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Marxismo e Scienza borghese
("Il Programma
Comunista", n. 21-22 / 1968)
1. L’oggettività scientifica
2. Illustrazioni su alcuni rami della scienza
A. La
fisica
B. La
medicina
C. La
dietetica
3. Le contraddizioni della scienza borghese
4. L’oscurantismo scientifico
5. La scienza del proletariato
Non intendiamo in questo breve esposto sviluppare la teoria generale della conoscienza che è parte integrante della nostra dottrina. Questa fondamentale questione dovrà essere trattata partendo sia dai nostri testi classici, e in special modo dall’Antidühring, sia dal lavoro che su quella base è stato già fatto (Appunti filosofici, etc.). Parleremo per ora soltanto di un aspetto particolare limitato della «questione filosofica», cioè l’atteggiamento del marxismo nei riguardi della scienza borghese.
Ovviamente, a tal fine, ci basiamo sulla fondamentale visione del materialismo dialettico che comprende il mondo come un processo storico, rifiuta tutte le categorie immutabili e a priori, e cerca di cogliere i fenomeni naturali e umani nel loro divenire. Questo metodo si oppone radicalmente a quello della filosofia classica, che pretendeva di scoprire con il pensiero i «principi dell’Essere» per poi applicarli al mondo sia inorganico che organico ed umano. Engels critica spietatamente questo idealismo che considera i Principi come entità assolute, categorie dello spirito, mentre i principi che effettivamente possiamo trovare sono in realtà estratti, astratti, dal mondo materiale. È proprio per questo che noi possiamo «applicarli» ad esso; anche le matematiche, che alcuni considerano come puri giochi dello spirito, sono applicabili al mondo solo perché dal mondo le abbiamo derivate.
Ma vi è di più: non solo tutti i nostri «principi» sono astratti dal mondo, ma la nostra stessa capacità di astrazione, la nostra facoltà di costruire rappresentazioni astratte e di studiare i loro rapporti, in una parola la nostra «ragione», non è un «dato a priori» ma è il prodotto di quell’attività di astrazione. Perciò è assurdo chiedersi se le leggi dell’universo concordino con quelle della «ragione»: non vi sono «leggi della ragione» a priori ed immutabili; la nostra ragione e le sue «leggi» sono un prodotto del mondo e della nostra attività nel mondo, traducono il nostro sforzo di comprendere, rappresentare e dominare i fenomeni del mondo.
Ne segue che la «ragione» non ha nulla di stabile; come l’uomo in genere, essa si modifica via via che si modificano le condizioni di esistenza, i bisogni, le attività e le conoscenze della specie umana. Cose che ieri erano razionali, non lo sono più oggi e viceversa; allo stesso modo, in una società divisa in classi antagonistiche, ognuna di esse possiede la sua propria «razionalità».
Rifiutando ogni a-priori, Dio, Uomo o Ragione, denunciando la vanità della ricerca dei Principi dell’Essere o delle Leggi dello Spirito, Engels proclama la fine della filosofia: ciò di cui abbiamo bisogno sono delle conoscenze positive del mondo.
Ed ecco che la Scienza si leva, orgogliosa e altera, a dichiarare: «Non avete detto che occorrono delle conoscenze positive? Ebbene, Io sono questa conoscenza positiva; inchinatevi dunque dinanzi a Me!».
Ora noi contestiamo alla scienza attuale questo carattere di «scienza
per definizione», di conoscenza umana in generale; mentre essa si
pretende Verità, se non eterna, almeno oggettiva e al di sopra
delle classi, noi denunciamo il suo carattere di classe, noi la qualifichiamo
scienza borghese. È quest’aspetto e le sue conseguenze che vogliamo
studiare.
La prima questione da chiarire è appunto quella dell’oggettività della scienza: dobbiamo precisare in quale accezione del termine possiamo riconoscerle tale obiettività, e come essa possa essere una scienza di classe pur essendo «oggettiva».
Va innanzitutto ricordato che ogni conoscenza è conoscenza di qualcuno. Per avere un valore qualsiasi, essa deve certo essere conoscenza di una proprietà reale del mondo, ma ciò non implica affatto la sua «indipendenza» dal soggetto conoscente. Così Engels ridicolizzava Dühring il quale, postulando la sovranità della Conoscenza, pretendeva che «la matematica degli abitanti degli altri corpi celesti non potrebb’essere diversa dalla nostra»; Dühring ignorava tanto lo sviluppo storico delle matematiche quanto l’origine sperimentale dei loro assiomi (i matematici seri si rendono conto essi stessi che tali assiomi non cadono dal cielo; uno di loro si è divertito un giorno a cercare quali dovrebbero essere gli assiomi geometrici dei pesci, se questi umili animali fossero in grado di fare della geometria teorica). È pure necessario sbarazzarsi del patrimonio di entità ideali – il Sapere, la Conoscenza, la Scienza – che l’idealista colloca chissà dove fuori del mondo, e che cerca invano di afferrare. In realtà quello che noi impropriamente designamo con questi sostantivi non è che la forma teorica e astratta dell’attività. Essa quindi presenta gli stessi caratteri dell’attività, che è una relazione fra colui che agisce e ciò su cui egli agisce, una relazione che dipende dalle loro proprietà rispettive pur modificandole.
