1887, era l’emancipazione della classe operaia dal
sistema capitalistico. In questo senso il rifiuto di appoggiare movimenti
partitici non si basava su un rifiuto per principio di alcun commercio
con il livello politico, come fu nei decenni seguenti, ma su una critica
del programma dei singoli movimenti, come fu in quegli anni nei confronti
del movimento e delle idee di Henry George.
Riprende la lotta per le 8 ore
La controffensiva padronale seguita ai fatti del maggio 1886 aveva determinato una fermata dell’agitazione per la riduzione dell’orario, ma non ne poteva cancellare la necessità. Nei due anni seguenti gli operai avevano già ricostituito le loro organizzazioni ed erano pronti a rilanciare la lotta. Alla convenzione dell’A.F.L. del dicembre 1888 fu deciso che gli sforzi si sarebbero focalizzati sulla data del 1° maggio 1890, come giorno di lotta per la conquista delle 8 ore; nel frattempo vi sarebbero state giornate di mobilitazione preparatorie un po’ dappertutto nel Paese. Lo slogan doveva essere: “Otto ore per lavorare, otto per riposare, otto per quello che vogliamo”.
L’A.F.L. capì subito che l’agitazione sarebbe stata una importante prova per la Federazione. E così fu: le mobilitazioni del 1889 ebbero un enorme successo, tanto da avere ripercussioni al di là dell’Atlantico. Il 14 luglio 1889, in occasione del centenario della Rivoluzione francese, i rappresentanti del socialismo europeo si riunirono a Parigi per fondare la II Internazionale; in quella sede fu tra l’altro deciso di adottare il 1° maggio 1890 come data per uno sciopero internazionale, sulla scia della fortunata mobilitazione americana.
I Cavalieri avevano invece rigettato sdegnosamente l’offerta di collaborazione.
La linea che si decise di seguire fu di far scioperare solo le categorie i cui sindacati davano certezza di successo, e di far seguire nel tempo gli altri, sulla scia dei primi. Una tattica comprensibile, ma che impediva il fatto strategicamente fondamentale, quello di far sentire i proletari appartenenti ad una classe che solo unita possiede tutta la sua forza. La scelta cadde sulla United Brotherhood of Carpenters and Joiners, i carpentieri, all’epoca spina dorsale del settore delle costruzioni.
Lo sciopero internazionale del 1° maggio fu un successo in tutti i Paesi industrializzati in cui fu indetto. Engels ne fu emozionato; scriveva nella Prefazione all’edizione tedesca del 1890 del Manifesto: «La prova migliore che l’eterna unione da essa [l’Internazionale] fondata fra i proletari di tutti i paesi è ancora viva e più forte che mai è la giornata d’oggi. Oggi infatti, mentre scrivo queste righe, il proletariato europeo e americano passa in rassegna le sue forze, per la prima volta mobilitate con un solo esercito, sotto una sola bandiera e per un solo scopo immediato: l’introduzione per legge della giornata normale di lavoro di otto ore, già proclamata dal congresso di Ginevra dell’Internazionale nel 1866 e poi, per la seconda volta, dal congresso operaio di Parigi nel 1889. E lo spettacolo di questa giornata mostrerà chiaramente ai capitalisti e ai proprietari terrieri di tutti i paesi che oggi i proletari di tutti i paesi si sono uniti. Almeno fosse Marx accanto a me per vedere questo spettacolo coi propri occhi!».
Lo sciopero in America andò al di là delle più ottimistiche aspettative: i carpentieri conquistarono le 8 ore in 137 città, e in altre ottennero la riduzione della giornata a 9 o 10 ore. Ma quel che più conta fu l’effetto di galvanizzare la classe: mentre nel 1889 le iscrizioni al sindacato erano aumentare di 3.000 unità, nel 1890 aumentarono di 22.000. Il successo si estese ad altre categorie, che ottennero le otto ore, e le iscrizioni esplosero in praticamente tutti i sindacati dell’A.F.L. Un altro effetto fu l’innalzamento del prestigio internazionale della Federazione.
I Knights of Labor invece, come d’altronde era stato nel 1886, dopo
aver rifiutato qualsiasi collaborazione, in quanto la proposta era “estranea
ai lavoratori e radicale”, ne ebbero come conseguenza la continuazione
della perdita di iscritti e di influenza sulla classe; con livore vedevano
spostarsi il baricentro del sindacalismo operaio verso i sindacati della
Federazione; ma invece di cambiare atteggiamento continuarono ad allontanarsi
dalla classe con atteggiamenti settari quando non apertamente collaborazionisti.
Samuel Gompers
Nei primi anni di vita dell’A.F.L. le enunciazioni di principio, di solito espresse dal Presidente Gompers, erano in genere condivisibili. Tra queste era l’unità di interessi di tutti i lavoratori di tutto il mondo, quindi a maggior ragione di quelli americani. Purtroppo tali enunciazioni non corrispondevano alla pratica della Federazione. Naturalmente erano i singoli sindacati che sceglievano come comportarsi, ma di fronte a certi principi generali si sarebbe trattato semplicemente di farli rispettare. Così non fu. In realtà negli anni seguenti e per la gran parte della sua presidenza Gompers si impegnò a combattere i più sacrosanti capisaldi del sindacalismo di classe.
Non è nostra abitudine raccontare la storia della classe, e la storia in genere, facendo riferimento ai personaggi, grandi o piccoli: nel marxismo rivoluzionario i singoli non decidono, non determinano, non creano un bel niente, sono solo dei vettori di necessità storico-economiche, non importa sotto quali parole, simboli o pagliacciate queste necessità siano realizzate. E più in alto nella scala sociale e più illustri, più insignificanti sono sul piano storico, meno “incidono” sugli eventi veri della storia, a meno che per evento non si consideri fare senatore un cavallo, o un mafioso, o la scelta di una cortigiana. Non ci impressionano quindi questi “battilocchi”, marionette prive di reale potere, spesso di ciò coscienti o, in casi patetici, convinti del contrario.
Qui per trattare del movimento operaio americano a cavallo tra i due secoli utilizziamo la “biografia” di Gompers solo perché bene impersona la corruzione esercitata dalla classe dominante sulla classe operaia, e perché le sue prese di posizione sono emblematiche del sindacalismo aristocratico che in ogni svolto importante è stato lo strumento più prezioso della conservazione sociale, più delle milizie, dell’esercito, dei Pinkerton, dei giudici, da allora ad oggi.
Gompers mantenne la carica di presidente della Federazione dalla fondazione nel 1886 alla sua morte nel 1924, salvo un breve periodo in cui non fu rieletto dopo aver lottato con successo contro i tentativi dei socialisti di influenzare i sindacati. Mai si preoccupò di attenersi alla costituzione dell’A.F.L., né alle delibere dei congressi, nell’adottare scelte che, regolarmente, erano le più conservatrici, nazionaliste e collaborazioniste.
Solo in momenti di radicalizzazione del movimento, in lotta contro i
trust e il governo, Gompers era capace di assecondarne la combattività;
ma quando il movimento era sconfitto, e i sindacati costretti a cedere
al padronato, non esitava a ripudiare ogni singola parola spesa solo poco
tempo prima. Nei primi anni l’A.F.L. inquadrava lavoratori che avevano
vissuto le dure battaglie degli anni ’80, influenzati dalla propaganda
socialista e dai principi di solidarietà tra i lavoratori che i K.L. in
realtà avevano difeso. La Federazione non rifiutava allora i principi
della lotta di classe, né lo scopo finale di un nuovo sistema sociale.
Quale sindacato ?
L’A.F.L. manteneva tutte le caratteristiche positive dell’Ordine mentre rigettava quelle che lo stavano portando alla sua ingloriosa fine. Un aspetto inizialmente condiviso ed assimilato dai proletari era la difesa del sindacalismo d’industria, contrapposto a quello di mestiere, in genere legato agli operai specializzati. Nei primi anni Gompers fu difensore convinto del sindacato d’industria, e cercò di modellare la Federazione in questo senso. Senonché i singoli sindacati, o meglio i loro dirigenti, non erano per niente d’accordo su questa linea di classe, che attentava alla autonomia di molte Unions e a molte poltrone. Gompers lestamente abbandonò il progetto, per divenire un convinto sostenitore del sistema dei sindacati di mestiere, le Trade Unions. Non solo, si mise anche a sostenere un’altra posizione, di non poco conto nella strategia della lotta di classe: l’autonomia sindacale dei mestieri. Fu presto chiaro che quello che contava era difendere gli interessi degli operai specializzati, e che «non si doveva ripetere il tragico errore del K.L., unendo nello stesso sindacato specializzati e non specializzati».
Quindi sin dai primi passi dell’American Federation of Labor si verificò un conflitto tra solidarietà del lavoratori e ristrettezza di mestiere, tra i principi sui quali era costituita, che affermavano che la federazione perseguiva l’organizzazione di tutti i lavoratori, senza distinzione di capacità, colore, sesso, religione e nazionalità, e i principi enunciati e praticati dai capi dei sindacati di mestiere, a difesa sostanziale degli specializzati, la stragrande maggioranza dei quali era bianca, di sesso maschile e nata in America. Un conflitto che avrebbe influenzato la politica dell’A.F.L. nei confronti delle donne, dei negri e degli immigrati.
In teoria le donne avevano pari diritti degli uomini, ma la pratica era ben diversa. In primo luogo in genere i compiti delle donne negli opifici erano di tipo non specializzato, il che le escludeva dalla gran parte dei sindacati di mestiere, che costituivano il nucleo dell’A.F.L. Inoltre la forza lavoro femminile era mediamente molto giovane, e la gran parte delle ragazze presto si sposava e usciva di fabbrica per occuparsi della famiglia; a fatica quindi sorgevano dirigenti sindacali capaci ed esperte. D’altronde i dirigenti maschi spesso non nascondevano la loro approvazione a che le donne guadagnassero la metà degli uomini. Nei casi in cui le donne venivano organizzate quasi sempre nelle fabbriche erano presenti due sindacati, uno maschile e uno femminile, che lottavano insieme e trattavano insieme con i padroni, ma che spuntavano poi condizioni salariali diverse, con grande scontento da parte delle operaie che si vedevano invariabilmente discriminate.
Vi furono però lotte anche consistenti, come quella delle lavoratrici dell’abbigliamento di Troy, New York, nel 1891, che si concluse in un successo. Ma nel complesso i sindacati federati nell’A.F.L. erano restii a accettare le risoluzioni adottate alle convenzioni che invitavano ad organizzare i lavoratori di sesso femminile.
La situazione non si presentava in modo molto diverso per i lavoratori di colore, anche se il comportamento dell’A.F.L. nei suoi primi anni fu in questo senso migliore. La Federazione non mancò mai di sostenere la necessità di organizzare anche i negri; un appello poco ascoltato, soprattutto nel Sud. La soluzione “temporanea” fu di organizzarli in sindacati separati; in realtà questa modalità da temporanea divenne la norma. D’altra parte, nel difendere questi lavoratori e la loro integrazione nel sindacato, si utilizzavano non solo argomenti umanitari e morali, ma anche uno molto pratico: se si abbandonavano a se stessi gli operai di colore, come avrebbero potuto gli operai bianchi biasimarli se se li fossero trovati contro nelle lotte, magari impiegati dai padroni come arma di ricatto o come crumiri?
Questo atteggiamento della Federazione portò ad un successo senza precedenti a New Orleans, nell’ottobre-novembre 1892, quando fu indetto uno sciopero generale della città: l’adesione fu totale, con ben 25.000 lavoratori in lotta, bianchi e negri, appartenenti a 49 sindacati. Niente poterono le provocazioni padronali, tendenti a mettere bianchi contro negri, gli scioperanti rimasero fermi e ordinati, sicuri del loro numero e del completo blocco delle attività cittadine. I padroni dovettero capitolare, e trattare allo stesso tavolo con i delegati di pelle nera.
Ma, nonostante la politica sindacale di classe dei suoi primi anni, l’A.F.L. mancò di gettare le fondamenta di un’efficace integrazione dei negri, e anche dei lavoratori stranieri che arrivavano a milioni, perché non riuscì a superare se non in casi isolati la pregiudiziale del possesso di una specializzazione per l’accesso ai sindacati; i negri non erano specializzati né avevano possibilità di diventarlo, e ciò li ricacciava nel limbo dei non sindacalizzati. Alla fine la capitolazione al razzismo della Federazione fu consacrata nella Convenzione del 1894.
I lavoratori immigrati dall’Europa, pur se discriminati, avevano migliori possibilità d’ascesa sociale, perché meno riconoscibili. Ma anche la politica nei loro confronti, inizialmente corretta, degenerò negli anni; inizialmente la Federazione mantenne un atteggiamento d’accoglienza, soprattutto per la paura che questi lavoratori si rifugiassero tra le braccia dei Cavalieri del Lavoro, ancora molto forti. Ma con la perdita d’importanza dell’Ordine si assisté ad un cambiamento in peggio.
Un caso a parte fu l’atteggiamento verso i lavoratori asiatici, contro
i quali, come era stato d’altronde per i K.L., Gompers non nascose mai
una vera e propria avversione, principalmente verso i cinesi, che erano
arrivati in gran numero per lavorare alle linee ferroviarie, impiegati
in condizioni terribili e che morivano in gran numero. Un’avversione
che prendeva coloriture schiettamente razziste, e che non solo implicava
la non accettazione nei sindacati di questi sventurati ma che ne chiedeva
l’espulsione. Lo stesso atteggiamento entro pochi anni non avrebbe risparmiato
gli immigrati dell’Europa Orientale, indipendentemente dal fatto che
fosse o no proclamato ufficialmente.
Lo sciopero alle acciaierie di Pittsburgh
Il 1892 fu l’anno più ricco di sanguinosi conflitti in tutta la storia del movimento operaio americano. Oltre a New Orleans, sciopero importante ma pacifico nonostante gli sforzi dei padroni, durissimi scontri si ebbero a Buffalo, per uno sciopero degli scambisti, nelle aree minerarie del Tennessee e dell’Idaho, e nelle acciaierie di Homestead, alla periferia di Pittsburgh, Pennsylvania. Quest’ultimo fu particolarmente cruento e ebbe un risalto anche internazionale.
Gli operai specializzati di Homestead appartenevano all’Amalgamated Association of Iron and Steel Workers, il sindacato in assoluto più forte del Paese, che anche nell’acciaieria aveva assunto una posizione di forza. Nel 1889 Carnegie, il “Robber baron” che possedeva l’impianto, aveva tentato di ridimensionare la forza del sindacato proponendo una riduzione di salario del venticinque per cento e contratti individuali. Per far fronte allo sciopero che ne seguì la compagnia assunse poliziotti e cercò di far entrare crumiri, ma la manovra non riuscì, e il picchettaggio di massa respinse la truppa dello sceriffo. La compagnia dovette firmare un contratto triennale, che era in scadenza nel 1892.
All’avvicinarsi della scadenza la compagnia fece di nuovo proposte di forti riduzioni di salario; questa volta però le proposte avevano uno scopo provocatorio, l’intenzione di provocare lo scontro era praticamente dichiarata, e con lo scontro l’obbiettivo era di distruggere il sindacato e il suo potere in fabbrica. A tale scopo l’azienda, guidata da Henry Clay Frick, si era accuratamente preparata: aveva aumentato enormemente la produzione nei mesi precedenti, aveva costruito una specie di muraglia intorno alla fabbrica, aveva assoldato ben trecento mercenari della Pinkerton. Questa, con i suoi 2.000 agenti in servizio permanente e 30.000 riserve, disponeva di una forza superiore a quella dello stesso esercito federale in tempo di pace.
Frick emise un ultimatum secondo il quale, se il sindacato non avesse accettato le sue condizioni entro il 24 giugno, la compagnia avrebbe trattato con i dipendenti singolarmente. Quattro giorni dopo furono licenziati 800 operai; il 2 luglio l’intera forza-lavoro era stata cacciata: si trattava di una serrata, più che di uno sciopero. Era una chiara dichiarazione di guerra. I 3.800 operai votarono a grande maggioranza per lo sciopero ad oltranza: da notare che gli specializzati erano solo 800, gli altri erano non specializzati e non inquadrati nel sindacato, ma temevano a ragione che una volta stroncati gli specializzati e il loro sindacato sarebbe toccato a loro, che avevano margini molto più esili tra salari e indigenza.
Gli operai si prepararono conseguentemente alla guerra dichiarata dalla direzione dell’acciaieria: dopo aver votato per lo sciopero furono organizzati in tre divisioni, una per turno di 8 ore; le divisioni erano organizzate militarmente. Le postazioni importanti furono quindi costantemente presidiate. Un efficiente servizio di comunicazione teneva i contatti tra i reparti e il centro organizzativo. Le strade che portavano a Homestead erano bloccate, mentre gli scioperanti assicuravano l’ordine (vennero chiusi i bar) e il funzionamento dei servizi, emanando specifiche ordinanze.
La notte del 5 luglio le truppe di Pinkerton, che avrebbero dovuto prendere possesso della fabbrica, ormai chiamata “Fort Frick” dagli scioperanti, arrivarono in prossimità della città di Pittsburgh, e furono fatte salire su chiatte che le avrebbero dovute portare, risalendo il fiume Ohio, all’interno della fabbrica. Senonché il movimento non sfuggì alle vedette del sindacato, che telegrafarono immediatamente al comitato di sciopero di Homestead. Alle 4 del mattino una sirena diede l’allarme e i Pinkerton trovarono ad attenderli sulle rive del fiume una folla di 10.000 uomini, gli scioperanti con le loro famiglie. Molti di essi erano armati, alcuni con fucili o pistole, altri con mazze chiodate, pietre, bastoni. I Pinkerton erano tutti ben armati con fucili Winchester. Al tentativo di sbarco furono invitati a rinunciare, poi, inevitabilmente la sparatoria si scatenò: come sempre in questi casi ogni parte dava all’altra la colpa del primo sparo. Di sicuro i Pinkerton spararono sulla folla assiepata sulla riva colpendo nel mucchio molti operai; poi continuò la sparatoria, che durò una giornata. Alla fine i mercenari si trovarono in una posizione esposta e senza possibilità di fuga; dovettero arrendersi e scendere a riva tra due ali di folla inferocita. Vi era stato un altissimo numero di feriti da entrambe le parti, oltre a nove morti tra gli scioperanti e sette tra i Pinkerton. Il Comitato dovette faticare per farli passare indenni, o quasi, tra la folla; ma le bastonature, che pare non fossero risparmiate, non uccisero nessun altro.
