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La pandemia, estesa in tutto il pianeta, sta avendo un effetto anche psicologico sia sui maîtres à penser sia sul normale cittadino, a qualunque classe appartenga. Una società che un tempo si vantava di aver risolto tutti i suoi problemi, con un futuro luminoso di progresso e di benessere, si scopre vulnerabile a un invisibile quasi-organismo, incapace di muoversi e di fare alcunché al di fuori del riprodursi quando si trova nelle condizioni adeguate, nel corpo umano.
L’attuale pandemia è solo uno dei tanti aspetti del divenire dell’ambiente in cui l’uomo vive. Ma è un “degrado” che ha origini antichissime, dalla rivoluzione del neolitico, con la nascita dell’agricoltura, poi delle città e delle società di classe.
Sarebbe da fare la storia parallela delle società di classe e della diffusione delle malattie, istruttiva sull’attitudine dell’uomo nei confronti dell’ambiente che lo circonda, finché questo ha finito per essere considerato appannaggio esclusivo, quasi creato apposta per il godimento umano, credenza confortata e alimentata dalla cultura politica, religiosa, scientifica.
L’epidemia da Covid‑19 si potrebbe definire una super influenza. I virus sono forse la forma di malattia più comune e persistente nella storia naturale. Si originano tra gli animali, che spesso li tollerano, i quali poi li trasmettono all’uomo, con conseguenze di varia gravità. Mutano con estrema facilità e rapidità, con il formarsi di ceppi sempre nuovi. Di solito il tasso di mortalità è basso, l’1% o meno, i più vulnerabili sono i giovanissimi e gli anziani. Purtroppo aver contratto l’influenza non garantisce l’immunità, proprio a causa della facilità di mutazioni.
Le prime menzioni di influenze risalgono al 1510, e agli anni seguenti del secolo; nel Seicento furono meno presenti, ma riesplosero nel Settecento. Nel secolo successivo vi furono tre importanti epidemie: 1830, 1833 e 1889.
Ma quella più grave si ebbe nel 1918, alla fine della Prima Guerra Mondiale. Fu trasportata in Europa dalle truppe americane ed ebbe più ondate nei due anni successivi. L’80% delle perdite nell’esercito degli Stati Uniti fu dovuto a questa influenza, incorrettamente chiamata spagnola. Si diffuse in tutto il mondo, dall’Artico alle isole del Pacifico. Data l’epoca fu resa più mortale dalle condizioni di scarsa alimentazione nei ceti poveri e di promiscuità fra le truppe nelle trincee. Ma la causa più importante dell’enormità del contagio (le stime più recenti oscillano tra i 50 e i 100 milioni di decessi nel mondo, quando la popolazione era un quarto di quella attuale) fu la mancanza di informazione, per il segreto militare, che fece ritardare le misure di contenimento, che, allora come oggi, consistevano nell’evitare i contatti e nelle mascherine. Uno dei tanti crimini della borghesia, più attenta ai suoi obiettivi di business o militari (che poi sono la stessa cosa) che alla salute delle classi povere: un proletario si rimpiazza, un profitto mancato no.
Quel virus fu identificato nel 1933, e tutte le pandemie successive nel secolo scorso (meno una) furono sue mutazioni: 1933, 1957, 1968, 1977. I decessi in quelle occasioni non furono di portata catastrofica. Forse è per questo che i governi non hanno dato molta importanza all’apparire del Covid‑19.
Questo potrebbe valere per il primo Paese che ha visto manifestarsi l’epidemia, anche se il ritardo è stato la causa principale del veloce contagio. Non perdonabile è stato il comportamento degli altri Paesi, Italia in testa, seguita nella stessa indifferenza da Spagna, Francia, Regno Unito, USA, ecc. Per la borghesia l’arresto della produzione significa perdita di profitti, e soprattutto il rischio di vedersi soppiantata sui mercati dai concorrenti. Per questo è pronta a far scoppiare guerre, immaginiamoci se si ferma davanti alla morte di qualche migliaio di uomini.
Tra l’altro sono quasi tutti anziani. Tutte pensioni risparmiate di vecchi lavoratori e che non graveranno più sull’assistenza sanitaria! L’ideale per la borghesia: il proletario che va in pensione e presto muore. Di fatto che la durata della vita media si prolungasse troppo è stato uno dei principali crucci degli Stati, che da tempo hanno iniziato a ritardare l’età del pensionamento.
A livello locale i comportamenti degli “amministratori” non sono stati lontani dallo sterminio programmato, con l’inviare malati ancora contagiosi nelle case di riposo, con i ritardi nell’adottare misure di sicurezza e nel fornire i presidi sanitari necessari. Oltre che nel concedere alle aziende di non interrompere la produzione e di riaprire alla svelta le fabbriche.
D’altronde il governo è lì perché ce l’ha messo la borghesia, non certo per la “volontà del popolo”, che col voto può scegliere solo fra dei servi dei padroni, ed è la borghesia che comanda, e pretende di essere ubbidita.
D’altra parte, siamo realisti, un proletario morto si sostituisce con facilità, ma questa società senza profitti muore.
E la sanità i profitti li dà solo ai privati, il pubblico è un peso, che ogni anno viene falcidiato. E massimamente quei presìdi, come i posti per terapia intensiva, quelli che salvano le vite, che costano molto e rendono poco, infatti sono quasi assenti negli istituti privati, e si sono dimostrati insufficienti nel pubblico, al punto che spesso, forse più di quanto si sappia, il medico ha dovuto scegliere tra chi doveva vivere e chi morire.
Una società spietata e criminale, non migliore di quella descritta da Engels e da London, tal quale nel Sud del mondo, ma dominata dalle stesse leggi economiche anche nel “ricco” Nord.
È facile individuare la responsabilità della diffusione delle pandemie moderne, come di tutte le minacce alla stessa sopravvivenza della specie umana nel mondo. Il modo di produzione capitalistico non si pone l’obiettivo di garantire il bene di tutta l’umanità, in una lunga prospettiva, senza esaurire le necessarie risorse, conservando quelle ricchezze ambientali che la sua sopravvivenza garantiscono.
Il capitale è invece cieco nei confronti di tutto se non del suo continuo incremento e accumularsi; quello che conta è realizzare un profitto. A questo scopo il capitale, che non è un unico corpo ma una collettività di aziende, di “corporations”, e anche di individui, non si ferma davanti a nulla, vede solo quel particolare processo di riproduzione del capitale, che si deve realizzare ad ogni costo, abbattendo tutti gli ostacoli che si presentano. Il capitalista è solo, e si pone contro tutti, in primis gli altri capitalisti, nazionali ed internazionali, e contro i proletari, che devono produrre quel plusvalore che gli consente di accumulare ricchezza, destinata ad ulteriore capitale. Non vede altro che questo scopo, e se ne frega di tutto il resto.
Si tratta di un sistema di produzione del tutto anarchico: chiunque è libero di farsi prestare del capitale, creare un’impresa, assumere operai, consumare materie prime; se poi qualche volta va male, pace: che si siano distrutte risorse preziose non è problema suo. Questo modo di essere del capitale, più che di tutte le precedenti società di classe, ha sempre causato danni catastrofici ma, esteso a livello planetario, come è avvenuto nel corso del secolo XX, ha comportato conseguenze spaventose che oramai non possono più essere negate, se non da qualche capo di Stato ad uso del teatrino elettorale.
Il primo mito, ormai sfatato, è quello del crescente benessere. La fame nel mondo non è diminuita: nonostante un alto livello di produttività agricola un miliardo di esseri umano è sottonutrito, compresa parte della popolazione delle metropoli occidentali, e le cifre sono in aumento. Eppure la produzione c’è, la FAO stima che viene prodotto abbastanza per sfamare 9 miliardi di uomini. Peccato che buona parte di essa sia persa per sprechi dovuti a vari fattori, tra i quali l’alimentazione irrazionale nei paesi ricchi, responsabile di una buona percentuale di malattie e decessi, e le scarse attrezzature per la conservazione delle derrate nei paesi poveri.
Il modo di produrre alimenti si intreccia ad altri problemi ambientali gravi: l’alimentazione a base di carne è causa di molte malattie mentre un vitto più bilanciato con alimenti vegetali sarebbe salutare. L’allevamento è inoltre responsabile della deforestazione per fare spazio ai pascoli e oramai il 70% delle terre è coltivato per la produzione di mangimi, foraggi, ma anche mais e soia e altri. Ma soprattutto, la capacità di un ettaro di terreno coltivato per l’alimentazione umana diretta è di dieci volte superiore a quella di un ettaro coltivato a foraggi poi trasformati in carne.
Questi non sono incidenti sul percorso dell’economia capitalista ma il suo modo di esistere. Non sciagure casuali ma inevitabili o perfino necessarie a questo sistema di produzione, che non potrebbe vivere senza di esse.
Quale il futuro? Di fronte all’evidente fallimento del capitalismo è chiaro ormai a tutte le classi, in un clima quasi da apocalisse, che occorrono soluzioni di grande respiro, che risolvano alla radice tutti i problemi. Gli intellettuali, per definizione illuminati, sebbene ben retribuiti dalla borghesia lanciano alti lai contro l’egoismo di questa società. Smettiamo di seviziare la natura! Occorre una diversa economia! Meno ingiustizia sociale! Più sanità pubblica, meno privata! No al lavoro nero! No all’evasione fiscale! Ci vuole una fratellanza fra gli Stati e le nazioni! Una rivoluzione culturale!
Come no? Ma il problema è: si pretende tutto questo, ma compatibilmente con la conservazione del modo di produzione capitalistico e dei privilegi di borghesi e fondiari. Qualcuno pensa forse che sia possibile convincere la classe internazionale dei capitalisti a sacrificarsi per il futuro del genere umano, fargli sgranare gli occhi e dire: perbacco, non ci avevamo pensato, dai, facciamolo!
Il borghese ha una sola religione, quella del profitto, senza vede solo morte e disperazione. Non solo la produzione non si deve fermare e i profitti non devono diminuire, la sua condanna è invece la ricerca di un continuo aumento della produzione, per mantenere gli stessi profitti, queste le elementari basi economiche del marxismo. Non basta la produzione, occorre lo sviluppo: tutto deve crescere, la produzione di merci e il loro smercio. Per questo la borghesia è pronta a ben altro che lasciar diffondere le pandemie, che comunque colpiscono prevalentemente le classi più povere; le stanno bene le guerre, anche le più estese, le sta bene lo sfruttamento spietato di manodopera anche infantile, le sta bene distruggere l’ambiente. Il profitto ci sarà domani, gli effetti sull’ambiente, si può sperare, dopodomani! quindi al capitalista cosa importa? D’altra parte, obietta, se io smetto di produrre e di fare profitti, lo farà qualcun altro.
Il che è vero, infatti il comunismo non è una questione aziendale.
Come può un mondo finito ospitare un sistema socio-economico che non può non accrescersi all’infinito?
I comunisti dicono: il capitale, da più di un secolo in occidente e oggi ovunque, è vissuto ben oltre il tempo che la storia gli ha assegnato, grazie a guerre, disastri, imbonimenti religiosi e “mediatici”, ineguale sviluppo che ha fatto credere a fasce di popolazione, in non pochi paesi, che la tavola era imbandita anche per loro.
È ormai possibile, a portata di mano una società in cui, scordato ogni conteggio di prezzi e di profitti, un organismo tecnico regolerà la produzione in funzione di quello che servirà, senza eccessi, senza sprechi, senza produzioni inutili. Ognuno parteciperà a tutte le attività senza costrizioni, in virtù di una coscienza sociale profonda e diffusa.
Anche la predisposizione di difese, preventive e curative, contro le epidemie sarebbe cosa ovvia e facile.
Quella società si chiama Comunismo.
Ma la borghesia, che di quei profitti vive, è ben armata nei suoi Stati, e non cederà mai il potere senza combattere. Per questo dai tempi di Marx sappiamo che la classe operaia dovrà ingaggiare l’ultima guerra per la società nuova. È per questo che la storia ha prodotto il Partito Comunista, l’unico capace di guidare le forze proletarie alla vittoria, e alla comunità di specie senza classi.
La crisi economica ha preceduto la diffusione del virus
L’evento straordinario che l’epidemia in atto ha significato per l’intero mondo capitalista – oltre ad effetti drammatici per l’esistenza quotidiana delle plebi diseredate, dei proletari e delle mezze classi dei paesi industrializzati, che scivolano verso il basso della piramide sociale – si innesta nel lungo processo che, tra alti e bassi, riprese e ricadute, travaglia da oltre un decennio produzioni e consumi mondiali e si riflette nel tormentato corso della finanza, specchio deformante della crisi che si genera, come ha stabilito la nostra dottrina, nell’ambito della economia reale.
Anche prima della comparsa dell’epidemia le economie mondiali, e in specie quelle europee, erano in una pesante condizione di deflazione, che poteva condurre ad una situazione generalizzata di recessione. E questo malgrado tutte le manovre di politica economica finanziaria, tassi a zero e Quantitative Easing, “alleggerimenti quantitativi”, che dall’ultimo grande evento del 2008 non sono mai cessate.
L’epidemia si è sviluppata con rapidità, e perdura, oltre le aspettative dei governi, per i sistemi produttivi, che si trovano in evidente e grave difficoltà per la caduta dei consumi, per le difficoltà crescenti di riprendere il commercio internazionale, mentre d’altro canto solo il capitale finanziario ha totale possibilità di movimento, tutti fattori che rendono poco definiti i tempi della crisi strisciante in atto, ma di sicuro la stanno aggravando velocemente.
Per fornire un quadro dell’andamento del capitalismo occorre quindi dare una stima sia pure semplicemente qualitativa degli effetti che una crisi esogena, proveniente dall’esterno del meccanismo di produzione-consumo-accumulazione, induce sul processo mortale di crisi endogena, intrinseco al sistema del profitto. In altre parole avere chiaro se, passata la fase attuale di pandemia, il capitalismo sarà in grado di riassorbire, in quali tempi ed in quali modi, gli effetti che si stanno mostrando dirompenti, tanto per il suo funzionamento quanto per le condizioni delle classi e mezze classi e in generale di tutti gli strati sociali.
Per la nostra dottrina è scontato che il corso del capitalismo si indirizzi verso un esito irrimediabile: già il processo esploso nel 2008, con la manifestazione esteriore più violenta nella sfera della finanza, è stato seguito da riprese e poi nuove cadute ma non si è mai definitivamente chiuso. Ci sono molti fattori che concorrono a definire il quadro economico, sociale e politico. Per il Partito quello fondamentale è costituito dagli effetti che la combinazione della crisi propria del capitalismo e questa proveniente “dall’esterno” ha ed avrà sul corpo sociale tutto, ed in ispecie sul proletariato, quello alla produzione e quello espulso dal ciclo; e come si abbatterà sulle mezze classi e su tutta la compagine della popolazione.
Un sistema bancario in forte tensione
Un punto è chiaro: uno dei pilastri del capitalismo è il sistema bancario, ufficiale e “ombra”, come è definito quello, pur legale, non direttamente regolato da disposizioni e leggi specifiche. La sua sofferenza è il manifestarsi della sofferenza del capitalismo e da quella deriva, più che dalle crisi finanziarie che coinvolgono con cifre stratosferiche l’aspetto esteriore del capitalismo. Anche se è palese che la produzione del plusvalore è legata a banche e a finanza e che quella non può prosperare senza che queste funzionino a dovere. Le cosiddette “bolle” che hanno tormentato il corso finanziario derivano proprio dal prevalere della finanza speculativa sul processo di realizzazione del plusvalore prodotto, che il sistema bancario, ufficiale e ombra, non è riuscito a mantenere nel ciclo capitalistico denaro-merce-denaro.
In anni si sono susseguite tante manovre finanziarie effettuate dalle banche centrali con le loro sigle esoteriche, dal QE, “inventato” negli USA, al TLTRO europeo in poi: tutte manovre nella sostanza consistenti nell’acquisto di obbligazioni ed altri asset similari per calmierare il sempre crescente debito delle imprese e degli Stati. Ma non hanno mai invertito la flessione delle produzioni e il corso della crisi; l’hanno sedata, controllata fino ad oggi, ma non risolta.
I loro bilanci sono giunti a cifre enormi: la FED è al 29% del PIL americano, la Banca del Giappone arriva al 111%, la BCE all’80%.
Ma i “mercati”, le quotazioni in Borsa, sono vicini ai massimi del decennio, dopo un crollo del 30% della Borsa USA all’inizio della pandemia. In questo non c’è contraddizione, la forma più mistificata del capitalismo vive e prospera proprio di quella “droga” che le Banche Centrali stanno somministrando a un sistema moribondo. Qualunque altro mercato che non fosse quello della finanza sarebbe crollato sotto una crisi da “fine ciclo”, come la chiama qualche autore in vena di pessimismo, con la più grave caduta del prezzo del petrolio che la storia recente ricordi.
Le ricette impiegate dal 2008 ad oggi sono tutte del medesimo tipo, imperniate nell’ambito della finanza. In tempi recenti si è riscoperta la vecchia pratica con un nuovo nome, “monetizzazione del debito”. È una misura estrema, che non tutti gli Stati possono impunemente mettere in atto, destinata alle economie più forti, dove le autorità monetarie, Tesoro e Banca Centrale, possono permettersi di emettere debito da una parte e ricomprarlo dall’altra: Stati Uniti, Giappone, e anche la Banca d’Inghilterra, che ha “eccezionalmente” autorizzato questa misura estrema.
Irrazionalità del capitale
Si sente dire che il motivo per cui il PIL cresce sempre meno a fronte di un “debito” sempre più crescente, è che questo debito in larga parte è usato per fare finanza “a leva” e non è investito nell’economia “reale”. Solito argomento, rimasticato da tutti i critici, di una presunta forma attuale totalmente finanziarizzata del capitalismo; teorici del capitalismo razionale, studiosi di economia piccolo borghesi, moralisti che sognano un capitalismo puro, moderato, senza sfruttamento, disciplinato da regole di ferro, un capitalismo che opera per il bene dell’umanità, e solo in secondo luogo per il profitto.
Noi comunisti rivoluzionari leggiamo invece in questo debito spaventosamente crescente l’inesorabile procedere della legge mortale intrinseca del capitalismo, la caduta tendenziale del suo saggio di profitto.
Questo risultato decisivo della nostra dottrina non è in contraddizione con la spiegazione formale che ne danno tante scuole borghesi, che si fermano però alla superficie del fenomeno economico, avendo del tutto eliminato ogni analisi del concetto di valore nell’economia capitalistica.
Se è per noi certo che la fase recessiva del ciclo capitalistico non può essere invertita, sicuramente gli effetti negativi derivati dall’imposizione delle misure di contenimento dell’epidemia non possono che accelerarla. Infatti le soluzioni che le autorità monetarie e politiche borghesi prendono per rallentare o invertire il processo già mostrano effetti peggiorativi sul corso della crisi, pandemica ed economica.
Quello che si evidenzia con forza dirompente, tanto per il drammatico peso sociale quanto per la chiara indicazione dello stress produttivo, è l’aumento fuori controllo della disoccupazione alla scala mondiale. Questa è una caratteristica saliente delle crisi capitalistiche ad un livello avanzato, ora accentuata dal blocco produttivo innescato dalla pandemia e correlato allo stato asfittico di settori chiave, l’edilizia, la siderurgia, il comparto automobilistico e quello dei servizi, fondamentale per gli Stati Uniti e per i paesi a forte caratterizzazione turistica. Del pari il settore cruciale dell’estrazione petrolifera, che era già in stato di crisi anche prima della pandemia, risente in modo pesantissimo della contrazione industriale, e, alla data di questo scritto, non riesce a salire oltre la soglia minima di prezzo che consenta un minimo di redditività all’industria dell’estrazione da scisti e mette fuori mercato quel genere di petrolio su cui gli USA fondano il primato estrattivo. Anche se il prezzo del petrolio americano ha leggermente recuperato, passata la scadenza dei futures che ne aveva portato il prezzo sotto lo zero, e i listini mostrano lievi segni di risalita, rimane il dato spietato di un crollo che segna un’epoca.
Crollano i consumi
Degne di nota sono alcune osservazioni ufficiali sulla “moderazione” dei listini dei prezzi industriali che hanno condotto ad una tendenza al ribasso con i prezzi tornati, ci dicono, ai livelli di fine 2014-inizio 2015, un periodo contraddistinto da tendenze deflattive diffuse a livello internazionale. Una contrazione però superiore ai minimi raggiunti nelle due ultime “crisi parziali” della metà del 2009 e fine 2012.
A questi fattori si correla, in piena linearità con la disoccupazione, l’aumento non sanabile del debito delle famiglie e la conseguente caduta dei risparmi, mentre negli USA da tempo le famiglie vivono in larga parte sul debito. Il che induce una fortissima contrazione dei consumi e non permette di sostenere le economie nazionali, soprattutto nella fase cruciale della tentata ripresa della produzione sui livelli precedenti alla pandemia,
I dati, pubblici e conosciuti, certificano una forte contrazione dei volumi di scambio internazionali, in una perversa, dal punto di vista del capitalismo, retroazione positiva che tende ad amplificare la fase depressiva.
L’Istat, nella nota di marzo 2020, riferita ai dati di gennaio, evidenziava tanto la forte diminuzione del commercio mondiale quanto il crollo, sempre alla scala mondiale, del valore dei nuovi ordini all’export per febbraio e marzo. L’Istat segnalava che gli indicatori economici mostravano una netta diminuzione del PIL dei vari paesi, come poi è stato dichiarato ad aprile inoltrato dal FMI. In queste condizioni se si fosse prolungato lo stato di eccezione è certo che molte aziende non avrebbero potuto sopravvivere alla chiusura, anche se non poche avevano continuato a produrre, sia pure in termini ridotti per un mercato assolutamente asfittico.
Questo si accompagna ai rischi per i lavoratori alla produzione materiale che non possono accedere al tanto celebrato “lavoro intelligente” da casa ma devono, nelle galere capitalistiche, stare fianco a fianco per le esigenze della produzione, alla faccia dei “dispositivi di protezione individuale”, già comunque variamente disattesi per le superiori necessità della produzione, se non addirittura disapplicati ope legis per comparti definiti “strategici”.
Non c’erano dubbi che la situazione di blocco, anche parziale, non avrebbe potuto continuare oltre. Anche in condizioni di epidemia non completamente sotto controllo l’inesorabile alternativa borghese, del tutto legittima dal punto di vista del sistema della concorrenza, è: meglio morire in tanti di malattia piuttosto che disgregare il sistema delle galere capitalistiche che, con cinismo, comporterebbe “morire di fame”. Questo è il mondo che il capitalismo e la classe che lo rappresenta offrono all’umanità. Ben lo sanno, i borghesi ed i capitalisti, che fermare l’inumana giostra della produzione e del profitto significherebbe spezzare il meccanismo dell’accumulazione. Il loro terrore non è l’epidemia, ma che si aggravi la fase recessiva che da oltre un anno travaglia il capitalismo.
Debolezza delle banche
Il sistema bancario pare soffrire per la stessa contrazione di quello produttivo e non è capace di mettere a disposizione capitali per nuovi investimenti o per il sostegno alle imprese che hanno subito i gravissimi effetti congiunturali della pandemia. È una contraddizione del capitalismo finanziario. La Banca dei Regolamenti Internazionali, scrive in un recente bollettino che il sistema bancario nel suo insieme, al di sopra delle riserve di liquidità che per regolamento deve detenere, mantiene una riserva di oltre cinque migliaia di miliardi di dollari. Non è una cifra particolarmente alta, ma parrebbe in grado di sostenere la fase di ripresa. Però, se quello è sì un capitale accantonato in eccesso rispetto ai minimi previsti per legge, le banche non sono in grado o non vi vogliono attingere, sia per il loro stato patrimoniale, che evidentemente non è così in buona salute malgrado tutte le riserve, sia perché non hanno globalmente fiducia nel sistema produttivo, e non intendono rischiare.
Nella situazione pre‑pandemia negli USA il canale bancario finanziava per meno del 15% l’economia “reale”, mentre in Europa la percentuale sale al’80%. Però le banche europee hanno più di 600 miliardi di euro di crediti deteriorati, il 3,3% delle attività totali contro l’1% degli Stati Uniti. Le condizioni in cui saranno le banche dopo i blocchi e le perdite delle industrie per la pandemia non consentono ottimismi da parte dei governi nel fare affidamento sui bilanci delle banche per i piani di rilancio e risanamento del tessuto industriale. Il settore bancario, da debole che era, sarà ancora più debole con l’andar del tempo e non è ipotizzabile un aumento significativo dei prestiti a solo carico delle banche, con la solvibilità del comparto industriale in caduta libera.
E non consideriamo qui i danni apportati ai bilanci del sistema bancario dalla forsennata ricerca degli utili, che ha contribuito alla creazione di bolle potenzialmente micidiali, una per tutte la Deutsche Bank con i miliardi di euro di “derivati tossici” a bilancio, che ha imposto a Francoforte lo studio di misure per cancellare i crediti ormai inesigibili. Situazioni ampiamente diffuse in tutto il mondo, in istituti bancari “troppo grandi per fallire”, per tamponare le quali gli Stati sono dovuti intervenire pesantemente, e che ancora sono una ulteriore minaccia alla tenuta del sistema, come non bastasse il virus della pandemia.
Il FMI naviga a vista
Saranno i soldi delle banche a salvare le armi degli Stati o queste quelle? Noi ci auguriamo che affondino assieme.
Il Fondo Monetario Internazionale ha pubblicato di recente le sue previsioni a breve e a medio termine per i principali indicatori economici. Naturalmente la crisi endogena pre‑pandemia non è presa in alcuna considerazione: quanto noi abbiamo letto sull’affondare del capitalismo sotto la morsa delle sue leggi intrinseche, per i sacerdoti borghesi del FMI sono state le normali fluttuazioni più o meno gravi di un sistema mondiale che, superato il 2008, viaggia in un processo di lenta crescita, ove si escludano criticità locali o periodi di turbolenza. Per essi la crisi deflattiva e il lento processo recessivo erano un dato oggettivo, ma controllabile. I mercati borsistici, presunto giudice della salute del capitalismo, non avevano forse segnato la ripresa dei livelli pre 2008? Loro così rispondono: l’economia mondiale collassa ora, ma sotto il peso del coronavirus; il blocco imposto per le “ragioni di salute pubblica”, che riguarda spostamenti, produzione e consumo, è la causa principale di tutto.
Le cifre esposte per il complesso dell’economia mondiale e per Paese sono molto gravi: il FMI parla senza mezzi termini di recessione globale, con cali del prodotto interno lordo mediamente del 3%, con punte del 9% per l’Italia e dell’8% per la Spagna, per Francia e Germania una diminuzione del 7%, mentre per gli USA calcolano una discesa del 6%, del 5% per il Giappone, superiore al 6% per Gran Bretagna e Canada. I soli che se la dovrebbero cavare nell’anno in corso sarebbero Cina ed India con crescita intorno al 1%. Russia, Brasile e Messico mostrerebbero cali dal 5,5% al 6,5%.
In un quadro così cupo vogliono aprire almeno uno spiraglio di ottimismo: per l’anno prossimo gli analisti prevedono un “rimbalzo” del PIL tornato a crescere (relativamente al crollo attuale) e ci forniscono anche i presunti valori, per Paese e per settore. Anche se non ci è dato conoscere con quali criteri e modelli effettuino le loro proiezioni, ne prendiamo atto, pur non avendo in esse alcuna fiducia, fondate come sono sulla sabbia dei “modelli”. Notiamo soltanto che man mano che progrediscono le condizioni di crisi, peggiorano le stime del calo del PIL e si sposta in avanti nel tempo l’inizio della ripresa.
La scienza economica borghese, in tutte le sue scuole e varianti, non ha alla fine molte soluzioni per arginare le crisi profonde del suo sistema. Lo strumento finanziario è davvero il solo conosciuto e usato nei momenti cruciali del capitalismo.
Peggio del 2008
La crisi si accompagna sempre al macello sociale delle mezze classi e alla guerra aperta contro la classe lavoratrice, derivate da ineluttabili conseguenze delle fasi di crisi generale e non di semplice quanto profonda ristrutturazione capitalistica e condizioni di fondo per la nostra lotta rivoluzionaria anticapitalista.
La crisi presente e quella profonda più vicina nel tempo, del 2008, nonostante i punti di somiglianza, almeno per le soluzioni previste, non sono omologhe. Durante la profonda crisi del 2008 le Banche Centrali, d’accordo con i Governi nazionali, intrapresero la più grande manovra finanziaria mai praticata prima: per evitare il fallimento del sistema bancario e finanziario acquistarono senza posa loro titoli di debito non importa di quale solvibilità. Il sistema bancario mondiale fu quindi riportato a galla in un mare di liquidità che venne a far sparire alla vista titoli “spazzatura”, cioè non convertibili in denaro. Questa liquidità fu prodotta in modo puramente nominale, rimase cioè depositata presso la Banca Centrale nei conti delle riserve obbligatorie delle singole banche e non entrò nel circuito della produzione, che in quel momento non ne aveva estremo bisogno, come invece sta accadendo nella situazione attuale.
Misure “straordinarie” quelle che allora evitarono il collasso del circuito del credito in tutte le sue articolazioni. Le condizioni del capitalismo, lo vediamo a posteriori, non avevano raggiunto ancora il punto di crollo, e la crisi ancora di natura prettamente finanziaria, fu così tamponata. La crisi dell’economia “reale” continuò il suo corso con alti, bassi, riprese e ricadute, secondo il tipico andamento ciclico che ci mostra una semplice analisi dei dati di produzione, consumo, commercio.
La stessa pratica, volgarmente e fraudolentemente detta di “stampare moneta“, fu poi applicata, con minime variazioni di natura normativa, da tutti i responsabili delle finanze pubbliche. Nella recente crisi della UE, il Governatore Centrale di turno, d’accordo con le autorità monetarie dei singoli Stati, ne usò senza risparmio, procurando alla manovra il nomignolo di “bazooka” che ne evidenziava l’ampiezza per sostenere le traballanti finanze europee: gli Stati Uniti d’America che inaugurarono primi questa misura finanziaria, non l’hanno mai veramente abbandonata.
La BCE ha continuato un massiccio acquisto di titoli, a marzo ne ha comprati per 66,5 miliardi di euro, di cui circa 15 destinati a titoli di Stato dell’Italia e 120 per essere utilizzati entro il corrente anno. Altri piani di acquisto programmato di titoli sono stati resi disponibili, che hanno fatto dell’Italia, insieme ad altri paesi “del Sud”, dei beneficiati delle manovre di acquisto della BCE. Anzi, e qui sta uno dei principali capi d’accusa della Germania ai “federati” del sud Europa, con acquisti sbilanciati rispetto alle percentuali stabilite dai Trattati Comunitari, a tutto vantaggio dei cosiddetti PIGS: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna. Al sistema bancario tedesco, pieno di crediti incagliati e soprattutto di titoli finanziari speculativi, è sembrato, e forse giustamente, di non essere stato abbastanza tutelato rispetto ai corrispondenti sistemi dei compari del Sud.
Ma questa apparente generosità finanziaria non serve direttamente agli Stati del Sud e alle loro economie a risolvere i problemi di liquidità. Innanzi tutto questi sono acquisti effettuati sul “mercato secondario”, ovvero la BCE viene ad acquistare dei titoli già emessi dagli Stati del Sud e già in possesso di chi a suo tempo li comprò. Sono “soldi” quindi che gli Stati del Sud hanno già a suo tempo incassato, prestiti sui quali stanno pagando gli interessi. L’acquisto da parte della BCE serve solo a dare garanzia agli Stati per le loro nuove emissioni, stabilizzando i tassi di interesse: non genera quindi la liquidità di cui l’emittente avrebbe bisogno subito.
In questo senso non sono paragonabili, come dicevamo, le condizioni del 2008 con l’attuale. E per questo già a marzo ci sono stati gli annunci di molti governi di provvedimenti fiscali espansivi per sostenere reddito ed attività produttive, come scrive la Nota dell’Istat.
Stati e circolazione del denaro
La potenza americana, almeno nelle dichiarazioni ufficiali, ha messo in campo la bellezza di 2.200 miliardi di dollari. Non tutti gli Stati si possono permettere una simile “potenza di fuoco”, che corrisponde circa al 10% del PIL. Altri Stati oscillano dal 6% al 5%, la Germania ha annunciato uno stanziamento del 4,5%, Italia e Argentina sono intorno all’1%, insufficiente per le condizioni critiche che si stanno profilando.
Naturalmente questa liquidità è un’emissione “a fondo perduto”, cioè a interesse nullo e senza obbligo di restituzione, concessa da enti pubblici o società finanziarie particolari. È la forma più conveniente per industrie e borghesi, ma comporta esborsi notevoli, se e quando venga concessa, e presenta per l’emittente un altissimo rischio. È quello che viene chiamato “denaro a pioggia”.
Per altro il modo con cui il sistema bancario mette in circolazione moneta, quando sia in grado di farlo – quel che viene chiamato impropriamente “creazione di denaro”, o peggio, “stampa”, più correttamente “euro scritturale” per la UE o moneta bancaria in senso generale – è proprio la concessione del credito ad imprese o famiglie, tramite i tanti canali di cui dispone.
Semplificando all’estremo, in condizioni normali il circolante è generato in questo modo: alla concessione di un prestito la banca registra nella sua contabilità una voce all’attivo, appunto il prestito, e contestualmente una voce di pari importo nel passivo, il nuovo deposito, che quindi espande il passivo di bilancio, ovvero la quantità di moneta in circolazione. In sintesi la moneta circolante, da non confondere con la moneta della banca centrale, è generata in modo decentralizzato. Ovviamente tutto questo è disciplinato da vincoli più o meno rigidi in termini di regolamenti statali, e da rapporti di profittabilità del prestito.
La mancanza di “buoni debitori” blocca la creazione di moneta. È una condizione generale che vale tanto per le banche quanto per gli Stati. E quando quelle non sono più in grado di generare simile liquidità, deve intervenire a garanzia lo Stato, che sia capace di sostenere il suo debito con risorse proprie.
Normalmente gli Stati si finanziano con le tasse e facendo ricorso all’emissione di titoli dal Tesoro per finanziarsi sul mercato dei capitali. Mercato interno, e questa per le borghesie nazionali è una buona cosa, oppure con acquisti da parte di investitori stranieri, e in questo modo il debito nazionale finisce in mano a creditori esteri e gli interessi pagati escono dal circuito nazionale. Questo è un punto cruciale, perché la fiducia che l’acquirente ha per la remunerazione del suo credito dipende dalle condizioni economico-finanziarie di chi ha emesso il debito. Il tasso di interesse, come si dice in termini capitalistici, è il “premio” che invoglia all’acquisto.
In condizioni assolutamente particolari – con capacità di emettere moneta senza particolari vincoli, fidando sulla potenza internazionale della propria divisa, o su speranze di aiuti finanziari internazionali, di prestiti con particolari forme di rimborso – si possono verificare casi di emissioni “una tantum” direttamente, senza intermediazioni: il Tesoro fornisce credito mediante elargizioni, a sostegno delle famiglie nel momento più difficile. Questo è ciò che sta accadendo al presente con gli aiuti a fondo perduto alle famiglie pressoché in tutti gli Stati colpiti dal blocco. Con gli stessi criteri avviene il finanziamento per il comparto industriale; prestiti a fondo perduto o a tassi agevolati. Quello che ne deriva è che è lo Stato a dover sostenere l’onere finanziario; e si chiude con questo l’aspetto pratico del denaro “a pioggia”.
È un equivoco non da poco credere che sia il debito, tanto dello Stato quanto quello domestico, la radice della crisi. Ne è una componente, certo, ma solo perché un sistema bancario in affanno nella sua funzione di generazione di liquidità viene alla fine ad impedire le transazioni mercantili. Per questo la crisi capitalistica si presenta come crisi di liquidità. Le autorità governative e finanziarie con questa necessità dell’economia reale devono fare i conti.
Quello della liquidità sembra essere in questa fase uno dei problemi principali dell’economia capitalistica. Si sintetizza in una semplicissima affermazione: non “c’è denaro a sufficienza”, per le imprese nella produzione, per i generici potenziali acquirenti nelle spese.
Una crisi di liquidità?
Abbiamo già accennato al fatto che il Q.E., e tutti gli altri meccanismi messi in opera dalle banche centrali non possono, per loro natura esclusivamente finanziaria, entrare nel processo reale di creazione del valore. Servono, e in questa fase storica di progressivo collasso del capitalismo lo hanno fatto molto bene, a tenere in piedi lo stato patrimoniale del sistema bancario e finanziario mantenendone il valore di mercato dei titoli. È proprio quello bancario il sistema che “dovrebbe” entrare nel processo di erogazione del prestito; ma che non lo faccia, e quali siano i motivi profondi e nascosti, è spiegazione che tocca a noi marxisti dare.