Ci interessiamo qui della conoscenza umana in contrapposizione non già alla scienza degli abitanti degli altri corpi celesti (che, per dirla con Engels, non abbiamo l’onore di conoscere) bensì a quella degli animali dotati anch’essi di attività e conoscenza. Ora l’attività fondamentale dell’uomo è l’attività produttiva: non ci si stupirà quindi di trovare nella scienza della società capitalistica tutte le contraddizioni del modo capitalistico di produzione – punto sul quale torneremo poi.
Aspetto astratto dell’attività la scienza cerca prima di prevedere i fenomeni naturali che condizionano questa attività; poi, nei limiti del possibile, di scoprire le possibilità e modalità della loro modificazione cosciente, in vista di determinati scopi: la conoscenza del mondo che noi cerchiamo non è un «fine in sé», bensì una conoscenza per agire conformemente ai nostri interessi.
A questo punto possiamo affrontare la questione dell’oggettività scientifica.
La scienza è obiettiva nel senso che traduce proprietà reali del mondo, proprietà inerenti agli «oggetti» indipendentemente dal soggetto (individuale o collettivo) conoscente. Questa obiettività è fondata sul metodo scientifico, che comprende:
a) L’osservazione sistematica, intesa a scoprire le relazioni tra un fenomeno e l’altro. È necessario sottolineare l’importanza dell’osservazione sistematica che, nelle scienze naturali, è stata messa in secondo piano dalla sperimentazione (con eccezioni importanti, ad es. l’astrofisica); gli è che, nella nostra scienza della società umana, la sperimentazione sistematica è impossibile, noi dobbiamo basarci sull’osservazione e l’analisi delle «esperienze involontarie».
b) L’esperienza sistematica: la modificazione sistematica e frazionata delle condizioni in cui dati fenomeni si svolgono, agevola grandemente la scoperta e la verifica delle relazioni o leggi alle quali obbediscono: evidentemente essa è applicabile solo ai fenomeni riproducibili a volontà.
c) Partendo da queste osservazioni, si cerca di costruire uno schema teorico che rappresenti nel modo migliore il maggior numero possibile di fenomeni: tale sintesi permette allora di tornare sull’analisi, di precisare o modificare le osservazioni, di prevedere nuove relazioni da scoprire, insomma di procedere oltre nella ricerca.
Questo metodo non basta però a fare della scienza una cosa in sé, librata al di sopra della società: e questo perché l’oggetto e l’obiettivo della scienza non sono affatto «obiettivi», bensì sono funzioni delle condizioni di esistenza e dei bisogni della specie, della società o della classe che produce tale scienza.
Certo si potrebbe dire che oggetto della scienza è l’universo intero e tutto ciò che vi accade. Ma è facile dire «l’universo intero»!
Nessuna scienza reale (cioè lasciando da parte Dio, che è «per definizione onnisciente») potrà mai abbracciare l’universo nella sua totalità, compresa se stessa dal momento che ne fa parte! Engels insiste su questo punto: se non c’è un limite a priori alla scienza umana, se noi possiamo pretendere di conoscere tutto, è solo potenzialmente; la scienza non sarà mai «compiuta», non sapremo mai tutto! D’altronde, nessuna scienza ha mai tentato di conoscere tutto in una volta: ogni scienza procede ritagliando nel Gran Tutto dei frammenti, e cercando le relazioni che tali frammenti hanno fra di loro e con tutto il resto. Questo «frazionamento» dell’universo, questa determinazione degli «oggetti» della ricerca, non discende né da una «libera scelta» né tanto meno da un «piano scientifico prestabilito» (da chi?): sono le condizioni di esistenza, le necessità naturali e storiche, ad imporli.
Una scienza può quindi essere insieme «obiettiva» e di specie, di società o di classe. Prendiamo qualche esempio ultrasemplice. La scienza del cervo, che gli permette di trovare una sorgente o una pozza d’acqua nella foresta in base alla natura del terreno e alla vegetazione, è una vera scienza oggettiva – altrimenti il cervo morirebbe di sete – ma che non interessa affatto la balena. Allo stesso modo, la tigre ha una sua scienza della caccia, e se ne infischia della scienza da ingegnere idraulico del castoro. Su un piano qualitativamente superiore, la scienza umana, per quanto più generale di quella degli animali, resta pur sempre innanzitutto umana. Nei libri di cucina si legge che «il coniglio chiede di cuocere per due ore», ed è una verità sperimentale, oggettiva, ma è una verità di specie: per la volpe è una sciocchezza e per il coniglio un’evidente contro-verità; esso non chiede di cuocere né due ore né due secondi, bensì di saltellare nel bosco e fare molti coniglietti!