Lo scontro ebbe ampio risalto sulla stampa; che trattava come al solito gli scioperanti da assassini e comunisti, ma per gli operai di tutto il Paese, soprattutto quelli che avevano qualche esperienza di lotte dure, l’operato dei Pinkerton non richiedeva grandi spiegazioni, e gli scioperanti ricevettero un forte sostegno; inoltre altri due impianti della Carnegie scioperarono in solidarietà, anche se avevano già un nuovo contratto. Tutti avevano capito che, più del salario, era in gioco la libertà sindacale.
Nei giorni seguenti gli scioperanti furono padroni del campo; la città era pacifica, tutto funzionava, e lo sceriffo non era riuscito a trovare appigli per richiedere l’invio della Guardia Nazionale. Né pareva questa fosse l’intenzione del Governatore. Invece il 12 luglio, inaspettatamente (solo per chi crede nell’imparzialità delle istituzioni), arrivò in città la milizia, che occupò la fabbrica e si preparò a permettere l’afflusso dei crumiri. Che comunque non fu facile trovare: molti non erano disposti a farlo, e furono portati in fabbrica con l’inganno; inoltre, se si potevano sostituire i manovali, ben più difficile sarebbe stato, e fu, sostituire gli specializzati.
La compagnia aveva un piano ben articolato per spezzare lo sciopero, del quale i Pinkerton e la milizia erano solo le prime mosse. Quella successiva fu lo scatenamento dei tribunali contro gli scioperanti: con le accuse più fantasiose gli scioperanti venivano incarcerati, e poi rilasciati su cauzione di $10.000. Quando poi, come è ovvio, i soldi finirono, molti degli accusati, tra i quali buona parte del comitato di sciopero, o restavano in carcere fino al processo, o si davano alla latitanza. Anche se alla fine nemmeno uno degli scioperanti poté essere condannato, questa azione massiccia determinò un forte indebolimento dello sciopero, che durò 4 mesi e mezzo.
Un’ulteriore complicazione derivò da un attentato a Frick da parte di un giovane anarchico; Frick fu soltanto ferito, ma il fatto diede ulteriore fiato alle gazzette antioperaie, nel modo che si può facilmente immaginare, anche se il comitato prese le distanze dall’attentato.
Non risulta che l’A.F.L. abbia partecipato in modo fattivo alla lotta; sollevata dalla rinuncia del sindacato a lanciare un boicottaggio dei prodotti Carnegie, che avrebbe coinvolto tutta la classe sindacalizzata, la Federazione si decise, il 12 novembre, a lanciare una raccolta di fondi in una “Giornata di Homestead”, il 13 dicembre: troppo poco, e troppo tardi, il 20 novembre lo sciopero era terminato.
Il 18 i non specializzati avevano chiesto il permesso di tornare al lavoro, che fu concesso dal comitato; ormai la situazione non era più sostenibile, soprattutto per i non specializzati. La direzione ne prese alcuni, ne rifiutò altri, alle sue condizioni. Dopo due giorni capitolarono anche gli specializzati: di 800 ne erano rimasti 200 a votare, molti si vergognavano, molti erano partiti a cercare lavoro altrove. Ma nessuno aveva rotto la solidarietà della lotta, nessuno si era presentato ai cancelli nel periodo dello sciopero. Ciononostante la maggioranza a favore del ritorno in fabbrica fu solo di pochi voti. La direzione dell’acciaieria riservò loro lo stesso trattamento arrogante, anche se era ben contenta di riprendersi operai specializzati dei quali aveva estremo bisogno.
Le conseguenze furono disastrose, per gli operai dell’acciaieria, e per tutta la categoria. Quello della siderurgia rimase per decenni un settore non sindacalizzato, perché naturalmente Carnegie, che divenne quasi monopolista, fu seguito da tutte le altre aziende. Mentre i manovali delle miniere nel 1907 ricevevano $2,36 per una giornata di otto ore, quelli delle acciaierie ne ricevevano 1,65 per una giornata di 10, o 1,98 per una giornata di 12, che nel settore rimase la norma per molti anni. Senza sindacato nei decenni successivi gli operai dell’acciaio caddero in una specie di schiavitù, mentre la Carnegie Steel Company cresceva a ritmi vertiginosi, accumulando ricchezze mai viste e ponendosi, come monopolista, al cuore del capitalismo americano.
Il sindacato, l’Amalgamated, continuò ad esistere, ma escluso dalle acciaierie più importanti perse quasi completamente di significato e d’iscritti. Non si riuscì a coinvolgere tutto il settore, cosa che avrebbe messo in ginocchio i padroni; non si rispose con un’adeguata preparazione alla preparazione ordita da Frick; non ci si rivolse alla classe in modo organizzato se non troppo tardi, e questo perché non si capì bene cosa c’era in gioco. E questo non l’aveva capito nemmeno l’A.F.L., che ebbe le sue colpe anche se all’epoca non era quell’organizzazione leviatanica che divenne poi.
Esemplare però fu la solidarietà e tenacità degli operai di Homestead,
specializzati e non, iscritti o no al sindacato, americani e immigrati:
nessuno tradì i compagni tornando al lavoro. Lo stesso Frick lo dovette
ammettere in una lettera a Carnegie: “La decisione con la quale questi
scioperanti hanno resistito è sorprendente”. Un potenziale che l’Amalgamated
non riuscì a sfruttare per ricostruire un sindacato d’industria più
combattivo, più aperto (dopo il 1892 continuarono ad escludere i negri),
meglio attrezzato strutturalmente per sfidare il capitale monopolistico.
Le lotte dei minatori
Mentre il Paese si concentrava sul durissimo scontro nel settore industriale dell’acciaio, lotte altrettanto cruente avevano luogo in alcuni Stati. Tra queste si distinsero quelle dei minatori dell’Idaho e del Tennessee.
Nel distretto minerario di Coeur d’Alene, nell’Idaho, si era formata nel 1890 la Consolidated Miners’ Union, che aveva riunito diversi piccoli sindacati di minatori. I suoi compiti erano di coordinamento delle attività assistenziali e di sostegno agli scioperanti, oltre alla diretta gestione degli scioperi. Nel 1891 uno sciopero che aveva avuto un netto successo estese la sindacalizzazione a tutta la regione, con la conseguenza che tutte le miniere pagavano i salari sindacali.
Un fatto poco gradito, come si può immaginare, ai padroni, che risposero costituendo una loro associazione, la Mine Owners’ Association, o M.O.A. Già nel gennaio 1892 la M.O.A. annunciò una nuova griglia salariale, che in sostanza prevedeva una riduzione delle paghe del 25%. Considerandolo un primo passo nel tentativo di spazzare via il sindacato, questo rifiutò la proposta; il M.O.A. decise l’espulsione dal lavoro dei membri del sindacato, il che corrispondeva ad una serrata. Le miniere restarono chiuse per mesi, poi gradualmente l’attività riprese parzialmente grazie all’arrivo di crumiri raccolti tra i contadini dello Stato da guardie armate sguinzagliate nelle campagne. Gli scioperanti erano riusciti a tenere lontani dalle miniere la gran parte dei crumiri grazie al sostegno della popolazione e ad un’efficiente azione di persuasione pacifica sui crumiri stessi, che in gran numero passavano tra le loro file. A luglio però la situazione non era migliorata, quando ebbero notizia della battaglia vittoriosa degli operai di Homestead contro i mercenari della Pinkerton. A infiammare gli animi contribuì poi la scoperta che un segretario del sindacato era in realtà un agente Pinkerton infiltrato dalla M.O.A.
L’11 luglio fu quindi deciso di passare all’azione. Nei pressi di una miniera scoppiò uno scontro armato tra operai da una parte, e vicesceriffi, Pinkertons e crumiri dall’altra. Lo scontro si risolse quando un carrello pieno di esplosivo fu lanciato contro la miniera, facendola crollare e costringendo i suoi difensori alla resa. La battaglia continuò per qualche altro giorno, ed ebbe come risultato la partenza dei crumiri.
Naturalmente i padroni reagirono nel modo solito, appellandosi all’autorità, il governatore, che rispose prontamente dichiarando l’esistenza di un’insurrezione, e ottenendo l’invio di ben 1.500 soldati, in parte Guardia nazionale e in parte esercito federale. Ben 600 scioperanti furono arrestati e gettati in prigione in condizioni punitive. Tornarono i crumiri e le miniere riaprirono. Ma i processi che furono tenuti in agosto, anche grazie ad un adeguato sostegno dell’A.F.L., portarono alla liberazione di quasi tutti gli arrestati. I quali, all’uscita dalla galera, scoprirono che in realtà lo sciopero era stato vinto, perché nonostante tutto i padroni non riuscivano a far funzionare le miniere, e avevano deciso di capitolare.
Questa vittoria ebbe come conseguenza la fondazione, nel maggio 1893, di una federazione di sindacati di minatori dell’Ovest, la Western Federation of Miners.
L’altra grande azione di lotta dei minatori ebbe luogo all’estremità opposta del continente, nel nord est del Tennessee. Il movente era diverso, e riguardava l’impiego del lavoro dei galeotti. Era infatti divenuto uso comune la concessione in affitto, da parte dello Stato, di carcerati a uomini d’affari privati che li gestivano e li facevano lavorare secondo i criteri che essi arbitrariamente decidevano, senza alcun controllo da parte delle autorità. L’utilizzo di prigionieri nelle piantagioni, nelle costruzioni, nelle miniere, era un’attività talmente lucrosa che molti innocenti, soprattutto negri, venivano incarcerati per procurare braccia agli affaristi. Negli anni fino al 1891 l’opinione pubblica, capeggiata dalle organizzazioni sindacali, era riuscita a costringere numerosi Stati ad abolire il lavoro coatto dei galeotti per privati. Ma in un discreto numero di Stati del sud, tra i quali il Tennessee, il sistema continuava a fiorire.
Nell’aprile 1891 i minatori di Briceville, nella Anderson County, rifiutarono un contratto che proibiva gli scioperi per controversie sul lavoro, attribuiva alla compagnia la nomina del controllore del peso del carbone al posto di quello scelto dai minatori, ottenuto dopo specifiche lotte, e prevedeva che la paga fosse attribuita tramite “buoni” validi solo per acquisti nello spaccio della compagnia: i due ultimi punti tra l’altro erano contrari alla legge dello Stato. Il 5 luglio i dirigenti fecero arrivare un carico di quaranta galeotti, ai quali si fece smantellare le abitazioni dei minatori per erigere la palizzata del loro recinto.
Dieci giorni dopo in un raduno di massa i minatori decisero di agire prima dell’arrivo del grosso dei carcerati. Trecento minatori armati avanzarono verso la palizzata, chiedendo il rilascio dei galeotti. Ufficiali e guardie dovettero cedere, e i minatori scortarono prigionieri e carcerieri alla stazione ferroviaria, donde li rispedirono alla città di provenienza, Knoxville.
Poi i minatori scrissero al governatore spiegando le ragioni della loro azione, tesa a proteggere dalla fame e dalla miseria le loro famiglie. Il governatore rispose inviando nell’Anderson County tre compagnie della milizia, e altri galeotti. Questa volta ben duemila minatori si concentrarono in un piccolo esercito che circondò la miniera, e per la seconda volta i galeotti e i loro sorveglianti, senza colpo ferire, furono riaccompagnati alla stazione.
Irriducibile, il governatore comandò per una terza identica missione ben 14 compagnie della milizia (600 uomini). Ai minatori fu offerta una tregua, con la prospettiva dell’abrogazione della legge sui forzati. Ma il potere delle compagnie fece sì che il risultato fosse il contrario, con in più maggiori poteri di repressione al governatore. I minatori decisero di ricorrere di nuovo alla mobilitazione, e con azioni notturne, con il volto coperto da fazzoletti, liberarono numerosi galeotti, dando fuoco alle palizzate che avevano costruito. La gran parte delle miniere decise allora di cedere, i minatori furono riassunti, ebbero il controllore dei pesi di loro scelta, e migliori norme nei contratti.
Ma i padroni non erano disposti a darla vinta, e la sceneggiata dell’esercitino
armato fino ai denti si ripeté nell’estate del 1892; ma anche si ripeté
l’azione di guerriglia dei minatori. Finché in una miniera le guardie
rifiutarono di arrendersi e spararono sui minatori, ferendone diversi.
Questo scatenò la reazione dei minatori, che ancora una volta organizzarono
una forza che assediò la miniera e iniziò una vera e propria battaglia;
che fu fatta terminare da un altro piccolo esercito inviato dal governatore.
Anche se alla fine, grazie a numerosi arresti (una vera e propria caccia
all’uomo che risultò anche in operai ammazzati dagli sgherri del governatore),
la milizia riuscì a domare la rivolta (che però sarebbe ripresa nel 1893),
il sistema del noleggio dei carcerati finì nel discredito anche davanti
all’opinione pubblica, e poco dopo venne abolito anche nel Tennessee.
Parte terza - Il capitalismo
D - La guerra di indipendenza americana
1. Riprendendo il lavoro
Il nostro studio su marxismo e questione militare prosegue analizzando la Rivoluzione americana, avvenuta tra il 1775 e il 1783, dopo che abbiamo esposto sulla posteriore rivoluzione francese del 1789, perché abbiamo preferito dare continuità allo sviluppo degli eventi nella vecchia Europa.
Oltre l’aspetto storico, ce ne occupiamo come questione militare per due importanti risvolti: fu uno scontro tra due formazioni militari diverse; l’inglese ben addestrata secondo gli schemi classici del tempo e l’americana formata alla svelta e alla rinfusa dove oltre l’ardore governava confusione, pessimo armamento, improvvisazione e quanto altro non deve esistere in un esercito. L’altro aspetto è l’allargarsi del conflitto oltre l’ambito americano, coinvolgendo le Antille, il Senegal, l’India e le Molucche; non possiamo definirlo un conflitto mondiale, ma esso rivela l’estendersi degli interessi coloniali di quella borghesia emergente, basi per il futuro controllo del mercato mondiale.
Per quanto riguarda la tecnica militare è importante riflettere: l’addestramento delle truppe inglesi, per quanto ben collaudato e applicato, si rivelò inefficace contro un nemico disposto in modo diverso dal consueto. Problema di sempre che già incontrarono le legioni romane nelle guerre sannite o in Spagna e che ora incontrano le truppe dell’Onu o della Nato in Somalia, Sudan, Iraq e ultimamente in Afganistan. I vecchi eserciti, derivati dall’esperienza della seconda Guerra Mondiale, sono inefficaci, come già fu nel Vietnam, a combattere forze non parimenti organizzate. Essi devono essere reimpostati secondo nuovi sistemi tattici. Per combattere chi? Oggi predoni del Somaliland o talebani, domani il proletariato insorto in armi, che almeno in una fase iniziale non disporrà di un esercito regolare ben formato e soprattutto diretto con competenza. Rivedremo al riguardo l’esperienza di Trotski per costruire l’Armata Rossa.
Non basta una impostazione teorica, contro un nemico sfuggente e pericoloso, ancora da scrivere compiutamente, occorre anche un’esperienza sul campo: niente di meglio per gli Alti Comandi di questi conflitti, intensi ma circoscritti e lontani.
Per ora la borghesia si è mossa accantonando, provvisoriamente, l’esercito
popolare di massa per uno ridotto di professionisti della guerra, sulla
carta più affidabili; inoltre, anche se meglio pagato, l’esercito sarebbe
meno costoso di quello popolare.
2. Quadro storico
La rivoluzione americana è figlia del vecchio continente per motivi storici, economici e ideologici. La sua base di pensiero è l’illuminismo francese, quella economica la borghese libertà di produrre e commerciare senza i vincoli imposti alle 13 colonie dall’Inghilterra. Fu uno scontro tra una giovane borghesia ed i ceti legati alla Corona di Giorgio III, non contro un sistema feudale, poiché nella madrepatria la sua rivoluzione la borghesia inglese l’aveva già fatta e vinta nel secolo precedente. Per molti aspetti simile ad una guerra civile, non è corretto dire che anticipa quella antifeudale francese. Peculiari motivi che andremo ad illustrare, cause materiali e geografiche resero il compito più facile alla giovane borghesia americana.
Un capitolo della serie di rapporti Il movimento operaio negli Stati uniti d’America pubblicato sul n° 61 di questa rivista: “La classe operaia e la Guerra d’Indipendenza”, già fornisce un preciso inquadramento storico, economico e dei rapporti fra le classi sociali. Avverte che quella trattazione non descrive quella guerra, il che invece facciamo qui: i due lavori si compenetrano e si completano secondo il nostro abituale metodo impersonale.
La particolare origine e formazione delle Colonie si riflette sugli sviluppi militari della rivoluzione americana.
Terminata la fase dell’esplorazione del nuovo continente, spagnoli e francesi iniziarono a colonizzare i territori dell’America del Nord seguiti da olandesi ed inglesi. Diverse erano le motivazioni di queste migrazioni, sovente valvole di sfogo delle contraddizioni sociali ed economiche del vecchio continente. Alcune Colonie sorsero come sviluppo delle prime stazioni di compagnie commerciali formate da capitali privati con base nei paesi più sviluppati in Europa. Lo Stato concedeva il diritto di commerciare in una certa zona e di impiantarvi stazioni di pesca, cantieri e scali marittimi; in cambio di protezione militare tratteneva dazi e tributi. I coloni che sbarcarono in Virginia invece erano avventurieri attratti dal miraggio dell’oro. Altre Colonie furono fondate da comunità religiose perseguitate in Inghilterra: il Massachusetts dalla rigorosa setta puritana dei Padri pellegrini, la Pennsylvania dai pacifisti e tolleranti seguaci quaccheri. Altre ancora si costituirono come proprietà privata di borghesi e nobili ai quali il re d’Inghilterra tramite una “carta reale” concedeva il privilegio di possedere e sfruttare una parte del territorio americano. Sorsero così il Maryland, la Carolina del Nord e del Sud, il New Hampshire e il New Jersey. L’ultima delle antiche tredici Colonie, la Georgia, fu popolata da relitti della società: debitori incarcerati per insolvenza, ladri recidivi, prostitute, ergastolani, ai quali fu concesso, a prezzo di duro lavoro, di potersi rifare una vita.