Per chiarire i termini della questione: nella computazione finanziaria capitalistica sono stati introdotti degli indici per misurare l’offerta di “strumenti di pagamento” e il relativo potere di acquisto in relazione alla “liquidità” di ogni mezzo di pagamento. Sono chiamati “aggregati monetari”, indicati con la lettera M seguita da un numero che indica la capacità di realizzare più o meno rapidamente il pagamento. La liquidità è il concetto che indica appunto la rapidità con cui viene saldato il debito, o finanziato quello che poi nella contabilità appare come un debito.
M0, detto anche base monetaria, comprende tanto la moneta legale circolante quanto altre attività finanziarie convertibili in moneta legale; M1, la liquidità primaria, raggruppa M0 e altre attività finanziarie che possono immediatamente costituire mezzi di pagamento, ad esempio i conti correnti bancari; M2, liquidità secondaria, include M1 e attività finanziare che abbiano un valore certo in futuro, non soggette cioè a variazione del loro “valore” (secondo la dizione borghese; noi parleremmo più propriamente di prezzo) che vengano a dipendere da variazioni per le condizioni di mercato. Attività finanziarie quindi stabili nel tempo.
Quindi gli andamenti nel tempo di M2 forniscono un parametro attendibile di quanta “liquidità” ci sia in un sistema economico in un certo periodo, e la sua variazione nel tempo. Se, per fare un esempio particolarmente attinente, andiamo a leggere il grafico di M2 per gli Stati Uniti, notiamo una crescita quasi esponenziale dal 2010 alla fine del 2019, da 8.000 miliardi a 16.000 miliardi di dollari in dieci anni, poi un’impennata nel primo semestre del 2020, da 16.000 miliardi a 20.000 in pochi mesi, chiara indicazione di una enorme massa di liquidità che è stata immessa per diverse vie nel sistema in tempi brevi.
Se quelli sono i numeri, e sono valori “certificati” dalla FED, dove sta l’affanno di cui si diceva, dove sta la crisi di un sistema che pare “scoppiare” di generici “soldi”? Per rimanere nell’ambito della contabilità capitalistica, c’è un altro indice da prendere in considerazione, correlato alle variazione di M2: la sua velocità, ovvero come la liquidità si scambia nelle attività di compravendita, quanto “gira” il denaro. L’indice è calcolato come rapporto tra il GDP (il PIL calcolato secondo i criteri in uso negli States) trimestrale e la media, sempre trimestrale, della quantità di M2. L’andamento di questo indice, che è il tempo medio di circolazione della moneta, è indicativo dell’effettiva attività industriale e commerciale.
Bene. Da un massimo assoluto alla metà degli anni ’90, il suo valore è andato in diminuzione, salvo una ripresa significativa nell’intorno del 2007, per subire quindi un crollo marcato nel biennio 2008‑2010, quindi una ulteriore discesa fino al 2019 e poi un ulteriore crollo nei primi mesi del 2020.
Come dire che i soldi ci sono, ma non circolano.
E dove vanno a finire, allora? Tutti, o quasi, in attività finanziarie, ove c’è la speranza di più alti rendimenti che non nel comparto produttivo. Si manifesta in modo palese l’effetto della nostra prevista caduta tendenziale – ed ora non più “tendenziale”! – del saggio di profitto. Ma lorsignori non lo sanno.
Abbiamo preso a mo’ di esplicazione il caso più eclatante, quello degli USA, ma la tendenza è similare per tutto l’universo mondo capitalistico.
Allora, capitalisticamente parlando, nel mondo borghese operano tre fattori di crisi concomitanti; liquidità, debito pubblico e debito privato, quest’ultimo ancora più pernicioso di quello pubblico. Ai quali si aggiungono, ironia della sorte, i “perversi” effetti dell’epidemia in corso.
Naturalmente questa situazione non è quantitativamente uguale dovunque, e in particolare può differire tra comparti produttivi di una stessa area nazionale. Che per i sistemi economici degli Stati con particolari criticità del debito nazionale sia disastrosa, è certo. Che lo divenga anche per economie “forti” è altrettanto probabile, perché la scienza del capitalismo non consente di conoscerne il futuro, costretta a empirici ed opinabili piani di modellazione e proiezione.
Rinfocolati nazionalismi
Quindi, al di là delle esortazioni all’aiuto a chi più ha bisogno, alla vane chiacchiere sulla solidarietà economica e finanziaria tra i predoni capitalistici, si va facendo strada l’urgenza di chiudersi nei confini nazionali, cercando di trarre vantaggio dalle altrui difficoltà e di non accollarsi in alcun modo l’altrui debito.
Le condizioni nelle quali si trovano ad operare i diversi Stati nell’Europa dell’euro sono in questo senso paradigmatiche. I vincoli delle normative dell’Unione alle operazioni finanziarie degli Stati aderenti non impediscono la loro situazione sbilanciata e la realtà della loro concorrenza, anche se alcune finzioni giuridiche – il Parlamento Europeo e la Corte Europea di Giustizia, e la sua sovrastruttura finanziaria, la Banca Centrale Europea – parrebbero metterli tutti su un piano di parità. Le forme dell’inganno democratico portato al livello sovrastatale non le riteniamo degne di alcun commento, mentre per la struttura finanziaria che sovrasta la UE, è opportuno spendere qualche parola.
La Banca Centrale Europea è una Banca Centrale in senso molto lato. Non ha le finalità delle banche centrali nazionali, non è prestatore di ultima istanza, che è quella di acquistare direttamente dal Tesoro le emissioni di titoli per garantirne la copertura finanziaria; la BCE ha per scopo precipuo il controllo dell’inflazione, e quindi non persegue esplicitamente l’obbiettivo della crescita economica dell’area. Su questo piano, al di là dei trattati commerciali di libero scambio, delle sanzioni a chi infranga le regole comunitarie, vige nella sostanza il principio della libera concorrenza, come c’è da aspettarsi nei rapporti tra Stati capitalistici, del resto.
È stato bensì istituito nel 2011 uno strumento, il Meccanismo di Stabilità Europea (MES), che dovrebbe funzionare come un fondo di assicurazione per intervenire quando uno Stato associato fosse in difficoltà, ma impone dei rigidi vincoli di controllo sulla sua politica economica e fiscale. Tutti i negoziati intrapresi dagli Stati che hanno avuto necessità di extra finanziamenti, si sono incentrati sull’allentamento di questi vincoli. Fino ad oggi con scarsissimi risultati.
Un’altra richiesta che non ha avuto esito è stata quella che la Banca Centrale Europea emettesse, per il tramite della Banca Europea per gli Investimenti (BEI), delle obbligazioni “europee”, cioè a garanzia non nazionale ma “europea”, con una corresponsabilità nel pagamento degli interessi. È questa un’attività finanziaria esplicitamente negata dagli accordi comunitari e ha avuto l’opposizione degli Stati che pensano di non aver bisogno di questo aiuto, e pretendono che per finanziarsi continuino gli Stati nazionali ad emettere i propri titoli.
Una Unione Europea sempre più fragile
Tutto il litigio nella UE si riduce a questa condivisione di garanzie. Non è quindi una vuota ipotesi che, sotto l’urgenza della crisi generale, anche il coacervo dell’Europa, “federazione” abortita di Stati sovrani, non abbia un gran futuro. Ma a questo contribuiranno anche altri fattori, la dinamica degli scontri tra gli imperialismi, e non soltanto mere esigenze economiche e finanziarie.
C’è ancora una ipotesi in campo, improponibile come abbiamo detto per gli Stati della Comunità Europea, ma che inizia a farsi strada in altre economie dove Tesoro e Banca Centrale sono funzioni distinte ma cooperanti di una politica fiscale nazionale; la “monetizzazione del debito”, come già abbiamo accennato.
Che la crisi in atto da tempo abbia esaurito gli usuali strumenti di politica economica, quelli monetari portati fino all’esasperazione del Quantitative Easing, quelli fiscali che operano su una struttura produttiva boccheggiante, e quelli finanziari di politica dei cambi, non sono solamente i marxisti ad affermarlo, dall’alto di una teoria del valore opposta a quella dell’economia volgare, ma gli stessi studiosi borghesi. Questi sono giunti a sostenere che esiste ormai solo una soluzione, la “distribuzione di moneta di nuova creazione direttamente agli operatori economici”. La Banca Centrale opera il finanziamento monetario della spesa pubblica mettendo a disposizione liquidità nei conti del Tesoro. Questa liquidità dovrebbe essere immessa nel circuito economico mediante investimenti, prestiti, sussidi, da parte di qualche organo dello Stato.
Comunque la si consideri è alla fine una partita di giro tra i conti finanziari della Banca Centrale e del Tesoro, in attesa che il capitale si rimetta a produrre plusvalore, vera unica – quanto oggi impossibile – cura alla malattia mortale della mondiale società presente. In questa attesa la finanza la fa da padrona!
Queste suggestive ipotesi che riecheggiano le ricette economiche del secondo dopoguerra, come abbiamo detto, non portano alla soluzione del “problema” del capitalismo, non lo rianimano dalla sua paralisi progressiva. E quindi?
Oltre questa manovra resta solo la cancellazione del debito. Ma sarebbe interessante sapere cosa ne pensano i creditori!
Rammentiamo che storicamente, in determinate svolte, debiti anche enormi degli Stati sono stati di fatto cancellati. Ma nella fase di ripresa capitalistica, quando l’azzeramento del pregresso era motore di un nuovo ciclo di accumulazione. L’esempio più eclatante è la cancellazione dello spropositato “debito di guerra” dovuto dalla Germania ed alleati agli Stati vincitori terminata la seconda guerra mondiale, ed imposto anche agli altri “vincitori” nominali, altrettanto stremati, dal trionfante unico vero vincitore ad ovest. Operazione lungimirante, che alla luce delle nuove dottrine capitalistiche dell’intervento in deficit degli Stati, rinunciava tranquillamente ad ingozzarsi “di liquidità” e a vantaggi territoriali ai danni di distrutti e catatonici sistemi produttivi e preferiva prestare forsennatamente a debito per essere poi remunerata con interessi immensi “dopo”, alla ripresa. Concetto che non fu intuito conclusa la prima guerra mondiale, quando i pagamenti dei crediti di guerra intervennero a dare il colpo di grazia agli sconfitti.
Questa nostra fase è invece quella finale del lunghissimo ciclo che si aprì nel secondo dopoguerra, e nessun creditore concederà mai il suo credito, né potrebbe permetterselo, in attesa di un domani migliore.
Non tocca certo a noi consigliare le strategie per “raffreddare” la crisi, o per uscirne; anzi, la nostra attesa e speranza, sostanziata dalla nostra dottrina, è il crollo definitivo di questo sistema infame ed antiumano.
Capitalismo putrescente in fase terminale
Tutte queste ipotesi e misure le abbiamo sommariamente elencate per dimostrare che il loro scopo è vano, e che i fattori recessivi all’opera – siano letti alla luce delle fallaci dottrine borghesi o dal marxismo nel profondo della loro natura – non sono rimediabili, e che le condizioni imposte all’economia capitalistica dagli effetti della pandemia non possono che aggravarli.
Ripetiamo che al presente le condizioni generali sono di tipo deflattivo, e questo è un segno mortale per il capitalismo, anche se particolari comparti produttivi danno indicazioni diverse. Non c’è contraddizione in questo, in una tendenza generale situazioni specifiche o locali possono dare segno opposto. Per i consumi agro‑alimentari al dettaglio si potrà arrivare a una forte inflazione, con drammatico peggioramento di vita delle condizioni popolari, cioè di ampi strati della società e non solo della sola classe operaia e del proletariato.
La soluzione, già praticata nel passato, di riavviare l’accumulazione del capitale tramite grandi opere promosse e finanziate dallo Stato funziona soltanto in condizioni ascendenti del ciclo della accumulazione. Infatti presuppone che il debito emesso sia ad un tasso di interesse sostenibile e sia recuperabile in tempi ragionevoli. Del resto quando il settore pubblico ha già raggiunto un livello di indebitamento molto elevato è impraticabile la leva delle politiche fiscali espansive, con la riduzione delle imposte. Nella recessione sono impraticabili le politiche espansive di tipo keynesiano, che pure in altre epoche ebbero successo, in condizioni di ripresa del ciclo capitalistico. E non è questa la condizione attuale.
Nella fase terminale e putrescente del capitalismo non resta ormai spazio nemmeno alla finzione di un piano economico generale ma solo alla volgare truffa, al privato interesse che fa aggio sulla pubblica borghese utilità, con l’inefficienza della spesa strangolata da un apparato burocratico inemendabile. Ma nelle nostre critiche vogliamo descrivere un capitalismo in una sua forma pura, ben sapendo che non è reale, per dimostrare che è comunque destinato al crollo, anche se cessassero i suoi più ripugnanti aspetti esteriori e non si manifestassero ad accelerarne, com’è nel processo reale, la rovina. O se una pandemia, che aggrava inesorabilmente le sue contraddizioni non fosse in atto: dalla quale la crisi del sistema capitalistico mondiale ne uscirà ben più aggravata.
5. L’Alleanza del Lavoro
Capitolo esposto nella riunione di Firenze nel gennaio 2017
Socialdemocrazia disarmata e disarmante nella guerra di classe
Era il 1919, epoca in cui il Partito socialista, la sua Direzione, e Serrati in particolare, si presentavano al proletariato in veste di rivoluzionari; argomento che abbiamo esaurientemente sviluppato all’inizio di questa serie di rapporti sulla guerra civile in Italia. Ma torniamo a parlare di un episodio accaduto in quell’anno.
Aldo Soncelli era un capitano dei carabinieri al quale il presidente del consiglio Nitti affidò l’incarico di infiltrarsi nelle file del comunismo rivoluzionario internazionale per scoprirne le più nascoste macchinazioni. Fu quindi inviato proprio nella tana del lupo: l’Ungheria di Béla Kun.
A Budapest punto di riferimento per i socialisti italiani era un certo Isacco Schweide. Tutta la sua attività, però, era già nota alla polizia italiana che, in una informativa a Nitti, scriveva: «Schweide Isacco è l’anima dell’agitazione e della propaganda comunista in Italia e in Austria. [...] Cerca armi e munizioni [...] Inviò a Innsbruck 2.000 opuscoli dal titolo “Ai soldati italiani che stanno per ritornare in patria”, che furono fatti pervenire in Italia [...] Allo Schweide fanno capo, per mezzi ed istruzioni, i Comitati giovanili comunisti di Roma, Milano, Torino e Bologna. È chiamato a far parte, in qualità di presidente, del comitato costituitosi a Vienna il 19 agosto per un convegno illegale da tenersi a Francoforte. La conferma di ciò si trova nella fotografia della lettera inviata alla Federazione giovanile di Roma, trasmessa con altra lettera accompagnatoria del 22 agosto a Bruno Fortichiari a Milano» (“Storia Contemporanea”, agosto 1978).
Schweide oltre ad essere in regolare corrispondenza con Serrati, era anche punto di riferimento di numerosi dirigenti del partito e della Federazione giovanile, tra i quali Bruno Fortichiari e Luigi Polano. Era stato individuato pure dalla Missione Militare Italiana a Budapest, il cui capo, tenente colonnello Guido Romanelli, scriverà: «Schweide di Vienna fungeva da intermediario fra la direzione del partito [socialista] italiano ed i suoi emissari in Ungheria».
A questo punto entra in gioco il capitano dei carabinieri Soncelli. Ma lasciamo la parola all’Ufficio Centrale di Investigazione che, in un rapporto del 5 agosto 1919 al Direttore generale della PS, scriveva: «Questo ufficio è riuscito a mandare un proprio informatore il quale, seguendo le istruzioni impartitegli, ha potuto avvicinare alcuni dei rivoluzionari più in evidenza e accaparrarsene la fiducia [...] Il 16 luglio il nostro informatore, che aveva passato la frontiera austro-ungarica senza grande difficoltà, ebbe un colloquio a Budapest con lo Schweide di cui seppe sorprendere la fiducia facendosi credere un comunista italiano e rispondendo adeguatamente alle domande rivoltegli su rivoluzionari di Roma, Firenze, Bologna e Milano. Lo Schweide diede subito al nostro informatore un sussidio di mille corone». Quindi la spia italiana, oltre la fiducia, si prese anche i quattrini!
Il Soncelli si presentò come Luigi Ferrari, comunista, uomo d’affari sempre in viaggio tra l’Italia e Vienna e perciò particolarmente adatto a svolgere la funzione di corriere. Schweide lo presentò a Morgari, anche lui all’epoca in Ungheria. Il passo successivo fu la presentazione da parte di Morgari al capo del Partito Socialista Italiano, Serrati, garantendo per lui.
Leggiamo su “L’Ordine Nuovo” del 23 giugno 1921: «Morgari è noto universalmente come l’uomo più ingenuo e più candido di questo mondo. Schweide è noto, per chi lo conosce, come un piccolo intrigante vanitoso senza criterio. Un capo rivoluzionario come pretendeva di essere G.M. Serrati (il quale si picca di dare lezioni ai bolscevichi russi sulla tattica illegale) che si affida al buon Morgari e all’ultra fesso Schweide per la scelta del personale di fiducia, si copre di ridicolo».
Infatti, da parte del Partito Socialista non venne fatta nessuna ricerca sul passato e sull’attività del carabiniere spia. Si trattava di un personaggio già anziano, residente in Italia: come era possibile che in patria nessuno conoscesse questo fior di rivoluzionario e le sue referenze dovessero arrivare dall’Ungheria? Sarebbe bastato questo a creare sospetto sull’individuo.
Ma queste per i socialisti erano questioni di poca importanza, tant’è che subito gli furono affidati delicati compiti di attività illegale, tra i quali il reperimento di armi e l’espatrio clandestino dei comunisti ungheresi. Così il capitano dei carabinieri, in cambio di un certo numero di pistole, ottenne due importantissimi risultati: la conoscenza di tutti i militanti impegnati nell’attività illegale e la partecipazione ai lavori della direzione socialista in quanto responsabile militare.
Per farsi un’idea di quale fosse la fiducia che “Ferrari” si era conquistato presso l’ingenuo Morgari, basti leggere due biglietti dello stesso Morgari dei quali il carabiniere/spia fu latore nel febbraio 1920. Nel primo si legge: «Caro Serrati, prega Bertini [amministratore dell’«Avanti!», n.d.r.] di pagare a Ferrari il cheque che presenterà. È buon denaro, quistione di fidarsi della mia firma». Nell’altro, indirizzato a Bertini: «Il latore Ferrari è un fidatissimo compagno. Se i conti di Franco quadrano con i tuoi, affida pure a Ferrari anche una miniera d’oro con animo tranquillo».
“Ferrari” arrivò perfino a prestare a Serrati ventimila lire per rinnovare i mobili di casa, così quello che veniva considerato il capo del proletariato rivoluzionario d’Italia si trovò ad essere inconsapevole debitore dell’Arma dei Carabinieri.
Successivamente, ad opera di alcuni compagni bolognesi, di certo più svegli degli altri, tant’è che aderirono al partito comunista, la spia fu scoperta. Ma se il gioco non durò molto, molto fu il danno arrecato al partito a causa della colpevole dabbenaggine e superficialità di certi compagni.
Il 23 agosto del 1920, Schweide scriveva a Serrati: «“Luigi Ferrari” era entrato con noi in rapporti per incarico del Ministero degli Interni a Roma. Egli aveva l’incarico di spiare i miei rapporti con l’Italia e coi comunisti ungheresi ed austriaci. Egli fu colui che denunciò alla polizia il convegno internazionale tenuto a Milano, che sottrasse dal tuo tavolo redazionale delle carte, che faceva arrestare tutti i profughi ungheresi che lui stesso trascinava in Italia». Schweide si dimenticava però di dire che proprio lui era stato quello che aveva introdotto Luigi Ferrari (alias Aldo Soncelli) nell’organizzazione rivoluzionaria internazionale.
Smascherata la spia quali furono gli immediati provvedimenti adottati da Serrati per neutralizzarla? Non resta che riferirci a quanto Serrati stesso scrisse sull’“Avanti!” del 25 giugno 1921: «Io seppi dei sospetti su di lui a Berlino quando andavo in Russia, ove stetti quattro mesi. Appena tornato di Russia l’ho agguantato e denunciato ai compagni». Dopo quattro mesi, con comodo, di ritorno dalla Russia. In fondo che fretta c’era. Il carabiniere si era infiltrato all’interno del PSI allo scopo di impedire la rivoluzione in Italia, ma per impedire la rivoluzione in Italia non c’era bisogno di carabinieri infiltrati, il partito socialista bastava ed avanzava.
Sane precauzioni dei comunisti contro le infiltrazioni
Abbiamo voluto fare questo passo indietro di un paio di anni perché l’affaire Socelli/Ferrari ci aiuta a comprendere l’atteggiamento di estrema severità, perfino di naturale e giustificata diffidenza, adottato dalla direzione del PCd’I, nei confronti di casi e personaggi che potevano presentare un minimo di sospetto ed ambiguità; casi analoghi si sarebbero potuti verificare a seguito di atteggiamenti superficiali o semplicemente ingenui, ma comunque estremamente pericolosi per tutta l’organizzazione del partito. Non per niente le sezioni periferiche del partito e i singoli compagni venivano avvisati che «tutti coloro che si presentassero come rappresentanti dell’Internazionale Comunista, del Consiglio dei Sindacati Rossi, o di partiti comunisti esteri, senza essersi prima posti in rapporto col C.E. del P.C.I. ed essere da questo accreditati, debbono essere considerati come elementi sospetti e rigorosamente diffidati» (“Il Comunista”, 13 marzo 1921).
Il C.E. del partito, attraverso circolari interne e comunicati nei suoi organi di stampa, tornava spesso sull’argomento.
«L’affluenza dei compagni profughi politici diviene ogni giorno più notevole alla sede centrale del partito. Dalle più lontane regioni d’Italia giungono qui a Milano compagni vittime politiche, in cerca di soccorsi e di lavoro. Non è infrequente che a compagni comunisti si mescolino anche truffatori, esibenti dichiarazioni di nostri organismi con le quali trassero in inganno compagni nostri [...] Il documento di riconoscimento per i nostri compagni profughi deve essere la tessera. Né i comitati federali, né quelli sezionali, né – tanto meno – singoli compagni, rilascino lettere accompagnatorie che servono egregiamente ad avallare l’autenticità di imbroglioni e di spie» (“Il Comunista”, 14 luglio 1921).
«I comunisti [...] sanno che una delle più consuete forme di attività della polizia politica è quella di avere informatori propri nelle file dei partiti rivoluzionari, cercando di inscriverli come nuovi soci nei partiti. Ovvero cercando di corrompere taluni che già vi sono inscritti [...] Un’altra forma di attività degli agenti informatori della polizia – continuava il comunicato – è quella che si manifesta attraverso l’afflusso delle vittime politiche nazionali e internazionali, che tuttora è notevole presso le nostre sezioni ed i nostri organi di Partito. Questa attività poliziesca [...] sfruttando il nobile senso di solidarietà dei nostri compagni, che qualche volta arriva all’inintelligente e delittuosa forma della confidenza, gli agenti camuffati da vittime politiche cercano di carpire i “segreti” dell’organizzazione del Partito [...] La vittima politica, il profugo politico siano tenuti d’occhio [...] In genere diffidate delle vittime politiche e dei profughi politici [...] È meglio colpire un compagno per eccesso di severità, anziché rimanere col dubbio che egli sia un agente provocatore od una spia. In un’organizzazione come la nostra il dubbio non può indurci ad assolvere, ma deve invitarci a condannare» (“Il Comunista” 27 dicembre 1921).
Il C.E., inoltre, invitava tutta quanta la stampa di partito a pubblicare ripetutamente queste disposizioni. Certamente i nostri compagni non erano tanto ingenui da credere di poter così invalidare i tentativi polizieschi di infiltrazione nel partito. Infatti l’organo centrale del PCd’I scriveva: «Noi sappiamo che nel nostro partito vi sono degli inscritti che hanno il compito di informare la polizia sulla attività politica del partito e dei suoi membri. [Ma] l’organizzazione accentrata del partito comunista, dando ampi poteri ai comitati esecutivi, ostacola in parte il lavoro di informazione degli agenti della polizia» (“Il Comunista”, 27 dicembre 1921).
Queste erano le disposizioni che, con la massima responsabilità e serietà, il il C.E. del partito comunista emanava ed applicava. Ed è proprio per questo che i compagni perdevano le staffe quando erano gli stessi organi dell’Internazionale a venire meno a certe forme elementari di discrezione e tutela.
Il C.E. del partito, in data 7 novembre 1921, si rivolgeva all’Internazionale in questi termini: «Cari compagni, in questi giorni abbiamo ricevuto il n. 18 della rivista Kommunistische Internationale in cui è pubblicato un articolo sull’organizzazione militare firmato “Ardito rosso”. Non comprendiamo per quali ragioni in un nostro organo ufficiale si pubblichino articoli inviati da uno che non conoscete o conoscete solo perché lui stesso si è presentato a voi; che non possiamo credere che i compagni del partito italiano a Mosca vi abbiano raccomandato Ambrosini e il suo articolo firmato “Ardito rosso”. Ambrosini non ha compiuto un grande delitto di carattere politico o morale, ma non gode della nostra fiducia; non aveva nemmeno la fiducia dell’ultima Direzione del PSI di cui era segretario Gennari. Ci è toccato intervenire ripetutamente per scongiurare azioni avventate e pericolose e per sistemare suoi errori. Ambrosini da qualche tempo è esule dall’Italia in seguito a stupidaggini senza principi compiute al di fuori e contro la disciplina di partito e anche all’estero non tralascia nessuna occasione per prendere posizioni individuali o per fare qualche cosa di iniziativa propria. Fino ad ora abbiamo rinviato la sua esclusione dal partito, già decisa in pectore, solo in considerazione della sua situazione di rifugiato. La pubblicazione del suo articolo nella Kommunistische Internationale ci è spiaciuta in quanto viene considerata come autorizzata dal nostro partito».
La lettera continuava entrando poi nel tema degli Arditi del Popolo, ma di questo tratteremo più avanti.
Vediamo ora più da vicino questo personaggio, Ambrosini, che avrebbe potuto creare problemi, anche molto gravi, al partito: ex ardito, ex fascista, iscritto poi al partito socialista e, a seguito della scissione di Livorno, passato al partito comunista. In seguito si metterà al soldo della polizia per svolgere funzioni di provocatore.
Amico personale di Mussolini, dopo aver collaborato al “Popolo d’Italia”, passò al partito socialista. Partecipò pure alla Conferenza Nazionale della Frazione Comunista Astensionista (Firenze 8/9 maggio 1920) dove presentò una sua mozione. «La mozione Ambrosini – si legge su “Il Soviet” del 6 giugno – faceva una tale confusione tra sciopero generale, presa di possesso delle aziende, conquista rivoluzionaria del potere che la rendevano inaccettabile, come risultò dalle ampie confutazioni degli altri oratori [...] A noi pare di averlo più volte chiarito e di avere molto insistito sui legami tra principii e azione comunista, tra dottrina e pratica, confutando l’antitesi tra i due termini che vogliono stabilire coloro che appaiono i rivoluzionari più ardenti. Tra questi pare sia il nostro Ambrosini, il quale sottolinea sempre la parola “azione” e “agire” [...] che nella sua mentalità l’azione finisce per divenire fine a se stessa, e non più un mezzo atto a raggiungere un chiaro fine storico. Nella Conferenza cercammo di dimostrare al compagno Ambrosini come questo errore di valutazione si riconduca alla formula favorita dai riformisti: il fine è nulla, il movimento è tutto. L’azione richiede tra i suoi coefficienti di successo la coscienza politica di una minoranza di avanguardia che deve costituire il partito rivoluzionario. Noi non diciamo che della preparazione materiale non bisogna occuparsene fin da ora; pensiamo anzi che si è perduto già troppo tempo. La vogliamo però abbinata con la preparazione politica. Le manifestazioni di molti compagni che, per esuberanza di temperamento tengono l’atteggiamento di Ambrosini, vanno convincendoci che la seconda preparazione difetta almeno nella stessa misura della prima».
Queste poche righe possono bastare per caratterizzare il personaggio e ci permettono di capire i motivi per cui anche dopo la sua adesione al partito comunista fosse da questo tenuto sotto una attenta osservazione.
Il 19 novembre 1920, in un rapporto della questura di Milano si diceva: «L’ex capitano degli arditi, Ambrosini avv. Vittorio, nello scorso settembre aveva qui intrapreso, sotto la sua gerenza, la pubblicazione del periodico “L’Ardito Rosso”. Dopo il primo numero però, pel quale l’Ambrosini fu denunciato alla Autorità Giudiziaria, essendovisi riscontrati articoli incriminabili di propaganda antimilitarista, l’Ambrosini si trasferì nella Repubblica di San Marino, trasportando anche ivi la sede del suo giornale». Sempre da San Marino lanciò il manifesto sulla “Organizzazione dei Gruppi Arditi Rossi (G.A.R.) e dei Consigli dei Soldati (C.D.S.)” e in una lettera a Bombacci del 23 ottobre 1920, dopo avere affermato di fare «piena e completa adesione alla frazione comunista», aggiunge: «L’Ardito Rosso è a completa disposizione della frazione per tutte le comunicazioni ed articoli [...] Il lavoro di organizzazione dei gruppi arditi rossi e dei consigli dei soldati procede ottimamente». Nel migliore dei casi si trattava di millanterie se non di tentativi provocatori.
In seguito questo signore da San Marino si trasferì a Vienna, città dove a quell’epoca c’era di tutto: c’erano i comunisti ungheresi scampati al terrore bianco, gli agenti dell’internazionale, ma la città era anche piena di spie di ogni genere e provocatori di professione. Tipico il caso del capitano dei carabinieri Soncelli (“compagno” Ferrari) del quale abbiamo precedentemente parlato.
Il problema era che i partiti fratelli e gli emissari del Komintern a volte agivano con estrema disinvoltura e leggerezza. È del 12 febbraio 1922 la lettera del C.E. del partito italiano al partito comunista di Austria con la quale si deplorava il fatto che mentre «noi stavamo per espellerlo dal partito veniamo a sapere che è passato al partito austriaco». Con la stessa lettera il partito comunista di Austria veniva informato che «in base al nostro servizio di informazioni ci risulta che Ambrosini si serve per il suo lavoro in vista del congresso del nostro partito [di Roma, n.d.r.] di persone che non sono membri del partito, e su taluni di essi esistono le prove che sono degli agenti provocatori».
Inoltre al PCd’I giungeva notizia che «la decisione sul caso Ambrosini sarebbe stata demandata ad una commissione internazionale davanti alla quale egli si presenterebbe per discutere il nostro atteggiamento verso di lui e magari anche le fesserie che egli diffonde sul nostro partito e sul nostro lavoro».
Errate valutazioni dell’Internazionale
Fu questa disinvoltura e leggerezza la causa che permise ad Ambrosini di pubblicare sugli organi di stampa dell’Internazionale articoli riguardo agli Arditi del Popolo in netto contrasto con l’impostazione del PCd’I, il quale si sentì costretto a trasmettere all’Internazionale il chiaro richiamo.
La citata lettera del C.E. rappresenta un documento della massima importanza e che dovrà essere ripubblicato integralmente dal nostro partito. Adesso ci basti dire che vi si esponeva in maniera dettagliata e puntuale la genesi, la funzione e gli scopi dell’organizzazione degli Arditi del Popolo, tutti quanti compresi nel chiuso della lotta serrata tra i contrapposti schieramenti dei partiti borghesi. Per tutti questi motivi il Comitato esecutivo del partito aveva deciso che i comunisti dovevano rimanere estranei a tale organizzazione e questo energico intervento, unito alle brutte esperienze degli “Arditi del popolo”, pose termine alle iniziali confusioni sorte anche all’interno del partito. La lettera chiariva inoltre che i quotidiani scontri tra Arditi del Popolo e fascisti, riportati dai giornali borghesi, erano dovuti al solo fatto che era «diventato un modo di dire: chi oggi fa a rissa con i fascisti viene designato dalla borghesia come un Ardito (del popolo). Così un anno fa ogni nemico dei fascisti era qualificato di socialista. Ma da qualche tempo ogni colpo inflitto ai fascisti viene considerato opera dei comunisti e questa volta con maggior ragione».
Lo stesso Pietro Secchia, stalinista, nel 1971 fu costretto ad ammettere che «quel tanto di lotta armata e di resistenza che vi fu contro il fascismo, o sotto la bandiera degli Arditi del Popolo, o sotto quella di gruppi armati di partito, di gruppi di difesa proletaria, fu sostenuta in ogni località, da Trieste a Roma, da Novara a Parma, prevalentemente dai comunisti» (“Le Armi del Fascismo”).
La risposta dell’Internazionale [lettera senza data, fine 1921 o inizio 1922, n.d.r.], come era prevedibile, fu di condanna della ferma posizione presa dal PCd’I e nella polemica, in cui, è risaputo, i russi erano maestri, arrivò a delle affermazioni delle quali dei seri rivoluzionari quali essi erano non potevano essere convinti.
La risposta dell’Internazionale innanzi tutto si guardò bene dall’accennare al caso Ambrosini, evitando così di entrare nel merito delle conseguenze negative che la cosa avrebbe potuto comportare.
Si iniziava dicendo: «Abbiamo letto la vostra lettera del 7 novembre 1921 con grande interesse poiché il problema degli “Arditi del Popolo” ha richiamato da molto tempo la nostra attenzione. Ma dobbiamo dirvi sinceramente che il vostro punto di vista ci pare erroneo e le vostre argomentazioni hanno un suono meramente accademico e lontano dalla vita». Quindi veniva forzata la realtà affermando che «agli inizi avevamo a che fare con una organizzazione di massa proletaria e in parte piccolo-borghese che si ribellava spontaneamente contro il terrorismo fascista di Giolitti. A questo punto arriva Nitti con il suo seguito e – in assenza di un genuino capo popolo – si impadronisce del movimento». In effetti era vero esattamente il contrario: gli Arditi del Popolo non rappresentavano una spontanea ribellione proletaria e piccolo-borghese contro la violenza fascista; si trattava – come più volte abbiamo dimostrato – di una organizzazione di scontro, certamente violento, ma combattuta fra fazioni borghesi che si contendevano il potere.
Secondo l’Internazionale «il PCI doveva penetrare subito, energicamente, nel movimento degli Arditi, fare schierare attorno a sé gli operai e in tal modo convertire in simpatizzanti gli elementi piccolo-borghesi, denunciare gli avventurieri ed eliminarli dai posti di direzione, porre elementi di fiducia in testa al movimento». Facile a dirsi! Allora perché non penetrare le bande fasciste, all’inizio ispirate ad un certo ribellismo anarcoide, o addirittura l’esercito che inquadrava masse di proletari, eliminare la gerarchia militare ponendo i nostri uomini al comando?
Si scriveva: «dobbiamo riuscire a strappare le masse operaie dalle mani dei nostri nemici e degli avventurieri politici, altrimenti le lasceremmo percorrere la lunga via crucis di errori e delusioni e sperperare le loro forze, il loro spirito rivoluzionario, la loro volontà di lotta. Né dobbiamo chiedere chi ha promosso questo movimento operaio, né per quale scopo». Invece, proprio per dimostrare che non si trattava di “un movimento operaio”, era necessario sapere da chi e a quale fine il movimento era stato creato. Altrimenti sarebbe ammettere che chiunque abbia un’arma in mano diviene, o può divenire, rivoluzionario.
In quanto a strappare le masse operaie dalle mani dei nemici e degli avventurieri, tutta la molteplice attività del nostro partito era tesa a questo scopo, sia nella polemica e denuncia dei partiti opportunisti e falsamente rivoluzionari, sia nell’azione sindacale contro il tradimento dei bonzi, sia nello scontro violento e armato contro la reazione borghese alla quale i comunisti mai si erano sottratti, anzi si erano tirati dietro il proletariato nelle azioni di difesa e anche di offesa.
