Partito Comunista Internazionale Indice La Teoria marxista della Conoscenza


Sul metodo dialettico

(Prometeo, n. II-1 del 1950)
in appendice agli "Elementi dell’Economia Marxista"

 

1.  Dialettica e metafisica
2.  Dialettica idealistica e dialettica scientifica
3.  La negazione della negazione
4.  Categorie e "forme a priori"
5.  La negazione della proprietà capitalistica
6.  La teoria della conoscenza
 

 

La presente nota è un richiamo dei noti concetti sul metodo dialettico seguito da Marx nelle esposizioni economiche e storiche. Vuole essere il passaggio a ricerche più ampie, che si dovrebbe affrontare, su un tema che non è bene chiamare: Filosofia marxista; Parte filosofica del marxismo. Un simile titolo sarebbe in contraddizione con la chiara enunciazione di Engels:

«Il materialismo dialettico non ha più bisogno di una filosofia che stia al di sopra delle scienze. Tutto ciò che resta, dell’intera filosofia che fino ad oggi si è avuta, è la dottrina del pensiero e delle sue leggi: la logica formale e la dialettica. Tutto il resto passa nella scienza positiva della natura e della storia».
Ad una svolta decisiva si è affermato che, alla stessa stregua con cui i fenomeni della natura fisica sono stati trattati mediante la ricerca sperimentale e non più coi dati della rivelazione e della speculazione, sostituendo alla “filosofia naturale” le scienze, così, a loro volta, i fatti del mondo umano: economia, sociologia, storia, vanno trattati con metodo scientifico, eliminando ogni premessa arbitraria di dettami trascendenti e speculativi.

Poiché la ricerca scientifica e sperimentale positiva non avrebbe senso alcuno, se si limitasse a trovare i risultati senza trasmetterli e comunicarli, i problemi della esposizione hanno la stessa importanza di quelli della indagine. La filosofia poteva essere un prodotto individuale, almeno nella forma; la scienza è fatto ed attività collettiva.

Il metodo del coordinamento e della presentazione dei dati, con l’uso del linguaggio come degli altri più moderni meccanismi simbolici, costituisce dunque anche per i marxisti una disciplina generale.

Questo metodo, tuttavia, diverge sostanzialmente da quello delle scuole filosofiche borghesi moderne, che, nella loro lotta critica contro la cultura religiosa e scolastica, giunsero alla scoperta della dialettica. In esse,come soprattutto in Hegel, la dialettica vive, si trova e si scopre nello spirito umano, con atti di puro pensiero, e le sue leggi, con tutta la loro costruzione, preesistono all’abbordo del mondo esterno, sia esso naturale o storico.

Per i materialisti borghesi il mondo naturale materiale esiste, sì, prima del pensiero che lo indaga e lo scopre; ma ad essi mancò la forza di giungere alla stessa altezza nelle scienze della società umana e della storia; di intendere, nello stesso mondo materiale, l’importanza del perenne cambiamento.

Come abbiamo già accennato in note agli Elementi dell’Economia Marxista, lo studio cui ci siamo riferiti, e che non va intitolato come filosofia del marxismo, potrebbe essere chiamato: Marxismo e teoria della Conoscenza.

Un simile studio, da un lato, dovrebbe svolgere i temi fondamentali dati da Engels nell’Antidühring e da Lenin nel Materialismo ed Empiriocriticismo, in collegamento con i risultati della scienza successivi all’epoca dei due classici; dall’altro opporsi alla tendenza dominante nel "pensiero" contemporaneo che, condotto, per ragioni di classe, alla battaglia contro la dialettica deterministica nelle scienze sociali, pretende di poggiare sulle recenti conquiste della scienza della natura fisica il rigetto del determinismo in generale.

Occorre quindi anzitutto che i militanti marxisti si orientino sul valore della dialettica. Questa afferma che le stesse leggi e connessioni valgano per la presentazione del processo naturale e di quello storico. Nega ogni presupposto idealistico, come pretesa di trovare nella testa dell’uomo (o dell’autore di "sistemi") regole irrevocabili, da premettere alle ricerche in ogni campo. Vede, nell’ordine causale, le condizioni fisiche e materiali della vita dell’uomo e della società determinarne e modificarne senza posa il modo di sentire e di pensare. Ma vede anche, nell’azione di gruppi di uomini in condizioni materiali analoghe, forze che influiscono sulla situazione sociale e pervengono a mutarla. Qui il vero senso del determinismo di Marx. Non un apostolo o un illuminato, ma un "partito di classe", può, in date situazioni storiche, avere "trovato", non nella testa, ma nella sociale realtà, le leggi di una formazione storica futura che distruggerà quella presente. In tutte le famose enunciazioni "la teoria che si impadronisce delle masse e diviene una forza materiale" – "il proletariato che è erede della filosofia teoretica tedesca" – "il cambiare il mondo invece di spiegarlo come hanno fatto da secoli i filosofi" – è integro il contenuto realistico e positivo del metodo, ed è coerente il rigetto spietato di questa tesi: con operazioni puramente mentali è possibile stabilire leggi a cui tanto la natura che la storia sono "obbligate"ad assoggettarsi.