Le Colonie inglesi erano indipendenti l’una dall’altra anche se avevano un’organizzazione politica simile: un governatore esercitava il potere esecutivo controllato da un’assemblea di cittadini abbienti. Vi erano poi gli uomini della Frontiera, i pionieri, che vivevano sugli sconfinati territori dell’Ovest, a contatto con le tribù indiane e dell’ignoto, liberi di condurre una vita durissima. Due erano gli attrezzi loro indispensabili: una buona scure dal manico lungo con cui saper fare di tutto, disbosco, costruire la casa, rozzi mobili, attrezzi per il podere e finanche un filatoio e un telaio; l’altro il fucile per la caccia e la difesa, robusto, maneggevole, preciso, potente, a lunga gittata, adatto per abbattere i grandi animali della prateria. I miglioramenti ai fucili richiesti dai pionieri furono soddisfatti dagli abili artigiani della costa, molti dei quali avevano imparato il mestiere nelle officine europee. Il risultato fu il micidiale fucile Kentucky.
Tutte le Colonie e le fattorie ad Ovest furono realizzate togliendo progressivamente le loro antiche terre tribali ai nativi, coi quali inizialmente i coloni avevano convissuto e barattato merci.
Le prime colonie si affacciavano sulla costa atlantica, lambita e mitigata dalla Corrente del Golfo, dal 47° al 30° parallelo nord, oltre 1800 chilometri, dotata di differenze climatiche che consentivano varie colture e attività legata al mare. Al nord si svilupparono principalmente l’artigianato, la manifattura, la cantieristica e il lavoro di contadini piccolo proprietari; al sud dominava la produzione agricola su grandi proprietà condotta inizialmente da servi bianchi a contratto, che così si ripagavano la traversata atlantica, poi sostituiti da schiavi importati dalla Africa nera.
La spartizione dell’America del nord fra le varie potenze europee fu quasi sempre il risultato di vari conflitti. La cartina che segue illustra l’espansione delle colonie delle maggiori potenze europee; nei territori inglesi, compresi i Banchi di Terranova, inizialmente erano presenti anche basi olandesi e svedesi.
I francesi avevano inizialmente installato stazioni commerciali e missioni lungo il San Lorenzo; combattendo gli olandesi della valle dell’Hudson e gli irochesi dell’interno si spingevano verso occidente, il lago Michigan ed oltre fino al Mississippi, scesi fino al cui delta vi fondarono Nuova Orleans, capitale della nuova provincia francese: la Louisiana.
I coloni inglesi della costa atlantica si trovarono tagliati fuori dalle vaste pianure centrali e sempre più sospinti verso il mare dalla pressione francese. Scoppiò di conseguenza, verso la fine del secolo XVII, una lunghissima guerra coloniale che si protrasse per quasi tutto il secolo seguente estendendosi anche nelle Antille e in India, che si risolse con la vittoria inglese. Con il Trattato di Parigi del 1763 la Francia dovette cedere all’Inghilterra il Canada e quasi tutti i suoi possedimenti nordamericani; la Spagna, che aveva partecipato alle ultime fasi del conflitto, cedette agli Inglesi la Florida. La Louisiana divenne direttamente proprietà della Corona, sottratta alla libera espansione voluta dai coloni che l’attendevano come riconoscimento del loro sostegno alla guerra. Alla fine del secolo XVIII l’Inghilterra dominava il Nordamerica dall’Atlantico al Mississippi e dalla baia dell’Hudson al golfo del Messico.
Come illustrato nello studio sull’origine del movimento operaio americano i rapporti imposti dal governo inglese erano semplici e chiari: la fondamentale attività economica concessa alle colonie era quella di continuare a rifornire di materie prime solo l’Inghilterra, solo da questa potevano acquistare le merci loro necessarie e solo se trasportate da naviglio britannico. Le industrie americane potevano svilupparsi alla condizione di non fare concorrenza a quelle della madrepatria. Altra limitazione era il freno ai coloni a spostare verso ovest la Frontiera, perché l’Inghilterra non voleva impegnarsi in operazioni contro gli indiani in territori così lontani geograficamente e dai suoi interessi economici. L’agricoltura dei coloni infatti sfruttava la fertilità naturale dei territori vergini, esaurita la quale e disponendo solo del letame degli animali allevati, occorreva spostarsi ancora e dissodare nuovi terreni. Lo sviluppo della nascente industria nordamericana, il libero commercio e la possibilità di sfruttare nuovi territori (sottratti ai nativi delle grandi pianure centrali e delle montagne, ad uno stadio di sviluppo più arretrato rispetto a quello incontrato sulla costa) furono le tre spinte economiche principali che fecero ben presto entrare in conflitto le Colonie con la madre patria.
Ci si preparava all’interno di circoli, associazioni e partiti, aspettando il momento giusto per sfruttare un “casus belli”; e questo fu una classica e banale questione di tasse!
L’Inghilterra aveva sì vinto la Guerra dei Sette Anni (1756-1763) contro la Francia, che pose fine alle antiche contese coloniali in America, ma a fronte di costi notevoli, che cercò di recuperare in parte con una serie di imposizioni anche sulle colonie: nel 1765, tasse, dazi e imposte furono inaspriti e ne furono introdotti di nuovi tra cui lo “Stamp Act”, vari bolli su documenti, giornali, pubblicità, ecc.
Le tredici Colonie, liberate dalla pressione francese, inorgoglite dal valore dimostrato nel conflitto e fortificate dalla loro collaborazione, colsero l’occasione per opporsi alla Corona. Si rifiutarono di obbedire ai nuovi provvedimenti sostenendo che nessun cittadino britannico, secondo la legge inglese, poteva essere obbligato a pagare imposte non approvate dai suoi rappresentanti in parlamento “No taxation without representation”: i coloni in effetti, pur essendo cittadini britannici, non avevano rappresentanti nel parlamento di Londra. Ne nacque un contenzioso legale fra le due sponde dell’Atlantico, con revoche di alcuni provvedimenti ma inasprimenti di altri, sostituzioni ecc. La portata economica dei provvedimenti era esigua, ma il Parlamento inglese non poteva non sostenere il principio di tassare tutti i cittadini dell’Impero.
Ma, per i mutati rapporti di forza fra le parti, cautamente Londra nel 1770 abolì tutte le imposte indirette salvo quella sul tè. Nel 1773 la Compagnia delle Indie ottenne dal Parlamento il diritto di vendere in esclusiva il tè che importava dalla Cina e mediante i suoi stessi agenti, tagliando fuori gli intermediari americani che avevano fino ad allora gestito il consistente giro d’affari.
Nel dicembre di quell’anno un gruppo di cittadini di Boston, travestiti da indiani, penetrò in una nave inglese della Compagnia delle Indie ormeggiata nel porto, e ne gettò a mare il carico di tè destinato al mercato americano. Il poco nobile travestimento, volto ad addossare la colpa agli ignari nativi, dice tutto sul meschino carattere borghese dei rivoltosi! La reazione del leone inglese fu di chiudere il porto di Boston fino a quando la Compagnia non fosse stata risarcita del danno. La città respinse l’intimazione, forte dell’appoggio delle altre colonie; come mediazione si studiarono progetti di indipendenza amministrativa o di un impero federale.
Sottili questioni filosofiche, religiose e morali furono messe in campo
per preparare la base ideologica agli eventi che maturavano nel senso dell’indipendenza;
ma presto alle carte da bollo, alle dichiarazioni e ai progetti si sostituirono
i fucili: nel 1775 con i 5 lavoratori in rivolta, disarmati, uccisi dai
soldati inglesi nel “massacro di Boston”, iniziarono le ostilità.
3. Due diverse formazioni
Le forze in campo erano differenti sotto molti aspetti: tecnico, organizzativo, di formazione, armamento, tradizione ed esperienza. Un rapporto asimmetrico che contrapponeva un esercito regolare con una ferrea disciplina ma poco motivato, ad un altro cui la forte spinta ideale suppliva la vistosa carenza di attitudine militare.
I citati rapporti sul movimento operaio americano ben descrivono la composizione tra le classi delle Colonie, della piccola classe operaia nelle città portuali, che comprendeva schiavi, servi, operai a contratto, marinai e artigiani, mentre nelle campagne vi erano piccoli contadini indipendenti che costituivano ben il 90% della popolazione e che costituirono la base del futuro esercito continentale. La borghesia urbana, ormai definibile autoctona, dirigeva i movimenti sociali.
Dopo il fatto di Boston nelle società artigiane/operaie partì la parola d’ordine di armarsi, formare una milizia (i famosi Minute Men), addestrarsi e creare depositi di armi e munizioni ed una capillare rete spionistica nelle città di stanza delle guarnigioni inglesi. Ovviamente, come sempre succede nelle rivoluzioni, solo una minima parte della popolazione partecipò al movimento. Anche la borghesia americana era preoccupata di dare innesco ad un movimento popolare armato, di incerto controllo anche perché una parte di esso rimaneva fedele alla Corona. Le stime parlavano di un terzo dei membri delle classi dominanti favorevoli alla guerra, un terzo contrari per vari motivi e un terzo indifferenti; tutti però ben solidali tra loro per impedire una rivoluzione sociale contro i latifondi e il sistema schiavista.
Lo schieramento delle Colonie e alleati comprendeva un totale di 273mila uomini e di 120-150 navi: le Tredici Colonie fornirono 20mila regolari e 230mila miliziani e 30-40 navi; successivamente intervennero Francia e Spagna allo scopo di recuperare qualche possedimento dopo la sfortunata Guerra dei Sette Anni. La Francia inviò 15mila regolari e 50-60 navi; la Spagna 8mila regolari e 40-50 navi. Si unì un numero di ribelli del Québec, le tribù degli Oneida e dei Tuscarora.
Il fronte inglese arrivò ad un totale di soli 112mila uomini e 100 navi così ripartiti: 12mila regolari inglesi con 100 navi; 55mila lealisti americani; 40mila regolari provenienti dall’elettorato di Hannover e dalla Contea d’Assia e 5mila della confederazione irochese.
Significativo è il computo delle perdite: lo schieramento americano ebbe 25mila soldati e 5mila civili uccisi in eventi militari, più ben 63mila per malattia; quello inglese ebbe 15mila soldati uccisi più 27mila morti per malattia!
Quando si combatterono i primi scontri nell’aprile del 1775, pomposamente chiamati battaglie di Lexinton e Concord, le Tredici Colonie non avevano a disposizione un esercito organizzato nel vero senso della parola ma un insieme di milizie locali, i Minute Men. Questi erano volontari ma ricevevano una paga per la durata della ferma, che inizialmente era di un anno, ma poi, calati gli iniziali entusiasmi e fattasi più dura la guerra, fu portata a tre. Il mantenimento di queste milizie era completamente a carico dei singoli Stati.
Dopo l’incoraggiante esito delle due scaramucce iniziali i miliziani tentarono di porre sotto assedio Boston per neutralizzare la forte guarnigione inglese là acquartierata, operazione ben al di sopra delle capacità organizzative dei miliziani. Il Congresso Continentale il 14 giugno decretò la formazione di un vero esercito alla cui guida fu posto George Washington, uno schiavista del sud, di modesta preparazione militare ma l’uomo più ricco delle Tredici Colonie. Dopo l’immediata nomina degli alti comandi iniziò l’organizzazione delle forze con la costituzione di un’armata principale nella regione storicamente chiamata New England, formata dai quattro Stati a nord e una dislocata a New York. Nell’estate furono organizzati i reggimenti per l’invasione del Canada ma il grosso delle forze era stanziato nel nord-est del paese. Ulteriori riforme furono introdotte nell’anno successivo, ma solo nel 1778 si completò la vera riforma con l’applicazione dell’Eighty-eight battalion resolve, che portò alla costituzione di linee di reggimenti dislocati in tutto il paese, organizzazione che rimase in piedi fino all’anno successivo alla fine della guerra, quando furono sciolti molti reggimenti, inquadrando i rimanenti nel neonato Esercito degli Stati Uniti.
Al momento della sua creazione questo contava circa 16mila uomini che andarono man mano a sostituire le milizie locali, usate per funzioni di contorno e disturbo tipo guerriglia. Le iniziali difficoltà organizzative e di vettovagliamento, compresa la presenza di avanzi di galera nelle file, furono poi risolte anche per l’arrivo di veri specialisti militari dall’Europa, in risposta alla chiamata di Benjamin Franklin che, primo ambasciatore americano a Parigi, aveva perorato la causa dell’indipendenza americana. Fra questi vi fu l’eroe nazionale polacco Taddeus Kosciuzko, il ventenne marchese ma già alto ufficiale La Fayette, ma soprattutto il generale prussiano Von Steuben che a partire dall’inverno del 1778 iniziò ad addestrare le truppe dei patrioti. Queste, grazie anche al consistente apporto dei francesi, ebbero un significativo miglioramento per arrivare alla fine della guerra a vincere l’assedio campale di Yorktown.
Dopo i massicci arruolamenti del 1775, l’anno seguente l’esercito fu diviso in un’armata principale formata da 27 reggimenti numerati in base all’anzianità del colonnello a capo di ciascuno. In ogni unità erano 728 uomini di cui 640 impiegati nei combattimenti e i restanti in compiti di comando (un colonnello, un tenente colonnello e un maggiore) e di appoggio (capitani, furieri, tamburini, chirurghi). Vi erano poi quattro dipartimenti: canadese, settentrionale, orientale e meridionale. Sempre nel 1776 un’epidemia di vaiolo decimò alcuni reparti e si dovettero riformare le unità, alcune delle quali avevano già subito consistenti perdite in sconfitte e ritirate. Sul finire dell’anno la “Risoluzione degli ottantotto battaglioni” stabiliva il contributo di ogni Colonia in base alla sua popolazione: dai 15 della Virginia e del Massachusetts all’unico messo a disposizione della Georgia e dal Delaware, ovviamente a totale carico di ogni Colonia. Questi 88 reggimenti furono ritenuti insufficienti per battere le forze britanniche e il Congresso autorizzò altri reggimenti fino a giungere ad un massimo di circa 120, rinforzati nell’artiglieria, cavalleria e nel genio.
Per l’esercito britannico la guerra era iniziata già nel 1768 con l’occupazione militare di Boston, città capofila delle prime proteste; dopo il “massacro di Boston” nel 1770 gli scontri veri incominciarono quando due distaccamenti furono inviati a requisire gli armamenti dei coloni a Lexington e Concord. Man mano venivano inviati rinforzi per domare quella che pareva essere solo una breve ribellione, ma quando le cose presero una piega più seria, il governo britannico arruolò truppe mercenarie dai vari Stati tedeschi, genericamente chiamate assiani. Al peggiorare delle sorti inglesi e all’estendersi del conflitto fuori del continente americano, furono arruolati anche i lealisti delle Colonie, col nome di American Establishment. Molti furono i tradimenti e le diserzioni su entrambi i fronti, in modo particolare e consistente fra i tedeschi, che approfittavano del viaggio a spese di sua Maestà per fuggire dalla ferrea disciplina e costruirsi un futuro da uomini liberi nelle colonie, portando con sé addestramento e conoscenze.
L’organizzazione dell’esercito di Giorgio III era quella classica europea, che pochi anni dopo Napoleone avrebbe stravolto e modificato, con formazioni in combattimento rigidamente inquadrate per file parallele seguite da una consistente carovana di carri con tutto il necessario per munizioni e vettovaglie. Il loro addestramento e impiego era previsto su teatri scoperti e pianeggianti, per niente adatti ai terreni montuosi dell’America settentrionale e privi di linee di collegamento; fu gioco forza modificare l’assetto complessivo, con reparti di fanteria leggera distaccati dagli altri, e le regole di combattimento di linea in un nuovo tipo detto “sciogliere le linee in una zuffa all’americana”. Benché gli inglesi prevalessero molte volte sui coloni in battaglia, non riuscirono mai ad ottenere una vittoria decisiva; al contrario gli americani con le vittorie di Saratoga e di Yorktown inflissero duri colpi al morale, al prestigio e alle forze inglesi.
Il Regno di Francia inviò nove reggimenti di fanteria e uno di dragoni al comando del conte di Rochambeau e del marchese La Fayette. Il loro apporto fu determinante per l’arrivo di truppe ma soprattutto per l’addestramento e il vettovagliamento fornito ai coloni. Combatterono principalmente nella sconfitta di Savannah e nella vittoria di Yorktown.
Così Engels nel suo “Tattica della fanteria derivata dalle cause
materiali 1700-1870”: «Quando scoppiò la guerra d’indipendenza americana
le ben addestrate truppe mercenarie si trovarono di fronte all’improvviso
schiere d’insorti che, pur non sapendo fare gli esercizi, sapevano però
tirare meglio, erano dotati in gran parte di carabine precise e combattevano
per la propria causa e quindi non disertavano. Questi insorti non facevano
agli inglesi la gentilezza di ballare con loro in aperta pianura, a passi
lenti, il noto minuetto della battaglia, secondo tutte le regole tradizionali
dell’etichetta militare; attiravano l’avversario in fitti boschi, dove
le sue lunghe colonne di marcia erano esposte, indifese, al fuoco di franchi
tiratori sparsi ed invisibili; disposti in gruppi sciolti, utilizzavano
ogni riparo del terreno per colpire il nemico e per di più, con la loro
grande mobilità, restavano sempre irraggiungibili per le lente masse avversarie.
L’azione dei tiratori sparsi, che avevano già avuto una loro funzione
quando erano state introdotte le armi da fuoco portatili, qui dunque si
rivelò in certi casi, specie nella guerriglia, superiore allo schieramento
in linea» (Marx-Engels, Opere, libro XXV).
4. L’armamento: fucili e artiglieria
A proposito della battaglia di Waterloo del 1815 abbiamo riferito sui fucilieri inglesi che adottavano il fucile Brown Bess, calibro 19 mm con un tiro utile di circa 250 metri, che vanificarono gli assalti della cavalleria francese, mentre i francesi usavano il loro Charleville, con un tiro utile di solo 100 metri e un calibro leggermente inferiore, di 18 mm. Entrambi i modelli avevano la canna liscia e quindi il tiro risultava alquanto impreciso sulla distanza. Questi due fucili erano già in dotazione dei rispettivi eserciti durante la guerra americana, seppure meno precisi. Anche qui quando il piano di battaglia prevedeva un apporto determinante dei fucilieri, gli inglesi ebbero sempre successo, forti anche di un migliore addestramento. Si praticava la scarica di fucileria, con la quale i soldati non sparavano ad un bersaglio particolare ma cercavano di colpire nel mucchio, vista anche la disposizione per linee dalle tradizionali fanterie. I francesi armando i coloni contribuirono alla diffusione del loro modello in America; qui gli armaioli locali lo modificarono producendo infine il primo moschetto prodotto in Usa: il noto e diffusissimo Springfield modello 1795, leggero, maneggevole e con la canna corta.