Riguardo alla contraddizione che si sarebbe verificata per i comunisti messi di fronte ad una doppia disciplina, quella di partito e quella degli Arditi, l’Internazionale affermava di non vedervi alcun pericolo perché, nel caso che gli Arditi del Popolo «si ponessero altri o ulteriori obiettivi, inconciliabili con i doveri di partito dei comunisti, questi ultimi avrebbero sempre il tempo di lasciare le file degli Arditi». Al riguardo la nostra posizione era chiara: «Quel dirigente di partito che in omaggio all’“andar alle masse” concedesse quanto noi negammo, cioè che una centrale politica anonima e incontrollabile come quella degli arditi del popolo diramasse ordini diretti alle sezioni comuniste senza nemmeno aver proposto un accordo al partito, mostrerebbe di fare di quella formola una applicazione dogmatica e cieca, e rovinerebbe per sempre la organizzazione e l’indipendenza del partito [...] E trattandosi di una centrale militare più che politica la cosa si aggrava, se per poco si pensi che diritto di dirigenza militare significa conoscenza, non diremmo di supreme responsabilità affrontate da tutti coloro che si pongono a disposizione, ma di mezzi di preparazione e di armamento, controllo e disposizione su questi» (“Il Comunista”, 21 marzo 1922).
Infine l’Internazionale affermava: «Per il nostro movimento è sempre più vantaggioso compiere errori con la massa che, lontano dalla massa, racchiusi nella cerchia ristretta dei dirigenti di partito, affermare la nostra castità per principio».
Dire che possa essere vantaggioso compiere errori con la massa equivale a negare la funzione del partito, equivale ad affermare che il partito deve dissolversi nella massa (neppure nella classe!) anziché esserne la coscienza e la guida. Il dilemma non è se sia meglio fare errori con la massa o senza la massa; lo scopo della buona tattica di partito è quello di non fare errori.
Da ultimo, come risposta all’affermazione sulla “castità” possiamo citare una corrispondenza del 6 ottobre 1966, estratta dal nostro archivio di partito, in cui veniva detto: «Sia permesso al vecchio scassato Amadeo un ultimo spunto. È perfino elegante come sforzo letterario il paragone metaforico col quale J.P. vorrebbe ridurre le nostre lotte contro le deviazioni opportunistiche e contro i compromessi, i fronti e i blocchi a un volgare errore di chi per scongiurare le malattie veneree giunge alla predicazione della castità e all’abolizione dell’amore e quindi della vita. Questa musica risuona ben nota alle orecchie vecchie di Amadeo: gliela hanno cantata nel 1914, nel 22 e in cento altre occasioni e congressi e sempre, come i testi possono mostrare, si è risposto per le rime e probabilmente con maggiore eloquenza ancora».
Dopo questa digressione che può suonare “leggera”, anche se non lo è, ritorniamo all’argomento.
L’articolo intitolato “La Discussione sulla Tattica” (dove si affermava che espressioni come “purezza teorica” o “castità per principio” sono solo frasi fabbricate a scopo polemico), apparso su “Il Comunista” del 23 febbraio 1922, può considerarsi la risposta alla lettera dell’Internazionale. Vale quindi la pena di riportarne ampi passaggi.
«Vi è qualche dubbio attorno ad una nota decisione tattica della Centrale del Partito, quella per la non partecipazione dei comunisti ai cosiddetti “arditi del popolo” e per la indipendenza da questo movimento dell’inquadramento comunista. Oggi che tanto si discute di fronte unico e di atteggiamenti tattici tendenti ad avvicinare il momento in cui le parole d’ordine comuniste avranno eco tra i più larghi strati delle masse, si pensa che un esempio di queste risorse tattiche poteva aversi con la partecipazione ad un organismo unitario di difesa proletaria di lotta contro il fascismo. Ma il fronte unico non è un principio generale da applicare meccanicamente in tutti i campi e la sua applicazione può solo volta per volta essere consigliata da un attento studio della situazione e degli sviluppi che questa presenta.
«Noi siamo nel periodo in cui dalla equivoca unità nell’inazione e nella impotenza dovuta alla composizione eterogenea dei partiti proletari, attraverso la rottura tra gli elementi opportunisti e quelli rivoluzionari, si arriva alla unità delle masse nella attiva battaglia contro il regime borghese. Le proposte di unificazione del fronte di lotta possono condurre a questo scopo e si presentano anzi come l’unico mezzo per accelerarne il conseguimento, ma non è preventivamente escluso che le proposte e la pratica dell’unità, se non inspirate dalla attenta sorveglianza dello svolgersi delle situazioni possano segnare, invece di questo passo innanzi, un passo indietro verso vecchi equivoci e vecchie delusioni [...]
«La lotta tra tendenze opposte, logica e utile nel sindacato, paralizzatrice nel Partito, diventerebbe inammissibile in un organo di lotta in cui la concordia, la disciplina e l’accentramento devono essere per ragioni evidenti e “tecniche” assicurate al massimo grado [...]
«L’esame della situazione e delle prospettive che si presentavano se si fosse applicato un criterio diverso, dimostra invece praticamente la utilità delle considerazioni che precedono e la loro giustezza. Gli arditi del popolo, secondo le proclamazioni di quelli che ne presero la iniziativa, si proponevano di condurre la lotta contro le squadre fasciste con l’obiettivo di riacquistare al proletariato quella libertà di organizzazione e di azione che esisteva prima dell’apparire del fascismo, si proponevano il ristabilimento di un regime di tranquilla convivenza tra classi e partiti. Scopo illusorio, come si vede di leggeri poiché le cause del fascismo si riconnettono alla necessità dell’acutizzarsi dei conflitti di classe, e nella attuale situazione se il proletariato avesse la libertà di movimento non esiterebbe ad adoperarla per il sovvertimento del regime resosi intollerabile, determinando l’assalto al potere statale e la guerra civile.
«[...] In realtà il movimento degli arditi del popolo era sostenuto dalle realtà il movimento degli arditi del popolo era sostenuto dalle correnti politiche e dalla stampa che erano e sono socialmente pacifiste: Partito socialista, Confederazione del Lavoro, nittiani. Aderivano anarchici e sindacalisti, come si spiega collo scarso grado di sensibilità tattica di questi movimenti e la tradizionale sterilità del loro rivoluzionarismo fatto di gesti e di frasi.
«Vi è nella borghesia una tendenza antifascista, che ha gli stessi scopi del fascismo (ordine, pace sociale, convivenza pacifica delle classi) ma teme che il fascismo ormai ecceda nel suo compito e determini colle sue brutalità lo scatto offensivo proletario di cui ha voluto estirpare la possibilità[...] Tra questa corrente e il fascismo stesso la confluenza è inevitabile [...]
«Gli arditi del popolo sorgevano come un movimento il quale non tendeva a costituire la base di un esercito di lotta della classe proletaria, dell’esercito rosso dello Stato proletario, ma tendeva ad operare nell’orbita dell’appoggio di un governo parlamentare borghese. Una prova ne è data dal loro organamento a tipo “fascista”, ossia a tipo quasi legale, operante alla luce del sole, colla centrale nel palazzo Venezia, colle squadre pubblicamente costituite; questo poteva dare al superficiale osservatore la sensazione che si fosse in presenza dell’atto magnifico di forza del proletariato alla vigilia del trionfo, ma la verità non era che questa qui esposta, e questo spiegava il consenso di correnti nettamente controrivoluzionarie [...]
«Si intende che tutte queste per la Centrale del Partito Comunista non erano solo illazioni critiche, ma risultati di concrete informazioni. [E come abbiamo visto in precedenti rapporti il servizio di informazione del partito funzionava molto bene - n.d.r.] Che cosa significava una parola d’ordine di sospensione dell’indipendente inquadramento comunista a contenuto nettamente anti legalitario e a solida preparazione per l’entrata dei comunisti negli “arditi del popolo”, nella illusione di prenderne nelle mani la dirigenza, lo si può pensare quando si consideri che la eventualità del passaggio di tal movimento agli ordini di un ministero borghese poteva essere questione di ore se si fosse raggiunta la combinazione Nitti o De Nicola. Da questo sarebbe seguitato: o una campagna di repressione del fascismo, colla parola d’ordine di soffocare ogni movimento extra-legale di partiti, e quindi collo scatenarsi della repressione contro comunisti e anarchici: nelle file degli “arditi del popolo” questi sarebbero rimasti prigionieri di una tale situazione e per giunta impotenti a uscire per riorganizzare su altro terreno le loro forze.
«Ma, più probabilmente, si sarebbe avuta una vera alleanza tra Ministero di sinistra e fascismo nella divisione del lavoro controrivoluzionario, definito come difesa dell’ordine e della libertà per tutti [...]
«Si ebbe il Ministero Bonomi il quale non tardò a mostrarsi apertamente filofascista, e dopo un breve periodo di incertezza le Autorità borghesi locali, seguitando decise sulla linea di sostegno del fascismo, determinarono la liquefazione del movimento degli “arditi del popolo”. Il Partito Comunista ha potuto constatare che in qualche località in cui fu frettolosamente seguita la tattica di entrare negli “arditi del popolo”, oggi che questi praticamente non esistono, si è molto arretrati nel lavoro di inquadramento comunista, pur essendovene le premesse nelle condizioni locali.
«Molte altre risultanze di fatto, come la natura del programma sostenuto dagli “arditi del popolo” nel loro Direttorio che i partiti politici non si immischiassero nel lavoro di difesa proletaria, il giuramento in tal senso chiesto agli aderenti, non sono che ragioni collaterali che suffragano il nostro giudizio della situazione, la nostra tattica e la giustezza dei criteri per cui ci appare diversissimo il caso della unità di fronte sulla base di postulati immediati a seconda che si tratti di Organismi politici (e peggio militari) e di rapporti tra la funzione politica di Governo e le classi in lotta, oppure di Organismi economici sindacali e di rifiuto dei lavoratori alle pretese del padronato. In questo caso l’unità ci mette sulla grande via della rivoluzione ed è il naturale svolgimento del nostro programma; nell’altro caso, procedendo alla leggera, si può essere respinti indietro nelle delusioni purtroppo tante volte provate dal proletariato, sacrificando inutilmente non la purezza teorica, che è una frase fabbricata a scopo polemico, ma il grado di preparazione e di organizzazione del Partito, prezioso risultato raggiunto a prezzo di infinite lotte e tra grandissime difficoltà, e consegnato alla responsabile custodia dei dirigenti [...]
«Non si tratta di avere più o meno fretta di “fare” la rivoluzione, come dicevasi nelle stucchevoli discussioni tra i rivoluzionari di cartapesta del Partito socialista, e talvolta di altre scuole, ma di attrezzarsi in modo, come capacità tattica e come allestimento di organi e mezzi, da sviluppare da ogni momento della situazione i valori rivoluzionari e le migliori condizioni di vittoria proletaria. Nessuna pregiudiziale vi può essere contro un dato ordine di mezzi: purché si sappiano applicare ad occhi aperti e in modo da non trovarsi dopo averli posti in atto in un punto diversissimo da quello dove si calcolava di essere attraverso le manovre della guerra di classe: e con forze inferiori a quelle su cui si faceva assegnamento.
«Nella applicazione della situazione italiana le tesi [ci si riferisce alle tesi di Roma - n.d.r.] parlano di fase di lavoro preparatorio e questo in relazione alle eventualità di un attacco rivoluzionario frontale del Partito comunista. Ma esse contemporaneamente pongono in chiaro rilievo la tattica da seguire per sollecitare lo sviluppo di una situazione di lotta rivoluzionaria attraverso le influenze e le pressioni su quelle masse che seguono altre correnti politiche che si compendiano appunto nella nostra tattica del fronte unico sindacale.
«Vi è in tutto questo piano un sistema di prospettive legate ad una accurata diagnosi della situazione italiana ed al programma comunista, in modo tale che non ci sembra giustificato il timore che ci si possa da noi stessi precludere la via di possibili successi. Ma il problema è tanto arduo e tremendo che ogni contributo alla sua elucidazione, ogni consenso motivato e ogni ragionato dissenso, non possono essere che utili per il gravoso compito che tocca e toccherà ai dirigenti del partito, quando consensi e dissensi nascono nella magnifica atmosfera di disciplina concorde e di solidale indirizzo di azione, di cui a giusta ragione possono andare orgogliosi i comunisti d’Italia».
Alleanza del Lavoro: la giusta dinamica fra il partito e la classe
Quanto il partito comunista si dimostrò intransigente nei riguardi della scissione politica, e con la categorica opposizione ad ogni tipo di fronte unico tra partiti, con altrettanta forza si fece portavoce della necessità di un movimento sindacale unitario. Infatti la massima efficacia della preparazione rivoluzionaria era (ed è) data dall’esistenza di un partito indipendente politicamente che conduca la sua lotta contro tutti gli opportunismi, ma che partecipi anche allo stesso movimento sindacale in cui questi ultimi predominano. I comunisti non avevano dubbi sul fatto che «le organizzazioni sindacali italiane devono unirsi in un’organizzazione generale. Il partito non pone nessuna condizione a quest’unificazione perché è convinto che in questa organizzazione generale, sia che essa sia socialista, senza partito o aderente all’internazionale di Amsterdam, saprà acquisire la preponderanza» (“Internationale Communiste”, 20 aprile 1922).
Quindi, fin dall’estate del 1921 il PCd’I, a mezzo del Comitato Sindacale Comunista, lanciava la proposta alle grandi organizzazioni sindacali di un’azione generale contro l’offensiva padronale per il raggiungimento dei seguenti obiettivi: fusione in una sola azione di tutte le vertenze parziali sollevate dalla offensiva borghese; difesa integrale del tenore di vita del proletariato; impiego dell’azione diretta sindacale fino allo sciopero generale guidato dalla coalizione di tutti i sindacati. Con queste proposte i comunisti divenivano i patrocinatori del fronte unico proletario. Nello stesso tempo non interrompevano, anzi intensificavano l’opera di propaganda per allargare la loro influenza tra le masse proletarie a scapito di socialisti ed anarchici. La proposta comunista, accolta con il più ostinato ostruzionismo da parte di tutti i vertici sindacali, veniva al contrario recepita con crescente favore dalla classe lavoratrice. Lo sviluppo di questa campagna e la mobilitazione operaia costrinsero, loro malgrado, le dirigenze sindacali ad assecondare la pressione del proletariato e costituire l’Alleanza del Lavoro formata dai grandi sindacati nazionali.
Ufficialmente l’iniziativa fu presa dal Sindacato dei Ferrovieri che propose uno schema di rivendicazioni concrete interessanti tutto il proletariato, però volle convocare a convegno i partiti politici “di avanguardia” perché influissero sulle organizzazioni sindacali all’interno delle quali i propri militanti erano inseriti.
Aderirono a questo convegno politico pure il partito socialista, il partito repubblicano e l’Unione anarchica.
Come è noto, il partito comunista non vi prese parte inviando però una lettera in cui si impegnava a porre a disposizione del futuro organismo sindacale unitario tutte le sue forze sindacali per un’azione congiunta del proletariato italiano. Il motivo della non partecipazione comunista è più che chiaro: il suo intervento avrebbe condotto a un contrasto di opinioni insanabile con gli altri partiti, e, a meno che non avesse abbandonato o camuffato opportunisticamente le sue prerogative, non avrebbe potuto sottoscrivere il comunicato equivoco e pacifista uscito dalla riunione dei partiti, cosicché l’Alleanza del Lavoro non sarebbe nata.
Ma
questo avrebbe significato mandare in fumo quella base organizzativa
su cui il partito cercava di costruire il miglior contatto ed
inquadramento delle grandi masse proletarie sulle seguenti
rivendicazioni:
«1
– Reciproco appoggio in un’azione comune fra tutti i sindacati
locali e di categoria in difesa di qualunque di essi venga colpito
dalle manifestazioni dell’offensiva padronale.
«2
– Difesa dei postulati che rappresentano il diritto all’esistenza
del proletariato e delle sue organizzazioni, e in prima linea della
causa dei disoccupati e del mantenimento di tutti i patti di lavoro e
del livello dei salari.
«3
– Impiego dei mezzi dell’azione diretta sindacale con la diretta
preparazione dello sciopero generale nazionale di tutte le categorie
di lavoratori.
«4
– Costituzione di comitati locali con la rappresentanza di ogni
sindacato e lega e convocazione al più presto possibile del
congresso nazionale dell’Alleanza del Lavoro proletaria con
rappresentanza diretta di tutti i sindacati locali e di categoria per
la discussione e accettazione dei punti che precedono e la
costituzione di un organismo centrale che sia diretta emanazione
delle masse proletarie italiane» (“L’Ordine Nuovo”, 19 maggio
1922).
Come si vede si trattava di rivendicazioni tali che nessun partito avrebbe potuto dichiararsi contrario per principio.
L’intensa campagna condotta dal partito e dal Comitato Sindacale Comunista permise di far breccia all’interno delle masse proletarie controllate da altri partiti ottenendo una serie di successi con il dimostrare che essi, qualora non avessero accettato le proposte comuniste, non solo si sarebbero dimostrati nemici della rivoluzione ma anche della lotta in difesa degli interessi materiali contingenti del proletariato.
Mentre i partiti borghesi, tra i quali dobbiamo pure inserire il socialista, svolgevano i loro più loschi intrighi per assicurarsi il governo dello Stato, a seguito di una forte pressione del proletariato si era potuto giungere alla costituzione dell’Alleanza del Lavoro, un obiettivo al quale il partito comunista aveva particolarmente dedicato tutta la sua azione.
Come abbiamo appena detto, la giusta tattica e le giuste indicazioni di classe riuscirono a mobilitare larghi strati di proletari e la costituzione dell’Alleanza fu il risultato di questa mobilitazione. Ebbe l’appoggio totale del partito che si dichiarò disposto perfino a rinunciare ad una rappresentanza di minoranza se questa fosse stata di ostacolo all’unificazione degli sforzi di lotta degli operai. L’Alleanza del Lavoro nel suo sviluppo avrebbe potuto abbracciare i metodi, squisitamente rivoluzionari e marxisti, dello sciopero generale e della guerra civile armata per rovesciare il potere della borghesia, che era già allora, di fatto, nelle mani dei fascisti.
Il minoritario partito comunista era consapevole che il successo del suo lavoro fra le masse operaie non sarebbe stato in ragione del numero dei suoi effettivi ma della bontà delle sue posizioni. Già l’anno precedente, con meritato orgoglio, aveva potuto affermare: «Quanto al nostro lavoro sindacale esso sta prendendo un’ampiezza molto soddisfacente. I 500 mila organizzati che al congresso della Confederazione si sono messi non solo sul terreno dell’Internazionale Sindacale Rossa, ma su quello del comunismo, e che noi organizziamo ogni giorno meglio, costituiscono, permetteteci di dirlo, le migliori forze sindacali dell’Internazionale Comunista dopo i sindacati russi» (Dal rapporto del PCd’I al CEIC, 19 settembre 1921).
L’Alleanza del Lavoro venne costituita nel corso di un convegno tenutosi a Roma dal 18 al 20 febbraio 1922. Oltre al Sindacato ferrovieri parteciparono la CGL, l’USI, l’Unione Italiana del Lavoro, la Federazione dei Porti. Non vi prese parte la Federazione del Mare di Giulietti, che si era messo sotto l’ala di D’Annunzio.
I comunisti avevano ben chiaro quali erano i punti deboli e le incongruenze di tale organismo, messi bene in evidenza e sviluppati con inconfutabile argomentazione negli articoli che ripubblichiamo nell’ “Archivio della Sinistra”.
Tradito il moto operaio per basse manovre parlamentari
Socialisti e dirigenti sindacali riformisti avevano intenzione di servirsi dell’Alleanza del Lavoro non come arma per la difesa della classe operaia, ma per un ben diverso scopo, come pressione politica per entrare a far parte del governo.
Con il titolo “L’Alleanza del Lavoro e l’onorevole Dugoni” il giornale degli anarchici “Umanità Nova” del 30 giugno pubblicò un articolo che svelava il doppio gioco dei confederali: «È stata pubblicata una lettera, di cui già da tempo si aveva sentore, dell’onorevole Dugoni, pezzo grosso della Confederazione, nella quale si confessano le vere intenzioni di quei falsi amici dell’Alleanza. L’onorevole Dugoni, scrivendo ad un funzionario della Camera del Lavoro di Mantova, consiglia di non occuparsi della questione dell’Alleanza e dice: “Io non potrò dire in riunione ciò che la Confederazione ha nell’interno delle sue decisioni valutato, cioè non favorire questa Alleanza che cerca di sfruttare la nostra forza”».
Ma nemmeno gli anarchici avevano tutte le carte in regola per accusare i confederali di doppiogiochismo o cose simili. In una informativa comunista all’Internazionale si riportava: «Secondo gli ultimi giornali italiani arrivati qui [a Mosca, n.d.r.] nella riunione della direzione del PSI e della CGL, Azimonti, a nome dell’Alleanza del Lavoro ha dichiarato che questa ha constatato che l’unica via d’uscita della situazione è la collaborazione ministeriale. Gli anarchici e i sindacalisti del sindacato dei ferrovieri avrebbero accettato questo punto di vista» (Mosca, 14 giugno 1922). Infatti, uno tra i tanti giornali borghesi che potremmo citare scriveva: «Stamane si sono riuniti i rappresentanti del Consiglio Direttivo della Confederazione generale del lavoro e quelli della Direzione del Partito Socialista [...] D’Aragona ha illustrato l’ordine del giorno collaborazionista che, già da tempo, la Confederazione generale del lavoro votò e che ora la maggioranza del gruppo parlamentare ha fatto proprio [...] Azimonti, rappresentante dell’Alleanza del Lavoro, ha illustrato l’opera di questa dichiarando che essa ritiene che per il bene del proletariato non è possibile fare altro di meglio ora che la collaborazione. Anche i ferrovieri ed altri elementi estremisti si sono pronunciati in questo senso. Baldesi ha parlato a lungo a favore della tesi collaborazionista» (“La Stampa”, 4 giugno).
La mattina del 1° giugno si era riunito il gruppo parlamentare socialista per discutere e votare un ordine del giorno presentato dal deputato Zirardini favorevole alla collaborazione governativa. In appoggio a questa proposta era stata pure presentata una lettera «del segretario della sezione di Pisa del Sindacato ferrovieri italiani, De Filippis Carlo, anarchico, il quale insiste perché i socialisti vadano al governo non potendo più le masse sostenere le intollerabili condizioni di vita attuale» (“Avanti!”, 2 giugno). L’o.d.g. affermava: «Il gruppo parlamentare socialista [...] dichiara che appoggerà con i suoi voti un ministero che assicuri il ripristino della legge e della libertà e ad esso uniformerà la propria condotta parlamentare». L’ipocrita Turati affermò che avrebbe votato «con animo amareggiato l’ordine del giorno Zirardini, pur ritenendolo poco organico, poco dignitoso e tardivo» (si noti la contraddizione tra il “poco dignitoso” ed il “tardivo”). Ma ancora più ipocrita fu il pilatesco Maffi dichiarando che si sarebbe astenuto dal votare. Come era prevedibile l’o.d.g. collaborazionista fu approvato a larghissima maggioranza: 47 contro 20.
I socialisti riformisti in un loro manifesto “ai lavoratori d’Italia” si premuravano di metterli in guardia da coloro che «considerano la borghesia un blocco compatto ed uniforme, [e] non concepiscono che una tattica di opposizione senza tregua, e senza distinzioni, finché la spinta rivoluzionaria del proletariato riesca a debellare d’un colpo la borghesia stessa e ad abbattere in blocco tutte le istituzioni».
Parimenti errata, per i socialriformisti, era quella «tattica parlamentare di opposizione, unica, uniforme senza distinzione». Questo parlamentarismo intransigente avrebbe condotto «a indebolire e distruggere ogni governo di tendenze più eque e liberali, a profitto dei governi di più decisa reazione politica». Cosa che, nell’ottica riformista, era indubbiamente vera.
Date queste premesse i riformisti non avrebbero potuto che giungere ad affermare che proprio la tradizionale “intransigenza” socialista aveva determinato «la fortuna della fazione agraria-fascista, furibonda nemica del proletariato». Così, continuava il manifesto socialdemocratico: di fronte «all’offensiva padronale [...] ai colpi selvaggi del fascismo, sorretto da tutte le influenze palesi ed occulte delle classi dirigenti e monopolistiche», le masse proletarie avevano imposto di abbandonare i «preconcetti dottrinali» e di «mutar tattica, di valorizzare l’azione parlamentare, di trovare aiuti ed alleanze in altri campi, di giungere ad influire ed a controllare più direttamente l’azione stessa del governo». E da chi venne udito questo pressante richiamo del proletariato? Non vi era dubbio, dal «gruppo parlamentare più a contatto della realtà dolorante dei bisogni multiformi della organizzazione proletaria» (“Critica sociale”, 1 luglio).
Il 28 luglio si riunì il gruppo socialista per esaminare la situazione parlamentare rispetto allo svolgimento della crisi ministeriale. La riunione si chiuse con l’approvazione di un ordine del giorno che può essere riassunto in questa frase significativa: «Il gruppo è disposto a tutto pur di evitare un governo fascista». Bene, si dirà, finalmente anche i riformisti dichiarano di essere “disposti a tutto”, sono quindi scesi sul terreno della rivoluzione. Niente affatto, il contrario: la frase significa la loro disponibilità ad una partecipazione diretta al governo, qualunque condizione venga loro posta. Anche il terribile Mingrino, capo storico degli Arditi del Popolo, pur dichiarando di dissentire dalla maggioranza, votava a favore della partecipazione socialista al governo. Questa i tifosi degli Arditi del Popolo se la ricordino! Ma non è tutto. Il giorno successivo, il 29, Turati, per il bene del paese, compiva “il sacrificio” (così lui lo definì) di salire le scale del Quirinale per conferire con il re.
Nella stessa data, 22 anni prima, a Monza, Gaetano Bresci, con tre colpi di pistola, aveva ucciso Umberto di Savoia. A differenza dell’anarchico pratese che con il suo gesto intendeva vendicare le stragi proletarie del 1898, ora Turati, in virtù dell’ordine del giorno approvato dal suo gruppo parlamentare, si andava a genuflettere dinanzi alla Corona mettendo a disposizione della conservazione la sua opera personale e quella del suo partito per l’asservimento del proletariato italiano.
La rivista dei gesuiti con pretesco sarcasmo scriveva: «A rompere la monotonia delle lungaggini della crisi venne a proposito la magnanima risoluzione dei socialisti, i quali avevano saltato a piè pari il Rubicone dell’intransigenza. Dunque anch’essi si mostravano pronti a collaborare colla borghesia e ad entrare nelle vie legali [...] Così si spalancavano automaticamente i portoni del Quirinale, e l’on. Turati riceveva l’invito di recarsi alla reggia per conferire col sovrano. Umile in tanta gloria [...] Giacchetta di alpagà nero, calzoni neri di lana, cravatta nera svolazzante, colletto floscio, cappello a cencio [...] Lo sguardo all’orologio, l’irresolutezza del passo nell’androne, i tre quarti d’ora di permanenza alla reggia [...] E si ricordò un’altra visita al Quirinale, quella dell’on. Bissolati, il 23 marzo 1911; quanta mutazione di vicende da allora! Al Bissolati [...] gli avevano invece gridato “raca” Filippo Turati e Benito Mussolini. Ed ora, nel 1922 è ancora Benito Mussolini che insorge contro Filippo Turati; ma non più in nome del socialismo, bensì in nome della nuova milizia che contro il socialismo si è accampata per distruggerlo; allora Benito Mussolini deprecava la collaborazione socialista perché capace di rafforzare lo Stato Borghese; oggi egli la depreca perché ne teme per lo Stato borghese un insidioso indebolimento. Undici anni, ma quanta storia!» (“La Civiltà Cattolica”, 1922, p. 370).
Filippo Turati ad un intervistatore dirà: «Abbiamo voluto mantenerci vergini. Ma gli ultimi avvenimenti ci hanno spinto a non tergiversare più». E alla obiezione che l’ordine del giorno socialista non era per niente chiaro, Turati rispondeva sibillino: «Basta guardarlo controluce, come si fa per le uova».
Convergenza ministeriale col fascismo
Ma un altro dirigente socialista non parlò di uova al redattore di “Epoca”, e fu molto chiaro: – «Il collaborazionismo è stato votato a grande maggioranza – «Andrete quindi al governo se si fa un gabinetto di sinistra? – «Certamente. Abbiamo per ora un programma minimo. I fascisti dicono: per la nostra sicurezza è necessaria una “puntarella destra” e si offrono per andare al governo. Noi a nostra volta diciamo: se è vero che volete un ministero di pacificazione, di restaurazione della legge – eguale per tutti – eccoci qua pronti a collaborare. Date pure una puntarella alla estrema destra, a patto che la controbilanciate con una “puntarella alla estrema sinistra”. Che se ciò non vi piace, fate a meno dei destri e dei sinistri. In altri termini: o tutte e due le estreme incluse, o tutte e due escluse. È chiaro?»
E come no? Più chiaro di così! Pur di ristabilire l’ordine borghese i socialisti erano pronti anche al grande “sacrificio” di andare al governo assieme ai fascisti per... controbilanciarli.
Si tenga presente che l’eventualità di un governo con la partecipazione congiunta di socialisti e fascisti non era una ipotesi scaturita dalla testa malata di qualche politicante avvinazzato, ma era ciò che una certa parte della borghesia italiana vivamente auspicava. Ci basti leggere “La Stampa” del 30 luglio sotto il titolo a tutta pagina “Per la salvezza d’Italia invochiamo il governo Giolitti-Turati-Mussolini”: «I social-collaborazionisti hanno compiuto un passo decisivo, dichiarandosi pronti a partecipare al potere, per la tutela della libertà e del diritto. Contemporaneamente, il capo del fascismo afferma che il suo partito è pronto a divenire partito legalitario, per la pacificazione e la salvezza del Paese. Ebbene, è ora di passare dalle parole ai fatti [...] Partecipino, socialisti e fascisti, insieme al potere [...] Ultimo tentativo per la salvezza d’Italia, noi domandiamo, subito, un Governo Giolitti-Turati-Mussolini».
E “Il Secolo”, altro quotidiano della sinistra liberale, auspicava «un nuovo ministero al quale i socialisti parteciperanno direttamente [...] Una nuova fase della politica italiana: socialisti e fascisti, da opposte parti, ma sullo stesso terreno, partiti di masse, offriranno – attraverso imprevedibili capovolgimenti – la materia prima, le reclute del grande esercito. Dobbiamo prepararci a molte novità, a mutamenti straordinari, ad impreviste metamorfosi. Il paradosso di oggi sarà il luogo comune di domani» (Articolo riportato dall’ “Avanti!” dell’1 agosto).
Lo stesso Mussolini, sul “Popolo d’Italia” del 30 luglio si compiaceva del fatto che con la salita di Turati al Quirinale, i socialisti avevano «capito che non si poteva restare eternamente sospesi e che, dal bacio platonico del semplice voto di maggioranza, valeva la pena di passare alla concessione della loro ormai stagionata verginità, offrendo la diretta partecipazione al governo». E Mussolini, quindi, ricordava come proprio lui, esattamente un anno prima, alla Camera avesse prospettato un governo di coalizione tra fascisti, socialisti e popolari.
Ma, come scrivevamo su “Il Comunista” del 10 agosto, i socialdemocratici, «dopo essersi promessi, non potranno consumare la colpa ardentemente anelata».
Mancò poco, in quella sfavorevole situazione
In questo rapporto non ci prefiggiamo uno studio approfondito sull’Alleanza del Lavoro, per ora ci basta ribadire come i dirigenti sindacali diedero vita all’Alleanza costretti dalla pressione proletaria, ma, una volta formata, i socialdemocratici, e non solo loro, tentarono di usarla a scopi puramente parlamentari. Quindi, in questo caso in accordo con sindacalisti ed anarchici, fecero di tutto per tenere fuori i comunisti dagli organi direttivi. La richiesta comunista di rappresentanze, nel Comitato nazionale dell’Alleanza, più larghe e proporzionali alle frazioni degli organismi aderenti venne nettamente bocciata. Fu solo merito della pressione proletaria se nel comitato dei sindacati venne ammesso Repossi, esponente della corrente sindacale del PCd’I. E fu solo merito della pressione proletaria se finalmente si giunse alla proclamazione di quello sciopero generale, che se non fosse stato sabotato dai vertici sindacali avrebbe potuto costituire l’ultima occasione per un grande urto in cui si sarebbe anche potuto battere la borghesia e le sue squadre fasciste.
Nei giorni dal 3 al 6 luglio si era tenuto a Genova il consiglio nazionale confederale. Naturalmente la mozione comunista fu tenacemente avversata dai socialdemocratici e dai massimalisti. Si veda per esteso “Il Sindacato Rosso” del 15 luglio: «La vittoria numerica – scrivemmo – è toccata ai riformisti grazie ad inauditi brogli elettorali di cui son divenuti maestri i capi delle organizzazioni sindacali [...] Ma noi abbiamo vinto moralmente. E di questo sono tanto convinti i nostri avversari, malsicuri di una vittoria che non li lascia tranquilli, da averli ridotti ad accogliere senza alcuna opposizione ciò che da tanto tempo ci era stato negato: la convocazione del Congresso Confederale entro l’anno.
«Le compatte forze comuniste sono ormai entrate vivamente e gagliardamente nell’agone della politica proletaria la quale è ormai volta esclusivamente verso la nostra azione. E nessuna forza, e nessun broglio, e nessuna violenza può ormai arrestare la nostra marcia fatale verso la conquista definitiva delle masse proletarie sotto la sfera d’influenza del Partito Comunista.
«Il nostro è ormai l’unico Partito della classe lavoratrice ed a giusta ragione agogna a divenire il fulcro ed il centro propulsivo di tutta l’azione proletaria».
In un telegramma inviato a Mosca il 21 luglio scrivevamo: «Nel Consiglio Confederale grande successo politico morale. Cifre voto completamente falsificate. Ora capi Alleanza Lavoro, dominati dal problema crisi ministeriale, sabotano scioperi Piemonte Lombardia, hanno chiuso sciopero Ancona, impediscono azione Liguria. Lottiamo ovunque grande slancio per spingere movimento. Masse sono con noi. Denunceremo disfattismo capi socialisti. Massimalisti non fanno alcun lavoro serio contro sabotaggio riformista lotta proletaria».
In un’altra relazione al Komintern del 23 luglio si legge: «Le nostre posizioni sindacali che sono considerevolmente migliorate, non devono essere giudicate dal numero dei voti. Questi sono il risultato di imbrogli talmente abominevoli che a un certo momento eravamo decisi a invadere la sala con le nostre squadre comuniste e far saltare il congresso. Ci hanno rubato almeno 150.000 voti. Il numero dei voti dei massimalisti è fondato sul vuoto: non si erano consultate le masse, ma solamente i piccoli capi, membri del P.S., che si sono divisi i voti secondo la tendenza personale all’interno del partito».
Spinti dalla pressione operaia, nel mese di giugno, i bonzi della Fiom erano stati costretti a proclamare lo sciopero degli operai metallurgici della Lombardia. I nostri compagni, sostenendo il concetto di opposizione a qualsiasi ulteriore riduzione del salario, dichiararono che la lotta dei metallurgici era la lotta di tutti i lavoratori d’Italia affermando quindi la necessità dell’estensione dello sciopero a tutte le categorie per l’intero territorio nazionale.
Scrivevamo su “Il Sindacato Rosso” del 17 giugno: «I metallurgici riuniti a Genova [al Consiglio Nazionale di cui abbiamo appena detto - n.d.r.] debbono come primi affiancare coraggiosamente i compagni in lotta [...] Il loro primo atto deve essere perciò la proclamazione dello sciopero generale di categoria [...] Già, perché noi siamo profondamente convinti che ai fini della vittoria questo passo ha molto valore. Ma non è tutto. Alla lotta regionale, circoscritta, si sostituisce dunque la lotta nazionale di categoria. Impostata così la battaglia, si ha maggiore probabilità di vincere [...] Ma bisogna affrontate in pieno il problema. Bisogna esaminare se nelle condizioni del proletariato italiano in questo momento e dell’offensiva generale nazionale dei datori di lavoro è bastevole lo sciopero di categoria. Noi diciamo di no. Diciamo di no per la esperienza di altri paesi e del nostro e perché constatiamo che diversamente lottano i nostri nemici. Questi lottano su tutto il fronte politico-sindacale mettendo in azione tutte le loro forze, tutte le loro energie. E collegano le loro offensive e... vincono.
«Sciopero generale di categoria! È ancora viva nell’animo nostro l’aspra battaglia combattuta con forza e con coraggio dai minatori inglesi. Ma la loro costanza, ma i loro sacrifici, non giovarono a nulla. Lasciati soli contro tutto il padronato coalizzato dovettero piegare la testa.