Ma la scienza umana non è semplicemente «umana»:
determinata dai bisogni sociali, essa è inseparabile dalla storia
sociale; di più, nelle società divise in classi antagoniste
una delle quali detiene il monopolio delle forze sociali di produzione,
gli oggetti e gli obiettivi della scienza sono imposti dalla
classe dominante, dalle esigenze del modo di produzione che essa rappresenta.
In una società in cui l’attività produttiva è determinata
non dai bisogni umani ma dalle leggi della riproduzione allargata del capitale,
la scienza fa la stessa fine: cioè, gli oggetti di cui si occupa
e gli scopi ch’essa persegue sono determinati dai rapporti capitalistici
di produzione e dai rapporti sociali che ne derivano. Non solo, ma lo stesso
metodo
scientifico non sfugge alla determinazione sociale, nella misura in cui
l’ideologia della classe dominante interviene nel lavoro teorico o impone
alla scienza di considerare come oggetti «naturali» irriducibili
dei prodotti dell’attività sociale.
2. Illustrazioni su alcuni rami della
scienza
Volendo illustrare quanto precede con alcuni esempi, li sceglieremo espressamente nel campo delle scienze naturali. Il contenuto di classe delle pretese «scienze sociali» è fin troppo manifesto, e d’altra parte ciò che mostriamo per la fisica è vero a maggior ragione per la sociologia.
È interessante partire appunto dalla fisica per provare che neppure la «scienza più obiettiva» sfugge alla determinazione di classe. L’oggetto della fisica, la materia inorganica e le sue proprietà, è evidentemente indipendente da noi, e le leggi che essa scopre sono obiettivamente vere nella misura in cui possono esserlo (sotto riserva di un’indagine più approfondita o generale). Ma i settori di cui la fisica si occupa, la direzione in cui si sviluppa, sono chiaramente determinati dai bisogni di produzione sociale. Oggi è quasi una banalità dire che tutto lo sviluppo della fisica, tutte le sue scoperte, rispondono a un’esigenza della produzione. E non alludiamo solo alle «ordinazioni» dell’industria: perfino l’interesse «disinteressato» che questa o quella questione suscita, e lo sforzo che «spontaneamente» le si dedica, derivano da questo appello sociale oggettivo (a titolo di controesempio, si potrebbero citare le scoperte del magnetismo o del principio della macchina a vapore fatte dai greci; ma è un esempio che in realtà conferma la nostra tesi: scoperti allora casualmente, i due fenomeni sono rimasti una «curiosità», e non hanno dato origine a nessun lavoro scientifico semplicemente perché non si sapeva che farne, ed è stato necessario riscoprirli nel secolo XVIII).
Si vorrebbe, per contro, dimenticare che oggi la produzione è retta dalle leggi del capitalismo, è produzione di capitale, e che in ultima analisi l’evoluzione della scienza è orientata dalla necessità di accrescere la produzione di capitale. Ma gli stessi scienziati «disinteressati» sono costretti a rendersene conto, sia pure in modo mistificato: per ottenere i crediti necessari al loro lavoro, essi spiegano al capitale che si tratta di un buon investimento, suscettibile domani di fornire profitti consistenti. In realtà, tutta la discussione fra «ricerca applicata» e «ricerca fondamentale» non è che un dibattito fra le esigenze immediate e future del capitale, e tutti i «centri» di ricercatori e di accademici si collocano pari pari sul piano della redditività capitalistica: si credono «socialisti» perché, liberi dalla caccia al profitto immediato, si occupano del profitto futuro!
Non studieremo nei particolari questa determinazione dello sviluppo della fisica ad opera della produzione capitalistica. Ma vi è un punto importante da sottolineare: Marx ed Engels hanno previsto, se non la forma dello sviluppo della fisica, almeno il senso, la direzione in cui esso doveva compiersi: e l’hanno previsto partendo non dalle leggi della fisica, ma dalle leggi della produzione capitalistica.
Insisteremo su questo punto, perché uno dei grossi argomenti di tutti i «superatori» del marxismo è questo: Marx ha analizzato – essi dicono – il capitalismo britannico del secolo scorso, quello della macchina a vapore e del telaio meccanico. Ora siamo nell’epoca dell’energia atomica e dei cervelli elettronici, che il poveretto non poteva prevedere, e così tutto è cambiato...