I coloni americani avevano però il potente fucile Kentucky, o Pennsylvania, dotato di una canna solcata da scanalature a spirale che imprimevano al proiettile una rotazione tale da conferirgli una traiettoria più stabile, per effetto giroscopico, come quella di una trottola, e quindi maggior precisione su distanze più lunghe. I primi fabbricanti di questo fucile furono gli immigrati tedeschi stabilitisi in Pennsylvania dal 1720 in poi, che cominciarono a produrlo con una canna lunga circa 1,14 metri e un calibro di 15 mm. Per caricare questi fucili occorreva il triplo del tempo degli altri, ma se usati da tiratori esperti potevano colpire una testa umana da una distanza fino di 370 metri, una precisione impensabile sia per i Brown Bess sia per i Charleville, e per questo usati nella caccia ai grandi animali delle praterie e contro gli indiani.
La tattica dei miliziani si adeguò alla loro arma ben nota, con attacchi a sorpresa o di guerriglia: i tiratori si appostavano fra gli alberi e sparavano a gruppi isolati di nemici, o agli ufficiali, per demoralizzare la truppa e lasciarla priva di comando.
Va precisato che i moschetti a canna rigata erano prodotti e già in uso in Europa da tempo, ma usati solo nella caccia. Il principale difetto consisteva nelle operazioni di ricarica più complesse dovendo comprimere polvere e palla in una canna a sezione esagonale. Un conto è una battuta di caccia dove gli attendenti preparano i moschetti per i nobili, altra cosa è in un campo di battaglia sotto il fuoco nemico.
Il fucile Ferguson, dal nome dell’inventore scozzese, fu invece il modello più innovativo poiché il primo a retrocarica, operazione molto più veloce ma soprattutto che si poteva fare marciando. Poteva sparare fino a cinque colpi al minuto contro i tre del Brown Bess e del Charleville e l’unico del Kentucky. Fu utilizzato per la prima volta nella battaglia di Brandywine, affidato a cento uomini guidati dallo stesso inventore. Il governo inglese dimostrò scarso interesse a questo nuovo fucile e la morte dello stesso Ferguson a Kings Mountain pose fine all’utilizzo del fucile che fu abbandonato e dimenticato dagli inglesi. Solo nel 1819 l’esercito degli Stati Uniti adottò un fucile a retrocarica, modello Hall M1819, come arma individuale per le truppe, mentre in Europa la prima battaglia combattuta da due eserciti entrambi dotati di fucili a retrocarica avvenne nella guerra franco-prussiana del 1870-71, quasi un secolo dopo.
Le artiglierie da campo erano costituite da modelli progettati nella metà del secolo; solo durante le guerre napoleoniche si ebbero significative innovazioni. Caratteristiche comuni per tutti erano: il bronzo come materiale di costruzione, peso variabile dai 1.500 ai 3.000 chilogrammi, il sistema di avancarica e il calibro che permetteva di sparare palle piene del peso da 12 a 20 chilogrammi. Oppure di minor calibro, a mitraglia.
Più importanti furono invece le batterie navali poiché, come prima
elencato negli organici, la guerra si svolse in modo consistente per mare,
per bloccare il flusso di rifornimenti e per il generale controllo dei
traffici marittimi, spostandosi anche in India e nelle Antille, coinvolgendo
dalle 220 alle 250 navi. Anche i cannoni sulle navi erano in bronzo, ad
avancarica, scagliavano palle piene producendo per impatto gravissimi danni
a scafi, timoni, alberi e vele. I più potenti erano i cannoni interi con
canna lunga 4 metri che sparavano proiettili di 18 chilogrammi con tiro
utile di 800 metri. A causa del loro peso di circa 4 tonnellate venivano
alloggiati nei ponti inferiori; vi erano poi i mezzi cannoni con canna
di 3,3 metri e proiettili da 15 chili, la loro potenza inferiore però
era compensata da una maggiore gittata fino a 1.200 metri. Il pezzo con
maggior gittata era la colubrina che poteva raggiungere i 5.000 metri con
una canna di 5 metri per una palla di 8 chili; vi erano poi le mezze colubrine
e il sagro che scagliavano proiettili di minor peso ma a 2.000 metri. Sul
finire della guerra nelle file inglesi comparve un nuovo tipo di cannone,
in ghisa, più leggero di quello di bronzo, che quindi si poteva sistemare
sui ponti superiori o in coperta; costruiti dalla Carron Company di Falkirk
avevano calibri tra i 350 e i 400 mm e grazie ad una vite di alzo e un
rudimentale congegno di puntamento, potevano lanciare devastanti scariche
a mitraglia fino a 600 metri.
5. Prime battaglie: Lexington e Concord
Nella cittadina di Concord, sull’omonimo fiume, erano l’arsenale principale, i depositi e i centri di addestramento delle milizie, mentre Lexington, a metà strada fra Boston e Concord era stata occupata dai coloni.
Il generale Thomas Gage, all’epoca capo della guarnigione inglese, organizzò un’operazione di polizia volta a smantellare i depositi e disperdere i Minute Men. 756 soldati uscirono da Boston la sera del 18 aprile 1775 divisi in due colonne per raggiungere separatamente le due cittadine puntando sull’effetto sorpresa. La marcia però era ostacolata dagli zaini e dai carri da rifornimento. Ma la rete di spionaggio appena messa in atto funzionò perfettamente ed i miliziani delle due cittadine ebbero tutto il tempo necessario per approntare le difese. I depositi di Concord furono svuotati quasi completamente e a Lexington lo schieramento si dispose in ordine di battaglia. Quando gli inglesi arrivarono nella cittadina ordinarono ai coloni di disperdersi; iniziò una sparatoria di una ventina di minuti che si concluse con la fuga dei Minute Men. Questa conclusione la dice lunga sull’effettiva capacità dei miliziani a sopportare un combattimento contro un esercito ben diretto e addestrato!
Raggiunta Concord i britannici bruciarono i pochi depositi rimasti pieni e presero la via del ritorno. Mentre attraversavano un ponte furono però attaccati da 450 americani che li impegnarono in una mischia furibonda; più volte gli inglesi furono per soccombere; riuscirono ad attraversare il ponte, si unirono al distaccamento di ritorno da Lexington e rientrarono senza finire di colpire i coloni. Questi invece si riorganizzarono, inseguirono gli inglesi con reparti di cavalleria e li colpirono in successive imboscate. Le truppe rientrarono a Boston il giorno dopo la loro uscita avendo perso tutti i carriaggi, un centinaio di fucili e 247 uomini: 73 morti e 174 feriti. Le milizie avevano invece avuto 147 perdite fra 49 morti e 98 feriti.
Questa scaramuccia segnò l’inizio della guerra; tre settimane dopo
i miliziani occuparono due forti e alla fine del mese fu decretata la formazione
dell’esercito continentale. Evidenti le caratteristiche asimmetriche
dei due schieramenti: improvvisazione, generosità, imboscate e guerriglia
da una parte; lentezza, poca motivazione ma ordine ed efficacia dall’altra.
6. Il primo vero scontro: Bunker Hill
Dopo la creazione dell’esercito e la conquista di alcuni forti i miliziani si erano attestati nei pressi di Boston con l’intento di cingerla d’assedio, far capitolare la guarnigione e liberare la città; obiettivo impossibile per le loro possibilità e che dimostrava supponenza e sottovalutazione dell’avversario.
I reparti del nuovo esercito erano riusciti solo ad occupare tra il 12 e il 15 giugno 1775 le due colline che dominavano la città: Bunker Hill e Breeds Hill. Il generale Gage decise di rompere l’accerchiamento e il 17 giugno affidò a Sir Howe 2.500 uomini con il compito di attaccare. Ma anche Howe sottovalutò gli avversari, credendo di trovarsi di fronte a linee americane poco fortificate. Alle nove del mattino, dopo un breve cannoneggiamento gli inglesi attaccarono ma, giunti sulla collina, subirono un pesante fuoco di sbarramento dei fucili Kentucky e furono respinti nel corpo a corpo. Anche un secondo attacco fu respinto e solo al terzo riuscirono a conquistare la collina, principalmente perché i miliziani avevano esaurito le munizioni. Erano però riusciti a ritirarsi ordinatamente attraversando l’istmo tra i fiumi Mystic e Charles, lasciato sguarnito da Howe che perse così una facile e irripetibile occasione di annientare sul nascere l’esercito dei coloni!
Sul piano militare fu una vittoria inglese, ma pagata a caro prezzo: le perdite infatti furono 1.050 uomini di cui 304 morti, 741 feriti e 5 dispersi. Moralmente il successo fu invece americano per aver resistito ad un nemico in superiorità numerica e provvisto di artiglieria, mentre i coloni ne erano sprovvisti, dimostrando così di poter resistere ad un vero esercito. L’emozione fu tale che i due comandanti furono nominati generali da Washington.
Questi però sapeva che dietro il pomposo nome di Esercito Continentale vi era un’accozzaglia di uomini male equipaggiati, molti senza stivali o scarpe, male addestrati, privi di disciplina, dipendenti dal bottino di guerra per l’equipaggiamento, ma specialmente senza artiglieria, fondamentale non soltanto per le operazioni sul campo ma anche per dare sicurezza alle truppe. Iniziò a riorganizzare l’esercito abolendo buona parte delle regole che irrigidivano gli eserciti regolari del tempo: alleggerì gli zaini per permettere spostamenti più agili, semplificò la burocrazia e la catena di comando, ma soprattutto provò a creare un clima di collaborazione e convivenza tra popolazione ed esercito permettendo così ai soldati di alloggiare nei villaggi senza dover perdere tempo ed energie a costruire gli accampamenti.
A favore avevano il lento ma potente fucile a canna rigata Kentucky
che permetteva loro di colpire gli avversari a distanza maggiore; in battaglia
si disponevano in ordine sparso o a maglie larghe per ridurre l’impatto
dei colpi di artiglieria, colpivano il bersaglio con uno o due colpi, si
ritiravano tenendosi a distanza di sicurezza e sparavano nuovamente: una
tattica ideale per le azioni della prima parte della guerra. Con i cannoni
arrivarono anche i primi successi campali.
7. La campagna canadese
Un altro serio problema dell’Esercito Continentale era l’assenza di ufficiali con una reale preparazione tattica. Senza attendere gli ordini di Washington, lanciavano degli attacchi dissennati senza curarsi del coordinamento complessivo, distogliendo uomini e mezzi da altre operazioni. Il generale purtroppo tollerò questo incredibile comportamento per non aprire fratture con il Congresso e diede il suo consenso anche alla campagna canadese che si risolse in uno dei maggiori disastri patiti dai coloni durante la guerra; un comportamento inaccettabile per un vero capo di un esercito.
All’interno di alcuni settori dell’Esercito Continentale si era radicata la convinzione che il pericolo maggiore per i coloni venisse dal Canada perché da nord gli inglesi sarebbero potuti penetrare stando però vicino ai forti, e senza dover ricorrere a costosi e complessi sbarchi via mare. L’idea di conquistare le città canadesi fu sostenuta anche dal generale Montgomery, convinto da due importanti fattori: 1) le forze inglesi in quella regione erano solo di un migliaio di effettivi; 2) gli anglo-canadesi avrebbero aiutato i coloni americani in vista di ottenere anch’essi una maggiore autonomia. Sulla base di queste considerazioni, la seconda puramente ipotetica, il Congresso nel giugno del 1775 approvò la spedizione che fu pronta a partire il 2 di ottobre verso la frontiera. La spedizione contava 8mila uomini divisi in due colonne: una guidata da Arnold puntava su Québec attraverso il Maine, l’altra sotto il comando di Montgomery era diretta verso Montreal risalendo lo stretto e lungo lago Champlain che si trova a circa 70 chilometri a sud della città canadese. A circa 20 chilometri prima della estremità sud di questo lago c’era il forte Ticonderoga tenuto dagli inglesi.
La prima ad attraversare il confine fu la colonna di Arnold, che incontrò una situazione ostile perché né gli anglofoni né i francofoni canadesi consideravano gli americani dei liberatori e pochi collaborarono. La colonna di Montgomery, bloccata per cinque settimane presso il forte Saint John sul fiume Richelieu, riuscì alla fine ad aprirsi la strada e il 13 novembre occupò Montreal; le due colonne riuscirono a ricongiungersi presso Québec solo in pieno inverno ma in pessime condizioni: nell’avanzata erano periti 500 uomini, altrettanti furono i disertori, mentre un altro migliaio, scaduta la ferma volontaria, se n’erano andati; il freddo stava facendo numerose vittime mentre il vaiolo cominciava a colpire i soldati.
Gli inglesi, comandati dal governatore inglese del Canada, Sir Carleton, avevano avuto anche loro significative perdite ma disponevano di molti viveri e di 50 cannoni contro i 5 degli americani. Montgomery doveva agire in fretta anche perché molte delle ferme scadevano il 31 dicembre. La notte del 30 decise di attaccare muovendo in formazione serrata. Imperversava una forte nevicata con vento forte che confondeva e impacciava i movimenti dei miliziani, mentre i cannoni inglesi sparavano a mitraglia sulla massa degli attaccanti; il risultato fu un massacro: 500 soldati, compreso Montgomery, perirono in battaglia ed altri 200 morirono nei giorni seguenti per le ferite. Montreal fu ripresa dagli inglesi durante l’estate. Durante il ritorno nelle Colonie un’epidemia di vaiolo decimò la colonna. La maldestra spedizione costò in perdite la metà del contingente: 2mila morti e altrettanti disertori.
Le sorti della guerra sembravano ora in favore degli inglesi. Ma un
insperato aiuto all’esercito di Washington venne dalla presa del forte
Ticonderoga ove si trovarono 50 grossi cannoni da fortezza; 43 di essi
furono subito portati, costruendo ponti di fortuna, massicciate e rotaie
con tronchi d’albero, di fronte a Boston, che Washington voleva attaccare
per riequilibrare le sorti della guerra.
8. La riconquista di Boston
Dopo un anno di guerra la situazione dell’esercito continentale era migliorata di poco, vi era ora un minimo di disciplina ed organizzazione, anche se era formato da uomini provenienti da svariati ceti sociali, molti dei quali alla loro prima esperienza militare; si aggiunsero però diversi ex ufficiali inglesi passati con i miliziani. Tre furono i primi obiettivi: un minimo di disciplina; delle uniformi per riconoscersi in battaglia; organizzare delle officine artigianali in Pennsylvania ed in Massachusetts per la produzione bellica. Appena si videro i primi risultati di questo programma, e dopo l’arrivo dei cannoni da Ticonderoga, il generale americano decise di attaccare Boston.
Anche in campo inglese ci furono importanti cambiamenti: nel maggio del 1775 il generale Gage aveva ricevuto rinforzi e la guarnigione di Boston saliva a 6.500 uomini. Con questi vi erano anche tre generali, tra cui W. Howe, mandati da Londra perché il generale e governatore Gage era ritenuto troppo prudente e indeciso. In realtà chi era indeciso era proprio il primo ministro inglese che impose a Gage di “liquidare” i ribelli senza però eccedere troppo nella repressione per non creare “fratture insanabili” e favorire un pacifico ritorno sotto il governo di Londra. Gage inoltre aveva il solito grosso problema che anche le nuove truppe erano addestrate per combattere tipici eserciti settecenteschi, per niente preparate contro la guerriglia. Il governatore quindi decise di mantenere saldo il controllo di Boston, aspettando che Londra decidesse fra la via militare e quella diplomatica. Nonostante i fatti avessero dato ragione a Gage, Londra decise di sostituirlo con Howe subito dopo l’inizio della campagna canadese.
Howe nel frattempo era riuscito a organizzare un gruppo di 1.600 lealisti a Boston. Li mandò ad occupare la Carolina del Nord ma furono annientati nella battaglia di Moore’s Creek Bridge, presso l’odierna Washington nel febbraio 1776.
Howe decise quindi di abbandonare Boston e trasferirsi in una città più difendibile, ma soprattutto più lealista. Washington infatti aveva disposto i 43 cannoni sulle alture di Boston, occupate facilmente, da cui teneva sotto tiro il porto; Howe iniziò ed imbarcare su 170 velieri tutti suoi uomini, i lealisti, armi e munizioni. L’iniziale ordine di aprire il fuoco fu revocato da Washington appena si accorse della partenza degli inglesi, l’attacco fu sospeso per due settimane, necessarie ad Howe per lasciare la città. Il 17 marzo Washington entrò in Boston in trionfo: prima città liberata; questo fu considerato un grande successo; di lì a poco, il 4 di luglio, si sarebbe giunti alla dichiarazione d’indipendenza.
Se Gage fu rimosso dal suo incarico per incertezza e prudenza, il Congresso avrebbe ben potuto mettere Washington sotto processo perché non approfittò di una irripetibile situazione per annientare le forze inglesi in una sola occasione e costringerle rapidamente alla resa. Molto probabilmente questa decisione fu determinata non per la modesta preparazione militare del generale, ma per paura delle conseguenze e per non creare anche da questa parte “fratture insanabili”. Erano in grado le sue forze, affondate le navi inglesi, di sostenere la reazione della guarnigione, che non era in fuga ma in ordinato trasferimento? L’area portuale, importante centro economico, non sarebbe stata troppo danneggiata? Inoltre da entrambe le parti, specialmente i ricchi coloni di origine inglese, in fondo si attendevano sempre un esito diplomatico che sanzionasse qualche vittoria parziale, nello stile del Settecento, in modo da non compromettere i rapporti ed i ricchi affari fra le parti; solo i ceti più radicali spingevano per la distruzione della forza nemica.
In più c’era la grande incognita sulla tenuta dei coloni e dei miliziani,
su cui si poteva fare scarso affidamento viste le diserzioni in massa.
Altro fu il problema degli schiavi negri, liberati dagli inglesi a patto
che si arruolassero nel loro esercito. Ma soprattutto c’erano i Minute
Men, formati dai lavoratori delle città, l’ala più radicale, che
proprio a Boston avevano iniziato a dimostrare contro il loro sfruttamento
sul lavoro ed ora erano armati e inquadrati. Di fatto si applicò la vecchia
prudente e saggia massima: “Ponti d’oro a nemico che fugge!”.