«Non vorremmo, anzi non vogliamo che ciò accada ai metallurgici italiani. Questi debbono vincere. Vincere per loro e per tutti gli altri lavoratori [...] Guai se si perdesse. Bisogna vincere. Vincere a tutti i costi. A Genova i lavoratori dicano la loro parola di lotta. Di lotta generale. Invitino l’Alleanza del Lavoro a proclamare lo sciopero generale nazionale. Esigano da essa garanzie precise perché la battaglia non venga strozzata».
I capi della Fiom capirono che se le proposte dei comunisti portavano alla vittoria del proletariato, portavano anche alla loro sconfitta e se furono costretti a proclamare lo sciopero generale di categoria volutamente lo sabotarono.
«Si dimenticò che isolare la categoria voleva dire perdere la battaglia [...] Si dimenticò che la sconfitta dei metallurgici avrebbe avuto una grave ripercussione su tutto il movimento operaio [...] Dopo avere emanato l’ordine di cessazione dello sciopero [...] gli operai rientrarono al lavoro in peggiori condizioni di prima» (“Il Sindacato Rosso”, 15 luglio).
L’Esecutivo del PCd’I in un rapporto al Segretariato dell’I.C. il 23 luglio affermava: «Dopo alcuni giorni di lotta, i metallurgici, che potevano essere appoggiati solo dallo sciopero generale, furono battuti con delle condizioni vergognosamente sfavorevoli, con riduzioni di salario dal 10 al 15% [...] Noi abbiamo accusato di tradimento i capi della federazione metallurgica [...] Neanche una parola da parte dei massimalisti, occupati a predicare l’intransigenza parlamentare».
Mentre i dirigenti della Fiom a parole accettavano gli obiettivi proposti dai comunisti, contemporaneamente trattavano la resa dello sciopero con il prefetto Lusignoli. La notizia della cessazione dello sciopero «fu diffusa dal “Corriere della Sera”, il giornale che quanto più ferocemente antiproletario e fascista si dimostra più è utilizzato dai dirigenti confederali per i loro ignobili scopi di disfattismo e di tradimento» (“Il Sindacato Rosso”, supplemento straordinario del 22 luglio).
Il giornale socialdemocratico “La Giustizia” il giorno 20, con un articolo intitolato “Manteniamo i limiti”, invitava a chiudere la lotta perché «lo sciopero ha mantenuto gli obbiettivi che noi gli assegnammo nel nostro articolo di fondo di ieri. Protesta non extra-legale, né anti‑statale, ma per la restaurazione della legalità». E domandava: «Ma ora, è utile continuarlo? C’è un governo dimissionario, cacciato via da uno schiacciante voto di maggioranza, e sarebbe stolto chiedere ad un simile governo [...] affaccendato a raccogliere le sue carte per lo sgombero, un qualsiasi provvedimento».
Saputo l’esito della decisione dell’Alleanza del Lavoro e confederale i fascisti lanciarono i loro ultimatum: «O lo sciopero idiota finisce entro oggi, o domani 30mila camicie nere occuperanno Milano.»
Scriveva “Il Sindacato Rosso”: «Dichiarazione di guerra... non alle trentamila camicie nere mobilitate bluffisticamente dal duce fascista per stroncare lo sciopero generale magnificamente riuscito. Con essi siamo già in guerra guerreggiata – essi sono i nostri nemici dichiarati – e come tali li trattiamo. La nostra dichiarazione di guerra feroce, spietata, con tutti i mezzi, con tutte le armi, è per tutti i traditori del proletariato, pei lupi travestiti da agnello, pei mandarini socialdemocratici, pei dirigenti che vergognosamente hanno tradito! – da oggi in avanti la nostra guerra si rincrudisce nei due fronti di battaglia, contro la reazione legale ed extra-legale dello Stato e del fascismo e contro i traditori del proletariato, più infami, più pericolosi perché si camuffano da dirigenti dell’azione e della lotta proletaria per tradirla!» (“Il Sindacato Rosso”, supplemento citato).
Ma in quanto a sabotare le poderose lotte proletarie gli anarco-sindacalisti dello SFI non erano da meno dei confederali. Si veda come avevano agito durante lo sciopero dei ferrovieri romani in occasione del congresso fascista. «Lo sciopero di Roma fu causato, come è noto, dalle barbare violenze fasciste. Allo sciopero si associò tutto il proletariato romano. A Roma si portarono subito i membri del C.C. [...] i quali invece di portarsi verso i ferrovieri scioperanti si recarono più volte al Ministero per... concordare la ripresa del servizio, la massa non fu per nulla interpellata benché lo sciopero fosse compattissimo [...] I membri del C.C. garantirono al Ministero che al venerdì mattina si sarebbe ripreso il servizio. Giustamente indignati i ferrovieri riuniti a comizio sconfessarono l’operato dei membri del C.C. e proseguirono lo sciopero con tutto il proletariato romano» (“Il Comunista”, 19 luglio).
Come si comprende dall’esempio dei ferrovieri romani, malgrado l’opera di pompieraggio dei dirigenti sindacali il proletariato non cessava di rispondere con la lotta alle violenze e provocazioni fasciste.
Il citato rapporto dell’Esecutivo del PCd’I al segretariato dell’I.C. continuava: «Trascorsa una settimana la lotta si è riaccesa in forma di reazione proletaria contro i movimenti fascisti [...] Lo sciopero generale è scoppiato prima nelle Marche [18 luglio], che i fascisti volevano conquistare. È riuscito completamente. Si andava verso lo sciopero in Liguria, quando il movimento fascista si portò su Novara, provocando per tutta risposta lo sciopero generale in Piemonte [19 luglio] e alcuni giorni dopo in Lombardia [20 luglio]. Noi prememmo con tutte le nostre forze, centralmente e localmente, per lo sciopero nazionale [...] Immediatamente i capi proletari, riformisti, massimalisti, anarchici dell’Alleanza del Lavoro si diedero a far fallire l’azione proletaria. Da Roma partono dirigenti socialisti e anarchici con l’ordine di far cessare ogni movimento perché il ministero è caduto [...] I comunisti si sono opposti ovunque alla fine dello sciopero. Abbiamo attaccato tutti i capi dell’Alleanza del Lavoro come traditori per aver sabotato il movimento nel momento in cui la lotta antifascista a Novara diveniva disperata».
Una prova di fronte unico realizzato, non con intrighi tra le direzioni dei partiti, ma nei fatti sono i mille esempi in cui il proletariato, al di là dell’appartenenza politica, si disponeva a combattere fianco a fianco contro gli attacchi della reazione. Tanto per fare un esempio prendiamo dalla Relazione del partito al IV congresso dell’I.C. (ottobre 1922): «Mentre i ministri popolari nel gabinetto Facta sono complici coscienti dell’appoggio del governo all’azione fascista, gli organizzati popolari combattono nelle provincie armata mano contro le squadre delle camicie nere: basta ricordare gli avvenimenti di Cremona e la battaglia di Parma dove insieme ai comunisti, agli anarchici, ai socialisti i popolari furono nelle trincee improvvisate e lasciarono i loro morti nella lotta».
Può essere interessante rileggere una pagina di quanto scritto dal dirigente sindacalista anarchico Armando Borghi: «Vaste ondate di violenza colpirono i popolari di Don Sturzo nella provincia di Cremona, e i socialisti in quelle di Ravenna e Novara. Milano e Torino scioperarono in protesta. I popolari nel Cremonese presero le armi [...] A Ravenna i repubblicani furono trascinati anch’essi dall’indignazione generale, dopo tutto, il loro sangue non era acqua. L’Alleanza avrebbe dovuto sfruttare senza un solo attimo di esitazione il momento psicologico e proclamare uno sciopero generale [...] Ma i confederali non c’era modo di smuoverli [...] Il 19‑20 luglio vi fu riunione del Comitato dell’Alleanza. Tutti ci pronunciammo per lo sciopero generale immediato e senza limiti di tempo. Che ne pensava la Confederazione del Lavoro? D’Aragona non si fece vedere. Azimonti aspettava ordini da Milano. Infine si sbottonò: non ne volevano sapere!» (“Mezzo secolo di anarchia”).
Però il Borghi non la racconta giusta. In ogni momento gli anarchici si erano schierati contro i comunisti alleandosi di fatto, ed anche apertamente, coi socialisti.
I bonzi dirigenti l’Alleanza del Lavoro diedero vita ad un Comitato tecnico segreto che avrebbe dovuto preparare l’azione generale del proletariato: per i comunisti sciopero generale contro l’offensiva borghese e il fascismo; per tutti gli altri (riformisti compresi)... la rivoluzione, pura e semplice. Repubblicani, anarchici, socialisti di tutte le sfumature, gli stessi che sottobanco (e anche palesemente) brigavano per formare un ministero di coalizione con i fascisti, tutto d’un tratto si scoprirono ardenti ed impazienti rivoluzionari. Come se la rivoluzione fosse un gioco, una parola da spendere.
La nostra Relazione al IV Congresso dell’I.C. precisa: «Noi eravamo per lo sciopero sindacale da cui la lotta politica, che ne è anzi un episodio, si sviluppa, ma con un processo più lungo in cui si doveva inserire, perché il successo fosse possibile, la nostra opera di sostituzione della nostra influenza a quella dei socialisti e anarchici. Fummo contro ogni coalizione di partiti nel dirigere l’azione insurrezionale e il movimento rivoluzionario delle masse, di cui gli altri parlavano con malafede o con incoscienza e in genere con spaventosa impreparazione».
A quel punto della situazione il pericolo maggiore non era costituito dai collaborazionisti socialdemocratici, ma dal confusionismo e falso rivoluzionarismo di socialisti massimalisti e anarchici che di fatto stavano formando un blocco unitario con lo scopo di impedire l’egemonia del PCd’I sul proletariato italiano. Tant’è che l’espulsione dei comunisti si verificava sia nella CGL in mano ai riformisti, sia nella Federazione dei lavoratori del mare, sia nel Sindacato ferrovieri in mano agli anarco-sindacalisti. «Nel sindacato ferrovieri vi è stata una rivolta contro la tattica dei capi social-anarchici che lo dirigono e che sono i peggiori buffoni della politica italiana» (Appendice al Rapporto all’Ufficio Politico del Comintern del 22 luglio).
Come è risaputo, il Comitato segreto dell’Alleanza del Lavoro aveva deliberato di mantenere segreta la data d’inizio dello sciopero generale al fine, si disse, di cogliere di sorpresa sia le forze repressive di governo sia i fascisti. Quelli che invece furono colti di sorpresa furono i proletari con uno sciopero inaspettato, dichiarato d’improvviso e senza nessuna preparazione.
Appena 10 giorni prima i sindacati, tutti i sindacati, avevano stroncato un forte movimento di sciopero che mobilitava le categorie più combattive del proletariato italiano lasciando campo libero alla reazione statal-fascista. Avevano abbandonato i contadini del cremonese che armi alla mano resistevano agli attacchi fascisti. L’Alleanza del Lavoro li aveva completamente ignorati poche settimane prima, e ora loro avrebbero dovuto nuovamente scendere in campo in solidarietà con l’Alleanza del Lavoro ?
Lo sciopero di agosto 1922
Ma andiamo per ordine.
A proposito dell’ordine di sciopero abbiamo più volte ricordato come la più numerosa e capillare organizzazione sindacale, ossia la Confederazione Generale del Lavoro, volendo evitare (o nel caso sabotare) lo sciopero generale, avesse dichiarato di non possedere una rete di mezzi di comunicazione atta a trasmettere a tutte le Camere del Lavoro aderenti la disposizione d’iniziare il movimento di sciopero. Dinanzi a tale inqualificabile atteggiamento, Luigi Repossi, secondo le istruzioni ricevute dall’Esecutivo del partito, si offrì di curare coi nostri mezzi illegali, che erano ignoti ai poteri statali, la diramazione dell’ordine di sciopero che la Confederazione era invitata a formulare. La Confederazione e gli altri convenuti dovettero accettare la nostra offerta, dato che altrettanto non si poteva, e non si voleva, organizzare da parte non comunista. Fu così quindi che lo sciopero ebbe inizio in tutte le provincie, avendo il nostro ufficio illegale, diretto da Fortichiari, diramato telegrammi in codice; mobilitando la rete organizzata del Partito e dei nostri gruppi sindacali, l’ordine ufficiale di sciopero fu fatto pervenire anche ai centri più lontani.
Ma se la CGL dichiarava di non essere in grado di trasmettere l’ordine di sciopero alle Camere del Lavoro, riuscì però ad avvertire polizia e fascisti tramite la “svista” de “Il Lavoro” di Genova che il 30 luglio pubblicava l’ordine di sciopero ed il proclama del Comitato segreto. Pietro Nenni, nelle sue “Pagine di diario” affermerà che «la data dello sciopero fu divulgata in anticipo per un errore del “Lavoro” di Genova». Anche da parte anarchica, Armando Borghi ritenne trattarsi di una “ingenuità” del vice segretario della CGL, Azimonti. E questo si poteva anche credere, finché dagli archivi della questura non venne fuori la documentazione che prova come la polizia ne fosse stata messa al corrente ancor prima della “svista” della pubblicazione. Non si trattò quindi né di errore né di ingenuità. Non ci sono dubbi che i riformisti genovesi (solo i genovesi?) con la comunicazione al questore e la pubblicazione a mezzo stampa erano stati i primi e principali sabotatori dello sciopero.
I fascisti, informati ancor prima delle camere del lavoro, mobilitarono tutte le forze e lanciarono l’ultimatum: «Diamo 48 ore di tempo allo Stato perché dia prova della sua autorità [...] Scaduto questo termine il fascismo rivendicherà piena libertà di azione». L’Alleanza del Lavoro, per dare l’impressione di non aver ceduto alla imposizione fascista, decretò la fine dello sciopero il 3 agosto a mezzogiorno, 12 ore dopo la scadenza dell’ultimatum fascista, tagliando le gambe al proletariato proprio quando la lotta stava sviluppandosi nel suo massimo vigore.
Il giornale socialdemocratico “La Giustizia”, il 3 agosto scriveva: «Bisogna avere il coraggio di confessarlo: lo sciopero generale proclamato dall’Alleanza del Lavoro è stata una Caporetto. Usciamo da questa battaglia dolorosamente battuti». Certamente fu una Caporetto ma per la socialdemocrazia, che aveva sperato, con la pressione controllata del proletariato, di andare al governo. Turati dello sciopero aveva detto: «Avrà carattere legalitario venendo a fiancheggiare lo Stato nella necessaria difesa contro le minacce e le intimidazioni dei fascisti» (“Avanti!”, 1 agosto).
Lo sciopero “legalitario”, secondo l’appellativo datogli da Turati, finì sabotato dai suoi stessi dirigenti ed è passato, ufficialmente, alla storia come l’ultima, la più clamorosa sconfitta del proletariato che aprì la strada alla presa del potere da parte del fascismo.
Ancora una volta la valutazione dei comunisti fu alquanto diversa. Vediamo di fare un po’ di ordine.
Nel telegramma inviato all’Internazionale si diceva: «Roma 1 agosto 1922 - Sciopero generale nazionale iniziato questa mattina Roma completamente riuscito attendiamo notizie altre città [...] Manteniamo ufficialmente disciplina completa, impieghiamo tutte nostre forze per dare sciopero carattere guerriglia antifascista. Prevediamo movimento sarà presto bloccato dai riformisti». I comunisti avevano quindi ben presente quali fossero le intenzioni dei capi dell’Alleanza del Lavoro.
Nel successivo rapporto all’Internazionale, del 6 agosto, si legge: «La sera del 29 luglio (sabato) il nostro delegato nel comitato ci riferì che il rappresentante dell’Alleanza, Giusti, aveva annunciato lo sciopero per il mattino del 1° agosto (martedì). Non si doveva pubblicare la notizia: l’ordine era stato dato dall’Alleanza per via interna. Noi abbiamo mantenuto il segreto, limitandoci a telegrafarvi la notizia e a mettere al corrente la nostra centrale militare. D’accordo con questa abbiamo dato delle istruzioni nel senso di evitare di impegnarsi in azioni tali che un arresto improvviso del movimento, che era da prevedere, ci avesse impedito la smobilitazione delle nostre forze senza pericolose conseguenze».
La riuscita dello sciopero fu dapprima parziale; le masse proletarie furono sorprese dagli ordini imprevisti dopo che alcuni giorni prima i capi sindacali le avevano disarmate di fronte alle offensive fasciste ed avevano sabotato ed annullato tutti gli scioperi in corso. Il secondo giorno il movimento aveva toccato il culmine, le masse aderirono e la lotta si generalizzò. Il terzo giorno quando lo sciopero prometteva di divenire travolgente venne stroncato dall’Alleanza del Lavoro.
Per noi comunisti la polemica, taciuta durante la lotta, doveva ora riprendere per mostrare al proletariato il tradimento, i veri responsabili della ritirata. Comunque lo sciopero generale avrebbe rappresentato una esperienza preziosa per il proletariato italiano per la sua rinata fiducia nell’azione unitaria di classe. Quindi noi negammo che lo sciopero fosse stato un fallimento.
Se il modo di proclamazione fosse stato meno inadeguato, per non dire peggio, fin dal primo momento le masse operaie avrebbero risposto compatte. Mano a mano che ai lavoratori giunse la notizia dello sciopero il lavoro fu abbandonato, i servizi si paralizzarono, non si ebbero defezioni né di città né di categorie. Quello che al proletariato in lotta mancò fu un inquadramento ed una seria organizzazione. Lo stesso fascismo e la reazione statale ebbero ore di indecisione e di arretramento di fronte all’azione proletaria su tutto il fronte nazionale. Se le forze mobilitate della classe lavoratrice fossero state meglio dirette e utilizzate, la loro controffensiva anche violenta, sviluppatasi in molte situazioni, si sarebbe generalizzata.
Lo sciopero era stato preparato nel peggiore dei modi. I socialisti di tutte le tendenze si erano sempre dichiarati contro quest’arma di lotta proletaria; lo sciopero generale, proposto dai comunisti, era definito folle e disastroso. Stante queste premesse il proletariato non poteva che rimanere incerto alla notizia della proclamazione di una azione generalizzata da parte di quegli stessi che l’avevano sempre apertamente avversata.
L’Alleanza del Lavoro non avrebbe dovuto celarsi dietro il mistero ed il segreto ma fare aperta opera di preparazione e di mobilitazione. Inoltre sarebbe stato importantissimo che lo sciopero fosse scoppiato prendendo le mosse da un avvenimento clamoroso della lotta di classe che, sfruttando l’emozione dei lavoratori di tutto il paese, potesse giustificare il cambiamento di rotta dell’Alleanza del Lavoro. I comunisti, a più riprese, avevano insistito su questo: in occasione dello sciopero metallurgico; degli scioperi di Piemonte e Lombardia; dei fatti di Romagna. Tutte queste richieste comuniste non vennero prese nemmeno in considerazione. I bonzi sindacali vollero proclamare lo sciopero generale a data fissa... e segreta.
Non passò allora la giusta tattica comunista
La proposta comunista tante volte avanzata alle organizzazioni sindacali e alla Alleanza del Lavoro, era assai chiara e precisa nel fissare gli scopi e i mezzi del movimento. Invece cosa era stato risposto da parte di tutti gli altri? Si iniziò con il dire che lo sciopero avrebbe dovuto essere insurrezionale e quindi doveva essere iniziato solo quando si fosse matematicamente sicuri della vittoria della rivoluzione sociale. Però, dietro le quinte, i socialdemocratici intrallazzavano per servirsene nella soluzione della crisi ministeriale con la loro partecipazione al governo. Soluzione auspicata pure dai massimalisti e, non dimentichiamocelo, dagli stessi anarchici.
Quale allora il risultato positivo dello sciopero generale? Quello di avere chiarito al proletariato le idee fondamentali della lotta di classe.
«Non sciopero pacifico o legalitario che si perde nel miraggio che il proletariato si salvi dalla reazione a mezzo di un diversivo parlamentare; non sciopero rivoluzionario nel senso dei rivoluzionari di carta pesta che hanno per insulsa divisa il “o tutto o nulla” e per pratica (da cui sono impotenti a staccarsi), soltanto uno dei termini: il nulla. Sciopero invece di avanzata su posizioni ulteriori di lotta e di combattimento per il sempre migliore inquadramento e armamento politico e militare delle masse, per la consolidazione di una loro unità di fronte, veicolo ad una potente e vastissima unità di organizzazione nel partito rivoluzionario di classe, arma insostituibile della rivoluzione proletaria.
«Lo sciopero è stato stroncato da chi ne aveva la dirigenza [...] Non si doveva cessare lo sciopero, non foss’altro perché i fascisti lo avevano intimato. Dimostrare la impotenza fascista a fermare la mobilitazione generale proletaria: ecco un risultato di alto conforto per il rinnovamento delle forze morali e materiali delle masse [...] Malgrado la bravata fascista e la viltà socialista, il proletariato è in piedi: il proletariato non è battuto. Esso saprà troppo tardi il valore della prova che ha dato; esso continua la lotta su due fronti, per la sua vittoria immancabile» (“Il Comunista”, 4 agosto 1922).
(continua al prossimo numero)
Parte quinta - Le guerre rivoluzionarie del proletariato -
A. In Russia
(continua dal numero scorso)
Dal 1905 al Febbraio
Capitoli esposti a Firenze nel settembre 2018 e a Torino nel gennaio 2019
1. L’autocrazia zarista
Nicola II Romanov era stato solennemente incoronato Zar di tutte le Russie il 26 maggio 1896 all’età di 28 anni, 18 mesi dopo la morte del padre Alessandro III. Assunse così pienamente tutti i poteri di un monarca assoluto, compresa, in teoria, la nomina e la revoca in ogni momento di tutte le cariche pubbliche senza dover consultare alcuna istanza intermedia.
Per quanto poco valgano le caratteristiche del singolo individuo nei momenti cruciali del divenire della storia, riferiamo che, alcolista, aveva un carattere influenzabile, superstizioso, ma ostinato nella difesa delle sue prerogative autocratiche e imperiali. Alcune di queste sue debolezze si rivelarono particolarmente dopo l’arrivo a corte, nel 1905, del monaco guaritore Rasputin, che faceva credere di poter guarire l’erede al trono affetto da emofilia ereditaria.
Nicola, che aveva avuto una formazione economica, militare e di rappresentanza, continuò la politica conservatrice impostata dal padre. Fu confermata la nomina di S.J. Vitte a ministro delle finanze, poi a primo ministro, un progressista moderato incaricato di portare la Russia al ruolo di grande potenza industriale e imperialista. Il suo ascendente sul governo e sullo Zar era tale da influenzare anche la politica estera del paese.
Vitte si era reso conto che erano necessarie profonde riforme sociali e politiche perché il grande disegno, iniziato con l’abolizione della servitù della gleba nel 1861 ad opera dello Zar riformatore Alessandro II, cominciasse a dare i suoi risultati economici. La politica agraria adottata con il ripopolamento della Siberia e dei territori più orientali invece si rivelò inadeguata e fallimentare. La sua politica trovava forti contrasti a corte, manovrata dall’aristocrazia e dai latifondisti. Chiese, monasteri e circa 3.000 grandi famiglie possedevano il 90% delle terre coltivabili. Era insomma rimasta irrisolta la questione agraria anche dopo il 1861 e il riscatto delle terre dietro indennizzo. Nella maggior parte dei casi le condizioni di vita dei piccoli contadini erano peggiorate.
La crisi flagellò le campagne, specialmente in seguito alle due gravi ravvicinate carestie del 1897 e del 1899, che si ripercossero anche nell’industria con la chiusura di molti impianti, già in difficoltà per la prolungata congiuntura internazionale negativa.
Nelle campagne nel marzo e aprile dal 1902 era ripresa una ondata di ribellioni e saccheggi delle grandi proprietà con numerosi attentati terroristici contro aristocratici e governatori. Le rivolte interessarono 48 villaggi nel 1900, 50 nel 1901, 340 nel 1902, 141 nel 1903, 91 nel 1904.
La situazione politica e sociale precipitò infine per il pessimo andamento della guerra contro il Giappone, iniziata nel febbraio 1904.
2. Un efficiente sistema di polizia
Un necessario strumento di controllo sociale e di repressione fu l’Ochrana, (ovvero Dipartimento di Sicurezza) la efficientissima polizia segreta zarista. Fondata nel 1826, fu poi riformata e potenziata nel 1881, dopo l’assassinio dello Zar Alessandro II, avvenuto a seguito di due elaborati attentati a breve distanza di tempo, non previsti e intercettati. L’Ochrana fu posta sotto il diretto controllo del ministro dell’Interno, dotata di ampi poteri discrezionali specialmente sull’eversione politica, di controllo sulle scuole, sulle università, sugli organi di stampa e nell’amministrazione della giustizia. I suoi agenti potevano arrestare e condannare all’esilio chiunque sospettassero di qualche attività sovversiva senza passare dai tribunali. Lavorò alacremente e con efficacia a protezione del regime e dello Zar al punto che la stragrande maggioranza dei dirigenti di tutte le organizzazioni avverse allo zarismo, che non riuscirono a fuggire per tempo all’estero, fu arrestata e inviata al confino, o dopo il carcere esiliata. L’Ochrana fu soppressa dopo la rivoluzione di febbraio 1917.
3. I partiti della classe operaia
Molte delle principali organizzazioni politiche e sindacali in Russia sul finire del 1800 avevano una diffusione locale. Erano tutte costrette alla clandestinità per la feroce repressione dello zarismo che le vietava costringendole a stabilire i loro centri direttivi all’estero.
Nel 1883 G. Plechanov aveva costituito a Ginevra il gruppo politico “Emancipazione del lavoro”, prima formazione di ispirazione marxista, divenuto nel 1895 “Unione di lotta per l’emancipazione della classe operaia”.
All’interno delle diverse nazionalità presenti nell’impero erano sorti sia partiti di ispirazione socialista sia partiti nazionalisti, che si opponevano alla oppressione zarista e lottavano per una forma di autonomia se non per l’indipendenza: il Partito Socialista Polacco, fondato a Parigi nel 1892, quello di Lituania, di Georgia e d’Armenia. I musulmani in Russia erano attratti dai movimenti panislamici che si stavano diffondendo nell’impero ottomano. All’interno della comunità ebraica nel 1897 fu costituito il socialista Bund (“Unione” o “Lega”), che si affermò principalmente in Lituania, in Polonia, in Ucraina e in Bielorussia. Alcuni dei suoi aderenti confluirono nei maggiori partiti russi, altri rimasero indipendenti.
Una importante svolta si ebbe con il prevalere del marxismo sulle posizioni populiste. Con l’unificazione dei diversi circoli socialisti si giunge alla costituzione del “Partito Operaio Socialdemocratico Russo” avvenuto con un congresso clandestino, tenuto in una casa privata a Minsk nel marzo 1898, da nove rappresentanti di sei diverse organizzazioni rivoluzionarie.
Al secondo Congresso del POSDR iniziato a Bruxelles nel 1903, poi trasferito a Londra per le persecuzioni della polizia locale, vi fu la netta contrapposizione sull’articolo 1 dello Statuto che rivelava due opposte concezioni di partito. Lenin era per un partito centralizzato e disciplinato composto da “rivoluzionari di professione” inquadrati nei suoi vari organismi, secondo quanto aveva formulato nel “Che fare?” del 1902. Gli si contrapponeva Martov che intendeva il partito come un movimento nel quale sarebbero potuti confluire contributi diversi, senza impegno militante: ebbe la minoranza dei voti, quelli dei “menscevichi”.
Altro fondamentale contrasto riguardava il superamento dell’autocrazia: i bolscevichi lo intendevano attraverso una rivoluzione borghese radicale che sarebbe potuta uscire solo da una insurrezione che impiantasse una dittatura del proletariato in alleanza democratica con i contadini poveri, mentre i secondi prevedevano l’affermarsi di una repubblica democratica, di stampo occidentale, tramite dei compromessi fra la borghesia e lo zarismo e con metodi essenzialmente elettorali.
Gli anni successivi alla sconfitta della rivoluzione del 1905, che provocò anche l’uscita di molti menscevichi, furono assai difficili per il partito, soprattutto dal 1909 al 1911, frantumato in piccoli gruppi isolati all’estero.
La netta rottura tra menscevichi e bolscevichi avvenne nel 1907 al V Congresso del POSDR, svoltosi a Londra, su varie questioni fra le quali il ruolo del Partito e delle masse contadine. I contrasti crebbero al punto che nel 1912 si ebbe la definitiva separazione: la frazione menscevica sviluppò un percorso ondivago e travagliato ma convergente nell’appoggio, condizionato, al Governo Provvisorio.
Il Partito Socialista Rivoluzionario sorse nel 1902 anch’esso dalla fusione di diversi gruppi locali. Di ispirazione populista e non marxista era particolarmente diffuso tra i piccoli contadini per il suo programma di distribuzione delle terre comuni, contrapposto a quello del POSDR che era per la nazionalizzazione delle terre. Il PSR riteneva che i contadini fossero la vera e sola classe rivoluzionaria in Russia e considerava centrale nella sua strategia l’uso del terrorismo tramite la sua affiliata “Organizzazione di Combattimento del SR” (OCSR) responsabile di numerosi attentati ad alte personalità del potere.
4. I sindacati
Tra gli anni 1896‑1897, periodo in cui in Russia erano sempre vietate le libertà politiche e civili, sorsero clandestinamente all’interno delle fabbriche i primi comitati per la difesa operaia.
Nel maggio e giugno 1896 si ebbero a Pietrogrado importanti scioperi con 35.000 operai tessili a rivendicare aumenti salariali e, per la prima volta, la riduzione della giornata lavorativa dalle 14 ore a 10 ore e mezza. La forza dello sciopero fu tale che industriali e governo dovettero cedere parzialmente stabilendo per legge la riduzione della giornata lavorativa a 11 ore e mezza, ma solo per alcune categorie e senza porre limiti agli straordinari. In generale non era riconosciuto il diritto agli operai di costituire organizzazioni sindacali stabili né il diritto di sciopero.
Dovendo ammettere l’impossibilità di arrestare la lotta operaia, partì nel 1898 da S. Zubatov, dirigente della polizia politica di Mosca con un passato di rivoluzionario, la proposta di creare organizzazioni legali dei lavoratori dirette e controllate dalla polizia allo scopo di impedire che si sviluppassero al loro interno influenze e direzioni sovversive. Queste associazioni avrebbero potuto presentare esclusivamente rivendicazioni economiche senza alcuna richiesta di natura politica e utilizzando l’arma dello sciopero solo in casi estremi.
Il piano necessitò di una lunga opera di convinzione all’interno del governo finché nel maggio 1901 a Mosca fu costituita la “Società di mutuo soccorso degli operai dell’industria meccanica” il cui statuto fu approvato legalmente l’anno seguente. Non vi si parlava di diritti sindacali e politici e un comma apposito, imposto dal neo ministro degli Interni Pleve, faceva esplicito divieto di utilizzo dei fondi in aiuto a eventuali scioperanti. Era previsto altresì che le conferenze tenute ai lavoratori sulla questione operaia così come le sale di lettura e le biblioteche fossero sorvegliate dalla polizia. A Pleve, succeduto a Sipjagin, assassinato nel 1902, toccò la stessa fine nel 1904.
Attraverso un comitato direttivo formato da operai scelti dai lavoratori e controllati dalle autorità, i lavoratori avrebbero potuto presentare alle imprese le loro richieste. Sorsero così in una decina di città, società operaie simili dando vita a questa strana forma associativa venuta dall’alto, definita “Socialismo di polizia”. Ma già dal 1903 esplosero le contraddizioni insite nel progetto di Zubatov per la forte richiesta degli operai di affrontare tutte le importanti questioni del lavoro in Russia. Nonostante il lavoro di pompieraggio dei dirigenti di quelle Società Operaie, si ebbero nel giugno e luglio 1903 grandi ed estesi scioperi che paralizzarono il sud della Russia, a Baku, Tbilisi, Kiev e Odessa.
Questi provocarono le proteste degli industriali e delle autorità locali al governo centrale. Pleve sciolse allora le Società Operaie e mandò in esilio Zubatov; successivamente riprese quel progetto limitandolo alla sola Pietrogrado e affidandone la direzione al pope Gapon, attivo predicatore nei quartieri operai, aprendo circoli per la pacifica emancipazione degli operai, contro l’alcolismo e l’analfabetismo. Gapon era anche collegato con l’Ochrana.
Il 28 febbraio 1904 fu poi approvato dal governo lo statuto della nuova “Assemblea degli Operai russi di Fabbrica” nel quale era ben ribadito il divieto di sostenere eventuali scioperi. Poiché le quote d’iscrizione degli operai non erano sufficienti a finanziare le attività dell’organizzazione, l’Ochrana contribuì con 6.000 rubli ed altri fondi giunsero dal Ministero degli Interni. In breve tempo Gapon aprì 11 sedi in Pietrogrado mentre fallirono i suoi tentativi in altre città.
Dopo la Domenica di sangue, mentre continuava il grande sciopero a Pietrogrado e i cosacchi rastrellavano le strade alla ricerca dei sovversivi, la polizia chiuse tutte le sezioni dell’Assemblea, ne sequestrò i beni e ne arrestò gli esponenti più in vista, quelli che non erano riusciti a nascondersi.
5. Il 1905
Lenin considerò la rivoluzione del 1905 la prova generale dell’Ottobre 1917.
In reazione al licenziamento di quattro operai delle Officine Putilov nel dicembre 1904, aderenti all’Assemblea degli Operai Russi, si organizzarono manifestazioni e scioperi tendenti non solo al reintegro dei licenziati e a migliori salari e condizioni di lavoro ma anche alla concessione di libertà civili e politiche. Non ottenendo risposte si giunse alla manifestazione pacifica della Domenica del 22 gennaio 1905, guidata dall’ambigua figura del pope Gapon, presidente dell’Assemblea Operaia, al fine di presentare una petizione allo Zar. Undici cortei di proletari, partiti dalle diverse sezioni territoriali dell’Assemblea, confluirono verso il Palazzo d’Inverno. Furono fermati dai fucili dei cosacchi, disposti secondo un accurato piano antisommossa, che provocarono almeno 1.200 morti e oltre 5.000 feriti.
Nicola l’11 febbraio decretò la formazione di una Commissione “per studiare le cause del malcontento dei lavoratori nella città di Pietrogrado e della sua periferia, e per cercare di eliminarle”. Sarebbe stata composta da funzionari statali, da industriali e da 50 operai, sotto la presidenza del consigliere di Stato Šidlovskij.
L’elezione dei delegati operai prevedeva un doppio turno presso le fabbriche di Pietrogrado individuate tra nove diverse tipologie di produzione: si nominavano 400 elettori che avrebbero indicato i 50 delegati alla Commissione. Dei 400 primi eletti, il 40% risultarono appartenenti all’Assemblea Operaia, il 20% erano menscevichi e bolscevichi del Partito Operaio Socialdemocratico Russo e il rimanente di altre organizzazioni minoritarie di mutuo soccorso o filantropiche alcune delle quali fondate da benefattori borghesi. Una di queste era stata fondata dal direttore delle Officine Putilov, dopo aver ritirato il suo appoggio all’Assemblea Operaia.
Per la forte azione dei bolscevichi gli operai chiesero che prima di votare fosse garantito loro il diritto di riunione, di libera discussione e propaganda, la riapertura delle associazioni operaie soppresse, la liberazione dei candidati operai detenuti dopo la Domenica di Sangue e che i lavori della Commissione fossero pubblici. Respinte tali richieste, gli operai dichiararono di boicottare la Commissione e chiesero che si scioperasse per la riduzione della giornata lavorativa ad 8 ore, per alcune assicurazioni previdenziali e per la fine della guerra contro il Giappone.
Il 5 marzo lo Zar sciolse la Commissione Šidlovskij. Si dileguò così definitivamente il mito dello Zar buon padre dei russi. Da poco aveva respinto le sollecitazioni di Vitte in merito alla concessione di qualche riforma democratica: «Non darò mai il mio consenso a una forma di governo rappresentativo perché lo considero nocivo alla carica che Dio mi ha dato verso il popolo».
Iniziò così la Rivoluzione del 1905. La rivolta ne innescò altre in tutto l’impero, vi furono massacri di proletari a Riga, Varsavia, in Finlandia, nella Russia centrale, nelle regioni del Volga e nel Caucaso, entrati in sciopero per gli stessi obiettivi. Nella città di Ivanovo-Voznesensk, nel distretto di Mosca, chiamata la “Manchester russa” per l’alta concentrazione di fabbriche tessili, il 25 giugno 1905 iniziò un grande e lungo sciopero di 40.000 operai secondo per intensità solo a quello di Pietrogrado.
Tutte queste manifestazioni, tra cui l’ammutinamento della corazzata Potëmkin proprio in quei giorni, dimostrano una situazione non più sostenibile.