Ebbene, sì, Marx le ha davvero previste, queste grandi conquiste della scienza moderna. Ha dimostrato che le leggi del capitalismo imponevano:
a) la ricerca di nuove fonti d’energia, meno legate a condizioni geologiche locali, di più facile trasporto, e più potenti, che il carbone, anzi sempre più potenti: macchina a vapore, elettricità, energia ricavata dal petrolio, energia atomica: ecco le parole-chiave che punteggiano l’evoluzione della fisica e della tecnica in quest’ultimo secolo;
b) un’automazione crescente della produzione: e che altro rappresenta lo sviluppo della meccanica e poi dell’elettronica?
Ci si potrebbe chiedere: e in quale altra direzione avreste voluto che la fisica si sviluppasse? Sarebbe una domanda assurda, che in realtà non si è mai posta né si porrà mai. Il fatto che non possiamo immaginarci degli sviluppi «arbitrari» della fisica dimostra appunto che essi non sono frutto d’immaginazione o di libera scoperta.
Analogamente, si può dimostrare che l’incremento vertiginoso dei mezzi di comunicazione, e della relativa tecnologia, discende dalla necessità di accelerare la circolazione del capitale; che la chimica delle materie plastiche nasce dalla tendenza del capitalismo a svincolarsi dai limiti naturali (materie prime) che ne inceppano l’espansione, ecc.
Beninteso, Marx ed Engels non erano dei «profeti»: non sapevano in che modo si sarebbe realizzata questa ricerca di fonti d’energia sempre più potenti e di un’automatizzazione sempre più spinta, ma sapevano che doveva realizzarsi perché l’economia capitalistica lo esigeva. E la loro analisi del capitalismo non si limitava a quanto avveniva sotto i loro occhi, bensì abbracciava tutto il possibile sviluppo capitalistico (non derivante dalla volontà dei borghesi ma dalle leggi della loro economia), compresi la sua fine violenta ad opera del proletariato e i caratteri fondamentali della forma sociale che deve succedergli. In particolare, Marx ed Engels hanno dimostrato che questa evoluzione del capitalismo, ben lungi dal modificarlo, tende invece ad avvicinarlo sempre più al «capitalismo puro», dando così risposta anticipata agli «scopritori di fatti nuovi», ansiosi come essi sono di proclamare caduco ciò che non conoscono: l’analisi marxista del capitalismo, con tutte le sue implicazioni politiche, non può essere superata, non può che divenire sempre più vera!
Ma torniamo alla fisica. Essa ci offre anche l’esempio della branca scientifica in cui si manifesta con maggior chiarezza il peso della ideologia dominante: cosa che potrebbe sembrar paradossale solo perché in fisica la costruzione di grandi teorie generali è relativamente facile (grazie anche al formalismo matematico) e avanzata. Ebbene, negli ultimi decenni si sono viste spuntare delle teorie filosofico-fisiche che rispecchiano direttamente lo idealismo borghese. Senza entrare in eccessivi particolari ricordiamo:
a) La tendenza a suddividere la fisica (che è già solo un piccolo frammento della scienza) in settori autonomi (cosmico, macro e microscopico, ecc.) retto ciascuno da leggi proprie; il rifiuto di ogni tentativo di collegamento reciproco delle leggi dei diversi settori (un nostro compagno ha sentito esporre questa anti-teoria da un fisico polacco, il che gli ha fatto dire che era una trasposizione in fisica delle «vie nazionali al socialismo»).
b) La teorizzazione crescente di un empirismo che tende a ridurre la fisica a un ricettario di cucina; paragone che, si noti, fa torto all’...Artusi e simili manuali, che sono il risultato della esperienza gastronomica millenaria dell’umanità.
c) Una tendenza che vorrebbe dimostrare come la stessa natura ponga dei limiti alla nostra indagine.
d) In breve (poiché questa tendenza contiene tutte le altre), il tentativo contraddittorio di costruire una teoria indeterministica per giustificare l’antideterminismo della filosofia sociale borghese.
Va da sé che l’introduzione dell’idealismo borghese in fisica inceppa l’evoluzione della fisica anche borghese. Sbattuta fra il materialismo richiesto dal suo stesso oggetto ed il modo di pensiero borghese che le è socialmente imposto, la fisica impazzisce come una bussola che ha perduto il nord [L’argomento meriterebbe di essere studiato a fondo come già in altri testi di Partito, e sarà bene tornarvi].