9. L’assedio di New York
Il 30 giugno getta l’ancora a Staten Island una flotta inglese imbarcante un contingente rafforzato da 22mila assiani con l’intenzione di cingere New York d’assedio e conquistarla. L’offensiva era ben concertata perché nel frattempo dal Canada, dopo la disastrosa ritirata della spedizione americana, 10mila uomini muovevano a sud, dal lago Champlain e lungo l’Hudson. Nel frattempo truppe inglesi erano sbarcate ad Halifax, in Canada. L’obiettivo era di prendere New York tra due fuochi, ma soprattutto di dividere in due tronconi le Colonie, conquistare il Maine, il New Hampshire, Rhode Island, il Connecticut ed il Massachusetts, dove erano situate le industrie e i porti principali.
Washington, prevedendo ciò, aveva schierato le difese della città sulle alture di Brooklyn: all’epoca New York era situata solo sulla sponda meridionale dell’isola di Manhattan, tra l’Hudson e l’East River; dietro di esse aveva disposto una seconda linea impostata su due forti, Fort Lee e Fort Washington. Questo schieramento aveva però ridotto la prima linea a soli 8mila uomini, con gli inglesi in schiacciante superiorità. Considerando inevitabile la perdita della città, Washington inviò alcune migliaia di uomini tra le città di Ticonderoga e Albany al fine di impedire la riunione dei due contingenti inglesi. Alla fine solo 8mila americani erano tra Brooklyn e Long Island sulla sponda dell’East River mentre altri difendevano l’isola.
Gli inglesi e gli assiani avevano come base Staten Island, all’estuario di entrambi i fiumi e di fronte alla città. Howe avrebbe potuto annientare gli americani, aggirate le difese di Long Island facendo risalire dalle navi l’East River, invece decise per un massiccio attacco frontale. Il 22 agosto del 1776, 15mila anglo-tedeschi dei 35mila a disposizione di Howe vennero sbarcati a Long Island protetti dal fuoco di 500 cannoni di 88 fregate provocando lo scompiglio nelle file americane che vacillarono. Gli scontri durarono quattro giorni. Ripetuti attacchi parziali indebolirono i difensori che perdettero numerosi avamposti lasciando al nemico centinaia di prigionieri. Gli americani erano duramente provati ma Howe, convinto di avere ormai la vittoria in mano, ritardò l’attacco finale di un giorno. La notte del 28 agosto scoppiò un uragano che bloccò le navi e gli attaccanti ma permise invece il riorganizzarsi degli americani: durante la notte del 29 in una rapida ritirata tutti gli uomini evacuarono Manhattan.
Il sistema difensivo americano impostato su due linee si rivelò un grave errore: la linea a ridosso della riva si trovò a corto di uomini e dovette cedere le posizioni. Le perdite americane furono di 1996 uomini: 553 morti, 822 feriti e 621 prigionieri, mentre fra gli inglesi si contarono 214 morti e 446 feriti.
L’11 settembre gli inglesi ricevettero una delegazione americana diretta da B. Franklin, ma, per la pregiudiziale britannica del ritiro della dichiarazione di indipendenza, ogni discussione fu impossibile. I contatti si interruppero il 15 e nello stesso giorno gli inglesi ripresero bombardamenti e sbarchi a Manhattan che occuparono definitivamente lo stesso giorno. Gli americani si ritirarono lentamente nel New Jersey impegnando gli inglesi, che impiegarono quaranta giorni per conquistare Harlem, in una serie di imboscate e attacchi di guerriglia. Le truppe di Washington riuscirono a riparare ad ovest, in Pennsylvania, eccetto i difensori dei forti Washington e Lee, caduti in mano inglese a fine novembre.
Le truppe inglesi provenienti dal Canada furono fermate da quelle americane sul lago Champlain con battaglie navali e terrestri: l’obiettivo di tagliare in due le colonie americane era fallito. Con l’arrivo dell’inverno cessarono le grandi operazioni militari, anche perché dall’Inghilterra arrivavano ordini di non impegnarsi in operazioni rischiose e di puntare anche sull’intervento dei lealisti americani, che invece erano restii ad impegnarsi per evitare ritorsioni in caso di sconfitta. Come sempre, i più attendevano un orientamento sulla fortuna degli eserciti per schierarsi dalla parte del vincitore.
Nel frattempo gli sforzi diplomatici di Franklin, principalmente in Francia, ebbero come primi risultati l’arrivo di alcune centinaia di volontari, per lo più francesi e polacchi, tra cui i più importanti furono: il nobile polacco Kosciuszko, il marchese de La Fayette, ma soprattutto il barone prussiano Von Steuben, che iniziò subito l’addestramento militare degli americani.
La democrazia rappresenta, allo stesso tempo, la delizia e la pena della società borghese e del suo regime.
Che la democrazia, nella stessa Europa, sia inconcepibile lo dimostra l’alzata di scudi delle massime autorità politiche e finanziarie europee quando un astuto Papandreu, messo alle strette sulla questione della concessione di un ennesimo prestito da parte della Banca Centrale Europea, ha lanciato l’idea di indire un referendum, massima espressione della “democrazia diretta”, per chiedere ai cittadini la loro opinione riguardo all’adesione alla Comunità Europea. Si è giunti persino a far circolare voci sia negli ambienti finanziari internazionali sia in autorevoli circoli governativi, sulla possibilità di un nuovo colpo di stato militare.
In tutti i paesi la democrazia per la classe borghese è una pena perché il suo mastodontico carrozzone, dove gli interessi di categoria delle varie camarille di politicanti cozzano fra loro e si scontrano anche violentemente, non solo non assolve più a nessuna funzione sociale, ma rallenta se non paralizza la vita politica nazionale, che è determinata non da scelte di partito, ma dalle ferree regole imposte dalle necessità capitalistiche.
Si dice che l’imperatore Caligola avesse nominato senatore il proprio cavallo in ispregio al Senato. Oggi, se venisse introdotto negli odierni caravanserragli, il nobile quadrupede vi svetterebbe per cultura, saggezza e stile.
La democrazia ha storicamente fatto il suo tempo e quello che ne resta altro non è che un vuoto simulacro. Già dagli anni ’40 abbiamo affermato che, malgrado le nazioni fasciste fossero state vinte in guerra, il fascismo, come sistema di governo, è risultato il vero vincitore alla scala storica.
Ma, anche se ridotta a pura forma, la democrazia rappresenta un impaccio al sistema capitalista. Non disse il falso Berlusconi quando affermò che l’attività dei deputati si limita a «tenere le mani dentro la scatoletta del voto e votare cose che nessuno può sapere cosa sono perché quando ci sono 400 emendamenti... Come si vota? si guarda il capogruppo che se alza il pollice vuol dire sì, se stende la mano vuol dire astensione, se fa il pollice verso vuol dire no... Questa è la pura verità: le assemblee pletoriche sono assolutamente inutili e controproducenti».
Naturalmente queste affermazioni fecero alzare grida di indignazione, specialmente da parte della “sinistra”, per lesa democrazia. Però le stesse “intelligenze” di “sinistra”, ci basti rammentare il professor Asor Rosa, ammisero che «le democrazie collassano più per propria debolezza che per forza altrui (...) La democrazia si dissolve per via democratica, il tarlo è dentro, non fuori». Detto questo l’illustre professore, dalle colonne del Manifesto auspicava la dichiarazione in Italia dello “stato di emergenza” con intervento «dei carabinieri e della polizia di Stato per congelare le Camere, sospendere tutte le immunità parlamentari, restituire alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilire d’autorità nuove regole elettorali...». Insomma, un colpo di Stato militare a fini democratici? Certo, sosteneva il professore, perché, concludeva, «la democrazia si salva, anche forzandone le regole».
C’è però chi pensa che queste regole possano essere forzate in maniera “soft”. Massimo Gramellini che su La Stampa ha scritto che «occorre avere il coraggio di rimettere in discussione il diritto di voto», che dovrebbe essere concesso solo a chi abbia «superato un esame preventivo di educazione civica e di conoscenza minima della Costituzione».
Ma, in un modo o nell’altro, e senza l’intervento dei carabinieri e nemmeno di voto “certificato”, il Bel Paese si è alfine liberato dall’odiata bestia nera della democrazia, ossia di Berlusconi. A Berlusconi – frastornato dai consigli ricevuti: di fare “un passo indietro” (la sinistra), un “passo avanti” (la destra), un “passo di lato” (la Lega) – non è rimasto che salire al Quirinale e presentare le sue dimissioni... postdatate. In men che non si dica è stato varato un governo di emergenza, “tecnico” e di “unità nazionale” che, alle due Camere, ha ottenuto il 90% dei consensi, quantunque sia espressione di quel mondo finanziario al quale, da ogni parte, viene attribuita la responsabilità della attuale crisi economica.
Proprio il governo Monti, per quanto abbia ottenuto una approvazione totalitaria, ancora una volta rappresenta la sconfitta della democrazia: né il capo del governo né alcuno dei suoi membri è rappresentante della “volontà popolare”. Gode del sostegno unanime delle opposte fazioni politiche: ma se sono tutti d’accordo, la loro esistenza è semplicemente inutile. Quale migliore dimostrazione che l’intera impalcatura democratica, elezioni, parlamento, partiti, etc. etc., sono di fatto insignificanti?
I più intelligenti tranquillizzano: si tratta solo di una “sospensione della democrazia”; quando i “tecnici” avranno rimesso le cose a posto, allora si tornerà a votare (magari con nuove regole) e a rimettere su un nuovo teatrino parlamentare ed un nuovo governo espressione della “volontà popolare”.
Si, di quel teatrino ce n’è bisogno. Perché la democrazia è anche la delizia del regime borghese. Come sarebbe mai possibile fare accettare al proletariato sfruttamento, nei tempi di bonaccia, e disoccupazione, miseria e fame nei tempi di crisi del capitalismo? Morire indossando la tuta da operaio in tempo di pace borghese, o la divisa militare in tempo di guerra, altrettanto borghese? Il compito della democrazia è quello di dare al “popolo” l’illusione che ci troviamo tutti sulla stessa barca, che l’inquilino del Quirinale e chi dorme in una baracca, chi muore di indigestione e chi di fame, abbiano tutti quanti uno scopo comune che va al di là, al di sopra, delle loro persone, sia come singoli individui, sia come appartenenti a classi distinte, perché tutti farebbero parte di una unica, grande comunità che si chiama Nazione.
Questa è la solfa con la quale i crani dei proletari vengono continuamente martellati; questa è la funzione che da sempre hanno svolto i partiti opportunisti: la socialdemocrazia prima, lo stalinismo poi, ed adesso il post-stalinismo, peggiore, perché più sofisticato e raffinato, dei due precedenti.
Il regime capitalista e tutti i suoi prezzolati rappresentanti sanno bene che saranno guai seri per loro non appena il proletariato, anche se solo istintivamente, avrà un risveglio della propria coscienza di classe, comprenderà che la storia dell’umanità è storia della lotta di classe e di non avere niente da perdere se non le proprie catene, ma un mondo intero da guadagnare.
* * *
I documenti che riproponiamo nella nostra rubrica “Archivio della Sinistra” risalgono al maggio/giugno 1921 e vennero redatti in occasione delle elezioni politiche a cui il Partito Comunista d’Italia, neo costituito, partecipò per disciplina all’indirizzo dato dalla Terza Internazionale, della quale era Sezione.
Sia l’appello dell’Internazionale Comunista, sia le disposizioni impartite dal Comitato Esecutivo del PCd’I, sia i vari articoli con i commenti sui risultati elettorali ed il giudizio del partito nei confronti dei socialdemocratici, rappresentano un limpido esempio della tattica marxista rivoluzionaria che, con o senza la partecipazione alle elezioni, non avrebbe avuto la minima variazione.
Dal punto di vista pratico, due elementi caratterizzarono la partecipazione del PCd’I alle elezioni, e costituirebbero scandalo per qualsiasi partito democratico: per la campagna elettorale dalla cassa centrale del partito non uscì nemmeno una lira; i voti di preferenza da attribuire ai candidati furono stabiliti centralmente e a queste disposizioni gli elettori comunisti erano tenuti a disciplinarsi.
Per quanto riguarda l’aspetto programmatico il partito si presentò al proletariato con la sua veste di organizzazione rivoluzionaria di classe, che approfittava dei comizi elettorali non per cercare voti, ma per diffondere tra i lavoratori il programma della rivoluzione, della presa del potere attraverso l’uso della violenza, della necessità di distruggere il mito e le istituzioni della democrazia.
Il Partito dichiarò apertamente che la sua partecipazione alle elezioni
e l’entrata nel parlamento borghese di suoi deputati avrebbe avuto il
solo scopo di combattere dall’interno il sistema democratico e le sue
mistificazioni interclassiste, e che la presenza comunista nel tempio della
democrazia non sarebbe servita ad anticipare il comunismo di un solo giorno,
perché questo dipende solo dalla presa del potere da parte dei lavoratori
e da quella lotta politica, dallo scontro tra le classi sociali che avviene
fuori, e non dentro, i parlamenti.
Comitato
Esecutivo della III Internazionale
AL PROLETARIATO ITALIANO
IN OCCASIONE DELLA LOTTA ELETTORALE
(Il Comunista, 12 maggio 1921)
CARI COMPAGNI !
Un decreto del vostro Governo ha sciolto il Parlamento ed ha indetto i nuovi comizii elettorali. Il governo di Giolitti, che tutto il mondo chiama l’ultimo governo del re d’Italia, tenta d’inscenare una nuova commedia parlamentare, per meglio opporre al proletariato rivoluzionario un fronte unico della borghesia organizzata e rafforzata dal sostegno delle bande assoldate del terrorismo fascista.
COMPAGNI LAVORATORI !
Le condizioni nelle quale voi andrete questa volta alle urne non sono più quelle dell’altra volta. Ora la borghesia ha ripreso la sua audacia.
Dall’armistizio in poi, l’Italia si trova in una acuta crisi rivoluzionaria. Tutti i ministeri borghesi che si sono succeduti al potere hanno dimostrato la loro impotenza a salvare il paese dal marasma economico. L’Italia, fra tutti i paesi vincitori, è quello che più dolorosamente ha sentito i risultati della vittoria. Tutte le manovre e le belle promesse a voi fatte da Nitti e da Giolitti non son servite che a guadagnar tempo, facendo concessioni sulla carta, ma togliendo con la mano destra ciò che colla sinistra porgevano. In realtà, le misure prese sul serio dai governanti italiani sono state quelle tendenti al rafforzamento della difesa armata del privilegio borghese: al sempre nuovo incremento dato allo sviluppo della Guardia regia e dei Carabinieri si è contrapposto l’aumento del prezzo del pane e quello favoloso delle imposte. La crisi monetaria diventa sempre più grave e la disoccupazione prende dimensioni sempre più catastrofiche. La borghesia italiana sente l’approssimarsi della sua ultima ora: e con disperata, selvaggia furia si dedica alle provocazioni ed al terrorismo, mediante le sue bande mercenarie.
Ufficiali senza impieghi, figli di proprietari, studentelli borghesi aggrediscono i lavoratori, bruciano le cooperative e le camere del lavoro, distruggono i giornali proletari. La guerra civile è ora in Italia una realtà; l’offensiva della borghesia precede quella del proletariato.
Ed è in grazia al vecchio partito socialista, composto di elementi eterogenei, se non furono sfruttate le occasioni favorevoli – che diverse volte si presentarono – per impegnare il proletariato in una decisiva lotta rivoluzionaria. I riformisti d’Italia, poiché questa è la loro funzione, hanno fatto e continuano a fare il gioco della borghesia, aiutandola a puntellare il malandato edificio economico del capitalismo.
COMPAGNI OPERAI !
Dall’armistizio in poi, vi hanno stordito con le chiacchierate intorno alla necessità di “produrre di più e consumar di meno”: e questi discorsi vengon fatti sia dai borghesi che dai social-riformisti rimasti nel vecchio partito socialista, in seno al quale intensificano la loro propaganda per la collaborazione con la borghesia.
La storia di questi ultimi anni nulla ha insegnato a questi signori; viceversa molto ha insegnato ai proletarii che sanno oggi distinguere i loro amici dai loro nemici. I vostri riformisti si diffondono in lamenti ogni volta che le bande fasciste bagnano di sangue proletario le vie delle città e dei villaggi; i riformisti invocano la calma ed il disarmo... Qual’è il significato dell’atteggiamento dei riformisti? La capitolazione ed il disarmo della classe operaia dinanzi alla borghesia armata sino ai denti. Non è coi discorsi che si potrà frenare la reazione borghese, ma con la violenza esercitata in comune da tutta la classe oppressa. In risposta alla violenza borghese, la classe proletaria italiana deve continuamente ed energicamente mettere in pratica il suo motto: “disarmare l’avversario, armare il proletariato”.
COMPAGNI OPERAI !
Per la prima volta il giovane Partito Comunista d’Italia prende parte ad una lotta elettorale.
Voi tutti, certo, conoscete come il Partito Comunista d’Italia nacque al Congresso di Livorno, dalla scissione col partito socialista nel quale – in seguito all’atteggiamento della corrente Serrati – rimasero i riformisti. Gli avvenimenti ulteriori della vita politica italiana e del partito socialista hanno mostrato che gli unitarii han favorito e favoriscono l’influenza perniciosa e demolitrice degli opportunisti: e ciò, in fin dei conti, torna a tutto vantaggio della borghesia. È su questo, appunto, che conta la vecchia volpe della borghesia – Giolitti. Egli sa che nel vecchio partito socialista sono molto forti gli elementi riformisti (forti nel Parlamento, nella Confederazione del lavoro, nelle Cooperative) che non celano il desiderio di entrare nel governo e collaborare con la borghesia “per – essi dicono – compiere opera ricostruttiva”.
Noi crediamo – e ci auguriamo – che il Partito Comunista abbia, malgrado la sua recente costituzione, conquistato le simpatie di tutto il proletariato italiano, mediante la sua devozione illimitata alla causa dei lavoratori. Solo il Partito Comunista ha solidarizzato cogli operai che han lottato e perduto a Firenze e nelle Puglie e che continuano a lottare ancora dappertutto. Esso solo dichiara apertamente e francamente il suo programma comunista rivoluzionario. Solo esso si prepara ad organizzare l’insurrezione armata. Solo esso non nasconde il suo motto: “alla violenza borghese bisogna rispondere con la violenza organizzata del proletariato”.