Nulla quindi di misterioso ed escatologico nel passaggio dalla necessitàalla volontà rivoluzionaria, dalla fredda analisi di quanto è avvenuto ed avviene all’appello al "combattimento violento".

Il vecchio voluto equivoco va eliminato alla luce degli stessi testi e richiami sul corso storico delle ricerche e degli studi di Marx ed Engels; va rivendicata la chiara coerenza della loro costruzione; e questa va difesa, alla luce dei più recenti dati, nel campo naturale ed in quello sociale, oggi più che mai sfuggiti alla pedanteria metafisica ed alle romanticherie idealistiche, più che mai entrambi esplosivi – e rivoluzionari.

Su tutto ciò diamo quindi poche note, di carattere elementare.

Esse si riattaccano al noto passo de Il Capitale, penultimo capoverso del penultimo capitolo, ove è citata la "negazione della negazione"per dar ragione del passaggio: artigianato – capitalismo – socialismo, passo che fu oggetto di vivacissima polemica di Engels contro Dühring.
   


1.  Dialettica e metafisica

Dialettica significa collegamento, ossia relazione. Come vi è relazione tra cosa e cosa, tra evento ed evento del mondo reale, così vi è relazione tra i riflessi (più o meno imperfetti) di questo mondo reale nel nostro pensiero, e tra le formulazioni che noi adoperiamo per descriverlo e per immagazzinare e sfruttare praticamente la conoscenza di esso che abbiamo acquisita. Il nostro modo quindi di esporre, di ragionare, di dedurre, di trarre conclusioni, può essere guidato e ordinato con certe regole, corrispondenti alla felice interpretazione della realtà. Tali regole formano la logica in quanto guidano le forme del ragionamento; e in un senso più vasto formano la dialettica in quanto servono di metodo per collegare tra loro le verità scientifiche acquisite. Logica e dialettica ci aiutano a percorrere un cammino non fallace allorché, partendo dal nostro modo di formulare certi risultati della osservazione del mondo reale, vogliamo giungere ad enunciare altre proprietà da quelle dedotte. Se tali proprietà si riscontreranno valide nel campo sperimentale, vorrà dire che le nostre formule e il nostro modo di trasformarle erano sufficientemente esatte.

Il metodo dialettico si contrappone a quello metafisico. Questo, tenace eredità del viziato modo di formulare il pensiero, derivato dalle concezioni religiose basate sulla rivelazione dogmatica, presenta i concetti delle cose come immutabili, assoluti, eterni e riducibili ad alcuni primi principi, estranei l’uno all’altro e aventi una specie di vita autonoma. Pel metodo dialettico tutte le cose sono in movimento, non solo, ma, nel loro movimento si influenzano reciprocamente, sicché anche i loro concetti, ossia i riflessi delle cose stesse nella nostra mente, sono tra loro connessi e collegati. La metafisica procede per antinomie, ossia per termini assoluti che si contrappongono l’uno all’altro. Questi termini opposti non possono mai mischiarsi né raggiungersi, né dal loro collegamento può sorgere alcunché di nuovo, che non si riduca alla semplice affermazione della presenza dell’uno ed assenza dell’altro, e viceversa.

Per dare qualche esempio, nelle scienze naturali metafisicamente si contrappone la stasi al movimento: tra le due cose non vi è conciliazione; in virtù del principio formale di contraddizione ciò che sta non si muove, ciò che si muove non sta. Ma già la scuola eleatica mostrava con Zenone la fallacia di una distinzione che pare così sicura: la freccia in moto, mentre passa per un punto della sua traiettoria, sta in quel punto, dunque essa non si muove. La nave si muove rispetto alla riva, il passeggero cammina sul ponte in senso contrario: egli sta fermo rispetto alla riva; dunque non si muove. I pretesi sofismi erano dimostrazioni della possibilità di conciliare i contrari: quiete e moto; solo scomponendo il moto in tanti elementi puntiformi di tempo e spazio sarà possibile alla matematica infinitesimale ed alla fisica moderna non accecata dal metodo metafisico risolvere i problemi dei moti non rettilinei e non uniformi. Oggi si considera che moto e quiete sono termini relativi, non avendo senso né il moto né la quiete assoluti.