Se prendiamo il casi della medicina, vediamo che anche il suo oggetto non è un dato naturale. In realtà, sia l’uomo che le sue malattie sono in larga misura determinati da tutto il complesso delle sue condizioni di vita. Ciò è vero anche per le malattie infettive, nella misura in cui il modo di reagire dell’organismo a questo o quell’agente patogeno (microbo, virus, ecc.) dipende dall’insieme del suo stato e dal suo grado maggiore o minore di equilibrio. Così, la proliferazione di nuove malattie può certo provenire da modificazioni dei microrganismi patogeni, ma è indubbio che deriva anche da una modificazione delle difese dell’organismo stesso.
Se v’è una storia della medicina, non è solo perché le conoscenze mediche si estendono, ma soprattutto perché ogni forma sociale ha le sue malattie e un suo atteggiamento di fronte alla malattia (si pensi al diverso modo di reagire al dolore nelle diverse comunità storiche). Di più, all’interno di una società divisa in classi, ogni classe ha le sue malattie caratteristiche: e non parliamo qui delle malattie direttamente «professionali» (silicosi dei minatori, saturnismo dei tipografi, ecc.), bensì di quelle che dipendono dall’insieme delle condizioni di vita sia materiali in senso proprio (lavoro, alimentazione, abitazione, ecc.) che «psicologiche», cioè dipendenti dai rapporti reciproci fra gli uomini in un dato modo di produzione.
Per attenersi anche qui ad esempi elementari, citiamo la diminuzione della statura media dei coscritti nel secolo scorso in Inghilterra, Francia e Germania in diretta dipendenza dello sviluppo del capitalismo. A quell’epoca la produzione del lavoro era ancora debole e la corsa all’accumulazione si traduceva in uno sfruttamento estensivo: giornata lavorativa lunghissima, lavoro infantile, alimentazione miserabile, ecc., quindi in una precoce usura fisica che non solo abbassò la durata media di vita dei proletari, ma ne fece una razza fisicamente sottosviluppata (come ricorda Bucharin nell’ABC del Comunismo, ed "Prometeo", pag. 37).
Ma, cosa prevista anch’essa da Marx, il capitale doveva tendere a sostituire lo sfruttamento estensivo con quello intensivo, il plusvalore assoluto con quello relativo: oggi il «logorio» dei proletari assume quindi aspetti meno direttamente fisici, la durata della vita ritorna ad aumentare, la statura media altrettanto, ma parallelamente si moltiplicano i disturbi circolatori, digestivi, ecc. e soprattutto gli squilibri nervosi con tutti i loro strascichi, che sono un effetto della tensione nervosa del lavoro non meno che della crescente ansietà sociale.
Ciò spiega l’aumento degli stati morbosi, di fronte ai quali la medicina finisce per stringersi nelle spalle perché – anche a prescindere dal suo condizionamento ad opera dell’industria farmaceutica – il capitalismo la condanna all’impotenza o meglio le impone un orientamento ed un obiettivo che rendono vane le sue più grandi conquiste.
Una medicina che si rispetti dovrebbe prefiggersi di mantenere l’uomo in buona salute, di conservargli o di fargli ritrovare un equilibrio soddisfacente. Era questo lo scopo, per esempio, dell’antica medicina cinese; diversamente da quanto accade oggi, il mandarino pagava il medico quando stava bene e gli tagliava gli onorari quando si ammalava. Questo capovolgimento, il fatto che nella nostra società è interesse del medico che noi ci ammaliamo, mostra il ruolo dettato alla medicina dal capitalismo: rabberciare l’uomo scassato dalla vita che è costretto a condurre.
Sarebbe un errore credere che ciò che impedisce alla medicina di prevenire i mali e la riduce a cercare di guarirli sia una «insufficienza scientifica» o una «incapacità tecnica». Il problema non è scientifico ma sociale: la medicina è incapace di prevenire perché le condizioni di vita dei lavoratori sono già determinate dalle esigenze della produzione capitalistica, sulle quali la medicina non ha nessuna presa. Solo quando il tasso di morbilità minaccia la produzione di capitale, lo stesso capitale orienta la medicina nel senso della prevenzione (il caso delle malattie infettive a carattere epidemico). Ma in genere, la tendenza «naturale» della medicina (e dei giovani medici illusi) alla prevenzione, si infrange contro le ferree esigenze del capitale. Non è necessario essere dei professori per sapere che l’atmosfera delle città è sempre più contaminata e avvelena coloro che le abitano: a Parigi già alcuni anni fa in certi incroci stradali e in ore di punta il tasso di ossido di carbonio superava il tre per mille ritenuto mortale, per non parlare dell’azione micidiale dei rumori sull’equilibrio nervoso ed altro ancora.
Tutti lo sanno; ma a che giova saperlo, se le cose restano quel che sono?