COMPAGNI OPERAI !
I deputati e la burocrazia confederale del vecchio partito socialista non mancheranno di farvi, come sempre, nel momento delle elezioni, mirabolanti promesse di ogni genere. Ma solo il Partito Comunista, sezione dell’Internazionale Comunista, avendo sulla sua bandiera l’insegna della Repubblica dei Soviets, vi dichiara senza ambagi che esso entra nel Parlamento non per iniziare un lavoro ricostruttore di ciò che è destinato a rovina, ma per propagandare le idee comuniste, per utilizzare la tribuna parlamentare allo scopo di accrescere la coesione e la coscienza del proletariato che si appresta alla finale lotta rivoluzionaria contro la borghesia.
COMPAGNI !
Non dimenticate il vostro dovere di fraternità verso la Russia che da quattro anni respingendo tutti gli attaché della borghesia mondiale, si sforza nell’opera pacifica di ricostruzione, utile non solo alle masse operaie ed ai contadini della Russia, ma anche al proletariato di tutto il mondo.
Voi potrete dimostrare ancora una volta la vostra solidarietà col proletariato russo e colla Federazione dei Soviets Russi, inviando nel Parlamento, cittadella borghese, il maggior numero di comunisti che potrete. Essi useranno tutti i mezzi indicati dalla tattica comunista per impedire alla borghesia l’inganno del proletariato; e, mediante l’appoggio delle grandi masse, sapranno affrettare il giorno della completa vittoria del proletariato e del trionfo del comunismo in Italia.
Votate, dunque, solo per i candidati del Partito Comunista d’Italia.
Votate per l’Internazionale Comunista e per la sua sezione d’Italia.
Votate per la Russia Soviettista e per il Partito ad essa legato da
vincolo fraterno: il Partito Comunista d’Italia.
Viva il proletariato italiano ed il suo solo rappresentante: il Partito
Comunista d’Italia!
Il C.E. del
P.C.d’Italia
NORME PER LE ELEZIONI POLITICHE
(Il Comunista, 14 aprile 1921)
Non esiste per noi, oggi, una questione elezionistica od antielezionistica. Essa potrà tornare ad affacciarsi alla discussione nel III Congresso dell’Internazionale comunista. Ma oggi la Sezione italiana della III Internazionale obbedisce, disciplinata ed unita, alle norme fissate a Mosca lo scorso anno. Il Comitato esecutivo del Partito, riunendosi per prendere deliberazioni in merito alla prossima lotta elettorale non ha indugiato neppure un minuto nell’esaminare se il Partito potesse, date le speciali sue condizioni organizzative appena all’inizio, astenersi dalla partecipazione ai comizi di Maggio.
Ed è passato immediatamente a fissare le norme per la partecipazione, votando il seguente ordine del giorno:
«Il Comitato esecutivo del Partito comunista d’Italia, discutendo in merito alle elezioni generali politiche, nell’urgenza di diramare disposizioni anche prima della convocazione del C.C., il quale rivolgerà un manifesto-programma al proletariato, dichiara che, in forza della disciplina ai deliberati della Internazionale, il Partito comunista parteciperà alle elezioni con le precise finalità e criterii contenute nelle tesi approvate dal secondo Congresso mondiale di Mosca e delibera:
«che il Partito comunista scenda in lotta, di massima, in tutte le circoscrizioni, con assoluta intransigenza, con liste bloccate, adottando per contrassegno per le schede l’emblema della Repubblica dei Soviet, ossia la falce ed il martello nella corona di spighe;
«che in ogni circoscrizione si raduni subito un convengo di rappresentanti delle Federazioni provinciali interessate – non più di due delegati per ciascuna – per procedere alla organizzazione della lotta, designando una rosa di candidati la quale deve comprendere un numero di nomi superiore della metà a quello dei deputati da eleggere nella circoscrizione, dandone comunicazione al Comitato esecutivo entro il 14 corrente perché questo possa compilare la lista definitiva;
«possono essere candidati tutti i soci effettivi del Partito che ne fanno parte fin dalla costituzione;
«in tutte le circoscrizioni s’inizierà immediatamente la raccolta delle trecento firme con autenticazione notarile necessarie per la successiva presentazione delle liste».
È inutile ripetere quanto già scrivemmo in previsione della prossima convocazione dei comizi elettorali. Questi sopravvengono in un momento assai critico per il nostro partito. Difficoltà d’ogni sorta dovremo superare, dato anche che non in tutte le province s’è tenuto il congresso costituente federale, e che le casse delle Federazioni sono vuote. Né il C.E. potrà contribuire, anche in minima parte, alle spese elettorali. Poiché siamo spregiudicati in materia, non ci prenderemo le scalmane per la preparazione elettorale. Conserviamo intatta la nostra salute per le più grandi e decisive battaglie. Ma ciò non vuol dire che dovremo disinteressarci della lotta, il che varrebbe dire non parteciparvi, avere una sconfitta colossale senza neppur l’onore di aver combattuto, fare il sabotaggio alla disciplina di partito con l’aria di rispettarla.
Naturalmente le nostre elezioni saranno fatte ad economia. Abbiamo sempre ripetuto che esse non danno neppure lontanamente il pensiero della maggioranza vera del paese, giacché il regime democratico, che ha in mano la forza dello Stato e la banca e la stampa, preclude ai lavoratori la via della libera espressione del loro pensiero politico. Decine di migliaia di lavoratori rivoluzionari sono in galera e “non usciranno se non ad elezioni avvenute”, centinaia di migliaia di nomi di lavoratori presumibilmente elettori sovversivi sono stati cancellati dalle liste elettorali dai comuni borghesi; e là dove i comuni erano socialisti, per viltà di questi e per l’azione delle guardie regia e bianca, subentrarono i commissari regi o prefettizi a preparare le liste elettorali. Migliaia di lavoratori, nel giorno della votazione, non potranno gettare la scheda nell’urna, perché in servizio sulle ferrovie, sulle tranvie, nei porti, sugli oceani, nell’esercito, nella marina.
Coloro che partecipano alle elezioni sono gli stessi che vediamo ogni giorno indrappellati a compiere le spedizioni punitive, la guardia bianca, cioè la regia guardia in borghese, e i nullafacenti di tutte le industrie, del più ignobile commercio, della sanguinaria Agraria, della petulantissima ed immonda stampa.
Ma i lavoratori ed i comunisti non devono mancare a nessun comizio avversario. Debbono dire la loro parola, che è quella di tutto il Partito, alle canaglie della borghesia, ed ai pavidi socialisti italiani che hanno ammesso il principio della “resistenza passiva”. Faremo della propaganda, per quanto ci sarà concesso dalla finzione democratica.
Il nostro pensiero e la nostra attività vanno oltre la misera competizione elettorale.
Ci soffermiamo a dire il nostro pensiero in questa contingenza, perché non vogliamo perdere un’occasione per propagandare i principii comunisti.
Né dobbiamo meravigliarci troppo se, la democrazia, concedendo il “suffragio universale”, impedisca ai lavoratori di esercitare il diritto di voto. Lo Stato democratico esercita la sua dittatura. Ciò è marxisticamente logico.
E giustifica la dittatura proletaria, la quale – peraltro – escludendo dalle elezione dei soviet la borghesia e tutti coloro che non compiono un lavoro produttivo per la collettività (materiale o spirituale) non mentisce, attraverso una formula tendenziosamente classista, la sua profonda concezione di classe.
ALLA VIGILIA DELLE
ELEZIONI
(Il Comunista, 15 maggio 1921)
Proletari italiani !
Alla vigilia della conclusione della lotta elettorale il Partito comunista, che presenta le proprie liste ai vostri suffragi, vuole e deve rivolgervi ancora una parola.
La ferma nostra coerenza alla verità delle nostre dottrine ed all’onore della nostra bandiera, anche e soprattutto tra le avversità del presente periodo, è stata ribadita nei manifesti lanciati dal nostro Partito all’inizio della lotta elettorale e in occasione del Primo Maggio, ed anche l’Internazionale comunista, di cui il Partito nostro è parte integrante, a voi ha rivolto il suo appello per l’una e per l’altra circostanza.
Voi sapete adunque che scendiamo in lotta, che affrontiamo anche questo episodio della lotta di classe, che le elezioni costituiscono, con l’intero immutato bagaglio del nostro programma rivoluzionario, della nostra fede nell’avvento del comunismo.
Vi chiediamo di deporre nell’urna la scheda comunista per riaffermare che in Italia un numero immenso di sfruttati, di ribelli, è solidale col pensiero e con l’opera della rivoluzione comunista mondiale, la cui bandiera è piantata vittoriosa a Mosca, le cui falangi combattono in tutti i paesi del mondo contro lo stesso nemico: il capitalismo.
Affermiamo, con la Terza Internazionale, e traduciamo in atto, la necessità che la voce della propaganda comunista e dell’incitamento rivoluzionario sia portata nei comizi elettorali e nei Parlamenti borghesi da rappresentanti del proletariato, scelti e severamente disciplinati dal suo Partito di classe, dal Partito comunista.
Nello stesso tempo affermiamo che né la scheda, né l’azione in Parlamento potranno mai darvi, nonché le conquiste della emancipazione economica, politica, morale dal giogo borghese, neppure la vittoria contro la controffensiva reazionaria, che oggi la classe dominante ha contro di voi scatenata o l’attenuazione della bufera di violenza che si abbatte sulle vostre istituzioni di classe. Affermiamo che, deponendo nell’urna la scheda comunista voi avrete, non già posto mano ad un’arma decisiva che possa debellare l’avversario, ma solo affermato e cementato, nella forza morale d’una concorde affermazione collettiva delle moltitudini proletarie, il proposito di seguire nell’azione rivoluzionaria sullo stesso terreno, con le stesse armi, quelle ben altrimenti offensive che l’avversario brandisce contro di voi.
Né l’azione elettorale, né l’azione parlamentare vi daranno il mezzo di mutare le condizioni di sfruttamento in cui vi tiene il regime borghese, d’iniziare minimamente un’opera di ricostruzione tra le rovine di cui esso ha seminato il mondo. La lotta contro la reazione borghese, l’opera di ricostruzione della vita economica non possono essere intraprese che sulla base dell’organizzazione della forza proletaria con l’obbiettivo di rovesciare il potere della classe capitalistica, sconfiggendo prima le sue forze armate regolari ed irregolari, spezzando in seguito lo stesso apparato della menzognera democrazia parlamentare per instaurare la dittatura dei Consigli proletari. Votare per i comunisti significa aderire alle falangi dell’armata rivoluzionaria che domani mobiliterà le sue forze per questa guerra santa dell’emancipazione proletaria.
Lavoratori !
Chi vi chiama alle urne con altri propositi, prospettandovi il vostro intervento ad esse come il mezzo per uscire definitivamente dalle asprezze della situazione, v’inganna; e più colpevole è l’inganno se esso viene, anziché dai partiti borghesi, dal partito socialista, che ostenta di rappresentare gli interessi della vostra classe.
L’elezionismo del partito socialista vale solo ad addormentare in voi lo slancio rivoluzionario, e si risolverà in tutto vantaggio della borghesia, ossia nel tradimento della vostra causa.
La partecipazione alle elezioni del Partito comunista tende a svegliare le masse rivoluzionarie italiane, ad incitarle alla imminente battaglia, con cui raccoglieranno la sfida e rintuzzeranno la provocazione avversaria; è lo squillo d’una diana che dice al nemico di classe quanto sia folle la sua illusione d’aver debellato la classe lavoratrice, di poter spegnere in essa la fiamma della volontà rivoluzionaria.
Dopo le elezioni, nel Parlamento, ma soprattutto fuori del Parlamento, i comunisti continueranno senza un attimo di sosta la battaglia di classe, in intimo contatto con le falangi proletarie.
Operai e contadini d’Italia !
Dimostrate il quindici maggio come siano ancora in piedi, come ogni giorno s’accrescano di numero e di fede gli effettivi dell’esercito della rivoluzione. Accorrete alle urne, e sia il vostro grido:
Abbasso il parlamentarismo borghese!
Abbasso la prepotenza della reazione!
Viva la dittatura del proletariato e la repubblica italiana dei Consigli!
Mentre la socialdemocrazia, in
gara con tutti gli altri in equivoci e menzogne, si affanna verso Montecitorio
IL PARTITO COMUNISTA COMBATTE, SALDISSIMO, PER LA DITTATURA
DEL PROLETARIATO
(Il Comunista, 19 maggio 1921)
Conosciamo molto frammentariamente i risultati della gazzarra elettorale. Non trepidiamo per questo.
Il Partito Comunista, solo fra tutti i partiti e i pseudo-partiti, non ha, mentre vecchi uomini e vecchie idee s’azzuffano per la conquista delle agognate medagliette, pronunciato una sola parola che avesse lo scopo di procurare un voto alla sua lista o soltanto delle simpatie. Rigidamente esso ha agitato con mano salda la sua bandiera che ignora le contraddizioni ed i ripiegamenti.
Fermamente legato alla disciplina della III Internazionale, esso ne ha con fedeltà interpretato la tattica elezionista; sfruttando la convocazione dei comizi elettorali per diffondere in mezzo alle masse proletarie la parola rivoluzionaria e negatrice di ogni valore positivo all’istituto parlamentare, espressione genuina della dittatura borghese larvata di democrazia.
I giornali borghesi s’affrettano, commentando i risultati delle elezioni, a documentare con statistiche accurate il fallimento del nostro partito. Queste buffe guasconate saranno per noi motivo di buon’umore. Se ci proponessimo – come il partito del quale fino ad ieri facemmo parte – la conquista del potere attraverso l’istituto parlamentare, allora soltanto avremmo motivo di tristezza, ma noi, invece, abbiamo scritto sulla nostra bandiera: “Andiamo anche al parlamento per lottare contro il parlamento, contro tutti gli istituti borghesi”.
Né ci dilungheremo a protestare, ad inveire con vuote chiacchiere contro la violenza usata dalla borghesia per forgiarsi – tra gli altri suoi fini – un parlamento contenente solo i suoi difensori o i suoi addomesticati avversari. Noi diciamo invece: è giusto che sia così; anzi: è necessario che così sia. Se la borghesia con tutte le sue armi, non si difendesse, ciò sarebbe indizio delle nostra debolezza, ma la borghesia si difende – e per difendersi ha creduto necessario offendere per prima – ciò dimostra la nostra forza.
Noi sappiamo che anche i proletari i quali oggi non hanno deposto la nostra scheda nell’urna – e non perciò noi muoviamo loro alcun rimprovero – domani saranno con noi soltanto con noi, quando, costretti dalla inflessibile dialettica della necessità, sorpasseranno d’un balzo solo tutto il ciarpame delle menzogne democratico-borghesi, e per mezzo della travolgente violenza conquisteranno a sé stessi il potere attraverso le grandi giornate dell’insurrezione.
Animati da questa incrollabile fede – che ripete le sue origini dalla dottrina marxista sempre più vittoriosamente affermatasi alla riprova dei fatti – non diversamente noi sappiamo commentare il risultato della odierna gara di esibizionismi e di contorsioni da invertebrati, se non con il nostro immutabile grido: Evviva la rivoluzione!
LA TRACCIA SICURA
Scriviamo mentre ancora non ci può essere noto l’esito delle elezioni. In queste ore di attesa siamo certissimi di essere, tra i partecipanti alla lotta, gli unici immuni dalle spasimanti ansie delle ultime attese, di essere infinitamente al disopra del gioco ripugnante delle più basse risorse e dei mezzucci più vili a cui, una volta ancora, ci ha fatto assistere l’ignobile meccanismo del sistema democratico borghese.
La ridda fantastica delle figure che spiccano nei campi avversari, e che sono, in parte grandissima, le stesse che altra volta cogli stessi atti, collo stesso spirito e sotto il fuoco dello stesso nostro disprezzo, danzavano la loro sarabanda arrivistica in altri aggruppamenti ed in altre combinazioni, ci fa sorridere di compassione, ma il guardare in questo vortice abissale della degenerazione politica non ci dà le vertigini, perché siamo troppo solidamente piantati su di un terreno incrollabile, perché abbiamo troppo sicuro il senso dell’orientamento verso la mèta cui tendiamo, perché troppo fieramente sentiamo, tra le contorsioni spregevoli di costoro, di essere ancora e sempre sulla stessa via e sotto la stessa bandiera.
La tempesta magnetica che li abbacina e li inebria tutti nella sadica vigilia dei loro più bassi appetiti di gruppi e di individui, non può fare impazzire la nostra bussola, farci fallire la nostra rotta.
Che cosa abbiamo in più di tutta codesta gente in fregola? Che cosa ci distingue da costoro? Una piccola cosa su cui volta a volta tutti hanno fatto piovere la schiuma dei loro sofismi e delle loro ironie senza pervenire a smontarci: la nostra coerenza ad una dottrina e ad una fede.
Ripetemmo e ripetiamo nelle molteplici contingenze e vicissitudini della vita politica, che dalla cronaca quotidiana incalza oggi in un precipitoso divenire di storia, quello che per i nostri critici di oggi e di altri mille precedenti momenti è uno sterile formulario sorpassato dalle peregrine trovate di cui ciascuno di essi si vanta depositario: coerenza, disciplina, intransigenza del pensiero e dell’azione.
Credemmo e crediamo in una traccia della storia – oh, semplicistica, schematica, astratta, signori interpreti della realtà! – lungo la cui via una lotta incessante separa le classi avverse, al cui termine vi è tra le fiamme della rivoluzione il rovesciamento di questo odiato regime. Seguimmo e seguiamo questa via colla stessa convinzione e con la stessa fede che quella ne è la mèta, colla stessa decisione a lottare per essa e per essa soltanto.
Dalle altre rive ci videro andare e ci dissero pazzi o criminali? Dalla nostra schiera, in cento occasioni, per cento motivi, con cento argomenti, cento e cento si distaccarono suadendoci od ingiuriandoci che eravamo stolti a non accorgerci che la via si doveva mutare, che essa non era la grande traccia della storia ma uno dei tanti vicoli ciechi della illusione e della teorizzazione; che non uscirne significava non saper andare più innanzi della muraglia terminale contro cui la nostra inutile cocciutaggine ridicolmente avrebbe cozzato.
Ebbene, è interessante rivolgere uno sguardo a tutti costoro nel momento in cui l’ardore erotico del cimento elettorale fa loro deporre ogni ritegno ed ogni memoria dei passati impegni – non è per la intelligente e superiore pratica politica di costoro tanto più illuminata ed abile della nostra piatta monotonia, prima regola di ciò che si fece e si disse? – in cui più oscenamente si abbandonano alle loro pose istintive svelando l’essere loro.