Altro esempio: per l’astronomia dei metafisici tutti i corpi collocati nel cielo oltre la sfera del fuoco sono immutabili e incorruttibili, le loro dimensioni forma e moto resteranno in eterno eguali a se stesse. I corpi terrestri sono invece trasformabili e corruttibili in mille guise. Non vi è conciliazione tra le due parti opposte dell’universo. Sappiamo oggi invece che le stesse leggi evolutive vigono per gli astri e per la terra, la quale è un «pezzo di cielo», senza per questo assurgere a misteriosi titoli di nobiltà. Per Dante era una grossa questione l’influenza dei pianeti incorruttibili sulle vicende della corruttibile umanità, mentre per la scienza moderna sono di osservazione quotidiana le influenze reciproche tra la terra e le altre parti dell’universo, pur non credendosi che le stelle si muovano per segnare la nostra sorte.

Infine nel campo umano e sociale la metafisica introduce due sommi principi assoluti: il Bene e il Male, acquisiti in maniera più o meno misteriosa alla coscienza di tutti, o personificati in esseri ultraterreni. Noi abbiamo accennato al relativismo dei concetti morali, alla loro mutevolezza e allo scambiarsi di essi secondo luoghi, epoche e situazioni di classe.

Il metodo metafisico con le sue identità e contraddizioni assolute ingenera grossolani errori, essendo tradizionalmente radicato nel nostro modo di pensare, anche se non ne siamo coscienti. Il concetto degli antipodi sembrò per lungo tempo assurdo, si rise in faccia a Colombo che cercava l’Oriente verso lo Occidente, sempre in nome della contraddizione formale dei termini. Così è un errore metafisico risolvere in due soli modi problemi umani, come quelli ad es. della violenza e dello Stato: ossia dichiarandosi per lo Stato o per la violenza; contro lo Stato o contro la violenza. Dialetticamente invece si collocano quei problemi nel loro momento storico e si risolvono simultaneamente con formule opposte, come sostenendo l’uso della violenza per l’abolizione della violenza, l’impiego dello Stato per l’abolizione dello Stato. L’errore degli autoritari o dei libertari per principio è egualmente metafisico.


2. Dialettica idealistica e dialettica scientifica

Tuttavia l’introduzione della dialettica si può comprendere in due maniere diversissime. Enunciata le prime volte dalle più brillanti scuole cosmologiche della filosofia greca come metodo per la conoscenza naturale non vincolata da pregiudizi aprioristici, essa soccombette nei tempi successivi nell’accettazione per autorità dei testi aristotelici, non perché Aristotele non sentisse il valore della dialettica come interpretazione della realtà, ma perché la decadenza scientifica e il dominante misticismo delle epoche successive fossilizzò, immobilizzandoli, i risultati aristotelici.

Nella filosofia critica moderna, suol dirsi, la dialettica riappare e trionfa in Hegel, da cui Marx l’avrebbe presa. Ma la dialettica di queste scuole filosofiche, pur realizzando lo svincolo nel maneggio del ragionamento dalle pastoie formali e verbali della scolastica, si basa sul presupposto che le leggi della costruzione del pensiero siano di base alla costruzione reale del mondo. La scienza umana cercherebbe prima nella mente stessa dell’uomo le regole con cui le verità enunciate devono collegarsi l’una all’altra; poi passerebbe ad inquadrare su tale schema le nozioni tutte del mondo esterno. La logica e la dialettica si potrebbero dunque stabilire e formulare con una opera puramente mentale: ogni scienza dipenderebbe da una metodologia da scoprire dentro il cranio dell’uomo, e per meglio dire dentro la testa dell’autore individuale del sistema. Questa pretesa si giustifica col solito argomento che, nella scienza, il fattore degli elementi esterni da studiare inevitabilmente si intreccia col fattore della personalità umana, dal quale ogni scienza è quindi condizionata. In conclusione il metodo dialettico con presupposto idealistico ha anche esso un carattere metafisico, anche se pretende di chiamare le sue costruzioni puramente mentali col nome di scienza anziché di rivelazione, di critica anziché di apriorismi assoluti, di immanenza delle possibilità del pensiero umano, anziché di trascendenza rispetto ad esso, come per i dati delle religioni e dei sistemi spiritualistici.

La dialettica per noi in tanto è valida in quanto l’applicazione delle sue regole non viene contraddetta dal controllo sperimentale. Il suo impiego è certamente necessario, poiché dobbiamo pure trattare i risultati di ogni scienza con lo strumento del nostro linguaggio e del nostro ragionamento (sussidiato dal calcolo matematico: anche le scienze matematiche però per noi non si basano su pure proprietà del pensiero, ma su proprietà reali delle cose). La dialettica, cioè, è uno strumento di esposizione e di elaborazione, nonché di polemica e di didattica; essa serve alla difesa contro gli errori ingenerati dai metodi tradizionalistici del ragionamento e per raggiungere il risultato, assai difficile, di non introdurre incoscientemente nello studio delle questioni dati arbitrari basati su preconcetti.