È evidente che la situazione in cui versa la medicina borghese determina tutto il suo sviluppo. (Perfino la branca per definizione curativa della medicina, la traumatologia, vede determinata dal modo di produzione la sua importanza relativa ed assoluta: gli infortuni sul lavoro e gli incidenti stradali sono prodotti dell’economia capitalistica, per non parlare delle ferite della guerra!). Il capitale dice infatti alla medicina: io costringo gli uomini ad una vita impossibile, li sfrutto, li spremo, non dò loro tregua, li metto gli uni contro gli altri per succhiarne un maggior plusvalore; così è e tu non puoi farci nulla; essi sono nervosi, inquieti, cardiopatici, non stanno più insieme. Ebbene, fa’ di rimetterli in condizione di servire: inventa dei sonniferi, dei digestivi, degli stupefacenti; e, se il cuore gli si inceppa, tenta il trapianto, io ti fornirò i pezzi di ricambio.
I trapianti cardiaci che la stampa leva alle stelle sono un esempio tipico dell’orientamento impresso alla scienza della società borghese: socialmente incapace di prevenire le cardiopatie, la medicina non si interessa neppure del problema scientifico di questa prevenzione, ma dedica tesori di esperienza e di ingegnosità a una sinistra operazione: bisogna che un tizio crepi per poterne rabberciare un altro, ed ecco i nostri bravi medici (umanisti e moralisti semmai ve ne furono) sguinzagliati alla ricerca di un cuore ancora caldo. E dire che questi turpi fasti vengono presentati all’estatica ammirazione dei cardiopatici in potenza!
Sarebbe facilissimo dare mille altri esempi dell’orientamento imposto dal capitalismo alla ricerca medica anche nel campo terapeutico. Una gran parte degli sforzi è dedicata ad abbreviare la durata delle malattie affinché il lavoratore torni rapidamente alla produzione (gli antibiotici, per esempio) a rischio di lasciarlo mal guarito o addirittura scassato da un «rimedio da cavallo», cosicché un secondo specifico dovrà lottare contro i nefasti effetti del primo. Ma senza entrare nei particolari delle contraddizioni in cui si agita la medicina borghese, possiamo in generale dire questo: il capitalismo ha bisogno di lavoratori in grado di essere sfruttati, ma questo stesso sfruttamento li rovina. Ecco la contraddizione in cui la medicina è schiacciata sotto il capitalismo e che la determina completamente.
Ci soffermeremo su questa branca della medicina per la sua speciale importanza – cui fa riscontro il suo quasi nullo sviluppo attuale. È tuttavia universalmente riconosciuto che mangiamo male (parliamo qui dei paesi pienamente capitalistici, non di quelli che lo sviluppo del capitalismo mondiale con tutte le sue contraddizioni condanna alla fame permanente). Periodicamente le accademie mediche lanciano grida d’allarme, mentre si moltiplicano le ciarlatanerie dell’alimentazione «vitalistica» e simili; e i medici ci prescrivono ogni sorta di diete per ogni sorta di malattie, diete oscillanti e spesso contraddittorie, che paiono ispirate dalla moda più che dalla scienza.
Che non esista oggi una vera scienza della nutrizione, del resto, non stupisce; e non perché una volta di più, essa sia una scienza «difficile». È vero che è difficile trovare l’alimentazione ottimale, quella cioè che assicuri alla specie il miglior equilibrio e il miglior sviluppo in condizioni date (p. es., non è affatto sicuro che gli yogurt che, a quanto pare, procuravano longevità ai contadini balcanici rispondano alle esigenze dei cittadini nuovayorchesi). Ma la vera ragione non è lì. Se oggi non esiste una scienza dell’alimentazione, gli è che non la si cerca neppure, perché non servirebbe a nulla, in quanto ciò che dobbiamo mangiare è già determinato dalle leggi della produzione capitalistica. Il capitalismo non chiede alla scienza che di saperne abbastanza per impedire gli eccessi rovinosi che lo priverebbero di manodopera: per il resto, è l’economia che decide!
Marx, per esempio, ha mostrato che la coltivazione della patata si è generalizzata in Europa perché questo tubero permetteva di nutrire i proletari a miglior mercato che il frumento, e quindi di diminuire i salari. Ma se un’alimentazione a buon mercato resta uno degli obiettivi del capitale (e i contadini francesi dai costi di produzione troppo alti lo stanno imparando a proprie spese) un altro se ne aggiunge, nella misura in cui la produzione agricola diventa essa stessa capitalistica: la necessità di accelerare la rotazione del capitale nell’agricoltura. Qui risiede la causa di quel fenomeno che accompagna tutto lo sviluppo capitalistico e che è l’aumento del consumo dei prodotti d’origine animale (carne, latte, pesce) a detrimento dei cereali, i cui cicli di produzione sono più lunghi e difficili da modificare. Allo stesso modo la coltivazione degli ortaggi in serra si è enormemente sviluppata negli ultimi tempi proprio nei paesi ad agricoltura più capitalistica: se a Parigi si mangia in pieno inverno insalata fresca di Olanda, è per far «girare» più in fretta il capitale investito in questo genere di cultura.