Tutti, nell’andarsene, ostentavano di “superarci”, di togliersi dalla nostra rotta per non condividere il nostro naufragio ed attingere lidi da noi non intravisti, alcuni ci compativano, altri ci vilipendevano, tutti avevano qualche cosa da insegnarci che era colpa nostra il non comprendere.
Val la pena di passare distintamente in rassegna i diversi gruppi, i diversi “tipi” di disertori? Le diverse “scoperte” di nostri errori che essi compivano e le diverse formulazioni di nuove verità che sciorinavano ai nostri occhi attoniti contemplandoci dall’alto in basso, facendosi delle nostre sanzioni disciplinari nella cui efficacia avevamo ed abbiamo l’ingenuità di credere, l’aureola del martirio? Dovremmo fare una scorribanda attraverso le mille eresie che noi, infaticabili preti rossi, custodi spietati ed induriti del dogma abbiamo condannate, ricordare le mille forme di violazione della nostra intransigenza che in tante e tante circostanze vennero perpetrate trescando con gli elementi della classe avversa, salendo in cattedra per spiegarci che il vero socialismo non era quello [una parola illeggibile] e incartapecorito in cui ci eravamo cristallizzati, ma quello che con raffinatezze di critica e di tattica si adattava alla guerra coloniale o a quella nazionale, alle pratiche massoniche ed agli intrugli elettorali bloccardi e a mille altre imprese più o meno gloriose...
Riprender la polemica con tutte queste deviazioni degenerative, ridurle al responso dei fatti posteriori che noi abbiamo atteso nella stessa posizione critica ed inquadriamo in una vittoriosa constatazione della giustezza delle nostre vedute, ma gli altri vissero volta a volta sotto diversi angoli visuali nelle loro sublimi escursioni tra le varie scuole della dottrina sociale e i varissimi colori degli schieramenti politici, questo non è il compito di questo articolo ma il bilancio di tutta la nostra battaglia di partito che è fatta di studio di critica di preparazione di azione.
Ma va notato il dirizzone comune, monotonamente, piattamente comune che tutti costoro, partendo da diversissimi, come sopra diciamo, atteggiamenti e pose, finiscono con prendere, barattando quel pregio in cui piacque loro di mutare la nostra pesante regola della continuità in una dottrina e in una disciplina, della originalità della novità della mutevolezza verso cose nuove e prima non note.
Ci dissero tutti, lasciandoci, cose bellissime, e colla stessa compiacenza l’uditorio borghese sentì vellicare le sue sensibilità di decadente dalle nuove e peregrine trovate intellettuali di coloro contrapposte alla nostra costante e uniforme asinità. Chi partiva verso le nuove scoperte di una economia per cui il vecchio Marx era un principiante, chi dichiarava puzzare di rancido il nostro materialismo storico dinanzi alle luminose trovate del pensiero moderno e dei filosofi alla moda, chi irrideva alle nostre messianiche aspettazioni storiche di uno sviluppo rivoluzionario che un più sagace studio della realtà dimostrava relegato nel campo delle illusioni, ognuno abbandonava la nostra piattaforma avendo l’aria di porre il piede su di un gradino più alto. E sono invece scesi tutti, allo stesso modo, nelle più lubriche fonde del politicantismo! E la storia di uno è la storia di tutti, e ci odiano e ci combattono oggi tutti da uno stesso fronte e colle medesime armi con cui già quando essi eran tra noi ci si offendeva.
Dottoreggiava taluno, dotato di coltura e di cerebrale scintillio, che le teorie, cui noi ci attaccavamo come allo scoglio le ostriche, sono zattere per varcare un ostacolo che taglia la nostra via, ma giunti sull’altra riva bisogna abbandonarle. Altri che per avventura era con noi contro queste e simili eresie, scoprì in appresso con sicumera pari alla disinvoltura, e predica con altrettanta superiorità sulla nostra scolorita insistenza nei soliti teoremi, che “superando”, e chi non abbia qualche cosa da superare si faccia avanti!, le vecchie nostre concezioni sui rapporti dei partiti, sulle sinistre e le destre, si afferma che il movimento veramente moderno, innovatore, seppellitore delle nostre carogne ideali, è quello che si fa del tradimento e della diserzione un onore ed un vanto e distruggendo con tutte le forme della violenza le manifestazioni del comunismo lotta non contro i nostri miraggi di una civiltà nuova, ma contro la tenebrosa barbarie da noi tramata...
Ognuno possiede una formulazione sedicente originale della stessa fedifraga dedizione. La guerra, nella estrema decomposizione di tutte le manifestazioni di un’epoca, ha affinato questa morbosa capacità di cesellare nei lenocini della forma vecchissime e notissime vergogne della sostanza.
Guardateli, questi cerebrali delle iperivoluzioni politiche nel travaglio elettorale. Vedete come terribilmente si rassomigliano, come praticano gli stessi tradizionali compromessi, come seguono, non già ognuno una sua aspra e particolare via verso l’avvenire, ma lo stesso percorso, incalzandosi, lottando coi gomiti per farsi luce verso le stesse mète e la stessa conquista, che quando è la conquista massima ed ultima, è una livrea.
Davvero non faceva bisogno per intendere il complicato e differenziato divenire di questi campioni della modernissima politica, si seguisse il loro elevarsi, a un tirocinio fatto tra noi alle audacie delle idee rivoluzionarie, a pretese più alte sfere di ricerca di conoscenza di attività... essi sono molto meno incomprensibili, e nelle loro spirituali complicazioni si ritrova una semplicità volgare, una monotonia vecchissima e arcinota. Spregiarono la poco estetica nostra monocorde funzione di custodi di un’idea e di un metodo per le fogge variopinte, per andare in una uniformità che è la più orrida, persero il merito della coerenza e della serietà ma non guadagnarono quello della originalità e della novità... l’abito multicolore di Arlecchino nelle sue capriole appare di un grigio scialbo e fetido, se i colori dello spettro si ricompongono nella luce monocromatica del bianco e nero.
Per comprendere questi difficilissimi è inutile riprendere le raffinatezze della loro politica contro di noi. Essi sono molto, molto più giù! Non è ad elementi di una critica modernissima che ricorreremo per decifrarli. La loro figura è nota, è disegnata, è tracciata da un pezzo, è la più stereotipa che le tradizioni abbiano consacrata. È quella del politicante che calca le scene argute della commedia greca nel quinto secolo avanti Cristo, che ricomparve oggetto alla satira letteraria, in tutte le epoche, fino ai Rabagas e alle eccellenze dei drammi e delle operette moderne, che fa la delizia dei pubblici odierni nelle riviste clamorose e sollazzevoli.
È la ridda del volgare arrivismo, che si compie sul suo teatro universale, il lurido impalcato del parlamentarismo borghese. Ma le tavole sono tarlate e l’abisso è aperto sotto i piedi degli osceni personaggi della commedia umana, della tragedia di questa agonia di un regime.
Lungi da essi noi seguitiamo sulla nostra traccia sicura. Non è soltanto l’ardore di una fede o la tensione di una volontà che costruiscono la nostra costanza e la nostra tenace sicurezza. È il saggiamento continuo di una incessante riprova, opera che trascende gli atteggiamenti e le attività personali, e che nella sorte di ogni avverso movimento, scuola, sottoscuola, ci riconferma la certezza uscita dalla nostra dottrina, dalla sua elaborazione incessante nel crogiolo della realtà ad opera delle moltitudini che sommovendosi sacrano in essa l’unità formidabile del loro sforzo e vanno, su quella stessa traccia, all’urto finale a cui nulla resisterà.
IL CIRCOLO VIZIOSO
Interpretiamo quello che è successo cercando di tenerci al di fuori dei luoghi comuni della interpretazione parlamentaristica, poiché per noi non è il parlamentarismo l’unico terreno di azione di incontro e di confronto dei partiti e delle forze politiche, anzi è il terreno più equivoco ed ingannevole.
La odierna situazione italiana è tanto più interessante a studiare in quanto è [una riga illeggibile] e legale, e le elezioni non sono che un dato del processo politico in corso, mai più la conclusione o pure l’indice per il definitivo giudizio sui caratteri di tale processo.
* * *
Riepilogando i precedenti, quali si presentano nella interpretazione che costantemente ne abbiamo data, e che vogliamo estendere alla spiegazione dell’ultima recentissima fase, per vedere se seguita a darci luce sui fatti senza da questi ricevere smentite o rettifiche, le elezioni del dopo-guerra costituirono lo sfogatorio del malcontento delle classi proletarie contro i danni e le conseguenze della guerra voluta dalla classe dominante. Il partito di classe avrebbe dovuto avere il compito di precisare ed organare questa tendenza negativa in un indirizzo positivo di programma e di azione. Ma il partito proletario italiano, il partito socialista non era all’altezza di tal compito per la incompleta formazione della sua struttura e del suo tirocinio. Esso adottò un programma rivoluzionario, ma più per necessità di formulare comunque la pressione negativamente rivoluzionaria delle masse, e per la comodità di trovarlo bello e formulato negli eventi della rivoluzione russa, mal compresi per giunta, che per essere intrinsecamente stato capace di dedurlo come una coscienza ed una esperienza matura del suo lavoro passato, da cui aveva solo saputo trarre formule il cui valore risolutivo dei radicali problemi postbellici era zero, come la avversione alla guerra e la intransigenza formale.
Il programma servì al partito a prendere la fiducia delle masse, non a dare a queste qualcosa che aumentasse e definisse la loro potenza di intervento reale nel conflitto sociale politico. Gettato nelle elezioni, il partito abbracciò in modo spaventoso i suoi allestimenti programmatici, e non elaborò altro modo di tradurli in una azione tattica che il loro sventolio come bandiera elettorale.
Colla “valanga” di voti proletari pel partito socialista confluivano la istintiva insofferenza delle masse colla tradizionale loro attività di partecipazione al meccanismo socialdemocratico dei periodi normali. Perciò determinata dalla tremenda crisi in corso le elezioni del 1919 valsero soprattutto ad immobilizzare la aspettazione e lo stesso bisogno di lotta delle masse nell’esperimento elettorale dagli esiti inconsueti – 160 deputati! – e ad esonerare il partito dall’ulteriore travaglio di tradurre per altre vie nei fatti e negli atti le promesse teoriche adottate sotto la stessa pressione reale della situazione e di saggiarle e temprarle [due righe illeggibili].
Tutto ciò, mentre equilibrava la crisi del mondo borghese, portava la crisi nel partito imponendo la scissione di esso. La scissione avvenne come distacco di quella parte che aveva inteso quanto diversa doveva essere la via ed il compito del partito rivoluzionario attraverso il divenire della lotta di classe in Italia.
Il partito comunista ha ripreso, anzi ha continuato la sua opera di minoranza estrema del vecchio partito, nel dare alla preparazione ideale e tattica rivoluzionaria una base di seria consistenza [una riga illeggibile] conseguenze di questo disastroso processo contro-rivoluzionario – contro-rivoluzionario non perché barattasse la carta sicura della rivoluzione, ma per aver sciupate le carte migliori nel giuoco della lotta di classe, perdendo i periodi più utili per la preparazione rivoluzionaria; controrivoluzionario tanto più quanto meglio celava i riflessi disfattisti della sua opera sotto l’orpello delle sue dichiarazioni programmatiche.
Intanto precipitava lo svolgimento della situazione. Abbiamo avuta la reazione fascista, di cui tanto abbiamo parlato per fissarne i caratteri. La classe dominante sente ad un certo punto che il proletariato non è più per essa materia pacificamente amministrabile, docile strumento della attività sociale. Ad un certo punto le masse lavoratrici, anche se ancora incapaci di conquistarsi il loro proprio confacente equilibrio di regime, dimostrano con mille manifestazioni la incompatibilità di funzionare ulteriormente da motore centrale della presente macchina sociale. Il tempo perduto ad organizzare l’offensiva rivoluzionaria, compito specifico del partito politico di classe, che deve perciò possedere, essere giunto a formarsi attraverso passate lotte ed errori, chiarezza di visione storica disciplinata capacità di movimenti, non rinvia la lotta violenta tra proletariato e borghesia che è nelle fatali conseguenze di tutto uno stato di cose insopprimibile, immodificabile dalla borghesia, anche se la pressione rivoluzionaria non la serra dappresso. La borghesia sferra le sue offensive. Questa offensiva ha avuto tra noi protagonista il fascismo.
Ridiciamolo. L’errore grossolano sarebbe credere che questa offensiva abbia per scopo un mutamento dei rapporti istituzionali politici attuali, una menomazione delle forme democratiche. È l’errore dei socialdemocratici derivante dal fatto che essi ammettono che le forme democratiche garantiscano libertà di movimento e di successive conquiste alla massa operaia, mentre è per i comunisti marxisti fondamentale verità che esse garantiscono solo il dominio borghese, e ad un certo punto la classe operaia se vuole respirare deve affrontarle e spezzarle.
Anticipando la lotta, la borghesia non ne modifica l’obiettivo di difendere il regime democratico contro lo sforzo del proletariato di superarne violentemente i quadri e realizzare la sua dittatura; unico terreno possibile nella situazione attuale per le sue conquiste. Come nelle offensive proletarie in Russia e Germania è stato dimostrato dalla storia il nostro teorema fondamentale che la reazione borghese e il regime democratico sono concomitanti, alleando alle forze bianche gli stessi socialisti che credono alla democrazia, contro i comunisti che vogliono distruggerla, così negli aspetti offensivi di questa lotta dal punto di vista borghese il termine del contendere è lo stesso: la democrazia borghese contro la dittatura proletaria.
Alla borghesia non dà ombra la “libera” rappresentanza nel Parlamento della classe lavoratrice; ma solo il fatto che questa possa essere la espressione di forze pronte ad attaccare fuori dal sistema parlamentare, contro il sistema stesso.
Alla borghesia abbisogna volgere in sua difesa le forze politiche ancora attinenti al proletariato, che firmino una cambiale sulla osservanza dei metodi democratici e parlamentari di lotta.
Il fascismo borghese in Italia aveva dunque attaccato per evitare la offensiva antiparlamentare rivoluzionaria, non per sopprimere la funzione dei socialdemocratici nel proletariato, ma per disarmarli da ogni proposito rivoluzionario anche verbale.
Che il fascismo fosse per principio prontissimo a portare la lotta sull’incruento terreno parlamentare, lo dimostra il modo con cui accolse lo scioglimento della Camera, accettando con entusiasmo la battaglia elettorale.
* * *
Dopo la scissione il partito socialista non rinnegò formalmente il programma rivoluzionario adottato, non dichiarò apertamente doversi rinunziare al proposito di usare i metodi violenti per rovesciare l’attuale regime politico e sociale, ma dinanzi all’offensiva fascista diede la parola d’ordine di non accettare la sfida e di lottare sul terreno “legale”. La rinunzia era implicita, in quanto non si invocavano ragioni transitorie e momentanei rapporti di forze, ma ripugnanze di principio del socialismo ai metodi violenti. Delineatesi le elezioni generali il partito socialista le preparò come un mezzo per respingere l’offensiva violenta della borghesia e dare al proletariato la possibilità di riprendere un cammino ascensionale, sul quale non si diceva più che forme di mutamenti sociali si sarebbero trovate. Il partito non ha detto né potuto dire nulla di più preciso sulla via che l’azione elettorale avrebbe dischiusa alle masse. Nel 1919 questa preludeva, almeno nelle chiassose dichiarazioni, alla azione rivoluzionaria extra legale. Iniziata dai borghesi la lotta la si respinge per ripiegare sul terreno parlamentare. Per fare cosa? Per dimostrare che l’offensiva fascista non toglieva al partito la forza elettorale per tenere quelle posizioni. Ma l’offensiva fascista si propone di escludere che esse servano di punto di partenza per una preparazione rivoluzionaria. Riprenderle senza questo valore vuol dire averle perdute, agli effetti dello sviluppo di azione che allora si esibiva alle masse.
È un terribile circolo vizioso che oggi [una riga illeggibile] nel punto in cui fatalmente si chiude su sé stesso. Il fascismo non vuol sopprimere il regime elettorale. Se lo volesse, se veramente impedisse al meccanismo democratico di funzionare, ciò non farebbero che rendere più assurda la linea tattica adottata dal partito socialista: rispondere colla scheda. Se non si può usare la scheda bisogna o ritirarsi colle pive nel sacco o accettare la battaglia con ben altre armi; nell’un caso o nell’altro la formula tattica socialista è ridicolosamente distrutta.
Ma non si è impedito al partito socialista di avvalersi della macchina elettorale. Esso non si è trovato completamente nella condizione di dover dichiarare che rinunziava alla lotta, senza tentare di rispondere colla violenza alla sopraffazione avversaria. Gli è bastato minacciare questo ritiro passivo perché gli avversari, che non solo sono fautori del sistema parlamentare, ma che sono arrivati a capire coma la vera applicazione borghese di questo stia nella partecipazione del proletariato al suo meccanismo, rinunziassero ad impedire sistematicamente l’esercizio del voto, e facessero solo, accentuandolo molto in certe zone, quell’ostruzionismo a base di violenze, di corruzione, di frodi, che, a parte la misura, è una immancabile caratteristica del sistema elettorale.
Il partito socialista ha dato la parola di andare alle urne, promettendo che dalla disciplinata esecuzione di questa parola d’ordine da parte delle masse proletarie sarebbe uscita la migliore risposta al fascismo.
Oggi la risposta ci è stata, oggi che il partito socialista, agevolato dal distacco degli elementi estremisti comunisti, che si sono contati con una disciplina elettorale inconsueta, non colla formula di acchiappar voti ma con regole di opposto effetto – e si sono trovati in numero confortante, ove si tenga conto di tutte le circostanze, e si ricordi che i terni al lotto elettorali sono dal punto di vista proletario e rivoluzionario disastrosi infortuni – oggi che comunque quella cifra di eletti o di voti che secondo l’ultima clamorosa predicazione ufficiale socialista costituisce una forza reale, un decisivo coefficiente di azione politica, è assicurata, con grande loro compiacenza ai signori nostri ex-compagni, essi devono dire che cosa ne vogliono fare.
Poiché, disgraziatamente, ma prevedibilmente, moltissimi voti di lavoratori si sono concentrati sulle liste socialiste, bisogna propagandare questo interrogativo fra quegli elettori.