Ma la dialettica è a sua volta un riflesso della realtà e non può pretendere per se stessa di obbligarla o di generarla. La dialettica pura non ci rivelerà mai nulla di per se stessa, tuttavia ha un enorme vantaggio rispetto al metodo metafisico perché è dinamica, mentre quello è statico, cinematografa la realtà anziché fotografarla. Io so poco di un’automobile, quando so che la sua velocità istantanea è di 60 Km. all’ora, se non so se essa aumenta o diminuisce. Saprei anche meno se sapessi solo il luogo dove si trova in una fotografia istantanea. Ma, anche sapendo che procede a 60 Km/h, se sta accelerando da 0 a 120 tra pochi secondi sarà enormemente lontana, se sta frenando sarà ferma pochi metri più oltre. Il metafisico che mi dava il dove e il quando del fenomeno non sapeva nulla, rispetto al dialettico che mi ha dato la dipendenza tra il dove (spazio) e il quando (tempo), che si chiama velocità; anzi, di più, la dipendenza tra la velocità e il tempo (accelerazione). Questo processo logico corrisponde nella teoria matematica delle funzioni alle successive derivazioni.

Se conosco la dialettica evito di dire due spropositi: l’automobile corre, dunque tra poco sarà lontana; l’automobile va adagio, dunque tra poco sarà ancora vicina. Sarei però altrettanto ingenuo quanto il metafisico se, per il gusto di fare il dialettico, concludessi: l’automobile corre, dunque tra poco sarà vicina e viceversa. La dialettica non è lo sport dei paradossi, essa afferma che una contraddizione può contenere una verità, non che ogni contraddizione contiene una verità. Nel caso dell’automobile la dialettica mi avverte che non posso concludere per puro raziocinio, mancandomi altri dati: la dialettica non li sostituisce a priori, ma obbliga, quando mancano, a desumerli da nuove osservazioni sperimentali; nel nostro caso una seconda misura di velocità fatta qualche istante dopo. Nel campo storico ragionerebbe da metafisico chi dicesse: il Terrore, dati i mezzi che impiegò, fu un movimento reazionario; sarebbe però un pessimo dialettico chi giudicasse rivoluzionario, ad es., il governo di Thiers per la repressione violenta dei comunardi.


3. La negazione della negazione

Ritorniamo alla negazione della negazione. Pel metodo metafisico, essendovi due principi opposti, ma fissi, negando l’uno si ottiene l’altro, se poi si nega il secondo si ricade nel primo: due negazioni equivalgono a una affermazione. Es.: Gli spiriti sono buoni o cattivi. Tizio nega che Lucifero sia uno spirito cattivo. Io nego quanto dice Tizio: di conseguenza affermo che Lucifero è spirito cattivo. Resta così oscura la vicenda del mito di Iaveh, "vile demiurgo", che precipita Satana nell’inferno e usurpa il trono dei cieli, primitivo riflesso nel pensiero degli uomini di un rovesciamento di poteri e di valori.

Dal punto di vista dialettico durante le negazioni e le affermazioni i termini hanno mutato di caratteristiche e di posizione, sicché avendo negata la primitiva negazione si ricade non già nella affermazione primitiva pura e semplice, ma si perviene ad un risultato nuovo. Ad es., nella fisica aristotelica ogni corpo tende al suo luogo, e perciò i gravi scendono in basso; l’aria che va in alto, o il fumo, non sono gravi. Messosi in testa questo schema falso, i peripatetici dissero infinite corbellerie per spiegare il movimento del pendolo, il quale va sollevandosi e abbassandosi in ogni oscillazione. Invece la questione pensata dialetticamente si espone molto meglio. (Ma per giungervi non bastava pensare, occorreva sperimentare, come fece Galileo).

I gravi si muovono verso il basso. I corpi che non si muovono verso il basso non sono gravi: allora il peso del pendolo è, o non è, un grave? Ecco la difficoltà degli aristotelici, ecco violato il sacro "principio di identità e di contraddizione". Se invece si dice che i gravi accelerano verso il basso, essi potranno anche procedere verso l’alto, a condizione di ritardare. Il pendolo ha una velocità preimpressa, che aumenta finché scende, diminuisce finché risale. Abbiamo prima negata la direzione del moto, e poi negato il senso dell’accelerazione. Tuttavia abbiamo fatto un passo innanzi non solo acquistando il diritto di affermare che il pendolo è sempre un grave, ma soprattutto scoprendo che la gravità non è causa di moto, ma di accelerazione, scoperta che fonda la scienza moderna ad opera di Galileo. Questi però non la fece maneggiando dialettica, bensì misurando il moto dei pendoli: la dialettica gli servì solo a rompere il vincolo formale e verbale delle vecchie enunciazioni.