È un bene mangiare insalata verde (insipida) tutto l’anno? ingozzarsi di polli (gelatinosi) e formaggi (mal fermentati)? Nessuno lo sa, e il capitale non se ne cura: è anzi un problema che la scienza borghese non può porsi, perché è il profitto che determina la produzione e il consumo alimentare.
Questa determinazione è così manifesta che gli stessi «scienziati» finiscono per accorgersene: abbiamo sotto gli occhi un articolo del direttore onorario di una grande scuola veterinaria francese, che si spaventa delle modifiche che si fanno subire alle specie animali senza che si possano pesare le conseguenza che ne deriveranno per l’uomo:
- Si producono maiali con due costole in più, zampe enormi (dal tessuto difettoso), fegato ipertrofico, e stomaco (inutile in... salumeria) atrofico;
- Si producono vitelli con natiche (le scaloppe!) tanto grosse che per farli uscire dal ventre materno, in certi allevamenti, si deve praticare alla mucca il taglio cesareo;
- Si accelera la crescita con ogni sorta di droghe, antibiotici, ormoni, e così via.
Il nostro veterinario spiega a chiare lettere che tutto ciò è dovuto alla corsa al profitto punto e basta. Ma che ci può fare, lui, che ci possono fare i suoi illustri colleghi? Nulla, se non eseguire il lavoro richiesto dal capitale, salvo a scoppiare in lacrime di tanto in tanto.
Intendiamoci. Noi non rimproveriamo al capitalismo di modificare le specie naturali. Nulla è più lontano dal marxismo delle prediche sul «ritorno alla natura» o ad una «alimentazione naturale»; tutte formule prive di senso. Il pomo che Eva offrì ad Adamo era forse naturale (o divino?!) ma, da quando l’umanità è uscita dallo stadio della semplice raccolta, ha lavorato alla trasformazione di tutti i dati naturali. Bisogna però vedere in che senso opera l’attività dell’uomo sulla natura, e chi la dirige. Per millenni gli uomini hanno cercato una buona alimentazione – alla cieca, nelle condizioni in cui si trovavano e con i mezzi di cui disponevano; a forza di esperienze essi erano giunti a risultati non certo definitivi ma che presentavano un minimo di garanzie d’innocuità. La scienza borghese butta all’aria tutto questo patrimonio con una capacità d’intervento formidabile, ma senza sapere minimamente dove va: tutto il suo lavoro sulle specie animali e vegetali (e sulla stessa terra) è unicamente determinato dalla ricerca del profitto.
Perciò questa scienza non è che scienza della redditività:
socialmente, non può nemmeno chiedersi seriamente se sia «bene»
o «male» che l’uomo mangi ciò che gli si fa mangiare.
È bene per il capitale, e tanto basta. Anche se, per ipotesi, un
genio sapesse in che cosa consisterebbe oggi l’alimentazione «ideale»
passerebbe anche lui per ciarlatano, in quanto nulla e poi nulla
ne risulterebbe cambiato. Solo quando dominerà le proprie forze,
e produrrà secondo i suoi bisogni e non più secondo le leggi
del capitale, l’umanità potrà intraprendere una vera e propria
scienza dell’alimentazione.
3. Le contraddizioni della scienza borghese
Non intendendo tracciare una storia esauriente della scienza borghese, ci fermiamo ai pochi esempi presentati: quello che ci importava di mostrare era come sia lontano dalla realtà l’idea di una Scienza sospesa al di sopra della società, e come lo sviluppo scientifico discenda da necessità sociali e, nella società borghese, dalla necessità inesorabile di accrescere sempre più il capitale.
Beninteso, per rispondere efficacemente ai bisogni del capitale, la scienza borghese dev’essere reale, cioè scoprire proprietà e leggi obiettive del mondo, deve effettivamente accrescere le nostre conoscenze positive. Ma accade alla scienza come in generale alle forze produttive e all’apparato di produzione sotto il dominio di S. M. il Capitale: come la produzione che ha per motore la produzione di capitale presenta, dal punto di vista dei bisogni umani, «escrescenze parassitarie» (inutili o nocive) sempre più grandi, così la scienza orientata dal capitale sviluppa settori che interessano soltanto il capitale, e ne trascura altri che sono essenziali per la specie.