6. I soviet
«La storia della nascita dei soviet è la storia della rivoluzione del 1905», così afferma perentoriamente V.I.Nevskij nella “Storia del partito bolscevico - Dalle origini al 1917”.
A Pietrogrado, nell’insieme delle azioni a difesa delle lotte operaie e di sostegno alle loro famiglie, erano nati, anche spontaneamente, dei centri di raccolta di denaro e alimenti. Nella maggior parte funzionavano durante gli scioperi, limitati alla singola fabbrica e finché gli organizzatori non venivano arrestati. Alcuni ricevevano fondi dagli ambienti borghesi e liberali d’opposizione allo zarismo.
Successivamente tra gli operai sorse la necessità di costituire un organo permanente di vigilanza, soccorso e coordinamento delle lotte con un raggio d’azione che superasse quello della fabbrica. Fu usato il termine “soviet”, che in russo significa “consiglio”. Apparvero altri soviet non solo nella città baltica ma anche nei maggiori centri industriali mentre in tutto il paese scoppiava la rivoluzione.
Nel marzo 1905 nell’officina metallurgica di Alapajevsk, negli Urali, gli operai entrarono spontaneamente in sciopero per protesta contro la riduzione del salario. Si rivoltarono energicamente contro la polizia che aveva arrestato alcuni di loro riuscendo a cacciarla dalla città. Il 25 marzo insieme ai minatori del luogo si unirono in assemblea eleggendo i loro rappresentanti per avere soddisfazione dall’azienda. Anche i lavoratori di Nadeždinsk (oggi Serov) ai primi di maggio costituirono il loro soviet.
Il 28 maggio gli operai tessili di Ivanovo-Voznesensk, nel distretto di Mosca, costituirono il soviet, composto di 151 delegati, che diresse lo sciopero più esteso della Russia, durato 2 mesi, di 50.000 operai. Questo è considerato il vero primo soviet russo svolgente tutte le sue funzioni. Quello di Mosca, composto da 264 delegati di 110 imprese con un comitato esecutivo di 15 membri, divenne il fulcro delle lotte proletarie nel distretto.
Nel 1905 in Russia erano nati 62, soviet, oltre che di operai anche di soldati, cosacchi, marinai e contadini.
Nella sola Pietrogrado si erano formati anche 41 sindacati delle più diverse categorie di lavoratori, che godevano di indiscussa autorità.
Le principali richieste del soviet erano la giornata lavorativa di otto ore, il divieto del lavoro dei bambini, la soppressione delle multe, il diritto di sciopero, il riconoscimento legale dei delegati sindacali, oltre a tutti i diritti politici.
7. L’economia russa di fronte alla guerra mondiale
Nonostante il poderoso sviluppo industriale, iniziato a partire dal 1870, la economia della Russia si basava ancora sull’esportazione di materie prime, delle eccedenze agricole e sulla importazione di ogni sorta di beni manufatti, dei quali la produzione interna non copriva il fabbisogno.
Al 1913 la provenienza del reddito nazionale era così composta: 51% agricoltura; 21% industria; 17% edilizia; 6% trasporti e 5% commercio. L’autoconsumo, che restava ancora assai diffuso, falsa le statistiche che misurano solo quanto portato al mercato.
L’industrializzazione della Russia si era sviluppata in grandi complessi in pochi centri: il tessile intorno a Mosca, la metallurgia e la meccanica a Pietrogrado, con la sua antica cantieristica navale e grande centro commerciale sul mare.
Gli operai dell’industria nel 1860 erano circa 700.000, che diventarono 1,4 milioni nel 1890, 2,3 milioni nel 1900 e 3,2 nel 1913. Nel 1890 le fabbriche con più di 500 operai erano il 20% del totale delle industrie e occupavano il 58% della popolazione operaia, in continua crescita. Nel 1902 questa quota di aziende crebbe al 26% del totale e al 70% degli operai, per la più parte di origine contadina inurbata. La massima concentrazione della forza lavoro operaia per impianto produttivo era nei 15.000 addetti delle Officine Putilov a Pietrogrado, cresciuti a 36.000 nel 1916/17 per la produzione bellica. Permaneva ancora un vasto numero di aziende con meno di 50 operai e una non ben quantificata miriade di piccole aziende semi‑artigianali che lavoravano in subappalto, fornitrici di semilavorati per le più grandi.
La produzione militare in Russia crebbe esponenzialmente: dal 1914 al 1916 i cannoni consegnati passarono da 450 a 4.300; i fucili da 100.000 a 1,3 milioni; le munizioni arrivarono a 30 milioni. La produzione di carbone per l’esercito aumentò del 30%; i prodotti chimici del 200%, i macchinari del 300%, togliendo importanti risorse alla popolazione civile.
Pietrogrado era la città più importante di tutto l’impero, la vera capitale, centro commerciale e industriale e sede del Governo. Nel corso della guerra la sua popolazione era cresciuta, per le necessità della produzione bellica, ad una cifra stimata nel 1917 in 2,6 milioni, di cui 400.000 operai, un terzo dei quali donne. Vi si aggiungeva un’abnorme guarnigione di 300.000 soldati, oltre i 30.000 fanti e marinai della vicina base navale nell’isola di Kronštadt.
Nonostante le paghe operaie fossero aumentate del 260% dall’inizio della guerra, il potere d’acquisto reale era diminuito del 30%. I partecipanti agli scioperi per aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro furono il 28% degli operai nel 1915, il 49,8% nel 1916.
I rovesci militari, lo spaventoso numero dei morti in guerra, la palese incapacità del governo e dello Zar a gestire la situazione aggravarono le già pesanti condizioni economiche popolari, che in Pietrogrado significavano forte penuria di alloggi, oltre che di viveri, vestiario e combustibile, dirottati a rifornire l’esercito. Nel gennaio 1917 in città arrivavano solo 49 degli 89 vagoni giornalieri di provviste necessarie alla popolazione. Ma nel corso della guerra anche all’esercito fu ridotta la razione di pane da tre libbre a due, poi a una, con l’integrazione delle lenticchie, il che suscitò molte proteste.
Stime calcolano in 12 milioni i contadini tolti dai lavori agricoli e trasferiti sui fronti. Questa una concausa del crollo della produzione di grano: nel corso della guerra fu di 70,5 milioni di tonnellate nel 1914, di 76,3 milioni nel 1915, di 64,1 milioni nel 1916 per scendere ulteriormente a 62,2 nel 1917. Altre cause del contrarsi del raccolto di grano furono la riduzione a circa la metà della produzione di macchinari agricoli e di fertilizzanti e le requisizioni dei cavalli. L’arresto delle importazioni di derrate aggravò la situazione al punto che dall’ottobre del 1916 iniziò un pesante razionamento dei principali alimenti, costringendo la popolazione a lunghe code nei punti di distribuzione.
La forte svalutazione del rublo di carta e la penuria di prodotti necessari, dai chiodi alle calzature agli utensili, spinse i contadini a non vendere le eccedenze e a nasconderle in attesa di tempi e prezzi migliori, situazione che esploderà drammaticamente dopo la rivoluzione di Ottobre.
Anche il settore industriale entrò in crisi per la indisponibilità di materie prime, particolarmente il carbone, e per le restrizioni imposte sui prezzi d’acquisto dall’erario, il quale pagava le commesse sempre con maggior ritardo, per cui le aziende iniziarono a licenziare e a chiudere gli stabilimenti.
8. Lo zarismo di fronte alla guerra mondiale
Esauritasi l’onda rivoluzionaria, il governo, dopo un iniziale sbandamento, riprese il controllo della situazione tramite una feroce repressione dei rivoluzionari, molti dei quali, scampati alla morte, alla prigione e al confino in Siberia, furono costretti all’esilio. Il 16 dicembre fu imprigionato l’intero comitato esecutivo del soviet di Pietroburgo, tra cui Trotski, con tutti i dirigenti dei sindacati oltre ad un migliaio di operai. I sindacati furono soppressi e la polizia chiuse anche l’Assemblea Operaia di Gapon e a Mosca disperse a cannonate il congresso dei ferrovieri.
Lo Zar si convinse però a concedere alcune limitate garanzie e l’elezione di una prima Duma, un’assemblea puramente consultiva a debole somiglianza di un parlamento occidentale, conservando per sé l’insindacabile diritto di scioglierla in qualunque momento e di nominarne le cariche più importanti.
In seguito a continue violente proteste, Vitte riuscì a convincere lo Zar ad assegnare alla Duma di Stato poteri legislativi come camera bassa, ma affiancata dal Concilio di Stato, una camera alta composta per metà da nobili nominati dallo Zar e da esso presieduta. Questo sistema elettorale favoriva i grandi proprietari terrieri feudali ed escludeva il principio borghese di “una testa, un voto”. Si basava su un meccanismo di divisione territoriale, fondiario, di classe e professionale dove un voto di un proprietario terriero valeva 3 voti di un membro della borghesia cittadina, 15 voti dei contadini e 45 voti degli operai. Le donne erano escluse.
La prima Duma eletta nel 1906 durò solo 3 mesi, dal 27 aprile all’8 luglio, sciolta da Nicola, irritato dalle proposte riformatrici avanzate. Licenziò il primo ministro Vitte sostituendolo con il conservatore Stolypin. Alla successiva consultazione elettorale la maggior parte dei partiti della borghesia radicale aveva deciso di non partecipare ed il Partito Democratico Costituzionale, o dei Cadetti, favorevole a riforme sociali sotto una monarchia costituzionale, ebbe la maggioranza relativa.
Anche la seconda Duma, dove era stata eletta una forte rappresentanza dei partiti della democrazia borghese, ebbe vita breve, dal 20 febbraio al 3 giugno 1907. Il primo ministro Stolypin accusò i socialisti di preparare nuove rivolte armate e pretese di escludere dal voto 56 deputati socialdemocratici, togliendo l’immunità parlamentare a 16 di questi.
Appellandosi all’emergenza lo Zar sciolse subito la Duma e modificò il sistema elettorale riducendo ulteriormente il peso delle classi popolari e dei non russi e aumentando quello della nobiltà. Stolypin instaurò anche un forte regime repressivo; alcune stime riferiscono di 4.500 rivoluzionari condannati a morte per impiccagione in pochi anni: la corda del boia veniva chiamata “la cravatta di Stolypin”.
La terza Duma durò per tutti i 5 anni del suo mandato dal 1907 al 1912; era composta in maggioranza da nobili, proprietari terrieri, industriali e uomini d’affari. Cooperò attivamente col governo, approvò l’aumento delle spese militari e una limitata riforma agraria, impostata da Stolypin, basata sulla trasformazione in proprietà privata delle terre comuni tendente a favorire una piccola borghesia rurale.
Stolypin fu assassinato nel 1911.
La quarta Duma, detta dei “cani sciolti” di destra, per la consistente presenza di politici non appartenenti ad alcun specifico partito, operò dal 1912 al 1914 quando, allo scoppio della guerra, votò la propria auto‑dissoluzione per tutta la durata del conflitto. Con la rivoluzione del febbraio 1917 fu sciolta definitivamente.
Durante la rivoluzione del 1905, dalla fusione di alcune associazioni similari, era sorta un’organizzazione in difesa della monarchia, del nazionalismo russo e della tradizione ortodossa denominata Centurie Nere o Centoneri. Godeva di consistenti appoggi nel governo e a Corte e vantava lo Zar come membro onorario. I Centoneri, che reclutavano le loro milizie tra i contadini ricchi, il clero e la polizia, erano impiegati per i lavori sporchi, accanto alla polizia, specialmente nei pogrom contro gli ebrei, al tempo circa 5 milioni in Russia, e contro gli intellettuali e gli oppositori liberali. Furono particolarmente attivi tra il 1905 e il 1911.
9. Il movimento operaio e la guerra
La repressione statale frenava lo sviluppo delle organizzazioni operaie, ciò nonostante per il peggiorare delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori nel 1912 ripresero i grandi scioperi.
Così scrive Zinoviev: «Nel 1913, e soprattutto nel 1914, il movimento operaio entrò in una nuova fase, passando dagli scioperi alle manifestazioni e agli scontri di strada. A partire dall’inizio del 1914 apparvero a Pietroburgo le prime barricate e gli scioperi assunsero un’ampiezza e un impeto irresistibili. Se non fosse scoppiata la guerra si sarebbero verificati nel 1915 avvenimenti analoghi a quelli del 1905, con la differenza che questa volta i contadini avrebbero quasi certamente dato prova di maggiore maturità. Ma se in un primo momento la guerra frenò la rivoluzione, in seguito l’accelerò e ci permise di sostituire la formula della “rivoluzione democratica” con quella della “rivoluzione proletaria”».
Lo sforzo impetuoso e la dura lotta dei lavoratori per ottenere migliori condizioni di vita e lavoro durante le guerre era messo a dura prova dalla menzogna della “patria in pericolo” che spudoratamente ogni borghesia sbraita e con la quale tutti gli opportunisti, di destra e di sinistra, giustificano il loro tradimento.
Così fu per la Russia in quegli anni, come ricorda Zinoviev che così descrive la situazione in cui era stata confusa e adescata la classe operaia: «I menscevichi trascinarono gli operai di Pietroburgo nei comitati industriali di guerra. Organizzati sotto gli auspici di Gučkov, uno dei rappresentanti più in vista della borghesia ottobrista, questi comitati avevano lo scopo di incrementare la produzione nelle fabbriche e aumentare così le possibilità di vittoria (...) Come internazionalisti conseguenti, gli operai bolscevichi rifiutarono di partecipare ai comitati, che erano strumenti del governo zarista (...) I menscevichi (...) entrarono nei comitati industriali di guerra. Tra i socialisti-rivoluzionari (...) nessuno si oppose apertamente allo sciovinismo. Plechanov fu il principale promotore del socialsciovinismo russo, fenomeno particolarmente negativo per noi, visto che godeva di un grande prestigio nella Seconda Internazionale e, malgrado le sue fluttuazioni, di un’influenza non minore nel nostro partito. Germanofobo e social-sciovinista, arrivò perfino a dichiarare che la Russia conduceva una guerra giusta. «Sono un vecchio rivoluzionario, diceva. Sapete che da 25 anni lotto contro lo zarismo, che non ha cessato di perseguitarmi. Ebbene! Dico che la guerra che la Russia sta facendo è giusta e che, finché durerà, dobbiamo interrompere la lotta contro il governo russo».
10. La situazione al fronte
L’esercito russo, che già aveva iniziato la guerra con un notevole deficit di armamenti, non era sostenuto, in un conflitto di simile ampiezza e durata, dalla produzione della industria bellica dell’impero. Gravi erano inoltre i problemi di trasporto della grande massa di materiale necessario.
Molto di questo proveniva dagli alleati, previo trasferimento di lingotti d’oro nelle banche londinesi e dell’invio di numerosi contingenti di soldati russi a rinforzo del fronte occidentale. Senza quell’aiuto l’armata russa non avrebbe potuto resistere a lungo, facendo così mancare la sua pressione da oriente sulle forze tedesche.
All’inizio del conflitto, nel 1914, l’esercito russo, al tempo il più grande del mondo, riuscì a mobilitare oltre 15 milioni di uomini. Agli inizi del 1917 ne aveva già persi, complessivamente, 5 milioni.
Ma la situazione non era particolarmente compromessa perché le evidenti perdite territoriali a nord erano parzialmente compensate dai successi a sud.
Sul fronte caucasico la situazione era di stallo: le truppe del generale Judenič erano penetrate nell’agosto del 1916 nei territori ottomani e controllavano alcune importanti posizioni e roccheforti, ma per il resto dell’anno vi rimasero inattive; l’inverno successivo fu molto duro e impedì ogni combattimento; si organizzavano nuove offensive per la primavera.
La tardiva entrata nel conflitto della Romania, nell’agosto 1916, per la liberazione della Transilvania dall’impero austroungarico, con il sostegno degli alleati dell’Intesa, aveva obbligato i comandi russi a trasferire truppe a sud, indebolendo il resto del fronte.
Sul fronte settentrionale, dopo la “Grande ritirata russa” dalla Galizia e dalla Polonia, fu affidata ai generali Alexeev e Brusilov la riorganizzazione per una nuova offensiva nel 1916. Questa necessitò di alcuni mesi per lo scarso afflusso di materiale e per l’estensione del fronte, lungo 400 chilometri.
L’offensiva Brusilov ottenne scarsi risultati sul fronte tedesco. Su quello austroungarico ebbe un buon successo, nonostante le ingenti perdite. Ma non fu possibile sfruttarlo al meglio perché le truppe erano scarse rispetto alla vastità del fronte. In più la rapida avanzata aveva notevolmente allungato le linee dei rifornimenti che il pessimo sistema ferroviario non favoriva. Si arrestarono alle pendici dei Carpazi, per la difficoltà orografica.
Da quel momento la forza combattiva dell’esercito dello Zar crollò, non solo per cause tecniche ma per gravi motivi propri, le diserzioni sempre più massicce, spinte dalla generale opposizione alla guerra e dalla propaganda delle cellule rivoluzionarie al suo interno.
Il governo, per contrastare gli scioperi e le proteste nelle fabbriche militarizzate, mandava al fronte gli operai e i sindacalisti più combattivi, per le loro qualifiche già richiamati alla produzione e per questo esentati dal servizio militare. Questa pessima decisione permise la maggiore diffusione delle idee socialiste nelle truppe, di prevalente origine contadina e provenienti dagli angoli più remoti dell’impero, dove la circolazione delle informazioni era stata molto scarsa.
11. La rivoluzione di Febbraio
Le tensioni politiche e sociali per le cattive condizioni dei soldati sui fronti di guerra e delle classi inferiori in tutta la Russia, con l’aggravarsi della crisi alimentare si acuirono assai nel gelido inverno del 1916. Si diffusero gli scioperi che nel periodo gennaio-febbraio 1917 soltanto nelle imprese per la produzione bellica coinvolsero 700.000 operai.
A Pietrogrado erano presenti tre principali organizzazioni operaie: il Comitato del partito bolscevico, quello dei socialdemocratici menscevichi e quello del Comitato interrionale dei socialdemocratici internazionalisti, sorto nel 1913, formato dal gruppo di Trotski e da fuoriusciti dal partito bolscevico. Altri organismi minori di ispirazione socialista operavano in modo autonomo.
Queste organizzazioni si caratterizzavano per diverse impostazioni politiche. I bolscevichi erano attestati sull’opposizione alla guerra, sul boicottaggio dei comitati di mobilitazione industriale e diffondevano la parola d’ordine della guerra civile contro la guerra imperialista. Il gruppo menscevico adottava una tattica da “partito operaio liberale”, sosteneva la partecipazione ai comitati di mobilitazione industriali, quindi anche la continuazione della guerra. Il comitato interrionale cercava di mediare tra le diverse posizioni alla ricerca di una inconciliabile unitarietà.
Nel fronte di classe opposto l’alta aristocrazia terriera e quella capitalista detenevano il controllo della produzione alimentare, militare, industriale, la distribuzione delle merci e le risorse finanziarie. Pur essendo in contrasto col governo non intendevano rimuovere l’autocrazia né porre fine alla guerra, fonte di grandi profitti; cercavano un accordo con lo Zar per un sistema politico ed economico più corrispondente ai loro interessi. Il “blocco progressista”, composto dai deputati dei partiti riformisti della Duma, anche dopo l’ennesimo tentativo di accordarsi con lo Zar nell’autunno 1916, cercavano un compromesso che evitasse colpi di Stato e una rivoluzione, che temevano e ne avvertivano le premesse. Tutt’al più auspicavano una estesa sommossa da usarsi come leva nei confronti dello Zar, ma che sarebbe stata da schiacciare nel sangue.
Lo Zar, che mal sopportava l’infida corte di Pietrogrado, si era spostato a Mogilev nella sede del quartier generale al fronte in Bielorussia, seppure non richiesto e nemmeno gradito dai suoi generali. Alla bisogna scioglieva e riapriva la Duma secondo i suoi instabili umori e le pressioni a cui era soggetto, in particolare della zarina, a sua volta influenzata da Rasputin. Questi infine fu assassinato da una congiura di nobili il 30 dicembre 1916.
Il governo, indebolito dai continui cambi di ministri e da lotte interne per il potere, aveva perso compattezza e gran parte della capacità e possibilità di controllare il paese, specialmente nella gestione della produzione e dei rifornimenti alimentari; per sopperire a queste necessità i lavoratori erano sostenuti dalle loro organizzazioni cooperative e dai sindacati.
Il governo, pressato dalle agitazioni dei lavoratori, aveva tentato di calmierare il prezzo del grano; questa manovra ne produsse però l’accaparramento da parte dei grandi proprietari terrieri che ne ostacolavano la vendita, innescando così anche uno scontro tra i fondiari e i grandi industriali che non erano disposti a trasferire parte dei profitti alla speculazione degli agrari sotto forma di aumenti salariali.
Nonostante i molti segnali di forte agitazione delle masse, il Comitato centrale bolscevico di Pietrogrado e quello delle altre organizzazioni operaie ritenevano che la situazione fosse ancora lontana da una esplosione rivoluzionaria.
In preparazione della manifestazione per la Giornata internazionale della donna, l’8 Marzo (22 febbraio secondo il calendario giuliano), i diversi gruppi politici avevano svolto la limitata propaganda consentita dalle pesanti restrizioni imposte dal regime di guerra, dai continui arresti e dalle deportazioni delle cerchie dirigenti che man mano si riformavano.
Lo stesso Comitato bolscevico del rione proletario di Vyborg, all’avanguardia in Pietrogrado, dopo una iniziale propaganda per uno sciopero contro la guerra, l’autocrazia ed il caro vita, cambiò indicazione sconsigliando qualsiasi sciopero locale e parziale collegato alla manifestazione per l’8 Marzo temendone la trasformazione in conflitto aperto con inutile bagno di sangue; invitava però i lavoratori a prepararsi per una prossima azione rivoluzionaria per una data non indicata.
Diamo qui una breve cronologia degli eventi di quei giorni di inizio 1917.
Gennaio 1917: scioperi e agitazioni in Pietrogrado contro il carovita e la mancanza di viveri.
22 gennaio: nell’anniversario della Domenica di Sangue del 1905 la polizia spara sui cortei organizzati in alcune città, uccidendo diversi manifestanti.
14‑18 febbraio: riprendono gli scioperi nelle principali fabbriche di Pietrogrado, Mosca e in altre città industriali.
Martedì 21 febbraio: le Officine Putilov decidono una serrata contro le continue richieste degli operai.
Giovedì 23 febbraio (8 Marzo): le operaie delle fabbriche tessili di Pietrogrado, disattendendo le indicazioni del Comitato interrionale, entrano in sciopero ed inviano delegate nelle fabbriche metalmeccaniche a chiedere agli operai di unirsi alla loro manifestazione. I dati ufficiali riferiscono di 90.000 scioperanti. Il governo non interviene ritenendo la manifestazione un semplice sciopero economico. Brevi scontri con la polizia con feriti da ambo le parti.
Venerdì 24 febbraio: lo sciopero si estende coinvolgendo 200.000 lavoratori. La polizia ha difficoltà a contenere i cortei che dirigono verso il centro cittadino. Nonostante i piccoli scontri con la polizia, il generale Chabalov, comandante della regione militare di Pietrogrado, si riserva di far intervenire l’esercito solo per il giorno dopo, se la situazione fosse peggiorata.
Sabato 25 febbraio: lo sciopero coinvolge 240.000 dimostranti tra gli operai anche delle piccole imprese, delle botteghe artigiane e studenti. In piazza Znamenskaja si tengono comizi. La polizia spara sulla massa dei dimostranti da cui qualcuno risponde al fuoco uccidendo un commissario. Nei pressi del mercato coperto della Prospettiva Nevskij un reparto di dragoni spara sui dimostranti e fa tre morti e una decina di feriti. Ma gruppi di soldati e di cosacchi non rispondono agli ordini, una loro scarica di fucileria in piazza Znamenskaja fa arretrare un gruppo di poliziotti; nei pressi della stazione un cosacco uccide a sciabolate un commissario, la folla lo porta in trionfo e si mette alla caccia dei poliziotti, che si ritirano in fuga.
Informato dei fatti lo Zar, dal quartier generale a Mogilev la sera telegrafa al generale Chabalov ordinandogli di “liquidare sin da domattina i disordini nella capitale” ed emana il decreto di sospensione della Duma. Il governo dispone l’uso delle armi della polizia e dell’esercito per bloccare la situazione ormai incandescente. Nella notte ordina l’arresto di un centinaio tra i membri del Comitato centrale dell’industria, dirigenti sindacali, delle cooperative ed il Comitato dei bolscevichi, tenuti sempre sotto stretto controllo dall’Ochrana.
Domenica 26 febbraio: il governo cerca di controllare la situazione a Pietrogrado ormai presidiata dai militari che iniziano a sparare sui manifestanti: nel primo pomeriggio la Prospettiva Nevskij è piena di cadaveri. Un punto di svolta si ha quando la IV Compagnia del reggimento Pavlosky si rifiuta di sparare sulla folla e spara invece contro un reparto di polizia che attaccava una manifestazione lungo il canale Caterina. La IV compagnia al rientro in caserma è disarmata e consegnata.
La situazione precipita a favore dei manifestanti. Un agente dell’Ochrana, infiltrato nel partito bolscevico, riferisce nel suo rapporto che ormai le masse sono convinte dell’inizio della rivoluzione e della sua vittoria.
Il presidente della Duma, Rodzjanko, convinto sostenitore dello Zar, gli telegrafa descrivendogli una situazione ormai fuori controllo, lo invita a formare urgentemente un nuovo governo da affidare a una persona di fiducia delle masse, di non esitare per salvare la monarchia e il paese. Lo Zar nemmeno gli risponde, considerandolo un esagerato pessimista.
A tarda sera il governo è costretto a proclamare lo stato d’assedio. Ma trova un solo poliziotto per affiggere i manifesti: dopo i primi, getta via i restanti.
Lunedì 27 febbraio: Rodzjanko in un altro telegramma invita lo Zar a revocare il decreto di sospensione della Duma, che ritiene l’ultimo baluardo della legalità: il governo è impotente e teme di perdere il controllo sui reggimenti della guarnigione e della guardia, nonché il contagio nel resto dell’esercito. Nicola non se ne cura nemmeno e commenta nel suo diario: «Quel ragazzone di Rodzjanko mi scrive di nuovo sciocchezze varie a cui non risponderò affatto».
Gli scioperi continuano tutto il giorno. Appelli ai soldati sono affissi per coinvolgerli nella rivolta. Quando gli operai di Vyborg tentano dei comizi davanti alla caserma del reggimento Moskovskij sono dispersi dal fuoco degli ufficiali.
La svolta decisiva si ha quella mattina quando i soldati del reggimento Volinskij, guidati dal sottufficiale, uccidono con un colpo alla schiena il loro capitano e l’attendente e si impadroniscono delle armi. Si dirigono subito verso le caserme dei reggimenti Preobraženskij e Litovskij dove convincono buona parte dei soldati a seguirli per dirigersi poi verso il reggimento Moskovskij che, dopo una certa esitazione, anche si unisce a loro.
Militari e civili in numero sempre maggiore scendono in quella che non è più una rivolta ma una rivoluzione. Nelle prime ore del pomeriggio operai e soldati, per lo più contadini in divisa, saccheggiano l’arsenale impossessandosi delle armi e di alcune autoblindo. Verso le quattro del pomeriggio l’intera città è nelle mani della rivoluzione, ad eccezione dell’Ammiragliato, del Palazzo d’Inverno e della fortezza di Pietro e Paolo.
Per tutto il giorno proseguono gli scontri con la polizia e le forze ancora a difesa del regime mentre sono liberati i prigionieri politici, incendiato il tribunale, il temuto carcere nella fortezza del castello Lituano (Litovskij Zamok), la sede dell’Ochrana, la questura e la sede della Gendarmeria. I rinforzi mandati a sostenere il vecchio regime sono facilmente dispersi mentre man mano altre truppe passano alla rivoluzione. Un battaglione inviato da Chabalov, ultimo tentativo contro gli insorti, si disperde nelle strade e si unisce agli insorti. I comandi militari ben presto si rendono conto di poter contare solo su 2.000 soldati, su 3.500 poliziotti e sui cosacchi a cavallo. Di fatto il governo dello Zar non esiste più.
data | soldati | operai | totale |
23 febbraio | 128,4 | 128,4 | |
24 febbraio | 214,1 | 214,1 | |
25 febbraio | 305,0 | 305,0 | |
26 febbraio | 0,6 | 306,5 | 307,1 |
27 febbraio | 70 | 385,5 | 455,5 |
28 febbraio | 127 | 393,8 | 520,8 |
1-2 marzo | 170 | 394,1 | 564,1 |
Per bene intendere la dimensione e la forte accelerazione del movimento fra gli operai e i soldati nell’insurrezione di quel febbraio riferiamo i dati di V.I. Nevsky in “Storia del partito bolscevico” (in migliaia): prima gli operai, poi i soldati.
Fallisce il tentativo del blocco progressista di convincere lo Zar a concedere una costituzione. Fallisce il tentativo di convincere il Granduca Michele, fratello dello Zar, ad assumere una dittatura temporanea per scongiurare una rivoluzione radicale. Nel mentre ministri ed autorità si nascondono, fuggono o sono arrestati.
12. Il dualismo del potere
Rodzjanko con quanti rimanevano del vecchio regime e del variegato blocco progressista, per non disobbedire ai perentori ordini dello Zar decide, in una parvenza di continuità di potere, di riunirsi in una “assemblea non ufficiale” in una sala dell’immenso Palazzo di Tauride per assumersi il compito di organizzare il potere costituendo un Comitato Provvisorio presso la Duma, mentre fuori del palazzo si sta concentrando una gran folla urlante. Il Comitato Provvisorio della borghesia russa si dà il primo scopo di “ristabilire l’ordine a Pietrogrado e assicurare i rapporti con le istituzioni e le persone”. Istituiscono varie commissioni, tra cui quella militare incaricata di riprendere il controllo di Pietrogrado.
Nelle stesse ore, in un’altra ala del palazzo, si sta formando un opposto potere costituito dal Soviet dei deputati operai di Pietrogrado, sorto sull’esperienza dei soviet del 1905. Questa non era mai venuta meno nella memoria dei lavoratori e si rinvigoriva ad ogni lotta tanto che già nei giorni precedenti, nel corso di riunioni clandestine di gruppi degli operai più combattivi, si era stabilito di eleggere dei rappresentanti di fabbrica.
Nel primo pomeriggio del 27 febbraio diversi componenti del Comitato centrale militare-industriale con altri militanti socialisti, in maggior parte menscevichi su posizioni difensiste della patria, si costituiscono in Comitato Esecutivo Provvisorio dei Soviet dei deputati operai e invitano tutti gli operai di Pietrogrado a partecipare quella stessa sera alla prima assemblea dei Soviet di Pietrogrado.
Alla riunione partecipano membri dei difensisti, menscevichi, bolscevichi, del Bund, trudovichj (una scissione degli S‑R), socialisti popolari e il Comitato socialdemocratico interrionale. I difensisti prendono l’iniziativa facendo eleggere nel Comitato Esecutivo diversi dei loro. Fra le altre rappresentanze il trudovico (laburista) Kerensky ed un capo operaio bolscevico responsabile dell’ufficio politico del CC del POSDR(b).
Sono eletti i presidenti delle varie Commissioni, subito istituite per la difesa della rivoluzione, per l’ordine nella città, per l’approvvigionamento e per le altre incombenze. Fra queste la immediata pubblicazione di un giornale, le Izvestija (“Notizie”), che nel primo numero dichiara il compito principale del Soviet: la completa eliminazione del vecchio regime, il suffragio universale uguale, diretto, segreto, allo scopo di assicurare in Russia libertà politiche e la sovranità popolare. Un evidente programma democratico borghese.
Nelle Commissioni i bolscevichi, fortemente minoritari, conducono una serrata battaglia contro il difensismo e in favore della rivoluzione radicale “dal basso”.
Una prima importante e controversa questione affrontata e sostenuta dai bolscevichi riguarda la rappresentanza nel Soviet dei soldati, intesa per attrarre alla rivoluzione la parte maggiore possibile dei militari. In merito tre le opposizioni dei difensisti: non è possibile una delegazione stabile della guarnigione di Pietrogrado, soggetta a frequenti avvicendamenti; l’origine contadina e piccolo borghese dei soldati mitigherebbe la spinta rivoluzionaria del Soviet; infine, ma per loro ben più importante, il loro ingresso nella politica attiva li distoglierebbe dalla disciplina militare e indebolirebbe la loro principale missione: combattere per la difesa della patria in pericolo.
Alla fine del serrato dibattito si giunge alla soluzione di accettare nel Soviet i rappresentanti dei soldati in ragione di un delegato per compagnia, il cui numero variava dalle 100 alle 200 unità, mentre gli operai ne eleggono uno su mille, dando così origine al “Soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado”. I soldati sono quindi sovra-rappresentati: presto questo si rivelerà dannoso ai bolscevichi perché i difensisti avevano maggior seguito tra i soldati rispetto ai bolscevichi.
Appena giungono le notizie dell’insurrezione a Pietrogrado, Mosca e le città e le campagne di tutta la Russia insorgono senza incontrare resistenza. Si costituiscono vari Soviet per la formazione di un nuovo governo; solo in alcune località si ha una debole resistenza.
La mattina del 28 febbraio lo Zar parte da Mogilev per Carskoe Selo, grandioso complesso di palazzi imperiali a 25 chilometri da Pietrogrado, ma il treno su cui viaggia è fermato dai vari posti di blocco dei soldati rivoluzionari ed è dirottato verso Pskov, in Estonia, sede del quartier generale del fronte del Nord.
A Pietrogrado, soldati e operai armati raggiungono l’isola Vasilevskij sede del 180° Reggimento di fanteria di Finlandia, che si unisce alla rivoluzione, come pure i marinai della flotta del Baltico. Un battaglione di ciclisti invece resiste ma è sopraffatto e il suo comandante ucciso.
Il generale Ivanov, mandato dal fronte al comando generale del distretto di Pietrogrado con l’ordine di soffocare con le armi la rivoluzione, si rende subito conto di non disporre delle forze necessarie ed è subito richiamato a Mogilev.
A Pietrogrado la rivoluzione si rafforza non solo tra i militari: le poste, il telegrafo e le ferrovie passano sotto il controllo del Soviet, che ordina il blocco della circolazione dei treni per un raggio di 250 chilometri dalla città.
Cadono disattesi gli appelli ai soldati di Rodzjanko e degli altri membri della Duma provvisoria per farli tornare nelle caserme a disposizione degli ufficiali, mentre si tengono a disposizione del Soviet. Di fatto è sorta una competizione per il potere centrale tra la Duma e il Soviet, che intanto prende il controllo degli organismi principali del potere.
Nella notte di mercoledì 1° marzo i menscevichi e i socialrivoluzionari del Comitato Esecutivo del Soviet di Pietrogrado decidono a maggioranza di affidare tutto il potere al Comitato Provvisorio della Duma, perché sia un governo espressione della borghesia ad abbattere il potere feudale zarista e a realizzare i programmi tipici di una moderata rivoluzione borghese: libertà politica, eguaglianza ecc. ecc. Sostengono che sì, anche il Soviet potrebbe realizzare quel programma, ma che incontrerebbe la tenace resistenza dell’intera borghesia russa e delle altre forze controrivoluzionarie, che metterebbero in pericolo la stessa rivoluzione democratica. Secondo Trotski si ritenevano solo “l’ala sinistra dell’ordine borghese”.
In realtà la Duma, quasi stupita di questo inaspettato ed indolore passaggio di poteri, tenta in tutti i modi di salvare la dinastia, pur ridimensionata nel suo potere, ma soprattutto di bloccare tutte le rivendicazioni più radicali avanzate dal proletariato e dagli strati più poveri e sfruttati della Russia.
Subito istituiscono un governo provvisorio affidato al principe Lvov, di tendenza liberale, gli Affari Esteri a Miljukov, del partito dei Cadetti, e la Giustizia, ma in seguito il ministero della Guerra, a Kerensky, dei socialisti-rivoluzionari, vicepresidente del Soviet di Pietrogrado e membro del suo Comitato Esecutivo.
In sostanza si crea un particolare “dualismo di potere”, che durò fino all’ottobre 1917: la Duma non può reggersi senza l’avallo del Soviet, una specie di corte suprema e anima della rivoluzione, che controlla di fatto varie attività.