Incontrandoci in una negazione di una negazione non bisognerà credere di essere ritornati al punto di partenza, ma dobbiamo attenderci, grazie alla dialettica, di essere arrivati in un punto nuovo: dove sia e quale sia non lo sa la dialettica, ma può solo stabilirlo l’indagine positiva e sperimentale.


4. Categorie e "forme a priori"

Prima di illustrare la negazione della negazione nell’esempio di carattere sociale che abbiamo incontrato nel testo di Marx, è bene dire ancora qualche cosa sul comune carattere arbitrario della metafisica e della dialettica a presupposto idealistico.

Partendo dalla constatazione che noi conosciamo il mondo esterno soltanto per via di processi psichici, sia che ci riferiamo al sensismo, ossia alla dottrina che fonda la conoscenza sui sensi, sia all’idealismo puro che la fonda sul pensiero (fino al punto di concepire, in certi sistemi, il mondo esterno come una proiezione del pensiero soggettivo), le filosofie tradizionali tutte sostengono che al sistema conoscitivo, alla scienza concreta, vanno premesse talune norme del pensare, trovate puramente nel nostro io. Questi principi primi, che si facevano apparire indiscutibili appunto perché indimostrabili, vennero chiamati categorie. Nel sistema aristotelico le categorie (è chiara la differenza tra questo significato del termine e quello corrente di classe, o raggruppamento) sono le dieci seguenti: sostanza, quantità, qualità, relazione, spazio, tempo, posizione, proprietà, azione e passione; corrispondenti ai quesiti: di che è formato? Quanto è grande? Di che qualità è? In che rapporti è con altri soggetti? Dov’è? Quando? In che posizione sta? Di quali attributi è dotato? Che fa? Che soffre? (ossia che azione riceve?). Per es.: un uomo è sostanza vivente e pesante; è alto m. 1,80; è di razza bianca; è maggiore di peso di un altro; si trova in Atene; vive nell’anno 516; sta seduto; indossa la corazza; parla; è guardato dagli astanti.

Le categorie aristoteliche furono modificate e ridotte di numero. Kant ne dette un quadro un poco diverso, sempre definendole «forme a priori» del pensiero, con le quali la intelligenza umana può e deve elaborare qualunque dato della esperienza. Secondo Kant stesso l’esperienza è impossibile, se non si riferisce a due «intuizioni a priori» cioè la nozione di spazio e la nozione di tempo, che preesistono nella nostra mente ad ogni dato di esperienza. Ma le conquiste posteriori della scienza moderna hanno successivamente spezzato questi vari sistemi "a priori", e li hanno spezzati irrimediabilmente, anche se restano lontane dall’aver risposto in modo esauriente a tutti i quesiti, il cui vuoto veniva riempito col fabbricare "forme a priori". Già Hegel poteva dire che la qualità si riduce a quantità. (L’uomo è bianco e non negro perché nelle analisi del suo pigmento vi è una certa cifra anziché un’altra). Kant sarebbe assai stupito nel vedere che i fisici (relatività di Einstein) trattano spazio e tempo come una grandezza unica, o che, per comune consenso, si rimette la decisione sulla fusione o sul divorzio delle due irriducibili categorie a talune esperienze positive di fisica e di astronomia, salvo alla signora Intelligenza ad abituarsi al risultato vincitore.

Marx respinge il freddo empirismo di quei pensatori che affermano possibile solo la raccolta dei dati del mondo esterno, come tante constatazioni staccate ed isolate, senza pervenire alla loro sistemazione, e senza sapersi domandare se noi raccogliamo risultati sicuri sulla realtà oggettiva, o solo dubbie impronte che pervengono sui nostri tessuti sensibili. Un tale metodo, su cui il pensiero della borghesia ripiega dopo le prime sistemazioni audaci, come nel campo economico, si attaglia al conservatorismo di chi è giunto al potere e custodisce i suoi privilegi contro analisi troppo corrosive. Marx, pur attribuendovi grande importanza sociale, non è contento appieno del materialismo degli enciclopedisti francesi, che, malgrado il suo vigore rivoluzionario e l’abbattimento senza riguardo dei pregiudizi religiosi, non si liberò dalla metafisica e non poté generare altro socialismo che quello degli utopisti, difettoso nel senso storico. Marx, in terzo luogo, pure avendo attinto fortemente ai risultati dei sistemi della filosofia critica tedesca, ruppe, come raccontano lui ed Engels più volte, col suo contenuto idealistico, appena abbordò i problemi sociali, ossia fin dal 1842.