Le ipotesi sono due. O il partito socialista conserva la visione di una azione rivoluzionaria di classe secondo il programma di Bologna, ed allora esso attendeva il successo elettorale solo per rialzare il morale delle masse, per ristabilire nel proletariato quella capacità offensiva che aveva avuta negli ultimi anni e che appariva perduta, ed allora lo slancio della vittoria doveva essere volto subito in una controffensiva al fascismo.
Il 15 maggio questa si era già delineata. In molte località i proletari, comunisti in prima fila, hanno sostenuto coi bianchi vere battaglie il cui bilancio è stato sfavorevole, per la prima volta forse, a questi ultimi. L’onda di risveglio proletario stava per sopraffarli. Forse, una simile applicazione del rialzo del morale prodotto dalla statistica delle urne, si presentava possibile. Governo, borghesia, fascismo, hanno avuto un attimo di esitazione. Si doveva colpirli. Manipoli di comunisti lo hanno fatto in molti posti, ma la parola era al partito attorno a cui si erano polarizzati i più numerosi voti. Ora i fatti hanno già dimostrato che non era quella la direttiva del P.S.I. Ancora una volta la sua parola è disarmare. Ancora una volta, si può ben dirlo, esso tradisce frenando le masse. Il documento è nell’ultimo proclama della Direzione, in tutti i suoi manifesti che esortano gli elettori proletari a rifuggire da atti di violenza, da manifestazioni troppo appariscenti, a “contenere la gioia”.
Ed allora la direttiva deve esser un’altra. L’uso della forza elettorale il partito socialista deve proporselo su altro piano. Quale? È l’altra ipotesi. Questa ipotesi non ha che un nome: collaborazione.
I socialisti hanno un bel negarlo formalmente. Se alla collaborazione essi non tendono, a quale ulteriore sviluppo dell’azione deve condurre il loro successo elettorale, cui attribuivano taumaturgiche virtù? Sono forse i voti, i mandati parlamentari fine a sé stessi? E se è così, non è in questo un altro inganno giocato alle masse?
I socialisti potrebbero dire che essi lavoreranno per... le altre elezioni. In tal caso essi confermano ancora la loro direttiva socialdemocratica. Ma in tal caso, i fatti confermano ancora che questa direttiva è senza via d’uscita. Il grande successo elettorale esisteva già nel 1919. Il fascismo ne ha rivelato la inconsistenza, dimostrando a luce meridiana che centocinquanta deputati non sono nemmeno una difesa sufficiente per le conquiste del proletariato dinanzi alla violenza bianca. Il proletariato ha risposto rieleggendone quasi altrettanti, sia pure. Ma perché fare? Nulla! il partito socialista risponde! La situazione si era dal punto di vista rivoluzionario tanto invelenita che era necessario questo altro giro nel circolo vizioso. Presto gli operai si accorgeranno dove condurrà il successo elettorale socialdemocratico [alcune parole illeggibili] non si può eternamente girare su sé stessi, i socialisti faranno il gran passo verso la collaborazione borghese.
Il partito comunista è al suo posto. Pronto ad adempiere la sua missione.
Malgrado le vanterie degli acchiappavoti, i fatti lavorano per lui.
PER CHI HANNO
VOTATO I PROLETARI
(Il Comunista, 26 maggio 1921)
I voti raccolti dal partito socialista sono stati in numero assai superiore a quelli del partito comunista, rappresentante della Terza Internazionale. Abbiamo già detto che non piangiamo per questo (naturalmente piangiamo meno ancora perché ci hanno sopravanzati i partiti borghesi) ma ciò non toglie che le cause di questo fatto vadano esaminate e discusse allo scopo di trarne conclusioni utili per la tattica di classe del proletariato.
Lo stesso nostro partito nei suoi manifesti ed appelli elettorali aveva attribuito alle indicazioni delle risultanze elettorali il valore di un indice, aveva detto che il quindici maggio si sarebbero contati i lavoratori che sono per il comunismo, attraverso la dittatura del proletariato e la repubblica sovietista, sul terreno del programma della Internazionale di Mosca. Ma nel parlare di questa consultazione, noi non davamo ad essa un senso maggioritario, come glielo danno i socialdemocratici. Come i comunisti organizzati nelle file del partito non saranno mai che una minoranza dei lavoratori, così gli elettori comunisti non potranno essere una maggioranza finché vi sarà il regime borghese: constatazione tanto poco sospetta, che essa, con il corredo di argomenti teorici e storici ben noti ai lettori della stampa nostra, forma la base della nostra critica al metodo, alla illusione socialdemocratica. Fino a quando le elezioni saranno nel quadro della democrazia borghese, anche la schiera dei proletari che daranno la manifestazione politica di votare per il partito comunista, ossia contro lo stesso sistema democratico borghese, non potrà che essere una schiera di avanguardia.
Appunto perché noi diamo a questa consultazione non il valore di una azione positiva in cui si compendii tutto il contributo che la massa deve portare alla lotta politica, ma il valore di un indizio indiretto della entità delle forze pronte per agire domani su altro terreno; noi non tenteremo mai nella nostra tattica elettorale di aumentare il numero degli elettori a scapito della loro qualità, ossia della loro coscienza di aver abbracciato il programma comunista, nella sua preponderante parte extra elettorale. Per le stesse ragioni per cui gli effettivi del partito comunista in cui si bada alla qualità degli aderenti molto più che nei partiti socialdemocratici e laburisti, saranno sempre inferiori a quelli di questi altri partiti; il numero degli elettori comunisti difficilmente supererà quello degli elettori socialdemocratici. Deve anzi ritenersi che il numero dei simpatizzanti non organizzati nel partito sia di molto minore proporzionalmente per i comunisti che per i socialdemocratici: di qui una doppia ragione di diminuzione.
Quindi mentre il numero degli elettori comunisti, così come quelli degli iscritti al partito, aumentando indicano senza dubbio un incremento della forza rivoluzionaria del partito, a condizione che non si consegua l’aumento attraverso opportunistiche attenuazioni e concessioni, quando si pone la questione come un confronto tra i voti comunisti e quelli socialdemocratici bisogna fare considerazioni più complete, tenendo conto che il numero dei comunisti iscritti al partito, e il più largo campo degli elettori comunisti, nel momento di azioni non parlamentari, ma direttamente rivoluzionarie, vedranno venire attorno ad essi gran parte delle masse immature che nell’agone elettorale si lasciano irreggimentare dai socialdemocratici.
Premesse queste considerazioni generali, vediamo quale grado di sviluppo rivoluzionario delle masse italiane possa desumersi dal fatto che, nella lotta politica in generale, una parte preponderante di esse si lascia dirigere dal partito socialista.
* * *
1 - Si tende a far apparire questo dato sconfortante per il comunismo partendo dal confronto colle elezioni del 1919 e valutando l’enorme messe di voti allora mietuta dal partito socialista, non ancora scisso, ed aderente alla Terza Internazionale. Non abbiamo bisogno di ripetere le ragioni che dimostrano come solo in apparenza quella lotta fosse impostata su di un programma massimalista; come il partito non fosse divenuto comunista che nell’etichetta, comprendendo esso una notevole corrente apertamente avversa al comunismo, ed una maggioranza che intendeva il comunismo in modo insufficiente da mostrare all’evidenza che era destinata a chiudere quella breve parentesi demagogica per rivelarsi, come oggi ha fatto, intimamente socialdemocratica.
La lotta dette una gran parte di deputati riformisti e pseudo-massimalisti; magna pars di essa fu la riformista Confederazione del Lavoro, il partito vi lavorò con tutto il tradizionale metodo e le tradizionali risorse socialdemocratiche, senza esigere che la propaganda fosse impostata su di un programma preciso e costante; soprattutto esso fece gravitare la lotta sulla questione della guerra sfruttando, anche presso elementi, non solo non massimalisti, ma perfino non proletari il suo passato di opposizione ad essa. Il partito socialista riuscì allora abilmente a [prendere] i voti dei proletari tendenzialmente rivoluzionari – ma la cui tendenza meritava di essere coltivata seriamente anziché imbastardita in quell’orgia di demagogia – con quelli di tutti gli elementi indecisi di classi intermedie, tendenti per logica di cose alla politica socialdemocratica. I fatti posteriori, gli stessi che hanno condannato l’azione del partito dimostrandola non rivoluzionaria, hanno data un’idea del significato delle elezioni del 1919, hanno provato come esse, e in esse il trionfo socialista, furono una via di salvezza per la borghesia italiana; lungi dal poter essere accolte, non solo come un assalto rivoluzionario, ma nemmeno come un indice di forze rivoluzionarie in via di sicura preparazione a maggiori e più decisive lotte.
2 - Nelle elezioni del 1919 e in tutta la sua azione il partito socialista paralizzò la formazione nelle masse di una coscienza comunista, suggestionandole del democratico concetto “maggioritario” – mettendo nell’ombra tutte le esigenze della preparazione come valori individuali e collettivi di alimento teorico e pratico dinanzi alla necessità di “essere in molti”; molti nel partito, nei “fortilizi proletari”, nelle elezioni, con la formula dell’unità a qualunque costo che non era unione per raggiungere con sforzi veramente concordi uno scopo comune. Le elezioni stesse col loro risultato e le successive amare delusioni del proletariato avrebbero dovuto disonorare questo concetto “maggioritario”; ma questi processi tra le masse avvengono lentamente: e perciò il movimento socialdemocratico è dovunque il più efficace espediente controrivoluzionario. I 156 deputati, e poi comuni e province a bizzeffe, che recavano invece dell’accelerazione rivoluzionaria il raffreddamento ed il rinculo. Quale lezione della storia! Ma se il partito, se i bollenti massimalisti di Bologna non l’hanno capita che nella loro minoranza, era assurdo pretendere che, prima di altri intrinseci sconvolgimenti e ripercussioni sulla reali situazione delle masse, lo potessero intendere vasti strati del proletariato.
Il fenomeno fascista, sanamente inteso, non è che una conferma evidente dell’illusionismo contenuto in quel concetto “maggioritario”, o, mi si perdoni la parola, “numeritario”. Basti pensare che esso ha maggiormente infierito dove più sono stati gli allori numeritari (contate i deputati, i consiglieri provinciali, i comuni socialisti nel ferrarese!) e arretra là dove, come nel mezzogiorno, credeva di essere senza alcuno sforzo il padrone. Ma invece l’appello del partito socialista italiano a debellare il fascismo a colpi di schede, di numeri, ha avuto ancora fortuna, dopo la scissione di Livorno. Logicamente, se il partito nulla aveva fatto per seriamente estirpare dai suoi seguaci il miraggio tradizionalmente legalitario, e se le sue declamazioni estremiste non avevano nemmeno intaccato l’allevamento del microbo parlamentarista che è la sua funzione essenziale, esso ha potuto, senza perdere tutti i suoi seguaci, fare questa mirabolante conversione nei suoi atteggiamenti esteriori (che nella sostanza nulla è mutato) passando da una falsa maldigerita predicazione antidemocratica alla esaltazione dei metodi legali di azione.
Indubbiamente il proletariato italiano ha creduto ancora che il numero delle schede e dei deputati fosse un presidio e un’arma di classe contro il prepotere dell’avversario. La propaganda comunista non aveva avuto né il tempo né la possibilità di disonorare questo concetto ignominioso e cretino: troppo si è permesso che l’opportunismo del massimalismo schedaiolo avvelenasse le coscienze e sciupasse le situazioni, prima di gridare apertamente a coloro l’epiteto che meritano: traditori! Ed allora si spiega come molti proletari dovendo scegliere tra l’efficacia del loro voto dato ai comunisti e quello del voto dato ai socialdemocratici abbiano ragionato così: da una parte si chiede il voto ma gli si nega ogni valore intrinseco; dall’altra gli si attribuisce, nel gran numero, un valore decisivo; e si è sulla via di accumulare molti di più: votiamo per la seconda, per i socialisti.
Certo questi proletari non sono comunisti, e non è male che non abbiano votato per noi. Se appena noi avessimo nelle evidenti e palpabili previsioni (in qualche punto è avvenuto) raggiunto una certa forza “numeritaria”, la valanga sarebbe piovuta sulle nostre liste, concorrendo con la convinzione istintivamente rivoluzionaria dell’elettore la mania “numeritaria” di contarsi in molti, di battere, sull’innocuo terreno dei verbali e dei computi, “la borghesia”. Auguriamoci che questa disgrazia non ci capiti mai. Tutti questi elettori proletari hanno voluto così fare l’esperimento di un metodo che sufficienti elementi hanno di già sfatato. Può essere deplorevole che occorresse ancora una prova ma è così. Quello che la convinzione antidemocratica perderà in prontezza, lo guadagnerà in profondità e potenza. Chi scrive non ha mai creduto che il migliaio di buffoni che sbraitano nel congresso bolognese e in tante altre adunate le divertenti formule di un rivoluzionarismo anarcoide e scomposto avessero in tasca, anziché la medaglietta, il “babau” della rivoluzione in quindici giorni.
3 - Occorre appena ricordare le ragioni per le quali il partito comunista non ha potuto spiegare tutte le sue forze contro questo miraggio. Anzitutto questo lavoro di propaganda critica non si fa durante la campagna elettorale. Durante la campagna elettorale si rubacchiano voti, e non si fa null’altro di buono e di utile, se non preesiste una salda preparazione antecedente di partito nel campo della propaganda e del disciplinamento delle proprie forze. È un risultato enorme aver fatto le elezioni, prendendo i voti che decentemente si potevano e dovevano prendere, senza avere imbastardito tutto l’apparato del lavoro in corso e la chiarezza dei nostri orientamenti teorici e tattici, senza renderci prigionieri di illogiche situazioni.
Ricordiamo appena che avevamo un partito in costituzione, fatto di astensionisti tanto convinti quanto disciplinati e di elezionisti... che si cominciavano a pentire di aver disciplinato i primi. L’inquadramento delle masse da parte del partito è un lavoro formidabile, che si fa in moltissimi campi, dall’azione sindacale agli scontri di piazza, che nelle elezioni si constata, ma non si sviluppa. Soprattutto siamo sicuri, per la stima che abbiamo del partito, che esso non intravede il suo compito avvenire nella facile prospettiva di un ascendere di statistiche elettorali; ma si augura di esser lasciato svolgere la sua opera di preparazione, così aspra e difficile, prima che una nuova elezione sopravvenga a ripetere il rischio di sviare in essa tutte le energie. Se sopravvenisse, faremmo lo stesso il nostro dovere, lasceremmo lo stesso senza sollecitazioni il morboso prurito “numeritario”...
4 - Le dettagliate comunicazioni che farà l’Esecutivo mostreranno come l’esito della lotta ha corrisposto alle previsioni, tenendo conto di varie circostanze che vi hanno influito. I deputati comunisti sono su per giù il numero di prima. Non si può tenere a base del numero degli eletti – nel confronto col partito socialista – il numero degli aderenti al partito quale risultava al congresso di Livorno. Noi avevamo i voti di un terzo del partito; mentre i nostri deputati furono, giusta un’antica regola, che dà sempre meno deputati alle tendenze di sinistra, un settimo (18 contro 132) di quelli unitari; proporzione che le elezioni hanno conservata quasi esattamente. Ed è logico che il partito socialista abbia più larga schiera di simpatizzanti, per le ragioni accennate. Inoltre, come molti unitari riconoscono apertamente (vedi intervista Canalini sull’Ordine Nuovo) la secessione comunista ha fatto guadagnare al partito socialista molti voti a destra. Se si tiene conto dell’astensione di moltissimi operai rivoluzionari, si vede che il rapporto dei voti proletari, e di seguito proletario soprattutto, tra noi e i socialdemocratici, anche per questa considerazione non può essere desunto da cifre elettorali.
Si aggiunga che la nostra politica è stata di non cercare i voti delle masse operaie sindacaliste ed anarchiche, molti dei quali con accorte manovre si sono attirati proprio i socialdemocratici. Per essi è buono il voto di un borghese che attende da Turati la salvezza dell’Italia, come quello di un operaio anarchico il cui astensionismo cade dinanzi al miraggio piccolo borghese della candidatura-protesta. Noi abbiamo chiesto ed avuto il voto di coloro che sono sulla precisa linea del programma comunista.
5 - Non poco hanno influito le abili risorse dei socialdemocratici. La loro ipocrita condotta è stata già da noi denunziata: tutti i giornali del nostro partito ne pubblicano particolari ripugnanti. Anziché battersi lealmente nei contraddittori di idee e di metodi, i signori socialisti hanno ostentato di non volere la lotta fratricida per mettersi in buona luce innanzi alle masse e celare sempre più i termini della loro defezione dalle direttive rivoluzionarie; ma all’ombra hanno sparso le voci più sfrontatamente false e diffamatrici, hanno diffuso false notizie di ritiro delle liste comuniste all’ultima ora: hanno influito sulle masse ignare dicendo loro che votando per i comunisti “il voto andava perduto” ecc. ecc. Da parte nostra si è risposto con metodi molto più sani, se pur meno adatti all’immediato successo di popolarità, con attacchi diretti ed aperti, anche violenti, ma a visiera alzata.
Ecco alla luce di quali considerazioni va giudicata la enorme differenza di voti tra socialisti e comunisti. È una indagine che ci preme solo perché ci preme seguire lo sviluppo della coscienza politica del proletariato verso il comunismo, non già per sciocche recriminazioni o dispiacere di non aver avuto maggiore successo elettorale.
Che anzi il nostro obiettivo resta quello di misurarci con i socialdemocratici su altro terreno, e siamo ben certi che le situazioni che si preparano staccheranno da loro completamente le masse rivoluzionarie, malgrado tutte le loro menzognere risorse e tutte le speculazioni sul passato colle quali cercano di ottenebrare la chiara impostazione dei problemi dell’oggi. Il gran numero di voti avuti dal partito socialista italiano è per noi, alla stregua della critica marxista, un nuovo indizio che comprova come esso sia un apparecchio pericolosamente antirivoluzionario. Se i comunisti credono che la nostra sconfitta numerica sia stata cosa di cui occorra consolarsi; e se per consolarsi si compiacciono delle larghe votazioni dei socialisti, ad essi – previa l’osservazione che dei fatti è poco compiacersi o dolersi, che bisogna intenderli per servirsene nell’azione ulteriore – le nostre sentite condoglianze.
Ma abbiam ragione di credere che sono assai pochi.