In serata si riunisce anche una Commissione riguardante i rapporti coi soldati che scrive un primo decreto, dietro i suggerimenti dei soldati e dei marinai lì presenti. Questo Ordine n° 1 del Soviet di Pietrogrado riguarda tutti i soldati e i marinai con effetto immediato. Prevede l’elezione presso il Soviet di rappresentanti tra i militari di grado inferiore di tutte le forze armate in ragione di un rappresentante per ogni compagnia. Nelle manifestazioni politiche i reparti militari devono obbedire al Soviet e ai loro comitati militari. Essi sono responsabili delle armi, che in nessun caso devono essere consegnate agli ufficiali. Gli ordini della Commissione militare non devono essere eseguiti se in contrasto con le direttive del Soviet. I soldati sono tenuti alla disciplina durante il servizio, fuori non sono tenuti al saluto e all’attenti ai superiori. Sono aboliti i titoli di rispetto nobiliare riservati agli ufficiali, ai quali è vietato ogni comportamento offensivo, comprese le punizioni corporali comminabili a loro giudizio. Il manifesto è subito affisso sui muri della città e pubblicato nel n° 3 delle Izvestija.
All’alba di giovedì 2 marzo si arriva ad un accordo sui punti essenziali del programma: amnistia per i reati politici, religiosi, libertà di stampa, di associazione, sciopero e molte altre libertà democratiche e borghesi. È abolita la polizia, sostituita dalla milizia popolare, con la permanenza nella capitale delle guarnigioni rivoluzionarie e diritti civili garantiti ai militari compatibili con il servizio.
Le forze armate passano sotto il totale controllo del Soviet ed il Governo perde ogni potere al riguardo, compresi i commissari nominati dal ministro della Guerra, il personale al fronte e sulle flotte. In particolare gli ordini dei comandanti militari al fronte non possono entrare in vigore senza la preventiva approvazione del Comitato Esecutivo del Soviet e dei suoi commissari.
13. La Russia borghese
Non sono però affrontati i cruciali problemi sociali denunciati dai bolscevichi: la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore, la riforma agraria, la fine della guerra. Rimane insoluto anche il destino della monarchia, salvata dalla risoluzione di “non intraprendere passi tali da precostituire la forma istituzionale”. La Duma infatti si era orientata al suo mantenimento con la successione al trono del giovane Alessio e la reggenza del granduca Michele, fratello minore dello Zar.
Dopo la rivoluzione di febbraio una minoranza degli S‑R si scisse, in disaccordo con la decisione del Governo Provvisorio di continuare la guerra e di rinviare il programma della redistribuzione delle terre. Questo governo, costituito nel marzo 1917 subito dopo l’abdicazione dello Zar, era presieduto dal principe Lvov prima, e nel luglio seguente da Kerensky. Da quella scissione sorse il Partito Socialista Rivoluzionario di Sinistra, per distinguersi da quello di Destra, molto vicino alle posizioni dei bolscevichi.
«La guerra fu una prova decisiva per tutti i partiti, compreso il nostro. I bolscevichi ne uscirono con onore e tennero alta fino alla fine la bandiera dell’internazionalismo, dimostrando la loro fedeltà alla causa della classe operaia. L’atteggiamento dei menscevichi e degli S‑R verso la guerra non era fortuito: derivava dalla loro precedente evoluzione. Dalla destra del marxismo legale, attraverso l’economismo e il liquidatorismo, i menscevichi erano logicamente arrivati al difesismo e al social sciovinismo. Noi passammo dall’ “Iskra” (la “vecchia” Iskra, n.d.r.) al bolscevismo, all’antiliquidatorismo, all’internazionalismo e al comunismo» (Zinoviev, “La formazione del partito bolscevico 1898‑1917”).
(Continua al prossimo numero)
2° Parte:
- La prospettiva marxista nelle Tesi dell’Internazionale
(Continua dal numero scorso)
2.5 -
Solidi ancoraggi alla dottrina
Il marxismo è una dottrina che sorge col moderno proletariato industriale e lo accompagna in tutto il corso di una rivoluzione sociale: non ha bisogno di essere sviluppata, completata o arricchita, si tratta solo di difenderla e risollevarla dalle nefande e ripetute degenerazioni. L’impostazione che l’Internazionale Comunista diede alle questioni nazionali e coloniali, frutto di una necessità del momento, non comportava un aggiornamento della dottrina rivoluzionaria, al contrario riaffermava l’integrale dottrina marxista e la proiettava nell’arena mondiale.
Quanto il “Manifesto del Partito Comunista” aveva proclamato «i comunisti appoggiano ovunque ogni movimento rivoluzionario diretto contro le situazioni sociali e politiche esistenti» non si riferiva soltanto alle condizioni tipiche del capitalismo borghese. Infatti, quando passa in rassegna i paesi del tempo, solo per l’Inghilterra e la Francia può parlare di un moto rivoluzionario proletario diretto contro la borghesia e il suo apparato statale. Per il resto di Europa i comunisti devono sostenere ogni insurrezione tesa ad abbattere il sistema feudale, anche insieme alla borghesia stessa, appena questa prende una posizione rivoluzionaria.
La dottrina marxista aveva stabilito fin dalle origini il ruolo delle diverse classi sociali nella rivoluzione democratico-borghese e i compiti del proletariato in quelle che definiamo rivoluzioni doppie. Gli operai avrebbero dovuto appoggiare quelle insurrezioni contro i nemici dei propri nemici, per poi subito innestare ad esse l’ulteriore rivolta contro la borghesia. Perché, allo stesso tempo, il marxismo aveva elevato a legge storica generale il fatto che saranno i borghesi democratici, dopo la vittoria in alleanza con i proletari, ad aggredirli e massacrarli per scongiurare la nuova ondata rivoluzionaria che si abbatterebbe sul suo nuovo potere.
Di fatto subito la borghesia si era comportata da boia dei comunisti e degli operai: appena dopo la sua prima vittoria rivoluzionaria in Francia massacrando Babeuf e gli Eguali, poi nel 1831 con la monarchia borghese, e nel 1848 con la seconda repubblica.
Anche gli eventi rivoluzionari in Germania nel 1848‑49 avevano confermato quanto previsto da Marx e da Engels sul ruolo della borghesia tedesca nella rivoluzione democratico-borghese. Furono i borghesi, dopo il movimento del marzo 1848, a utilizzare subito il potere dello Stato e a utilizzarlo per reprimere gli operai, che erano stati loro alleati nella lotta. Se la borghesia liberale tedesca aveva confermato il suo ruolo tradendo gli operai, per Marx ed Engels si stava delineando un nuovo imminente pericolo per la classe operaia, costituito dalla democrazia piccolo-borghese. Nell’ “Indirizzo del Comitato centrale alla Lega” del marzo del 1850, sostengono che la parte dei traditori che i borghesi liberali tedeschi hanno rappresentato nel 1848 contro il popolo verrà assunta nella prossima rivoluzione dai piccoli borghesi democratici. Il partito della piccola borghesia, il partito democratico, è per gli operai assai più pericoloso del precedente partito liberale.
L’Indirizzo li mette in guardia: «Mentre i piccoli borghesi democratici vogliono portare al più presto possibile la rivoluzione alla conclusione (...) è nostro interesse e nostro compito render permanente la rivoluzione sino a che tutte le classi più o meno possidenti non siano scacciate dal potere, sino a che il proletariato non abbia conquistato il potere dello Stato, sino a che l’associazione dei proletari, non solo in un paese, ma in tutti i paesi dominanti del mondo, si sia sviluppata al punto che venga meno la concorrenza tra i proletari di questi paesi, e sino a che almeno le forze produttive decisive non siano concentrate nelle mani dei proletari. Non può trattarsi per noi di una trasformazione della proprietà privata, ma della sua distruzione; non del mitigamento dei contrasti di classe, ma della abolizione delle classi; non del miglioramento della società attuale ma della fondazione di una nuova società».
L’Indirizzo afferma chiaramente quale deve essere la posizione del proletariato e del suo partito prima, durante e dopo la lotta rivoluzionaria.
Prima della lotta contro il comune nemico reazionario, la democrazia piccolo borghese predicherà al proletariato «unione e conciliazione», provando a coinvolgere il proletariato in un partito democratico, un partito «in cui dominino le frasi generiche socialdemocratiche dietro cui si nascondono gli interessi specifici dei piccolo borghesi, e nelle quali le rivendicazioni specifiche del proletariato “non dovrebbero essere avanzate”». Per evitare di «ridursi all’appendice della democrazia borghese», gli operai devono «adoperarsi per costruire una organizzazione indipendente, segreta e pubblica, del partito operaio».
Successivamente, “nel caso di una battaglia contro il nemico comune”, l’Indirizzo sostiene che «non c’è bisogno di nessuna unione speciale», in quanto «appena si deve combattere direttamente tale nemico, gli interessi dei due partiti momentaneamente coincidono», per cui si stabilirà spontaneamente un collegamento tra le diverse forze in lotta. Ma l’Indirizzo avverte che al momento della lotta sanguinosa, «toccherà soprattutto agli operai strappare la vittoria con il loro coraggio, la loro risolutezza e la loro abnegazione», mentre «in queste lotte la massa dei piccolo borghesi sarà lenta, irresoluta e inattiva».
«Ma una volta conquistata la vittoria, cercherà di ipotecarla per sé, di esortare gli operai alla calma e a ritornare a casa e al lavoro, cercherà di prevenire i cosiddetti eccessi, e di escludere il proletariato dai frutti della vittoria». Di fronte a questo inevitabile atteggiamento della democrazia piccolo borghese, l’Indirizzo ammonisce gli operai che «dal primo momento della vittoria la diffidenza non deve più rivolgersi contro il vinto partito reazionario, ma contro i propri alleati di ieri», perché «non appena i nuovi governi si saranno in un certo modo consolidati, incomincerà immediatamente la loro lotta contro gli operai». Affermano chiaramente Marx ed Engels che «il tradimento verso gli operai incomincerà nella prima ora della vittoria». La via indicata per contrapporsi al tradimento dei democratici è quella di «essere armati ed organizzati», è necessaria quindi una «immediata organizzazione indipendente e armata degli operai».
L’Indirizzo si conclude con la visione rivoluzionaria di una lotta nazionale inserita in un più ampio contesto di lotta internazionale della classe operaia, in quanto, secondo Marx ed Engels, anche se la rivoluzione in Germania è destinata ad attraversare un lungo processo rivoluzionario, essa potrebbe coincidere con la vittoria della classe operaia in Francia, evento che avrebbe ricadute sulla lotta rivoluzionaria in Germania abbreviandone il corso.
In ogni caso la consegna agli operai tedeschi è chiara: essi devono assumere «il più presto possibile una posizione indipendente di partito, non lasciando che le frasi ipocrite dei piccolo borghesi democratici li sviino nemmeno per un istante dalla organizzazione indipendente del partito del proletariato. Il loro grido di battaglia deve essere: la rivoluzione in permanenza!».
Quindi non era da aspettare il 1927 per prevedere che la borghesia cinese avrebbe tradito e massacrato gli operai. Il marxismo aveva riconosciuto che, nel corso delle rivoluzioni democratico-borghesi, e quindi in quelle loro varianti che sono le rivoluzioni nazionali dei paesi coloniali e semicoloniali, il proletariato lotta contro i nemici dei suoi nemici insieme a quelle classi sociali che hanno interesse a distruggere le sopravvivenze del regime feudale, eliminando gli ostacoli allo sviluppo delle forze produttive e favorendo in questo modo il dispiegarsi delle condizioni materiali oggettive necessarie per la trasformazione rivoluzionaria della società borghese. Nello stesso tempo aveva previsto e messo in guardia la classe operaia che la grande borghesia in un primo tempo, la piccola borghesia radicale poi, arretreranno di fronte al compito di spingere la loro rivoluzione fino in fondo, per paura di perdere i propri privilegi di classe, tradiranno e reprimeranno gli operai in nome della difesa del modo di produzione capitalistico e dell’ordine borghese.
La strada indicata al proletariato è quella della “rivoluzione in permanenza”: non fermarsi alla vittoria contro le forze e le istituzioni precapitalistiche ma andare oltre, abbattendo il potere dei precedenti alleati nella lotta contro l’ancien regime, portando fino in fondo le rivendicazioni democratiche e le misure radicali, soprattutto in campo agrario, e addirittura saltare la fase borghese nel caso venga in soccorso la rivoluzione proletaria pura nei paesi capitalisticamente avanzati.
Il partito del proletariato sa fin da Marx ed Engels cosa attende la classe operaia, e Lenin lo conferma per la rivoluzione in Russia. Anche se questa ha un carattere democratico-borghese, Lenin non trae, come i menscevichi, la conclusione che la classe operaia e il suo partito debbano tenersene in disparte lasciando alla borghesia il compito di fare la sua rivoluzione, o di mettersi a suo rimorchio, ma ribadisce che è necessario mantenere la propria autonomia politica e prendere la testa della lotta rivoluzionaria. In riferimento alla rivoluzione in Russia, nel 1905 Lenin scrive in “Due tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica”:
«Per la borghesia è più utile che le trasformazioni necessarie nel senso della democrazia borghese, si compiano più lentamente, più gradualmente, più prudentemente, meno risolutamente, mediante riforme e non con una rivoluzione; che queste riforme siano le più caute possibili nei riguardi delle “rispettabili” istituzioni del feudalesimo (la monarchia, ad esempio); che queste trasformazioni contribuiscano il meno possibile a sviluppare l’azione rivoluzionaria, l’iniziativa e l’energia della plebe, ossia dei contadini e, soprattutto, degli operai. Perché, altrimenti, sarebbe tanto più facile per gli operai “passare il fucile da una spalla all’altra”, come dicono i francesi, ossia rivolgere contro la borghesia stessa le armi che la rivoluzione borghese fornirebbe loro (...) Per la classe operaia, al contrario, è più vantaggioso che le trasformazioni necessarie nel senso della democrazia borghese si realizzino precisamente mediante la rivoluzione e non con le riforme (...)
«Il marxismo insegna al proletariato non ad appartarsi dalla rivoluzione borghese, a mostrarsi indifferente nei suoi riguardi, ad abbandonarne la direzione alla borghesia, ma, al contrario, a parteciparvi nel modo più energico, a lottare nel modo più risoluto per il democratismo proletario conseguente, per condurre a termine la rivoluzione. Non possiamo uscire dal quadro democratico borghese della rivoluzione russa, ma possiamo allargarlo a proporzioni immense; possiamo e dobbiamo lottare nei limiti di questo quadro nell’interesse del proletariato, per i suoi bisogni immediati e per le condizioni che preparano le sue forze per la futura vittoria completa.
Nell’arretrata Russia zarista si erano formate isole concentratissime e ultramoderne di pieno capitalismo ed era sorto uno strato proletario che, sebbene in forte minoranza rispetto ad una estesissima popolazione contadina, era posto, date le condizioni di capitalismo avanzato in cui si trovava, sul terreno di una lotta di classe antiborghese e anticapitalista. La minacciosa presenza di questo proletariato era vista con terrore dalla borghesia russa, da qui il suo ruolo esitante a portare a termine la sua stessa rivoluzione, a spazzare via le vecchie istituzioni precapitalistiche. Solo il proletariato poteva farlo.
Continua Lenin: «A noi marxisti la teoria insegna (...) che la borghesia è per la rivoluzione in modo inconseguente, cupido e codardo. La borghesia in massa si schiererà inevitabilmente a fianco della controrivoluzione, dell’autocrazia, contro la rivoluzione, contro il popolo, appena saranno soddisfatti i suoi interessi meschini ed egoisti (...) Rimane il “popolo”, cioè il proletariato e i contadini: il proletariato solo è capace di marciare con passo fermo sino alla fine, giacché esso va molto aldilà della rivoluzione democratica (...) Tra i contadini vi è una massa di elementi semiproletari, accanto agli elementi piccolo borghesi. Ciò li rende pure essi instabili obbligando il proletariato a raggrupparsi in un partito rigorosamente classista. Ma l’instabilità dei contadini differisce in modo radicale dall’instabilità della borghesia, perché nel momento attuale i contadini sono interessati non tanto alla conservazione assoluta della proprietà privata, quanto alla confisca delle terre dei proprietari fondiari, una delle forme principali di questa proprietà. Senza diventare con ciò socialisti, senza cessare di essere piccolo-borghesi, i contadini possono diventare dei partigiani decisi, e tra i più radicali, della rivoluzione democratica».
Per cui sostiene Lenin: «Il proletariato deve condurre a termine la rivoluzione democratica legando a sé la massa dei contadini, per schiacciare con la forza la resistenza dell’autocrazia e paralizzare l’instabilità della borghesia (...) Deve fare la rivoluzione socialista legando a sé la massa degli elementi semiproletari della popolazione, per spezzare con la forza la resistenza della borghesia e paralizzare l’instabilità dei contadini e della piccola borghesia».
Soltanto il proletariato è in grado di portare a termine la rivoluzione democratica, alla condizione che, come unica classe coerentemente rivoluzionaria dell’odierna società, trascini dietro di sé le masse contadine dando alla loro lotta spontanea contro la grande proprietà fondiaria e lo Stato feudale una direzione politica. Per Lenin tre sono gli imperativi per la tattica proletaria nella rivoluzione democratico-borghese: «1) riconoscere la funzione dirigente del proletariato, la sua funzione di guida della rivoluzione; 2) riconoscere come fine della lotta la conquista del potere da parte del proletariato, con l’aiuto delle altre classi rivoluzionarie; 3) sostenere che il primo, e forse unico, posto fra questi aiutanti spetta ai contadini» (“Il fine della lotta del proletariato nella nostra rivoluzione”, Opere XV).
Ma questi imperativi ne presuppongono un altro, cioè che il partito del proletariato conservi la sua indipendenza programmatica, politica e organizzativa.
2.6 - Natura e prospettiva della rivoluzione in Cina e in Oriente
Come in Russia la questione si poneva in Cina. Il ritardo ancora maggiore delle campagne cinesi era bilanciato da un enorme afflusso di capitale straniero in città come Shanghai, Hong Kong e Canton, che aveva permesso la nascita di un proletariato altamente concentrato. Come per la Russia la situazione cinese, e in generale quella nei paesi coloniali, esaltava ancora di più il ruolo di avanguardia del proletariato, dal momento che la borghesia nazionale dei paesi coloniali e semicoloniali, nel periodo storico in cui il proletariato agisce come forza autonoma, non è più come la vecchia classe borghese europea che ha lottato contro il passato feudale. Essa è una classe del tutto diversa da questa, è strettamente legata al capitalismo internazionale sia nel campo economico sia in quello politico, e anche se aspira a darsi una struttura moderna, più rispondente ai propri interessi di classe, e quindi all’indipendenza e all’unificazione nazionale, è sempre assalita dalla paura di mettere in moto forze sociali non più controllabili.
Nel XVIII secolo la borghesia europea aveva avuto un ruolo rivoluzionario contro il feudalesimo perché era riuscita a legarsi alle masse contadine che aspiravano alla proprietà del suolo. La borghesia aveva potuto mettere in moto i contadini perché questi si sarebbero divisi le terre appartenenti alla classe feudale. In questo modo fu possibile la vittoria della rivoluzione francese, nella quale furono proprio i contadini a spazzar via il feudalesimo e successivamente a fornire le truppe agli eserciti napoleonici.
In Cina, invece, era la stessa borghesia, che accumulando capitali con i traffici con gli stranieri, li aveva investiti nella terra e schiacciava i contadini con pesanti affitti e prestiti usurai. In Cina la borghesia non si era sviluppata, come la borghesia europea, in opposizione alle altre classi della vecchia società, ma in semplice appendice di quest’ultima, si era innestata alla casta dei mandarini attraverso il commercio della terra. La terra non era posseduta dal nobile feudale, ma principalmente da una borghesia mercantile e usuraia. L’oppressione esercitata sui contadini non si basava su legami personali ma su rapporti nettamente mercantili, in quanto la sproporzione tra l’enorme popolazione contadina e la terra monopolizzata dalla borghesia le permetteva di esigere degli affitti esorbitanti; inoltre la miserevole condizione del fittavolo lo metteva in condizione di dover chiedere in prestito il capitale d’esercizio, finendo nelle mani dell’usuraio.
Non esisteva dunque una proprietà feudale, quindi la servitù dei contadini non era costituita dal vincolo alla gleba di una manodopera di cui il signore poteva disporre liberamente, ma si trattava quasi sempre di un debito contratto per l’affitto di un appezzamento di terra. Per questo in Cina non si poneva la questione di una rivoluzione agraria condotta dalla borghesia contro i feudatari. In generale la borghesia non poteva liberare i contadini dalla servitù, poiché così facendo la borghesia, che disponeva delle terre e del capitale mercantile e usuraio, sarebbe andata contro i propri interessi di classe. Se in Russia, come constatava Lenin, «la rivoluzione borghese è impossibile come rivoluzione della borghesia», a maggior ragione ciò valeva per la Cina. Neanche la oppressione dell’imperialismo rendeva la borghesia anti-coloniale cinese più rivoluzionaria della borghesia anti-zarista russa. La borghesia cinese era legata all’imperialismo da vincoli più forti di qualunque aspirazione all’indipendenza.
Ma se alla borghesia non poteva essere affidata la realizzazione dei suoi stessi obiettivi politici e nazionali, non si poteva neanche affidarla ai contadini. Nonostante l’enorme importanza della questione contadina la rivoluzione cinese non poteva risolversi in una rivoluzione essenzialmente contadina. Nelle “Tesi sulla rivoluzione cinese”, in risposta alle concezioni staliniste prima e maoiste poi, il nostro partito ha individuato «l’originalità delle rivoluzioni borghesi nell’epoca imperialistica»:
«In passato tutte (le rivoluzioni) hanno messo in moto il contadiname in forme diverse, compresa l’organizzazione armata; tutte hanno realizzato in gradi diversi profonde trasformazioni nell’agricoltura. Ma il marxismo ha sempre sottolineato l’incapacità della classe contadina di avere una politica propria. Esso ha dimostrato che le insurrezioni agrarie, parti integranti delle rivoluzioni borghesi, sono riuscite unicamente muovendosi sotto la direzione delle città e cedendo loro il potere. Il Manifesto del 1919 dell’Internazionale Comunista insisteva già sul carattere duplice del contadiname e sulle ragioni per cui non può agire come classe indipendente: il contadino non è che il rappresentante sociale di rapporti borghesi; lascia sempre ad altri il compito della sua rappresentanza politica. A tutti i campioni del “socialismo contadino” che, in Russia come in Cina, ci rimproveravano di “sottovalutare” il contadiname, noi abbiamo contrapposto questi insegnamenti del marxismo, rispondendo che l’originalità delle rivoluzioni d’Oriente non risiedeva nell’intervento armato delle masse rurali, ma nella prospettiva di una direzione proletaria verso scopi che non fossero inevitabilmente borghesi».
2.7 Le Tesi sulle questioni nazionali e coloniali al secondo congresso dell’Internazionale
L’Internazionale Comunista, prima che cadesse sotto il controllo dello stalinismo, aveva delineato con chiarezza i compiti e le prospettive per la rivoluzione in Cina e negli altri paesi coloniali e semicoloniali. Partendo dalla solida base della oggettiva evoluzione del capitalismo alla scala mondiale, affidava al movimento comunista e alla sua organizzazione mondiale centralizzata il gigantesco compito storico di integrare i movimenti rivoluzionari di liberazione nazionale nelle colonie con la strategia mondiale della rivoluzione proletaria nelle metropoli imperialistiche. Nelle Tesi dell’Internazionale era individuato lo stretto legame, prodotto dal capitalismo mondiale, tra il movimento proletario occidentale e le masse dei paesi assoggettati fuori dall’Europa.
Le colonie costituivano una delle principali fonti della forza del capitalismo occidentale. I grandi mercati dei paesi coloniali e gli immensi territori da sfruttare erano i pilastri che sostenevano l’economia dei paesi europei, primi fra tutti l’Inghilterra, gendarme a difesa dell’ordine borghese mondiale. Il capitalismo, minato dalle inevitabili crisi di sovrapproduzione, riversava le sue contraddizioni nei territori coloniali che diventavano dei mercati supplementari per la vendita dei prodotti in eccesso e fornivano materie prime per l’industria delle metropoli.
Ma i possedimenti coloniali permettevano anche alla borghesia dei paesi europei di mantenere il dominio di classe nel proprio paese. Lo sfruttamento delle colonie era utile alla conservazione dell’ordine borghese anche perché la rendita che ne derivava era un potente strumento per legare all’imperialismo alcuni settori della classe operaia. Con queste rendite la borghesia poteva permettersi alcune concessioni alla cosiddetta aristocrazia operaia, che si faceva agente dell’imperialismo all’interno della classe. Da qui il tradimento in Europa dei capi della Seconda Internazionale che, mentre abbracciavano la parola d’ordine della difesa della patria borghese, negavano ogni peso e funzione alla questione coloniale. Questi presunti capi del proletariato erano talmente intrisi di concezioni borghesi che non avevano espresso alcuna solidarietà con il movimento rivoluzionario delle colonie, essendo diventati essi stessi sostenitori dell’imperialismo.
Al contrario l’Internazionale Comunista, per far saltare il potere borghese mondiale, sosteneva la necessità di saldare le lotte dei proletari occidentali con le rivoluzioni nelle colonie. Dalle Tesi del secondo congresso:
«La soppressione mediante la rivoluzione proletaria della potenza coloniale dell’Europa rovescerà il capitalismo europeo. La rivoluzione proletaria e la rivoluzione delle colonie devono convergere, in una certa misura, per l’esito vittorioso della lotta. L’I.C. deve dunque estendere ancora il raggio della sua attività allacciando rapporti con le forze rivoluzionarie che sono all’opera per la distruzione dell’imperialismo nei paesi economicamente e politicamente dominati» (Tesi IV).
Contro lo sciovinismo della Seconda Internazionale, la Terza Internazionale, nella quale «si concentra la volontà del proletariato rivoluzionario mondiale», dichiara nelle sue Tesi che «suo compito è organizzare la classe operaia del mondo intero per l’abbattimento dell’ordine capitalista e l’instaurazione del comunismo. L’I.C. è uno strumento di lotta che ha per compito di raggruppare tutte le forze rivoluzionarie del mondo» (Tesi V).
Nella visione dell’Internazionale l’attacco mondiale alla dominazione delle grandi centrali imperialistiche, prima fra tutte l’Inghilterra, doveva essere condotto integrando la rivoluzione univoca, a finalità puramente proletarie, dell’Occidente con le incipienti rivoluzioni doppie dell’Oriente. Era una visione grandiosa che estendeva la dottrina marxista delle rivoluzioni doppie oltre quelli che erano stati i tradizionali confini dell’Europa, proiettando sull’immensa arena mondiale quella lotta, annunziata da Marx ed Engels nel 1850, per la “rivoluzione in permanenza”, la cui direzione politica centrale è affidata al proletariato e al suo partito, anche se questo, nelle aree a capitalismo appena nascente nel quadro di rapporti economici in prevalenza precapitalistici, si muove alla testa di forze non proletarie.
In queste aree l’esile ma spesso battagliero proletariato locale si trova a combattere insieme alla piccola borghesia urbana, e soprattutto rurale, i cui obiettivi non possono non essere democratico-borghesi, in una situazione esplosiva dal punto di vista rivoluzionario per la presenza di masse contadine affamate di terra. In questo contesto l’Internazionale basava la sua lotta rivoluzionaria non su generici blocchi popolari e nazionali, ma sulle masse contadine delle colonie, povere e semiproletarie, e prendendone la testa ne indirizzava la rivolta armata non solo contro l’imperialismo ma contro la classi possidenti locali, la borghesia e i grandi proprietari terrieri. Queste sarebbero state pronte a servirsi dell’impeto rivoluzionario delle masse per strappare alla potenza dominante una limitata libertà, per poi subito volgersi contro quei loro stessi alleati, proletari e contadini, per schiacciarli e salvaguardare il proprio dominio di classe, non esitando a tal fine ad allearsi con l’imperialismo stesso nella disperata difesa del comune privilegio economico e sociale.
A tal fine l’Internazionale Comunista estendeva all’Oriente, che si stava levando in lotta, le lezioni che in Europa erano state apprese nel sangue. Per cui ai giovani partiti comunisti era richiesto di preservare la loro più rigorosa indipendenza politica, organizzativa e militare, mantenendo una netta delimitazione programmatica dai partiti nazionali borghesi, soprattutto se questi vestono panni demagogicamente “socialisti”.
Affermano le Tesi: «È necessario combattere energicamente i tentativi fatti da movimenti emancipatori che non sono in realtà né comunisti né rivoluzionari, di inalberare i colori comunisti; l’Internazionale Comunista non deve sostenere i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati che alla condizione che gli elementi dei più puri partiti comunisti – e comunisti di fatto – siano raggruppati ed istruiti ai loro compiti particolari, cioè alla loro missione di combattere il movimento borghese e democratico. L’I.C. deve entrare in rapporti temporanei e formare anche unioni con i movimenti rivoluzionari nelle colonie e nei paesi arretrati senza tuttavia mai fondersi con essi, e conservando sempre il carattere indipendente del movimento proletario anche nella sua forma embrionale» (Tesi XI).
Alle questioni nazionali e coloniali furono aggiunte delle Tesi Supplementari proprio per precisare i problemi legati alla delimitazione fra gli schieramenti politici in seno ai movimenti di liberazione nazionale delle colonie, all’appoggio delle loro ali rivoluzionarie popolari e soprattutto contadine, e alla indispensabile salvaguardia dell’indipendenza politica, programmatica ed organizzativa dei partiti comunisti, «anche se ancora nella loro fase embrionale». Il senso di queste Tesi era quello, già formulato da Lenin, di appoggiare il movimento rivoluzionario democratico borghese senza mai confondersi con esso.
Le tesi del Secondo Congresso lo ribadiscono senza mezzi termini:
«Esistono nei paesi oppressi due movimenti che si separano ogni giorno di più. Il primo è il movimento borghese-democratico nazionalista, che ha un programma di indipendenza politica e di ordine borghese; il secondo è quello dei contadini poveri e arretrati e degli operai che lottano per la propria emancipazione da ogni specie di sfruttamento. Il primo movimento cerca, spesso con successo, di controllare il secondo. Ma l’Internazionale Comunista e i partiti aderenti devono combattere questo controllo e sviluppare sentimenti di classe indipendenti nelle masse operaie delle colonie. Uno dei più importanti compiti a questo fine è la formazione di partiti comunisti che organizzino gli operai e i contadini e li conducano alla rivoluzione e alla instaurazione della repubblica sovietica» (Tesi VII).
«La rivoluzione nelle colonie nel suo primo stadio non può essere una rivoluzione comunista, ma se fin dall’inizio la direzione è in mano di un’avanguardia comunista le masse non saranno ingannate e nelle diverse fasi del movimento la loro esperienza rivoluzionaria non farà che crescere.
«Sarebbe certo un errore nei paesi orientali voler applicare immediatamente alla questione agraria principi comunisti. Nel suo primo stadio la rivoluzione nelle colonie deve avere un programma comportante riforme piccolo-borghesi, come la divisione della terra. Ma non ne deriva necessariamente che la direzione della rivoluzione debba essere abbandonata alla democrazia borghese. Il partito proletario deve invece sviluppare una propaganda possente e sistematica in favore dei soviet, e organizzare i soviet di contadini e operai. Questi dovranno lavorare in stretta collaborazione con le repubbliche sovietiche dei paesi capitalisti avanzati per raggiungere la vittoria finale sul capitalismo nel mondo intero. Così le masse dei paesi arretrati, condotte dal proletariato cosciente dei paesi capitalisti sviluppati, arriveranno al comunismo senza passare per le diverse tappe dell’evoluzione capitalista» (Tesi IX).
* * *
Nella grandiosa visione dell’Internazionale, il proletariato delle colonie, guidato dal Partito Comunista, doveva essere all’avanguardia della lotta antimperialista. La lotta per il potere nelle colonie doveva essere condotta nel più stretto collegamento con la battaglia proletaria nelle metropoli, in quanto solo la vittoria nei paesi a capitalismo avanzato poteva garantire la sopravvivenza di un potere politico comunista in un paese con un’economia ancora in larga parte arretrata, e perfino poter saltare la fase borghese.
Lo stalinismo smantellò la prospettiva comunista nel procedere della rivoluzione cinese, concedendo alla borghesia il ruolo di guida rivoluzionaria e subordinando il proletariato e il Partito Comunista alla direzione del Kuomintang. Questo non fu un errore: era la controrivoluzione borghese che stava abbattendo il potere proletario in Russia e nello stesso tempo distruggeva la visione proletaria e comunista della rivoluzione mondiale, facendo dell’Internazionale, da Partito Mondiale del proletariato, uno strumento da utilizzare per gli interessi dello Stato russo. La vittoria della controrivoluzione a Mosca trascinò dietro di sé anche la sconfitta della rivoluzione in Cina.
Purtroppo, in quegli anni Venti, proprio quando in Cina i contrasti di classe si erano talmente acutizzati da porre la questione del potere politico, l’opportunismo penetrato nell’Internazionale impartì ai comunisti cinesi direttive, consistenti essenzialmente nella rinunzia al ruolo indipendente del Partito Comunista, che condussero a una disastrosa sconfitta le impetuose lotte dei proletari e delle masse contadine.
(continua al prossimo numero)
Premessa
La Repubblica del capitalismo nazionale indiano, dalla sua indipendenza nell’agosto del 1947, ottenuta a seguito della tragica partizione del subcontinente, ha cercato di incrementare il suo peso nello scacchiere internazionale, sia sul piano diplomatico sia su quello economico e militare.
Sebbene si trascini ancora dietro diversi retaggi etnici, religiosi e di casta, questo enorme paese è un limpido esempio di come il capitalismo abbia un unico inequivocabile carattere e detti ovunque le proprie regole, dalla economia fino alla morale corrente, indicando a tutte le borghesie del mondo la ineluttabile via da percorrere: quella del profitto.
Benché l’India continui ad essere una delle più grandi economie e in crescita, attirando le sanguisughe internazionali legate al profitto e alla speculazione, oltre cento milioni di indiani sono costretti a vivere con pochi dollari al giorno. Oggi, stretta dalla sovrapproduzione internazionale, acuitasi con la pandemia da Covid‑19, quella borghesia nazionale non ha perso tempo per attaccare le condizioni dei proletari, mentre continua a dividerli, internamente con i pretesti di razza, religione e casta, al di fuori del recinto nazionale accrescendo il nazionalismo, alimentato anche dalle tensioni con gli Stati confinanti, Pakistan e Cina su tutti.
La classe dominante indiana ha ben congegnato l’alternanza tra i governi di “sinistra” a quelli di “destra”, fino a porre oggi al governo un “uomo forte”, Narendra Modi, espressione del partito nazionalista indù Bharatiya Janata Party. Ma quando sarà utile alla scena non tarderà a ritirar fuori il “laico” Partito del Congresso e i fedeli alleati a sinistra, tutti, con ruoli diversi, ligi servitori dell’ordine sociale.
L’insensata ipertrofia del capitalismo internazionale e le sue inevitabili crisi hanno reso l’Oceano Indiano un’area strategica per tutti gli imperialismi e i capitalismi regionali, che su queste acque fanno viaggiare gran parte delle loro mercanzie. Le tensioni e gli antagonismi di questi anni sono destinati ad inasprirsi.
Questo lavoro intende ripercorrere l’arco storico che ha portato l’India a una società pienamente capitalista. Si confermerà il principio del marxismo che la produzione e lo scambio dei prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale, analizzando il divenire nel corso dei secoli dei complessi rapporti di forza tra le classi. Anche per comprendere l’attuale crescente ruolo dell’India nel panorama capitalista dobbiamo descrivere il suo passato secondo il metodo del materialismo dialettico, che pone le fondamenta dell’analisi di qualsiasi modo di produzione sulle condizioni geofisiche, economiche, sociali e in cui l’uomo si trova a vivere all’interno di dati rapporti di produzione e della lotta fra le classi che ne consegue.
A noi marxisti rivoluzionari non basta elencare il succedersi delle forme storiche di un paese, ma ci occorre far emergere la necessaria dialettica che ne genera una dall’altra, fino alla distruzione dell’ultima, quella capitalistica.
Sulla struttura economica fioriscono le diverse e complesse sovrastrutture ideologiche: «Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro, bensì nelle circostanze che trovano in quel momento davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione» (K.Marx, “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”). Gli indiani hanno sì fatto l’India moderna, ma l’hanno fatta con le braccia, con i piedi, con le armi, assai prima, e spesso nonostante la loro testa.