Il criticismo puro tedesco aveva comune, col materialismo di oltre Reno, la dispersione dei fantasmi religiosi e la liquidazione di ogni elemento dogmatico e trascendente per definizione le possibilità razionali dell’uomo; aveva, in più di quello, il superamento della metafisica e la visione generale del movimento delle cose e dei fatti; ma aveva in meno la forza di generare storicamente una rivoluzione contro il vecchio mondo feudale tedesco, corrispondente a quella formidabile attuata dagli allievi politici dei Voltaire, dei Rousseau e dei d’Alembert. Ad est del Reno la classe borghese non era stata capace del passaggio dal campo teoretico in quello dell’azione; il sistema di Hegel fu utilizzato a fini addirittura preborghesi e reazionari; ed il marxismo spezzò questo filo, preconizzando la sostituzione di una nuova classe alla borghesia, che aveva esaurito le possibilità dottrinali e mancato del tutto a quelle rivoluzionarie.

Ristabilita così la posizione autentica del marxismo rispetto alle precedenti scuole, qui interessa rivendicare che le riserve sull’empirismo concretista (soprattutto inglese) e il materialismo metafisico (soprattutto francese) non significano mai riconoscimento del criticismo astratto dei tedeschi, e delle sue astruse ricerche di forme a priori. Basta ricordare la critica di Marx a Proudhon, nella Miseria della Filosofia, del 1847, sull’ibrido hegelianesimo-kantismo di costui. Le categorie del pensiero e dello spirito vi sono amabilmente derise, insieme alla pretesa di Proudhon di essere un filosofo... tedesco. In forma scherzosa, quanto abbiamo detto sull’empirismo e il criticismo diviene questa battuta: «Se l’Inglese trasforma gli uomini in cappelli, il Tedesco trasforma i cappelli in idee!».

Segue, nella "Prima osservazione", una splendida esposizione e nello stesso tempo una critica radicale del metodo dialettico in Hegel, ridotto ad una inutile "metafisica applicata". L’empirista lascia l’individuo e il fatto isolato nella loro sterilità. Il criticista, a furia di astrazioni, lascia cadere del dato singolo tutti gli elementi ed i limiti, e alla fine si riduce alla "pura categoria logica".

«Che tutto ciò che esiste, che tutto ciò che vive sulla terra o nell’acqua, possa, a forza di astrazioni, essere ridotto a una categoria logica; che in tal modo il mondo reale tutto intero possa annegarsi nel mondo delle astrazioni, nel mondo delle categorie logiche, chi se ne stupirà?».
Non è possibile riportare e chiosare tutta la pagina. Resti acquisito che, nel materialismo dialettico, le "categorie logiche" e le "forme a priori" prendono la stessa via che i pensatori della borghesia rivoluzionaria fecero prendere alle entità del mondo soprannaturale, ai santi e alle anime dei defunti.


5. La negazione della proprietà capitalistica

Nel passo, che abbiamo citato alla fine dello studio sulla Economia marxista, il Dühring volle prendere l’autore in contraddizione, poiché la nuova forma che sostituirà la proprietà capitalistica viene chiamata prima "proprietà individuale" e poi "proprietà sociale".

Engels ristabilisce debitamente la portata delle espressioni con la distinzione tra la proprietà dei prodotti, o dei beni di consumo, e la proprietà degli strumenti di produzione.

La applicazione dello schema dialettico della negazione della negazione procede chiaramente in Marx. Prima di ripeterla vogliamo aggiungere qualche migliore indicazione sulla portata dei termini impiegati. La terminologia ha per noi marxisti una importanza grande, sia perché lavoriamo passando di continuo da una lingua all’altra, sia perché per necessità di polemica e di propaganda dobbiamo spesso applicare il linguaggio proprio di teorie diverse.

Fermiamoci dunque su tre distinzioni terminologiche: beni strumentali e di consumo – proprietà e impiego dei primi e dei secondi – proprietà privata, individuale, sociale.

La prima distinzione è oramai corrente anche nella economia comune. I prodotti dell’attività umana o servono al diretto consumo, come un cibo o un indumento; ovvero sono adoperati in altre operazioni lavorative, come una zappa, una macchina. Non sempre la distinzione è facile, e vi sono casi misti; comunque tutti capiscono quando distinguiamo i prodotti tra beni di consumo e beni strumentali.

La proprietà sul bene di consumo al momento del suo impiego, sarebbe bene non chiamarla col termine di proprietà, sia pure seguito dagli aggettivi: personale, individuale. Essa consiste nel rapporto per cui chi sta per sfamarsi tiene in mano il cibo e nessuno vieta che lo porti alla bocca. Anche nelle scienze legali tale rapporto non si definisce bene come proprietà, ma come possesso. Il possesso può essere di fatto e materiale, ovvero anche di diritto e legale, ma implica sempre il "tenere nel pugno", la fisica disposizione della cosa. La proprietà è il rapporto per cui si dispone di una cosa, senza che si debba tenerla nelle mani, per effetto titolare di un pezzo di carta e di una norma sociale.

La proprietà sta al possesso come in fisica l’actio in distans di Newton sta all’azione di contatto, alla diretta pressione. Siccome anche nel termine possesso entra un valore giuridico, potremmo provare, per questo concetto pratico del poter mangiare il pezzo di pane o calzare le scarpe, ad usare il termine "disponibilità" (dato che il termine "disposizione" dà l’idea di schieramento, ordinamento, che appartiene ad altro campo).

Riserveremo il termine proprietà ai beni strumentali: utensili, macchine, opifici, casa, terra, etc.

Chiamando proprietà anche la disponibilità, ad esempio, del proprio abito o della propria matita, Il Manifesto del Partito Comunista dice che i comunisti vogliono abolire la proprietà borghese, non la proprietà personale.

Terza distinzione: privato, individuale, sociale. Diritto, potere privato su di una cosa, su di un bene, consumabile o strumentale (e, prima, anche sulle persone e le attività di altri uomini) significa diritto non esteso a tutti, ma riservato ad alcuni soltanto. Prevale nel termine privato, anche letteralmente, il valore negativo; non la facoltà di godere della cosa, bensì quella di privare gli altri – colla tutela della legge – del godimento di essa. Regime di proprietà privata è quello in cui sono proprietari alcuni, e moltissimi altri non lo sono. Nella lingua del tempo di Dante gli "uman privati" sono le latrine, luogo ove è norma che regni un solo occupante, buon simbolo delle olezzanti ideologie del borghese.

Proprietà individuale non ha lo stesso senso di privata. La persona, l’individuo, sono pensati dai... benpensanti come persona borghese, individuo borghese (Manifesto). Ma avremmo un regime di proprietà individuale solo quando ogni individuo potesse raggiungere la proprietà su qualche cosa, il che in tempo borghese di fatto non è, malgrado le ipocrisie legali, né per gli strumenti, né per i beni di consumo.

Proprietà sociale, socialismo, è il sistema in cui non vi è più rapporto fisso tra il bene di cui si tratta, e una determinata persona o individuo. In questo caso sarebbe bene non dire più proprietà, poiché l’aggettivo proprio si riferisce ad un soggetto singolo e non alla universalità. Comunque, si parla ogni giorno di proprietà nazionale e statale, e noi marxisti parliamo, per farci intendere, di proprietà sociale, collettiva, comune.

Seguiamo ora le tre fasi sociali e storiche presentate in sintesi da Marx a coronamento del primo tomo de Il Capitale.

Lasciamo da parte le precedenti epoche di schiavismo e di pieno feudalesimo terriero, in cui, sul rapporto di proprietà tra uomo e cosa, prevale il rapporto personale, tra uomo e uomo.

Prima fase. Società della piccola produzione, artigiana per i manufatti, contadina per l’agricoltura. Ogni lavoratore, della bottega e della terra, in che rapporto è con i beni strumentali di cui si serve? Il contadino è padrone del suo fondicciuolo, l’artigiano dei suoi semplici attrezzi. Dunque disponibilità e proprietà del lavoratore sui suoi strumenti di produzione. Ogni lavoratore in che rapporto è coi suoi prodotti, del campo o della bottega? Ne dispone liberamente, se sono beni di consumo li adopera come vuole. Allora diremo con esattezza: proprietà individuale sui beni strumentali, disponibilità personale dei prodotti.

Seconda fase. Capitalismo. Entrambe queste forme vengono negate. Il lavoratore non ha più in proprietà terra, bottega o arnesi. Gli strumenti di produzione sono divenuti proprietà privata di pochi industriali, dei borghesi. Il lavoratore non ha più alcun diritto sui prodotti, siano essi anche beni di consumo, che sono a loro volta divenuti proprietà del padrone della terra o della fabbrica.

Terza fase. Negazione della negazione. "Gli espropriatori vengono espropriati" non nel senso che si espropriano i capitalisti delle officine e delle terre per ripristinare una generale proprietà individuale dei beni strumentali. Questo non è socialismo, è la formula "tutti proprietari" dei piccoli borghesi, oggi dei piccisti. I beni strumentali diventano proprietà sociale, poiché vanno "conservate le acquisizioni dell’era capitalistica" che hanno fatto della produzione un fatto "sociale". Cessano di essere proprietà privata. Ma per i beni di consumo? Questi sono messi dalla società a disposizione generale di tutti i consumatori, ossia di qualunque individuo.

Nella prima fase dunque ogni individuo era un proprietario di piccole quantità di strumenti produttivi, e ogni individuo aveva una disponibilità di prodotti e beni di consumo. Nella terza fase ad ogni individuo è vietata la proprietà privata sui beni strumentali, che sono di natura sociale, ma gli è assicurata la possibilità – che il capitalismo gli aveva tolta – di avere sempre una disponibilità su beni di consumo. Questo significa che, con la proprietà sociale delle macchine, delle fabbriche ecc., è rinata – ma quanto diversa! – la "proprietà individuale" di ogni lavoratore su una quota di prodotti consumabili che esisteva nella società artigiano-contadina, precapitalistica, rapporto non più privato, rapporto sociale.