Attraversando le forme sociali e i rapporti economici troveremo nel subcontinente indiano la cadenza descritta da Marx, dalla forma primaria del comunismo primitivo all’attuale modo di produzione capitalista, passando per il modo di produzione di tipo asiatico. Si tratta qui di una sua variante determinata dalle condizioni climatico-geografiche. La separazione tra la proprietà collettiva e privata non è stabilita, la schiavitù, in generale, è limitata alla sfera domestica.
Se nelle zone europee l’acqua piovana irriga la terra in quantità sufficiente o può essere contenuta in piccole riserve per i periodi di siccità, in parte dell’Asia e del nord Africa, dove le precipitazioni sono insufficienti o irregolari, l’agricoltura è possibile solo grazie un efficiente sistema di raccolta e irrigazione a grande scala, realizzabile solo da comunità di uomini associati e disciplinati in modo centralizzato. La chiave di volta dello sviluppo della variante asiatica sarà quindi uno Stato che tutto ingloba e nel quale si concentrano i legami comunitari.
Non siamo né storici né pensatori originali. Anche questa ricerca non ha quindi intenti culturali: avvertiamo la necessità dello studio e dell’approfondimento della storia dell’India perché le sue transizioni rivoluzionarie ci forniscono utili elementi per conoscere e prevedere il maturare della lotta rivoluzionaria di classe anche in quel grande paese, che convergerà nella internazionale transizione dalla società di classe al Comunismo. Sarà, al pari di tutti gli altri studi del partito, uno strumento di combattimento rivoluzionario, utile al partito di oggi e che le future generazioni di comunisti proseguiranno.
Dobbiamo trarre le lezioni della controrivoluzione, denunciare la democrazia in ogni sua forma, smascherare i nemici e in particolar modo i numerosi falsi amici del numericamente poderoso proletariato indiano. Noi non sappiamo quando riuscirà a spezzare le catene della ideologia dominante, ma sappiamo che questo avverrà solo quando in India, come altrove, una loro minoranza si sarà riconosciuta nell’autentico Partito comunista rivoluzionario mondiale.
1. I primi insediamenti umani
La scarsità di materiale e di documenti aveva reso lacunosa la storia dell’India antica: l’80% della documentazione sull’era pre‑islamica aveva origine esclusivamente dalla tradizione orale. Solo dal 1900, grazie principalmente a scoperte archeologiche, sono state confermate o smentite le numerose versioni tramandate nei secoli. Ma ancora oggi riguardo alcuni avvenimenti nel subcontinente diverse teorie contrastano tra loro.
Nuovi scavi hanno rinvenuto tracce della presenza dell’homo erectus ad Hatnora, nella valle Narmada dell’India centrale: l’area sarebbe stata popolata nel pleistocene medio, periodo compreso tra 200 e 500 mila anni fa. Stanziamenti permanenti sono stati scoperti nelle grotte di Bhimbetka nell’attuale Madhya Pradesh, risalenti a 9000 anni fa. Abbiamo resti della cultura neolitica (7000 a.C.) nell’attuale regione del Belucistan pachistano, altri sommersi nel golfo di Khambat. Tracce del tardo neolitico, infine, sono state ritrovate nella valle dell’Indo (6000‑2000 a.C.) e nell’India meridionale (2800‑1200 a.C.).
La prima comunità nel neolitico è quella di Mehrgarh, una popolazione che inizia a sedentarizzarsi instaurando rapporti reciproci tra i cacciatori-raccoglitori e gli agricoltori. Le forme di distribuzione sono ancora collettive, un comunismo primitivo condizionato dalla forza produttiva principale, la comunità.
Per la prima civiltà urbana dobbiamo spostarci nella valle dell’Indo a Mohenjo Daro, Lothal e Harappa. Quest’ultima ebbe uno sviluppo comparabile alle coeve civiltà egizie e mesopotamiche, fiorì per circa mille anni, dal 2600 a 1600 a.C. È nota come civiltà dell’Indo o cultura di Harappa.
2. Una duplice rivoluzione
La rivoluzione agricola, iniziò a partire dal IX millennio a.C. Con l’adozione delle nuove tecniche, decisamente superiori a quelle della caccia e della pastorizia, e la progressiva fine del nomadismo per la sedentarietà, si rese possibile la crescita della popolazione. Nel corso del tempo questo permise il passaggio da un’economia di sussistenza, totalmente impegnata alla produzione di alimenti, ad una economia che consentirà la produzione di una eccedenza, premessa per il formarsi di classi distinte, alcune delle quali svolgeranno attività diverse dalla coltivazione della terra. Dinamiche che con il tempo portarono al sorgere dei primi insediamenti urbani.
Nel IV millennio a.C. i centri di questa duplice rivoluzione, diffusione dell’agricoltura e nascita delle prime città, furono il meridione della Mesopotamia, colonizzata dai sumeri, e l’Egitto della cosiddetta “dinastia zero”. In entrambe queste aree geografiche intorno al 3300 a.C. fu inventata la scrittura. La rivoluzione agricola, l’urbanizzazione e la nascita della scrittura possono essere considerate come l’inizio di una fase storica che vede processi analoghi in diverse regioni della Terra.
Queste prime civiltà, che utilizzavano prima strumenti di selce poi in bronzo, fiorirono nelle zone geologicamente più fertili, i grandi bacini fluviali: quello del Tigri e dell’Eufrate e quello del Nilo, intorno al 3300 a.C., seguite dalla civiltà dell’Indo intorno al 2500 a.C. e, a partire dalla metà del II millennio a.C., da quella del Fiume Giallo nella Cina settentrionale. Con il passare del tempo queste aree si estesero gradualmente oltre i nuclei originali, rimanendone i principali poli d’espansione, giungendo a coprire tutta la fascia dal Mediterraneo orientale alla Cina meridionale. Una enorme area geografica nella quale la densità demografica, l’organizzazione sociale e lo sviluppo tecnico erano ben diversi da quelle dei popoli nomadi, i quali basavano la loro economia prevalentemente sulla pastorizia e la caccia, seppur quest’ultima da tempo relegata ad un ruolo subordinato.
Le popolazioni nomadi, costrette da questa progressiva espansione, vennero spinte verso aree meno adatte all’agricoltura, le grandi steppe dell’Asia centrale e dell’Europa orientale e le zone desertiche dell’Arabia settentrionale. Ciò nonostante fino al XVI secolo i nomadi svilupparono una loro tecnica militare: l’invenzione dell’arco composito, carri da battaglia efficienti, l’uso dei cavalli e della staffa.
A seguito delle prime grandi invasioni dei popoli nomadi, la fascia geografica abitata dai sedentari si fratturò in due, quella occidentale comprendeva la Grecia e le altre aree civilizzate dell’Europa, ma anche l’Egitto e la Mesopotamia fino all’attuale India; mentre quella orientale includeva la Cina. Le numerose invasioni infatti avevano interrotto la difficile via di comunicazione tra le due parti che si appoggiava sulle oasi dell’Asia centrale.
La storia delle prime civiltà indiane è quindi intimamente legata a quella delle civiltà occidentali, in particolare del Medio Oriente, senza alcun legame con quelle più a oriente.
3. La civiltà dell’Indo
Nell’evoluzione delle prime civiltà che si avvicendarono nel subcontinente, fiorite fra il III millennio e il VI secolo a.C., si rilevano alcuni originari elementi distintivi di quella che sarà la civiltà indiana.
Prima del 1920, quando gli archeologi scoprirono i centri urbani di Harappa e Mohenjo‑Daro, separati tra loro da 500 chilometri e localizzati rispettivamente nel nord e nel sud di quello che oggi è il Pakistan, si riteneva che la prima grande civiltà nel subcontinente fosse da attribuire agli Indo‑Arya discesi nelle pianure indiane dopo la prima metà del secondo millennio a. C. Invece la civiltà vallinda è risultata molto più antica: dopo quelle dell’antico Egitto e della Mesopotamia sarebbe la terza grande civiltà del genere umano.
A partire dal 4000 a.C. il popolo dei dravidi, dalla pelle scura, i capelli neri e lisci, si diffuse in India accanto alle popolazioni munde. Questi gruppi umani probabilmente penetrarono nel subcontinente da ovest e si stanziarono nei bacini dell’Indo e del Gange, fino ad occupare gran parte dell’India centrale. Ed è a loro che si deve, nel 3300 a.C. circa, la nascita della cosiddetta civiltà della valle dell’Indo.
Nel subcontinente l’uso di tecniche agricole è provato nel 7000 a.C. a Mehrgar. Presso il fiume Bolan sono stati ritrovati resti di un silo, segno inequivocabile della presenza di un’agricoltura non più di sola sussistenza già a partire dal 4300 a.C. In questo periodo iniziò la progressiva espansione di comunità agricole in tutto il subcontinente. A partire dal 3200 sorsero i primi centri pre‑urbani. Tra il 2600 e il 2500 a.C. la loro crescita assurse a un ritmo rivoluzionario.
La civiltà dell’Indo si estendeva ben oltre l’attuale Pakistan: comprendeva ad ovest l’odierno Afghanistan e la parte orientale dell’altopiano iranico, mentre a oriente si spingeva fino alla valle gangetica, nel Rajasthan ed infine nel Gujarat. Raggiunse la piena maturità fra il 2500 e il 2000 a.C., per poi decadere dal 1600 a.C. e scomparire nel corso del 1500 a.C.
La civiltà dell’Indo conosceva la scrittura e praticava l’addomesticamento di diversi animali, ma non del cavallo, lavorava il rame e il bronzo ma non il ferro ed utilizzava vasellame di terracotta. L’agricoltura, con la costruzione di grandi granai nelle città, dava frumento e orzo e cotone. Era molto sviluppata, ma nel limite dei bacini fluviali. Infatti i vallindi, non conoscendo l’uso del ferro né applicando una impugnatura agli utensili, procedevano con difficoltà e la lentezza al disboscamento e al dissodamento delle terre vergini, ancora coperte da dense foreste.
È indicativo constatare come non solo non siano stati ritrovati monumenti funerari o d’altro genere né templi e palazzi, ma solo cisterne, sili e pozzi, tutte costruzioni di evidente utilità sociale. Ma l’eccellente urbanistica dei centri urbani vallindi ha colpito gli archeologi: ogni abitazione era collegata ad un efficiente sistema di fognature che fiancheggiava le strade della città e quasi tutte erano dotate di spaziosi cortili interni e di pozzi.
Negli anni successivi al 1958 nella valle dell’Indo sono stati riportati alla luce altri importanti centri urbani: complessivamente si presume che al suo culmine, agli inizi del secondo millennio a.C., la società vallinda fosse diffusa su un’area più vasta dell’Europa occidentale
Seppur alcuni elementi della struttura della società vallinda rimangano nel campo delle ipotesi, sappiamo che la sua base economica era agraria e che intensi erano i rapporti di scambio con le contemporanee civiltà mesopotamiche.
Pare fosse una società priva di Stato, di proprietà privata dei mezzi di produzione e senza legge del valore, con una divisione del lavoro tra contadini, sacerdoti e guerrieri che per diversi secoli non avrebbe subito il processo di divisione sociale. La transizione dalla caccia e raccolta nomade all’agricoltura e all’allevamento stanziali non vi avrebbe immediatamente generato dei rapporti di classe, essendo esaltato il lavoro della comunità, nel nuovo modo di produzione, dalla grande fertilità del terreno e del clima.
Le ipotesi sulla causa della fine di questa civiltà sono diverse, genericamente imputate all’invasione nel subcontinente di popoli conosciuti come Arya o Indo‑arya, parte dell’ondata di invasioni iniziata nel 1700 a.C. Un’altra ipotesi, confermata dalle ultime ricerche, verte sulla causa di natura ambientale. Una serie di catastrofici movimenti tettonici avrebbero deviato il corso dell’Indo e innalzato una diga naturale nella zona meridionale della valle inondando gran parte della pianura. È però molto probabile che gli ultimi centri di questa civiltà, oramai in decadenza, fossero distrutti dagli Arya.
4. Gli arya vedici
Con Indoari si indica una popolazione nomade indoeuropea, appartenente al gruppo indoiranico, che penetrò nel subcontinente indiano a partire dal II millennio a.C. Sembrerebbe che queste popolazioni provenissero dalle steppe dell’Asia centrale, dove vivevano principalmente di pastorizia e di allevamento di cavalli. A differenza dei vallindi, stanziali, che conoscevano la scrittura, basata sull’alfabeto dravidico, e il cui animale di maggiore importanza era il bue, gli Arya, nomadi, non conoscevano la scrittura. Gli Arya vedici non ci hanno lasciato, salvo rare eccezioni, di edifici in muratura.
La struttura della loro società era suddivisa in tre classi principali: i sacerdoti, i guerrieri e i produttori. La loro rivoluzionaria tecnica di guerra era basata su carri trainati da cavalli montati da un auriga e da un combattente che impugnava armi di bronzo, forma di battaglia che la limitava alle regioni pianeggianti. Le azioni erano quasi sempre volte alla razzia dei centri delle popolazioni autoctone, i Dasyu, dell’area nord occidentale del subcontinente.
Disperdendosi su vasti territori, la lingua di questo popolo, di matrice indoeuropea e indoiranica, subì un processo di frammentazione che diede origine alle varie lingue indiane antiche, il sanscrito, e moderne, come l’hindi.
Nella prima metà del II millennio a.C. invasero l’altopiano iranico da dove, si presume, cominciarono a penetrare in India dal 1700 a.C. Nello stesso periodo alcuni popoli indoariani si sarebbero spinti fino in Mesopotamia.
Il trattato di pace del 1350 a.C. redatto nella capitale ittita Ḫattuša, è spesso citato come il primo documento con riferimenti agli Arya.
Oltre a razziare i Dasyu, le tribù degli Arya guerreggiavano fra di loro per ripartirsi il controllo delle terre strappate alle popolazioni autoctone.
5. Da nomadi a sedentari
All’origine di queste migrazioni ci fu probabilmente un mutamento climatico con una diminuzione delle temperature e delle precipitazioni che, all’inizio del II millennio a.C., interessarono l’intera Asia sud‑occidentale, compresa la stessa India dove portarono quasi al collasso l’antica ed evoluta civiltà dravidica.
Le tribù indoariche iniziarono a penetrare prima tra le montagne Hindu Kush e successivamente oltre la pianura dell’Indo, spingendo i dravidi a sud.
Il periodo vedico durò approssimativamente dal 1500 al 500 a.C. e posò le fondamenta della civiltà indiana e delle sue maggiori correnti spirituali e religiose.
La maggiore fonte sugli Indo‑Arya sono i Veda, una raccolta di scritture di ispirazione divina. Nel periodo rigvedico, corrispondente alla composizione del RgVeda (una delle quattro suddivisioni canoniche dei Veda, una raccolta di inni in sanscrito vedico), la società degli Arya rimase essenzialmente tribale e preurbana ma in graduale evoluzione, grazie al nuovo territorio favorevole, dalla pastorizia e dal nomadismo alla vita sedentaria dell’agricoltura. Gli Arya iniziarono a coltivare le zone di terreno più fertile, irrigandolo dai numerosi fiumi, e a disboscare parte della giungla gangetica.
La società vedica era permeata da stratificazioni sociali segnate da legami di natura religiosa e rituale. Non esisteva ancora né la proprietà della terra né una definita forma di tassazione. Il trasferimento di ricchezza da una parte della classe subordinata alle classi dominanti, quella sacerdotale in primis, avveniva in genere in occasione delle celebrazioni religiose. Col tempo questi trasferimenti divennero a scadenze prefissate. Caratteristica fondamentale del periodo tardovedico fu la crescita dell’importanza sociale brahmanica.
L’uso del ferro, non solo nella guerra ma in agricoltura, portò a una maggiore produttività del lavoro, base materiale del sorgere di città di dimensioni superiori a quelle dell’Indo, e a rapporti commerciali di notevole importanza, con l’emergere di una classe mercantile.
Sovente dai Veda traspare la tensione tra le due nascenti classi dominanti, brahamani e mercanti, ma è anche evidente come impararono a dominare assieme su contro quelle sfruttate.
Nella religione dei brahamani le celebrazione di riti avrebbero generato forze determinanti il funzionamento del cosmo obbligando gli stessi dèi a comportarsi secondo il volere dei sacerdoti: questa classe monopolizzava preziose conoscenze di astronomia che le consentivano di ordinare i fondamentali cicli agrari.
Il 1500 a.C. è sia la data che convenzionalmente segna la fine della civiltà dell’Indo, sia l’ingresso degli Arya nel subcontinente. Fino al 500 a.C. si svolge la conquista ai danni dei popoli aborigeni.
6. Una nuova struttura sociale
Si stima che le tribù Arya iniziarono a divenire stanziali solo dopo il 1000 a.C. diffondendosi in particolar modo nell’India settentrionale. Tra i vari janapada, regni tribali, verso la fine del VII secolo a.C. ne emersero sedici più importanti: i Mahajanapadas (maha: grande).
Gli Arya avevano avuto un’organizzazione sociale articolata in tre classi, tipica dei popoli indoeuropei: l’aristocrazia guerriera degli kshatriya, fra i quali veniva scelto un capo tribù rajan, i sacerdoti, brahmani o bramini, e il popolo, i vish.
Quando gli Arya si stabilirono nei loro nuovi domini utilizzarono il lavoro delle popolazioni autoctone in qualità di operai e artigiani: a questi fu attribuito un marchio di distinzione, un “colore” (varna). Il termine assunse presto il significato di casta e fu applicato anche agli stessi Arya così da distinguerne i vari strati sociali: i sacerdoti e i guerrieri, e i contadini liberi e i commercianti. Ma un sistema castale compiuto, articolato in tutta la sua complessità, si avrà solo in epoche successive. La stratificazione sociale del tardo periodo vedico era infatti caratterizzata dall’emergere di un ordine gerarchico riflesso della divisione del lavoro fra le varie classi sociali. All’apice si trovavano i sacerdoti e l’aristocrazia guerriera, il secondo gradino era occupato dai contadini Arya liberi e dai commercianti; i braccianti, gli artigiani e gli schiavi delle popolazioni autoctone sottomesse erano inclusi nel terzo livello, quello degli shudra, servitori.
I quattro ordini con il tempo si chiusero nell’endogamia: i membri di un determinato varna si potevano sposare solo fra di loro, trasformando le divisioni di classe in separazioni castali.
Durante il primo periodo vedico l’autorità del monarca era limitata da un’assemblea composta da tutti i membri delle tribù o da un Consiglio ristretto dei più influenti di loro. Alcune tribù Arya erano totalmente governate da questo Consiglio e di fatto non riconoscevano alcun rapporto con il re.
La transizione alla vita sedentaria basata sull’agricoltura muta la figura del sovrano. Mentre i primi monarchi, compresi gli ereditari, dovevano essere eletti o approvati dai membri della tribù, più tardi i re si imponevano attraverso una guerra interna, ottenendo la piena legittimità dall’investitura dei soli sacerdoti brahmani. Il popolo, vish, partecipava a tale cerimonia solo come spettatore.
Nella crescente stratificazione e divisione in classi della società vedica monarchi e sacerdoti brahmani si garantivano reciprocamente le rispettive posizioni nella gerarchia sociale. I brahmani si fecero sostenitori della divinità del monarca; questo garantiva la posizione apicale di quelli all’interno del sistema castale. Nei testi si vengono a citare con disprezzo le tribù Arya ancora dirette da un Consiglio e di forma “repubblicana”, che non riconoscevano la sacralità del sovrano.
7. Le frottole del nazionalismo borghese
Ma tutta la storiografia per il periodo che va dal 1500 al 500 a.C. si fonda prevalentemente sull’analisi dei Veda, inni in origine trasmessi oralmente, dal momento che gli Arya, al loro arrivo nel subcontinente, non conoscevano la scrittura. Spesso quindi alcune indicazioni ricavabili dai Veda, come la coesistenza temporale e geografica con le popolazioni precedenti, sono in contraddizione con le nuove scoperte archeologiche.
Ma questo consente alle attuali classi dominanti borghesi varie letture della storia ad uso della propaganda nazionalista e di coesistenza fra le classi. Si sostiene che non di conquista si sia trattato ma di pacifiche migrazioni con integrazione fra popoli di pastori e di mercanti. Altra tesi, oggi piuttosto influente in India, afferma che gli Arya siano originari dello stesso subcontinente. In questa ultima tesi si riconosce la “destra” del panorama politico indiano, il fondamentalismo indù, mentre nella tesi della migrazione pacifica si identifica la galassia della sinistra opportunista e borghese le quali vorrebbero così dimostrare come fin dalle origini in India si sia verificato una unione di diverse classi e gruppi etnici e religiosi, a cui lo Stato laico borghese di oggi dovrebbe esser in grado di garantire esistenza e pari diritti.
(continua al prossimo numero)
Riproponiamo di seguito alcuni documenti, tratti dagli organi di stampa del Partito Comunista d’Italia, concernenti la nascita dell’Alleanza del Lavoro e la posizione assunta al riguardo dal partito.
Sotto la spinta delle masse proletarie che istintivamente avvertivano l’esistenza di un solo mezzo per resistere vigorosamente all’offensiva capitalista, ovvero il fronte unico nell’azione sindacale, il Sindacato dei Ferrovieri, diretto da anarchici, socialisti e anarco-sindacalisti, prese l’iniziativa di promuovere un convegno di tutte le organizzazioni sindacali “che sono sul terreno della lotta di classe” per giungere a una intesa per la formazione della “Alleanza del Lavoro”, proponendo pure uno schema di rivendicazioni concrete interessanti tutto il proletariato. Non sappiamo quanto per ingenuità o quanto per un preciso disegno politico, detto sindacato, allo scopo di facilitarne l’attuazione, ritenne opportuno convocare preliminarmente, ai primi di febbraio 1922, un convegno dei partiti politici italiani cosiddetti “di avanguardia”: socialisti, comunisti, anarchici, repubblicani.
Come tutti sanno, il partito comunista non partecipò a quel convegno, inviando però una lettera nella quale dichiarava che avrebbe messo a disposizione tutte le sue forze al fine di realizzare l’azione unitaria del proletariato italiano. È bene ricordare a tutti gli ipocriti difensori del proletariato, assieme agli storici falsificatori, che il Partito Comunista fin dal mese di agosto dell’anno precedente aveva presentato al congresso sindacale di Verona una mozione per il fronte unico sindacale, mozione che era stata respinta dalla maggioranza dei burocrati e funzionari della CGL, mentre i ducetti degli altri sindacati l’avevano semplicemente ignorata.
Sul risultato della riunione preliminare, partitica, nel comunicato del Sindacato Ferrovieri, tra le altre cose veniva detto: «I convenuti hanno aderito entusiasticamente all’iniziativa del Sindacato Ferrovieri, prendendo l’impegno di influire in tale senso sulle Organizzazioni gravitanti nella sua orbita politica» (Comunicato del giorno 8 febbraio, da “Il Lavoratore”, 9 febbraio 1922). Ma, al di là delle belle parole, basta questa frase per dimostrare come dal convegno dei partiti non fosse scaturita nessuna seria iniziativa di azione. Il Sindacato Ferrovieri aveva presentato un programma di rivendicazioni concrete, ma nel Comunicato non se ne trova traccia. Non a caso il Partito Comunista aveva subito ammonito che un riavvicinamento puramente formale dei dirigenti di varie organizzazioni che non si fossero intese sul contenuto reale del concetto di unità proletaria, non sarebbe stato che una caricatura del fronte unico.
Cosa significasse questo “impegno” per i socialisti non è difficile stabilirlo: furono loro stessi ad affermarlo. Scriveva l’ “Avanti!” all’indomani del convegno: «Questa la nuova tattica [...] Dovendo necessariamente muoversi su questo terreno più cauto, dalla piazza al Parlamento, con abili accorgimenti e con mosse diverse di difesa e di attacchi frontali e avvolgenti [...] da un lato il Gruppo Parlamentare socialista è autorizzato a muoversi con una certa souplesse nei confronti dei Partiti borghesi di Sinistra, dall’altro lato la Direzione del Partito stringe un patto di alleanza difensiva e offensiva con le Organizzazioni sindacali che sono state fin qui fuori della sua orbita, e anche cogli anarchici [...] Altri potrà trovare pericoloso e pieno d’insidie questo facile spostarsi da sinistra a destra, e da destra a sinistra, questo rapido volgersi dalla democrazia all’anarchismo e dall’anarchismo alla democrazia».
Certo, altri, non i socialisti! Rischi ed insidie potevano esservi ravvisate solo da coloro che avevano «sempre intesa la politica in senso dogmatico e nel quale le folle hanno ancora assai vivo il sentimento religioso del Partito politico, mentre poco sviluppata è la coscienza politica soprattutto nei rapporti della necessità della tattica». Quindi rinnegamento di ogni principio in nome della necessità della tattica.
L’articolo concludeva: «Il nuovo Gabinetto [era caduto il governo Bonomi e stava per nascere quello Facta, n.d.r.] che uscirà dalla presente laboriosa crisi governativa non potrà non tenere il dovuto conto di quest’Alleanza che si stringe fra i Partiti politici d’avanguardia e il movimento proletario rappresentato dalle categorie che hanno maggiore influenza sullo sviluppo dell’attività nazionale. I lavoratori italiani, non fanno dei ricatti, non pongono degli aut aut irragionevoli e ostinati».
Senza aver avuto bisogno di leggere quest’articolo, lo stesso giorno il giornale comunista poteva svergognare l’ “Avanti!”: «La marcia a destra è condotta con una certa gradualità di atteggiamenti e conversioni che dovrebbero spostare l’azione di gran parte del proletariato dalla fiera intransigenza d’altri tempi del vecchio e glorioso partito alla supina acquiescenza alla politica di complicità con la borghesia [...] Giungere alla collaborazione, ma con l’appoggio elettorale immutato di larghi strati proletari, come ogni gruppo che voglia quotarsi sulla scena della politica parlamentare ha bisogno di avere dietro di sé la compatta falange di deputati e le schiere numerose degli elettori». Una politica, quella socialista, secondo la quale «le rivendicazioni proletarie possano essere conseguite non attraverso la conquista rivoluzionaria del potere politico da parte del proletariato, non attraverso la pressione del proletariato sul terreno dell’azione diretta, non per opera dei lavoratori stessi, ma per il meccanismo dello Stato democratico» (“Il Comunista”).
Il Partito Comunista, benché assente al convegno del giorno 8, riconobbe tutta l’importanza di questo avvio verso l’unione della classe operaia, avvertendo però che questa avrebbe rischiato di divenire semplicemente formale e inoperante se non si fosse basata sulla difesa di tutte le rivendicazioni: del livello di vita del proletariato e dell’impiego dell’azione diretta sindacale, fino allo sciopero generale nazionale.
Mentre il convegno dei partiti “di avanguardia” non prese nessuna decisione in merito, il Partito Comunista, pur rivendicando la sua indipendenza d’azione sul piano politico, diede chiare disposizioni ai suoi aderenti e simpatizzanti di sostenere e anche promuovere la realizzazione del fronte unico sindacale.
Al convegno dei partiti seguì, una decina di giorni dopo, la riunione sindacale, dei dirigenti delle più importanti organizzazioni italiane: il promotore Sindacato Ferrovieri, la Confederazione Generale del Lavoro, l’Unione Sindacale Italiana, l’Unione Italiana del Lavoro, la Federazione dei Lavoratori dei Porti.
Riguardo alla riunione dei sindacati il Partito Comunista chiariva che la formula di invito di partecipare ai sindacati “che sono sul terreno della lotta di classe” non significava nulla. «Nel senso politico potremmo revocare in forte dubbio che la politica dei capi della Confederazione del Lavoro sia sul terreno della lotta di classe. Nel senso sindacale dobbiamo riconoscere come organizzazione di classe ogni unione di lavoratori con obiettivi economici, qualunque sia il colore politico dei dirigenti. Noi proponiamo che l’invito alla riunione di Genova [la riunione poi si tenne a Roma, n.d.r.] sia esteso a tutte indistintamente le organizzazioni sindacali che intendessero intervenire, senza alcuna limitazione». Concetto questo molto importante da tener presente ora come allora.
Inoltre la forte minoranza comunista all’interno della CGL e del Sindacato Ferrovieri aveva chiesto l’allargamento della rappresentanza, su base proporzionale, a tutte le componenti esistenti all’interno delle organizzazioni sindacali. Naturalmente questa richiesta, sotto vari pretesti, fu respinta sia dai bonzi della CGL sia dal Sindacato ferrovieri. Ma neanche gli anarchici dell’USI furono da meno vietando la partecipazione a quella loro minoranza che si era pronunciata in favore all’adesione all’Internazionale Sindacale Rossa.
Escluse le minoranze organizzate, il Comitato Nazionale dell’Alleanza del Lavoro assunse questa composizione: 7 riformisti, 3 anarchici, 3 anarco-sindacalisti, con la maggioranza assoluta in mano ai riformisti. Così i comunisti, che rappresentavano masse operaie superiori a quelle anarchiche e anarco-sindacaliste, si trovarono a non aver nessuna rappresentanza. Nel caso invece che fosse stata data alle minoranze una rappresentanza proporzionale ai risultati congressuali si sarebbe avuta una rappresentanza di 5 riformisti, 2 comunisti, 2 anarchici, 4 anarco-sindacalisti, e i riformisti avrebbero perduto la maggioranza.
Ma il connubio oggettivo degli anarchici e degli anarco-sindacalisti con i bonzi socialdemocratici – che determinò l’esclusione della rappresentanza di oltre mezzo milione di proletari, certamente i più combattivi e determinati all’azione diretta – dimostra come quelli preferissero mettersi al seguito del riformismo anti-operaio piuttosto che dei comunisti.
Questo comportamento rivelò nel modo più chiaro come l’ “Alleanza del Lavoro”, così come i dirigenti sindacali l’avevano voluta, altro non era che un accordo al vertice tra funzionari.
Tuttavia l’Alleanza del Lavoro era stata imposta ai dirigenti sindacali dalla spinta delle masse lavoratrici, e fu considerata dai comunisti un importante primo passo verso la costruzione del fronte unico sindacale: le masse lavoratrici, se la successiva situazione l’avesse consentito, avrebbero avuto modo nel corso dell’azione di trasformarla in un organismo di autentica lotta di classe.
Infatti i capi sindacali sentivano il pericolo che le masse operaie sfuggissero al loro controllo e, senza una chiara opposizione degli anarchici e degli anarco-sindacalisti, cercavano di convogliarle nella palude del collaborazionismo parlamentare e governativo.
Il loro programma, comunque destinato al fallimento, anziché riunire il movimento verso le uniche rivendicazioni della classe, si poneva sul solo terreno che per essi esisteva: la restaurazione delle libertà pubbliche e del diritto comune, cioè la restaurazione della borghese pace sociale.
Per i nostri avversari, compresi certi “comunisti internazionalisti”, per stupidità o malafede, la causa, o come minimo la concausa della sconfitta del proletariato italiano sarebbe da imputarsi alla colpevole politica di “intransigente dogmatismo” del partito comunista. Bene, gli articoli che seguono dimostrano chiaramente come il partito comunista, sul terreno dell’azione sindacale di classe, sia stato l’unico antidogmatico ed anti intransigente e si sia battuto con tutte le sue forze per la unitaria lotta dell’intera classe lavoratrice. Non contano le parole, ma i fatti; ed i fatti dimostrano come il settarismo è carattere tipico della socialdemocrazia, ma anche dell’anarchismo e dell’anarco-sindacalismo.
Il partito comunista e le proposte di fronte unico
L’ “Alleanza del Lavoro”
(“Il Comunista”, 10 febbraio 1922)
È stato pubblicato un breve comunicato su di una riunione tenuta ad iniziativa del Sindacato Ferrovieri Italiani tra Partito socialista, Partito repubblicano e Unione Anarchica per intendersi sulla cosiddetta “Alleanza del Lavoro”. È stato annunciato come il Partito Comunista non abbia creduto di intervenire pur affermando in una sua lettera di essere pronto a consacrare tutte le sue forze ad una azione unitaria del proletariato italiano. È necessario dire qualche cosa per chiarire l’atteggiamento del nostro partito e il valore delle trattative in corso.
Il Sindacato dei Ferrovieri è stato spinto dalla propria situazione nelle vertenze in corso a farsi iniziatore di una azione unica del proletariato, e della riunione di un convegno di tutte le organizzazioni sindacali “che sono sul terreno della lotta di classe” per la costituzione di un Comitato unico di agitazione. Questo convegno è annunciato a Genova per il 15 febbraio. Per facilitare la preparazione i dirigenti del Sindacato Ferrovieri hanno trovato opportuno indire a Roma un convegno di partiti politici “di avanguardia”, per una intesa preliminare allo scopo di influire concordemente sulle organizzazioni sindacali in cui i detti partiti sono rappresentati.
Il Sindacato Ferrovieri proponeva anche uno schema di rivendicazioni concrete interessanti tutto il proletariato che non risulta sia stato ufficialmente fatto proprio dal convegno dei partiti, almeno a quanto si rileva dal comunicato succitato.
Il Partito Comunista non ha trovato opportuno di intervenire a questa riunione di partiti politici, e non crede che la via scelta dal Sindacato Ferrovieri per la preparazione del fronte unico sindacale sia la più sicura.
Non occorre ricordare come l’intesa tra le grandi organizzazioni sindacali sia stata proposta e validamente sostenuta contro le diffide e insinuazioni proprio dal nostro partito fin dall’agosto scorso. Noi vediamo dunque con viva soddisfazione la convocazione di Genova tra gli organismi sindacali e senza bisogno di intervenire a convegni politici preparatori il Partito Comunista impegna senz’altro per la riuscita di questa riunione tutte le forze dei suoi aderenti nel terreno sindacale. Si devono però mettere in luce parecchie cose, per chiarire bene quale debba essere la piattaforma del fronte unico proletario se questo deve essere una realtà ed una forza.
La necessità del fronte unico si impone per il proletariato bersagliato dall’offensiva padronale in quanto esso è condotto a constatare che per la sua difesa contro le mille manifestazioni dell’attacco borghese non è sufficiente l’azione isolata di parte della classe lavoratrice, non sono più bastevoli i movimenti locali e di categoria. Che questa sia la piattaforma iniziale di ogni azione efficace in difesa del proletariato lo mostra alla evidenza la origine stessa della iniziativa del Sindacato Ferrovieri che ha dovuto constatare come anche la potentissima organizzazione ferroviaria non possa difendersi dalla reazione se non affasciando la sua difesa con quella di tutto il proletariato delle altre categorie e professioni. Si deve quindi stabilire che a base di ogni dichiarazione comune di alleanza tra le varie organizzazioni operaie stia il riconoscimento di questo proposito dettato dalla necessità: fusione in una sola azione di tutte le vertenze parziali sollevate dalla offensiva borghese.
Un riavvicinamento formale dei dirigenti di varie organizzazioni che non si intendano su questo contenuto reale del concetto di unità proletaria, non sarebbe che la caricatura del fronte unico. Non si tratta tanto di stabilire che Confederazione, Unione sindacale, Ferrovieri ecc., agiranno d’accordo su di un vago programma che resterà sulla carta, ma di stabilire che questi organismi concordano nello spostare il piano dell’azione proletaria dagli orizzonti locali e di categoria all’impegno simultaneo nella lotta di tutta la classe lavoratrice su scala nazionale, e domani internazionale.
Inoltre deve essere fissato il contenuto preciso delle rivendicazioni da difendere. Anche qui si deve notare come nella proposta dei ferrovieri siano chiaramente contenute quelle proposte che altra volta ha avanzate il Comitato sindacale comunista e che i comunisti difendono con ogni loro forza: principale quella della difesa del salario e di tutte le conquiste proletarie. Una intesa è utile solo su questa base. Non occorre dire come questa piattaforma sia stata respinta da socialisti e confederalisti.
La proposta dei ferrovieri precisa anche la risposta alla reazione con qualunque mezzo. Forse è troppo pretendere che questa formula sia accettata come condizione per l’intesa, ma va tuttavia ricordato che confederalisti e socialisti fanno una continua campagna contro questo criterio. Se però l’impiego della violenza è un postulato che non è il caso di affacciare pregiudizialmente per non fornire un troppo comodo alibi agli opportunisti, si deve a nostro parere stabilire chiaramente, a base della intesa di Genova, che, restando ogni partito, o corrente politica libero di adoperare i suoi mezzi specifici di azione, il parlamentarismo per i socialdemocratici, l’azione illegale per i comunisti, le organizzazioni sindacali si accordano però su questa chiara base: impegno delle forze sindacali sul terreno dell’azione di classe. I Sindacati devono dichiarare che l’acquiescenza alle imposizioni borghesi vorrebbe dire la loro morte, e l’unica risposta possibile è l’impiego nella lotta delle forze della organizzazione proletaria sul loro terreno specifico: lo sciopero generale. Genova non dovrà proclamare uno sciopero generale, ma dare mandato al Comitato proletario, come proponeva la mozione comunista a Verona, di preparare la lotta in vista di questo mezzo centrale di azione da adottarsi a tempo opportuno.