[Se sussistesse il minimo dubbio sulla nostra interpretazione delle parole di Marx sul "ristabilirsi della proprietà individuale", ed anche sullo stretto rigore della continuità nella terminologia marxista, basterà a disperderlo la citazione da un testo di altra data e di altro tema, Le guerre civili in Francia: «... Non appena gli operai prendono decisamente la cosa nelle loro mani, ecco levarsi tutta la fraseologia apologetica dei portavoce della società presente con i suoi due poli del capitale e della schiavitù salariale, come se la società capitalistica fosse ancora nel suo stato più puro di verginale innocenza, con i suoi antagonismi non ancora sviluppati, con i suoi inganni non ancora sgonfiati, con la sua meretrice realtà non ancora messa a nudo. La Comune, essi esclamano, vuole abolire la proprietà, base di ogni civiltà! Sissignori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l’espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, convertendo i mezzi di produzione, la terra e il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato. Ma questo è il comunismo, l’“impossibile” comunismo!»].

Le due negazioni in senso inverso non ci hanno ricondotto al punto di partenza della economia, della produzione sparpagliata, molecolare, ma molto più oltre e più in alto, alla gestione comunistica di tutti i beni, in cui, alla, fine, i termini di proprietà, di bene, di quota personale non avranno più alcuna ragione di impiego.


6. La teoria della conoscenza

Per il nostro assunto metodologico è importante la confutazione di Engels contro Dühring, dopo che questo schema del trapasso storico è stato chiarito.

«Solo ora, dopo di aver portato a termine la sua dimostrazione storico-economica (...) Marx caratterizza questo processo come negazione della negazione (...) Dopo di aver dimostrato storicamente che il processo, in effetti, in parte si è compiuto e in parte deve ancora compiersi, lo caratterizza altresì come un processo che si compie secondo una legge dialettica determinata (...) Egli non pretende che, sulla fede nella negazione della negazione, ci si debba lasciar convincere della necessita della “comunione del suolo e del capitale”».
In conclusione la dialettica ci serve, sia (come dice Marx nella prefazione a Il Capitale)per esporre quanto la ricerca analitica ha assodato, sia per distruggere l’ostacolo delle forme teoretiche tradizionali. La dialettica di Marx è la più potente forza di distruzione. I filosofi si affannavano a costruire sistemi. I rivoluzionari dialettici distruggono con la forza le forme consolidate, che vogliono sbarrare la via all’avvenire. La dialettica è l’arma per spezzare le barriere, rotte le quali è rotto l’incanto della eterna immutabilità delle forme del pensiero, che si svelano come incessantemente mutevoli, si plasmano sul mutamento rivoluzionario delle forme sociali.

La nostra metodologia conoscitiva ci deve condurre al polo opposto di una enunciazione, che prenderemo da una fonte decisiva come Benedetto Croce, in una sua concitata nota contro opere di diffusione del materialismo dialettico, di fonte stalinista.

«La dialettica ha luogo unicamente nel rapporto tra le categorie dello spirito ed è intesa a risolvere l’antico ed aspro, e che pareva quasi disperato, dualismo di valore e disvalore, di vero e di falso, di bene e male, di positivo e negativo, di essere e di non essere».
Per noi – al contrario – la dialettica ha luogo in quelle rappresentazioni in continuo cangiamento, con cui il pensiero umano riflette i processi della natura e ne racconta la storia. Queste rappresentazioni sono un gruppo di relazioni, o di trasformazioni, che si tende a trattare senza porre nessun dato assoluto chiesto allo "spirito" e ai suoi esercizi solitari, e con un metodo che nulla ha di diverso da quello che vale per le influenze tra due campi del mondo materiale.

Quando il "moderno" pensiero conservatore tentò di sposare le forze dell’empirismo e del criticismo, in una comune negazione della possibilità di conoscenza delle leggi sia della natura che della società umana, fu Lenin che a sua volta avvertì l’insidia controrivoluzionaria, e corse ai ripari.

L’attuale ordine di forze russo, legato al conformismo di posizioni costituite, manca delle possibilità di continuare questa lotta, anche nel settore scientifico: l’ordinata difesa ed offesa della scuola marxista nel campo della teoria minaccia di spezzarsi per il disperato contrattacco dell’intelligenza capitalistica mondiale, e dei suoi immensi mezzi di propaganda, se non sorgono per essa nuove basi per il radicale lavoro di partito, libero di portare la fiamma della dialettica su tutte le saldature che tengono insieme strutture artificiali di privilegio, e fedi metafisiche in nuovissime infallibilità.

Non occorre alcun sacerdote, non occorre alcuna Mecca, alla dottrina della Rivoluzione comunista.