Il fronte unico diventa una cosa senza alcun valore senza questa precisa piattaforma che propongono i comunisti: affasciamento di tutte le vertenze parziali – difesa integrale del tenore di vita del proletariato – impiego dell’azione diretta sindacale fino allo sciopero generale.
Nulla di questo vi è nella riunione dei partiti di cui ci parla il ripetuto comunicato. A che dunque si sarebbero impegnati i socialisti, repubblicani ed anarchici? Si poteva invece raggiungere un miglior risultato, in vista della adunata di Genova, se ogni partito, senza bisogno di adunanze comuni che, appunto perché porterebbero ad un compromesso tra i vari programmi politici che sono inconciliabili, restano sterili nei risultati, lanciasse una chiara parola d’ordine ai suoi aderenti che militano nei sindacati. Il Partito comunista senza nulla domandare da parte degli altri movimenti ed organizzazioni che dicono di essere per il fronte unico, senza porre nessuna pregiudiziale circa il proprio intervento e rappresentanza nel Comitato dirigente, ha da tempo data disposizione a tutti i suoi aderenti di sostenere i punti fondamentali che sono l’unica base possibile del fronte unico. Gli altri partiti proletari, o “di avanguardia”, secondo una vecchia denominazione di cui dovrebbe beneficiare il Partito repubblicano che non può e forse non vuole essere detto un partito proletario, non hanno che a comportarsi analogamente.
Non si dirà che il Partito Comunista voglia in tal modo imporre il suo programma contro quello degli altri partiti. A questo il Partito Comunista non rinuncia certo, in quanto si riserva larghissima libertà di propaganda critica e polemica politica (e non chiede che nessuno rinunzi a fare altrettanto nei suoi confronti). Ma per quanto riguarda la costituzione del fronte unico proletario, le proposte del Partito Comunista non contengono né l’impegno alla lotta contro il potere borghese per abbatterlo con la violenza, né quello della costituzione della dittatura proletaria: esse sono tali che, mentre al di fuori della piattaforma che esse costituiscono, il fronte unico sarebbe una turlupinatura, né il programma socialista né quello libertario sono in contrasto con la loro accettazione.
Non si confonda dunque il fronte unico con una vaga intesa formale tra diversi partiti, interpretabile nel senso che ognuno tenderà in certo modo allo scopo comune della difesa operaia con i suoi propri mezzi di azione, costituendosi un organo che si servirebbe dei socialisti e magari dei ministri socialisti sul terreno parlamentare e degli anarchici sul lancio di bombe. Qui non si avrebbe unità ma vano giuoco di demagogia. Unità di azione proletaria si può praticamente e concretamente avere sul terreno indicato dal Partito Comunista, come unità di fini e di mezzi, in quanto vi sono dei fini e dei mezzi da contrapporre alla offensiva borghese e nei quali ogni lavoratore organizzato può convenire, senza che vi si opponga il suo partito politico. Esca dalla riunione di Genova una simile intesa e si potrà contare in prima linea sulle forze del Partito Comunista e su tutti i suoi organi di propaganda e di battaglia.
Ed infine poniamo, non due condizioni, ma due domande circa la organizzazione della adunata di Genova. La vecchia formula: “sul terreno della lotta di classe” non significa più nulla. Nel senso politico potremmo revocare in forte dubbio che la politica dei capi della Confederazione del Lavoro sia sul terreno della lotta di classe. Nel senso sindacale dobbiamo riconoscere come organizzazione di classe ogni unione di lavoratori con obiettivi economici, qualunque sia il colore politico dei dirigenti. Noi proponiamo che l’invito alla riunione di Genova sia esteso a tutte indistintamente le organizzazioni sindacali che intendessero intervenire, senza alcuna limitazione.
Ed inoltre chiediamo ancora se ad un convegno di tanta importanza debbano le grandi organizzazioni economiche essere rappresentate solo dai Consigli esecutivi o direttivi detenuti dalle rispettive maggioranze, o non piuttosto da una rappresentanza scelta con criterio più largo e proporzionale alle frazioni politiche che conta ciascuna organizzazione.
In tal modo senza convocare i partiti politici, il che sarebbe una misura affatto sfavorevole alla riuscita della iniziativa, si avrebbe la rappresentanza di tutte le tendenze rappresentate nel campo proletario.
Se le minoranze comuniste potranno parlare nel Convegno, esse non pretenderanno che si possa unire il proletariato solo sulla base della accettazione del programma comunista. Esse porranno soltanto i tre punti a cui abbiamo accennato, chiederanno soltanto che la unità del fronte abbia chiaro contenuto e chiaro metodo di azione.
L’attitudine del nostro partito non potrebbe esser più semplice e più diritta. Esso è pronto a dare tutto perché l’unità non sia barattata in nuove e tormentose delusioni del proletariato d’Italia troppe volte frenato sulla via della vittoria dalla inettitudine dei capi.
La fabbrica delle trappole
(“Il Comunista”, 15 febbraio 1922)
Secondo i piani dei socialriformisti, una stessa piattaforma dovrebbe servire per la diretta partecipazione loro alla manipolazione del nuovo ministero e per il surrogato di fronte unico a mezzo del quale il proletariato italiano dovrebbe essere delicatamente bendato con le formule serratiane della elasticità di tattica per cui si agisce al tempo stesso al Parlamento ed in piazza. Noi seguitiamo a mostrare senza reticenze come è congegnato il meccanismo della trappola.
Ci siamo già occupati delle rivendicazioni formulate dal gruppo parlamentare socialista come piattaforma del suo appoggio ad un ministero borghese, rilevando che nella parte economica esse non contenevano la difesa del salario, dei concordati e del tenore di vita dei lavoratori, limitandosi alle otto ore di lavoro e ai provvedimenti contro la disoccupazione.
Queste rivendicazioni così formulate non sono che un inganno, sia nel loro contenuto che nei mezzi che si propongono per difenderle. Si è evitato di porre tra di esse la difesa del salario perché questa non può certo essere fatta con una azione parlamentare e conseguita con provvedimenti di governo da parte di un qualunque ministero di sinistra, mentre questo potrebbe lanciare al proletariato l’offa della legge sulle otto ore e di qualche corbellatura di legge per i disoccupati, oltre a concessioni di lavori pubblici alle cooperative riformiste. Nello stesso tempo si vuole escamottare l’opera dei comunisti e anche dei libertari tendente a illuminare le masse sulla politica disfattista dei socialisti, coll’accedere al fronte unico artefatto che faccia propria quella piattaforma equivoca, la quale esclude da una parte che si debba arrivare ad uno scontro tra le forze sindacali del proletariato e la classe padronale sul terreno dell’azione diretta, e consente dall’altra parte di fare la reclame alle pretese benemerenze proletarie in un ministero quale ardentemente i parlamentari socialisti lo vogliono. Riuscendo ad attrarre le forze operaie non controllate dal partito socialista su un tale terreno, mentre si eviterebbe la pericolosa concessione di fare le basi dello sciopero generale nazionale contro l’offensiva borghese.
Questo piano riescirebbe se i socialisti ottenessero dalle organizzazioni dissidenti della confederazione e dalle frazioni sindacali non socialiste l’impegno ad una azione comune su quella vaga formula che è servita a concretare le loro richieste nel mercato dell’appoggio a un ministero.
Che l’intenzione della Confederazione sia di addivenire al fronte unico, ma limandone lo scopo alla difesa delle otto ore e alla vaga lotta contro la disoccupazione, ed escludendo dai mezzi l’azione di massa e lo sciopero generale, lo dimostrano non soltanto le discussioni del Consiglio direttivo delle quali ieri ci siamo occupati, col rifiuto delle azioni di solidarietà colle categorie gravemente impegnate nella resistenza alle imposizioni padronali e statali, ma altresì gli scritti dell’organo ufficiale confederale. Nel suo ultimo numero questo insiste solennemente in articoli di C.A. e di A. sul valore del postulato delle otto ore come contenuto di una grande battaglia operaia nazionale. Vi è un curioso articoletto che parla del fronte unico e dice: va bene il fronte unico, ma bisogna precisarne chiaramente, se si vuol raggiungere l’accordo, l’obiettivo e i mezzi coi quali si intende svolgere l’azione. Ma benissimo, è proprio questo che vogliamo, noi rispondiamo. Se si vuole il fronte unico si devono precisare scopi e mezzi. Ed il signor A. precisa per conto suo e dice: c’è la questione delle otto ore; essa è profondamente sentita da tutte le organizzazioni: su di essa si farà il fronte unico... automatico. È proprio questa l’ultima trovata socialdemocratica: il fronte unico automatico. Quanto ai mezzi il nostro amico proclama senza esitare: Tutti i mezzi, nessuno escluso: dall’azione di piazza a quella indiretta dei deputati in Parlamento.
Qui sta tutto l’inganno. Difesa delle otto ore, diciamo anche noi. Ma, domandiamo subito che cosa vale la difesa delle otto ore se si abbandona la difesa del livello del salario? Non crediamo che si trovi un operaio o un organizzatore, di qualunque tendenza politica che non riconosca che la conquista delle otto ore non dice nulla, se si lasciano ribassare i salari. Gli operai italiani in questo periodo di crisi se non sono disoccupati e non lavorano a turni ridotti, fanno per effetto dei concordati anche meno di otto ore: sarebbe per il governo una benemerenza molto a buon mercato far passare la legge. La conquista delle otto ore ha un valore grandissimo perché si è realizzata nel periodo dei miglioramenti del salario: quale operaio e quale organizzazione avrebbe accettato le otto ore se contemporaneamente il salario orario non fosse di tanto cresciuto, da dare una paga giornaliera uguale anzi superiore a quella che si aveva dalla giornata di dieci ore? Ogni operaio e ogni organizzazione capisce che si può difendere la conquista delle otto ore di lavoro solo tenendo duro sul valore delle paghe fissato coi concordati che sanzionavano quella conquista, e se non si argina il precipizio dei salari sarà inevitabile che gli operai si affollino e chiedano di lavorare più di otto ore per ristabilire il loro bilancio domestico: determinando così una ulteriore offerta di manodopera ed un inasprimento ulteriore dei patti di lavoro.
Nel piano della offensiva capitalistica che dovrebbe consentire la ricostruzione economica non vi è la necessità di ottenere dal proletariato un numero indefinito di ore di lavoro: anzi in esso vi è la condizione di evitare la sovrapproduzione: quello a cui vogliono arrivare i padroni nel loro tentativo di rimettere in piedi le loro aziende e tutto l’apparato di produzione borghese, è di avere a vil prezzo quel tanto di lavoro che loro occorra, di ribassare il costo di un’ora di lavoro. È naturale che per arrivare a tanto essi, come speculano sulla disoccupazione, tenteranno di aumentare l’offerta di lavoro col far lavorare molte ore gli operai non disoccupati, ma come la loro azione parte logicamente dall’attacco al salario combinato coi licenziamenti, ed essi subiscono i turni di lavoro finché non potranno imporre ai sindacati demoralizzati e indeboliti ulteriori licenziamenti in massa, così la resistenza a questo piano è impossibile se la si vuole impostare sulla durata della giornata di lavoro, e non su questa durata combinata colla conservazione degli attuali salari.
Si può dire cose analoghe della difesa dei disoccupati. Quanto più ribassano i salari tanto più questa diviene difficile, poiché più si cede dinanzi all’ondata dell’offensiva tanto più è difficile arginarla perché essa procedendo si ingrossa e si rafforza e si indeboliscono le difese della organizzazione proletaria. Evidentemente le prospettive economiche che si prefiggono i capi confederali coincidono con quelle borghesi: rendere possibile la vita del meccanismo capitalista rinvilendo il prezzo del lavoro, diffondendo fra le masse la illusione colpevole che quando gli industriali avranno migliorato i loro bilanci essi arresteranno i licenziamenti e contribuiranno al trattamento ai disoccupati, manipolati per chi sa quali ambigui provvedimenti statali.
Checché sia la critica a questi provvedimenti, è necessario mostrare tutto il pericolo che si racchiuderebbe nella proclamazione di un fronte unico sulle quistioni delle otto ore e della disoccupazione, separate da quella della difesa del salario, che si identifica colle prime.
L’insidia che è contenuta nella proposta di dare al fronte unico una così instabile piattaforma, permette alla ipocrisia socialdemocratica di squadernare, quando si passa alla discussione dei mezzi da adoperare, la formula bugiarda di: tutti i mezzi nessuno escluso.
Data questa disfattista formulazione degli scopi dell’azione proletaria restano invece esclusi i mezzi dell’azione di massa, e non resta escluso il mezzo equivoco delle combinazioni parlamentari. Mentre all’opposto, se si stabilisce come base del fronte unico la difesa dei salari e dei concordati si viene alla necessità di lottare colle armi dell’azione diretta e di arrivare alla fusione di tutti i conflitti nello sciopero generale nazionale, e si devono scartare per evidente impotenza i mezzi legalitari, poiché mai lo stato borghese farà una legge che fissi i salari o minimi di salari. Sono questi postulati che solo la forza del sindacato può tutelare: ed è solo accettando di muoversi, di ingaggiare la lotta, che i sindacati sopravviveranno a quella minaccia di agonia e di morte che si delinea, e che sarà un fatto compiuto se, seguendo la fellonia dei riformisti, il proletariato accettasse di portare il fulcro della sua difesa sul terreno parlamentare e legalitario.
I comunisti hanno chiaramente indicato il pericolo: che faranno i sindacalisti e gli anarchici nelle trattative per l’alleanza di tutti i sindacati? Difenderanno il programma della difesa proletaria contro l’offensiva borghese, o si lasceranno cucinare una dichiarazione che valga solo a far salire un qualsiasi De Nicola al potere e a castrare le organizzazioni di massa del proletariato?
Abbandonare la formula della difesa del salario per ridursi sulla insostenibile posizione delle otto ore è una mossa presentata come strategica dai capoccia confederali: ma stia in guardia il proletariato: essa corrisponde alla proposta fedifraga di portare nelle mura della città assediata il gigantesco e misterioso cavallo in cui si annidavano i nemici.
Il partito comunista non si limiterà alla parte di passivo ammonitore. Con qualunque mezzo esso lotterà per evitare che gli interessi sacrosanti delle masse siano giocati da una banda di volgari traditori sul tappetto verde degli intrighi del politicantismo borghese. Chi non vuole passare nei ranghi dei rinnegati si schieri per la riscossa delle masse con i propri mezzi e le forze proprie, su tutto il fronte dell’attacco padronale, per la resistenza ad oltranza e domani per la travolgente controffensiva.
La costituzione dell’ “Alleanza del Lavoro”
L’esclusione della minoranza comunista - Bassa diplomazia
(“Il Comunista”, 21 febbraio 1922)
Il “Sindacato Rosso”, organo sindacale del nostro Partito, pubblica una interessante documentazione sul contegno tenuto dal nostro Comitato sindacale e dai dirigenti la Confederazione riguardo al Convegno convocato per costituire l’“Alleanza del lavoro”. Come è noto, questo Convegno è stato convocato per iniziativa dei dirigenti del Sindacato Ferrovieri e sugli scopi di esso e sul valore effettivo della proposta abbiamo già avuto modo di esprimere il nostro parere sviluppando la nostra concezione del fronte unico sindacale.
Quantunque in base a questa concezione noi siamo ben lontani dal giustificare e dal valorizzare gli equivoci tentativi dei capi sindacali per raggiungere “l’unità”, il nostro Comitato Esecutivo Sindacale ritenne utile e appunto per ottenere che nel convegno fossero esposte e sviluppate le nostre idee, le quali sono condivise da 500 mila organizzati della Confederazione generale del lavoro, inviare alla Confederazione la seguente lettera:
«Milano, 11 febbraio 1922
«Alla Confederazione Generale del Lavoro, Milano
«Sappiamo che per il 15 febbraio è indetta a Genova una riunione delle grandi organizzazioni sindacali italiane per costituire una alleanza nella lotta contro l’offensiva del padronato.
«Vi domandiamo se ad una riunione così importante e dalla quale deve uscire una effettiva intesa per l’azione comune di tutte le organizzazioni affiliate alle centrali sindacali, non credete opportuno invitare una rappresentanza molto larga e nominata sulla base proporzionale rispetto alle frazioni esistenti nel seno della Confederazione. Non dubitiamo che aderirete a questo concetto e vi domandiamo ufficialmente di demandarci la nomina dei delegati per la minoranza che fa capo al nostro Comitato e che si afferma al Consiglio Nazionale di Verona sulle nostre proposte, sicuri che non troverete ingiustificata una simile richiesta.
«Vi preghiamo di farci tenere una urgente risposta
«F.to: Nicola Cilla»
Urgentemente, dopo 3 giorni, la Confederazione rispose in questi termini:
«Milano 14 febbraio 1922
«al Partito Comunista d’Italia, Milano
«Lo statuto della Confederazione Generale del lavoro stabilisce quali sono gli organismi che la rappresentano. Non è possibile dare ad un Comitato politico il diritto di nominare i rappresentanti della Confederazione. Se ciò consentissimo per voi dovremmo consentirlo anche per tutti gli altri Comitati politici che si sono costituiti o che si vorranno costituire, annullando così ogni autorità e possibilità di funzionamento degli organi responsabili.
«Al Consiglio Nazionale di Verona vi furono rappresentanti di Camere del lavoro e di Federazioni Nazionali che votarono pro o contro l’attuale indirizzo confederale; nessun Comitato vi ha potuto partecipare e votare non essendo ciò consentito dallo Statuto.
«I rappresentanti della Confederazione non possono essere nominati che dagli organi responsabili stabiliti dallo Statuto.
«F.to: D’Aragona»
Questa lettera è un documento di ipocrisia.
Rileviamo innanzitutto come il segretario confederale confonda ed alteri i veri termini della questione. Non è stato un Comitato politico che si è rivolto alla Confederazione del lavoro, ma un Comitato sindacale il quale agisce sul terreno sindacale, come gliene dà ampio diritto lo Statuto della Confederazione; e su questo terreno ha saputo raccogliere, al Consiglio Nazionale di Verona, circa mezzo milione di aderenti.
Il tentativo di sfuggire alle proprie responsabilità trincerandosi dietro la scusa di un Comitato politico, cade quindi nel vuoto.
Rileviamo del pari l’ammissione che a Verona ci fu una minoranza contraria all’attuale indirizzo confederale. Ora se è giusto che gli organi responsabili scelgano i rappresentanti della maggioranza, è altrettanto giusto che il Comitato che esprime il pensiero della minoranza scelga, proporzionalmente alla forza numerica rappresentata, i rappresentanti propri. Speriamo che non si voglia giungere all’assurdo che la maggioranza abbia pure il diritto di scegliere i rappresentanti della minoranza! Ammenoché non si paventi il controllo di coloro che non condividono il pensiero degli alti papaveri e non si intenda di chiudere le orecchie alla voce delle masse.
Ed è proprio questo che vogliono i funzionari della Confederazione del lavoro. Le presunte disposizioni statutarie non sono che un volgarissimo pretesto per sfuggire il dibattito, giacché quando loro fece comodo, non solo essi vi passarono sopra, ma si misero sotto i tacchi delle scarpe perfino dei precisi deliberati di Congressi.
La richiesta del Comitato Sindacale Comunista tendeva a dare un carattere di serietà e di consistenza effettiva alla riunione intersindacale. Siccome i deliberati di questa riunione interessano non solo la maggioranza, ma dovranno essere subìti pure dalla minoranza, era doveroso, era onesto il sentire anche il pensiero di questa.
I funzionarii sindacali introducono, invece, in seno alle organizzazioni operaie i sistemi più dispotici: vogliono, cioè, costringere una grandissima parte dei lavoratori a sopportare le conseguenze dei loro deliberati senza neppure intenderne le ragioni. Ma si trattasse almeno di genuini rappresentanti della maggioranza! Nossignori, si tratta solo di funzionari stipendiati i quali scelgono a rappresentanti della Confederazione chi a loro pare e piace.
Questi chiarissimi fatti, se servono a lumeggiare una volta di più che valore abbia, in bocca a funzionari, la fraseologia democratica, dimostrano ancor meglio quale significato possa avere per essi la cosidetta “Alleanza del lavoro”. Chiuse fuori della porta le masse, tappatisi fra quattro muri, cautelatisi contro ogni opposizione, essi dimostrano di voler ridurre il fenomeno grandioso del fronte unico proletario ad un mero espediente di bassa diplomazia. Nessuna azione in favore del proletariato potrà uscire da simile conciliazione. Quali possano essere le deliberazioni che verranno scritte su di un ampolloso ordine del giorno, egli è certo che non sarà mosso un dito per stroncare l’offensiva del padronato e preparare alla classe lavoratrice il terreno adatto alla riscossa.
Ciò però non deve assolutamente indurre i compagni a rallentare la battaglia iniziata. La richiesta del Comitato Sindacale, ha messo gli uomini della Confederazione con le spalle al muro; essa è valsa a dimostrare indirettamente di quanto odio sia permeata la casta dei funzionari contro tutte le masse che intendono discutere i propri problemi e non delegarne ad altri la risoluzione; ha dimostrato come tra funzionari e organizzati si vada scavando sempre più profondo l’abisso e come sia necessario infrangere la potenza dei primi se si vuole che i sindacati divengano realmente strumenti di vittoria nelle mani del proletariato e non nuclei di reazione alle dipendenze del capitale.
Partito Comunista d’Italia
Comunicato del Comitato Esecutivo per l’ “Alleanza del Lavoro”
(“Il Comunista”, 22 febbraio, “Il Sindacato Rosso”, 25 febbraio 1922)
Il Partito Comunista deve rendere subito pubbliche alcune dichiarazioni intorno alla costituzione testé avvenuta in Roma dell’ “Alleanza del lavoro” tra le organizzazioni sindacali italiane.
Il Partito Comunista si dichiara lieto che questo incontro sia avvenuto, pur confermando tutte le proprie osservazioni circa le modalità e il contenuto di esso. Gli organi dirigenti del Partito daranno ulteriormente precise disposizioni ai militanti comunisti, ed ai lavoratori che seguono le direttive del Partito, perché sostengano, attraverso la loro attività nelle varie organizzazioni sindacali, quei criteri che valgano a dare all’unione delle forze proletarie un contenuto effettivo di decisa azione per la riscossa proletaria contro l’offensiva borghese e ad evitare la degenerazione di una simile unione in senso opportunistico e collaborazionista.
Per il momento dobbiamo constatare che sebbene le minoranze comuniste sindacali della Confederazione e del Sindacato Ferrovieri abbiano formalmente chiesto alle rispettive Centrali sindacali di potere essere rappresentate al Convegno, per portarvi la voce delle forti correnti proletarie sindacali che ad esse fanno capo, tale diritto non è stato concesso, e solo per tale motivo la voce dei comunisti è mancata nella riunione. I lavoratori giudicheranno da questo dove siano i veri fautori dell’unità proletaria.
Dovendosi oggi costituire il Consiglio nazionale dell’ “Alleanza del lavoro”, con le rappresentanze delle varie organizzazioni aderenti, il Comitato sindacale comunista e il Comitato ferroviario comunista rinnoveranno la richiesta perché la rappresentanza di ciascun organismo sia designata con criteri proporzionali, in modo che vi siano compresi elementi delle varie frazioni esistenti nei sindacati. Se anche questo invito sarà respinto il Partito Comunista impegna parimenti “la disciplina sindacale incondizionata” di tutte le forze che lo seguono alle decisioni del Comitato nazionale dell’ “Alleanza del lavoro” e continuerà nel seno dei vari organismi a sostenere le direttive per un fronte unico effettivo e di azione, e le sue critiche ad ogni tattica che se ne allontani.
Poiché è stata resa pubblica una dichiarazione dell’ “Unione sindacale”, che accusa di contraddizione la linea di condotta del Partito Comunista, il Comitato esecutivo dichiara che, come ogni persona di buona fede può constatare, esso non ha mai messo come condizione alla sua iniziativa per l’unità proletaria e per il fronte unico, la subordinazione di questi alla dirigenza del Partito Comunista. Il Partito Comunista non pone per il fronte unico nessuna condizione, né quella di una sua diretta influenza su di esso, né quella dell’accettazione dei caposaldi di programma e di tattica propri del metodo comunista: esso domanda solo che il fronte unico sia effettivo e fondato sull’azione salda di tutto il proletariato, che i suoi obiettivi contengano la difesa del tenore di vita proletaria, ed i mezzi di azione siano quelli di ordine sindacale, sino allo sciopero generale.
Sino a qual punto la precisa campagna del Partito Comunista abbia influito sul tenore dell’accordo di Roma, per quanto è detto nel comunicato diramato, e per quelle che sono le vedute dei vari organismi che vi partecipano, il Partito Comunista si riserva di dimostrarlo obiettivamente alle masse con la sua critica indipendente, il che non toglie che l’accordo stesso sia considerato dal Partito come un primo utile passo, e il Comitato che ne uscirà possa contare sull’adesione delle forze comuniste, che associano a questo compito quello di vegliare a che lo sforzo proletario non sia volto a fini ingannevoli, e l’azione di classe non degeneri nella collaborazione borghese e non serva come un elemento della concorrenza parlamentare tra i vari gruppi in gara per la formazione del Governo.
Il Comitato Esecutivo.
Prime Critiche
(“Il Comunista”, 22 febbraio 1922)
I dirigenti delle cinque più importanti organizzazioni sindacali in cui si trova ad essere scisso il proletariato italiano, si sono dunque messi d’accordo per la costituzione di un Comitato nazionale unico che dovrà avere il compito di attuare un programma di azione concordata sulla base dei postulati minimi che sono la sostanza connettiva più elementare della organizzazione operaia.
“L’Alleanza del lavoro” così costituita rappresenta un innegabile progresso sulla prima concezione che voleva farla consistere in una coalizione oltre che delle varie organizzazioni sindacali anche dei vari partiti cosiddetti sovversivi, facendo nascere in Italia una mostruosa contraffazione del Labour Party inglese. Essa, però, nonostante questo progresso, rappresenta per noi comunisti solo il passo iniziale verso l’attuazione del programma del fronte unico.
Che i capi ufficiali del movimento sindacale si mettano d’accordo e decidano di dare al loro accordo una organizzazione permanente istituendo un Comitato nazionale unitario, è un fatto storico di cui non vogliamo per ora esaminare per l’Italia l’importanza: ma a che varrebbe l’accordo se esso non si basasse ferreamente sull’accordo delle masse che riempiono i quadri delle organizzazioni?
Nel caso specifico si è verificato che dalla riunione costitutiva di Roma, e probabilmente quindi anche dal Comitato attuale di Roma (e probabilmente quindi anche dal nuovo Comitato che verrà eletto) sono state escluse tanto la minoranza della Confederazione del lavoro che la minoranza dell’Unione sindacale italiana, come i sostenitori dell’una e dell’altra della adesione rispettiva alla Internazionale sindacale rossa.
L’organizzazione del Comitato verrà quindi ad avere questo colore: 5 riformisti per la Confederazione; un riformista ed un anarchico per il Sindacato ferrovieri; 2 anarchici per l’Unione sindacale; 2 sindacalisti per l’Unione italiana del lavoro; un riformista ed un sindacalista per la Federazione dei porti; l’ “Alleanza del lavoro” sarà quindi costituita da 7 riformisti, 3 anarchici, 3 sindacalisti.
I comunisti che nel movimento operaio italiano rappresentano masse certamente superiori a quelle rappresentate dagli anarchici e dai sindacalisti, non avranno nessuna rappresentanza nell’ “Alleanza del lavoro”. I riformisti, invece, avranno la maggioranza sin dal primo giorno. Una razionale distribuzione dei mandati, secondo i risultati dei congressi, dovrebbe dare invece 5 riformisti, 2 comunisti, 2 anarchici e 4 sindacalisti.
L’accordo dei capi anche per il fatto che ha determinato una situazione di tal genere, non può dunque essere che l’inizio, il primo passo per attività organizzativa che dovrà avere per coronamento la costituzione del fronte unico proletario. All’accordo dei capi deve seguire l’accordo delle masse: ciò che è avvenuto nelle sfere dirigenti deve riprodursi in basso nel seno del proletariato, in tutti i centri dove la classe operaia e contadina lotta per la sua esistenza e la sua libertà.
Il Comitato nazionale dell’ “Alleanza del lavoro” deve, se vuole vivere e svilupparsi, cercare la sua base organica in un sistema di Comitati locali eletti direttamente dalle masse organizzate nelle varie centrali sindacali. Solo la formazione di questo nuovo sistema organizzativo in cui tutte le tendenze ideologiche che hanno vita nelle masse lavoratrici possono trovare una eco e una rappresentanza, costituirà la base storica del fronte unico proletario.
Per raggiungere questo fine che è posto alla loro attività sindacale dalle tesi che il Comitato centrale del Partito presenterà al prossimo congresso, i comunisti lavoreranno con tutta la loro energia di propaganda e di organizzazione.
Quanto al programma di azione che viene indicato nel deliberato costitutivo dell’ “Alleanza” lo sciopero generale nazionale appare in esso come un mezzo “che non si esclude”. Nella proposta di fronte unico dei comunisti, e anche, pare, nei criteri direttivi esposti dai rappresentanti dell’Unione Sindacale, lo sciopero generale nazionale era chiaramente indicato come l’arma unica che il proletariato può opporre alla offensiva che contro di esso conduce la classe padronale. Solo nella propaganda e nella preparazione di esso la lotta per il fronte unico può diventare una cosa concreta, mentre rimane una astrazione inconsistente fino a che lo sciopero generale, cioè la concorde e unita controffensiva proletaria, rimane un mezzo impiegabile solo quando... i sette riformisti non abbiano più la maggioranza su gli altri sei membri del Comitato.
Dopo il Convegno di Roma
(“Il Sindacato Rosso”, 25 febbraio 1922)
I risultati a cui è pervenuto il recente Convegno intersindacale di Roma meritano la più grande attenzione da parte dei comunisti.
A dire il vero, per quanto riguarda la possibilità di un’azione effettiva [a] breve scadenza in difesa degli interessi della classe operaia, quei risultati non sono affatto tali da dissipare il nostro scetticismo. Essi sono inficiati non solo dai propositi alquanto nebulosi dei diretti iniziatori del Convegno, ma anche dal modo in cui risulta costituito il Comitato Nazionale incaricato di coordinare il movimento di insieme della massa sul terreno sindacale, e dalla stessa indeterminatezza delle rivendicazioni fissate nell’ordine del giorno approvato. Il fatto poi che – quantunque ne avessero fatto richiesta – dal Convegno furono, sotto vari pretesti, escluse le minoranze, che, fra l’altro, erano state le prime a lanciare la proposta del fronte unico e a fissarne gli obiettivi concreti e i mezzi, dimostra chiaramente che non ci troviamo ancora di fronte ad un avvenimento di masse, ma solo davanti ad un consiglio di funzionari, i quali, sospinti da necessità più forti delle loro particolari vedute, sono costretti a riunirsi almeno per dimostrare che sono disposti di fare qualche cosa.
Il Convegno di Roma ha valore quindi, non tanto per le deliberazioni prese, le quali con ogni probabilità resteranno lettera morta, ma in quanto è l’indice di una situazione in pieno sviluppo e che va rapidamente maturando.
Quando nell’agosto scorso, il Comitato Sindacale Comunista, d’accordo col Partito, lanciò la proposta del fronte unico e dell’azione generale per la difesa delle conquiste del proletariato, incontrò da un lato una opposizione feroce e dall’altro una scettica e diffidente attesa. Ciò era dovuto non solo alla incomprensione assoluta delle condizioni in cui doveva combattere il proletariato e della piega che stavano per prendere gli avvenimenti, ma anche alla speranza di poter schivare le maggiori difficoltà non affrontando la lotta, ed era dovuto pure alle feroci e dissennate gelosie di parte. I funzionari sindacali videro, nella realizzazione del fronte unico, la fine del loro dominio particolare, e trascinati dalla routine a giudicare le situazioni storiche attraverso la visuale delle rispettive posizioni, considerarono come un puro argomento demagogico quello che invece altro non era che il portato necessario di una nuova situazione e delle improrogabili necessità della classe lavoratrice.
Il proletariato però comprese subito l’alto valore della parola d’ordine lanciata dai comunisti. Malgrado le denigrazioni astiose e le fredde noncuranze, malgrado le tentate deviazioni e le insidiose compiacenze, egli la raccolse, la fece sua, la portò in tutte le assemblee e in tutti i convegni, la fece oggetto di discussioni animatissime ed infocate, e la trasformò in termine di paragone per separare gli amici dai nemici, i rivoluzionari sinceri dagli agenti della borghesia.
Oggi quella parola d’ordine deve essere positivamente considerata dagli stessi funzionari sindacali, e sta per divenire il centro di tutta l’azione.
Segno evidente che oggi non è più possibile stornare le masse con proposte simili a quella della Commissione d’inchiesta, segno che è universalmente ammesso non esservi altri mezzi ed altre possibilità per opporre una efficace resistenza al padronato. Il quale padronato, lungi dall’arrestarsi davanti ai primi successi, diviene ad ogni momento, più audace ed aggressivo; di modo che dopo aver tolto i salari, passa, col licenziamento degli operai migliori e con la limitazione dei poteri delle Commissioni Interne, allo stroncamento dell’organizzazione e già si accinge ad ingoiare la conquista delle otto ore. Dal canto suo la classe operaia, che nonostante le cicalate interminabili dei funzionari [due righe illeggibili, n.d.r.] e di ogni volontà di azione, li abbandona sfiduciata e si disperde.
Solo la realizzazione del fronte unico proletario e il passaggio all’azione possono ridarle fiducia ed arrestare il suo dissolvimento.
Questo fatto importantissimo dimostra come il nostro Partito sia divenuto, per lo sviluppo stesso delle cose, il caposaldo di orientamento, verso il quale convergono le masse, e dimostra anche come esso sia il solo partito della classe lavoratrice.
Difatti tutti gli altri partiti e raggruppamenti politici e sindacali sono interessati nel mantenere diviso il proletariato perché dalla sua fusione temono il loro spodestamento, il Partito Comunista trova nella realizzazione organica del fronte unico, il suo terreno migliore di rassodo e di sviluppo. Il suo interesse di partito combacia e si identifica perfettamente con quello della massa operaia tutta quanta, per cui viene ad eliminare ogni contrasto fra partito e classe e realizza come non mai la dimostrazione di non essere che la semplice e disinteressata avanguardia proletaria nella lotta contro il capitale.
I risultati del Convegno di Roma sotto questo aspetto sono considerevoli, e sono più importanti ancora se si considera che fra non molto tutti i partiti politici si troveranno su di un piede di eguaglianza rispetto al movimento operaio. Il Convegno di Roma è il punto di separazione fra il Partito Socialista e la Confederazione del Lavoro. Mentre prima, infatti, in virtù del patto di alleanza, tutti i movimenti politici del proletariato erano competenza del Partito Socialista, oggi con la creazione del Comitato Nazionale di coordinazione, il Partito Socialista è formalmente tagliato fuori; ed è proprio la Confederazione che lo abbandona sulla porta; proprio quella Confederazione che due mesi or sono poneva alle altre organizzazioni la pregiudiziale di riconoscere il suo patto di alleanza col partito prima di incontrarsi per discutere dell’unità proletaria!
Ora si tratta di fare in modo che i risultati di Roma non si risolvano in un qualsiasi espediente burocratico ma sieno come l’addentellato per una unità ben altrimenti giovevole alla classe lavoratrice.
Nell’ordine del giorno approvato al convegno si afferma che l’unione di tutte le forze del lavoro nella lotta contro il capitalismo, è condizione essenziale per il raggiungimento dell’emancipazione operaia.
Questo principio, che per i comunisti non riveste nessun carattere di novità, dev’essere condotto fino alle sue conseguenze estreme.
Per ottenere ciò, è indispensabile che in tutte le località sia intensificata l’azione unitaria sul terreno sindacale, e attraverso l’attività delle masse venga creata una situazione di fatto dalla quale i funzionari non possano sfuggire.
Non sarà questo il compito di un’ora. La burocrazia sindacale forma oggi uno strato spessissimo che non solo tende a separare orizzontalmente la classe lavoratrice dal Partito Comunista, ma seziona verticalmente la classe stessa in un’infinità di interessi particolari e di categoria. Ogni spontaneo moto unitario della massa viene quindi ad essere ostacolato e impedito se non soccorre la reazione pronta e illuminata degli elementi più energici del proletariato selezionati dal Partito Comunista.