Pur sapendo molto bene perché la scienza borghese spinge in questa o in quella direzione, in pratica ci è impossibile dire oggi quali conoscenze resteranno utili e quali (pur rimanendo «vere») cadranno in disuso come è spesso avvenuto nella storia – almeno per quanto riguarda le scienze naturali. Sappiamo ad esempio perché la chimica ha cercato (e trovato) le fibre tessili sintetiche: il capitalismo deve tentar di affrancarsi dalle materia prime «naturali», la cui produzione è legata a condizioni climatiche, a cicli stagionali, ed anche a situazioni economico-sociali (paesi coloniali o semi-coloniali a monocoltura, ecc.): deve cercare delle materie prime «industriali» prodotte non importa quando e non importa dove, al ritmo richiesto dal mercato e a bassi costi produzione. Ecco perché dobbiamo indossare indumenti di nailon, di terital, ecc., e il capitale se ne infischia di sapere se questi nuocciano o meno alla pelle (respirazione, traspirazione, ecc.) e quindi a tutto l’equilibrio biologico, almeno finché non abbiano effetti immediatamente catastrofici. Ma ciò non prova necessariamente che simili prodotti siano «un male». Anche qui, bisogna guardarsi dal cadere nel «naturismo»; del resto neanche una camicia di lana è un prodotto «naturale», bensì un prodotto dell’attività umana, provato da una lunga esperienza. A forza di invocare la natura, si arriverebbe ben presto, per dirla con Marx ed Engels, a «idealizzare lo stadio in cui gli uomini ignudi grattavano il suolo con le unghie in cerca di tuberi commestibili». Svincolandosi, per motivi suoi propri, da certi limiti naturali, il capitalismo ne libera effettivamente l’uomo: se poi convenga all’umanità svincolarsi da quei limiti naturali, e dove ciò possa condurlo, è una questione che la scienza attuale è socialmente incapace di risolvere.
Allo stesso modo, non diremo che l’energia atomica sia necessariamente un male. Sappiamo che la borghesia è costretta dalle leggi dell’economia capitalistica a generalizzare l’impiego di questa fonte d’energia senza tener conto dei pericoli che essa presenta e soffocando i dubbi e le angosce dei biologi. Ma l’energia derivata dalla fissione nucleare è così (o così poco) «naturale» come quella tratta dal primo fuoco di sterpi: oggi il suo impiego è richiesto dal capitale; solo una volta liberata dalle leggi del capitalismo l’umanità potrà cercar di scoprire se effettivamente, tenendo conto di tutte le sue implicazioni e conseguenze, essa è socialmente utile.
Esistono invece settori in cui possiamo fare delle previsioni: per esempio, è molto probabile che quasi tutta l’odontoiatria, la scienza ultraraffinata delle operazioni e protesi dentarie, finirà per scomparire nella misura in cui l’equilibrio generale e un’adeguata prevenzione eviteranno che i denti si guastino.
A maggior ragione le pretese «scienze dell’uomo», psicologia, psicologia sociale, sociologia, eccetera, spariranno per il semplice fatto che il loro oggetto, l’uomo della società capitalistica (homo capitalisticus) sarà scomparso. Senza dilungarci su queste «scienze», citiamo comunque un esempio. La psicologia sociale (che offre brillanti carriere di capo del personale, di agente pubblicitario, di esperto di mercato e di «relazioni (in)umane», in fabbrica o in diplomazia) si è scientificamente rivolta al problema della produttività degli operai (come aumentarla senza sganciar quattrini!), e ha scoperto che, per esempio, il rendimento di un reparto d’incannatrici aumenta di un tanto per cento se le macchine sono dipinte in verde tenero invece che in grigio, se qua e là ci sono fiori e quadri, e se il caporeparto (dai baffoni virili) si mostra cortese con tutte le operaie senza accordare preferenze a nessuna (oh, santa emulazione!) e questa è una «verità scientifica» e sperimentale, di cui fin da ora ce ne strafreghiamo, contro cui se necessario ci battiamo, e che, nella società comunista, diverrà un assurdo mostruoso!
Ma ritorniamo alle scienze un po’ più serie, a quelle che pretendono
di accrescere il dominio dell’uomo sulla natura. Abbiamo visto che le più
«obiettive» di queste si sviluppano soltanto nelle direzioni
in cui tale dominio permette di estendere la riproduzione allargata del
capitale. Ma questo stesso sviluppo, richiesto dal capitale, è intralciato
dal modo di produzione capitalistico, e per diversi motivi:
- Il fatto stesso di questo orientamento altera l’equilibrio dello
sviluppo scientifico, lo frantuma in settori antagonistici, lo rallenta;
- la lotta (inevitabile) tra profitto immediato e profitto futuro accentua
tale squilibrio;
- l’idealismo borghese impregna la mentalità degli «scienziati»
e ne contrasta il lavoro: questo fatto, già rilevato da Engels,
si fa sempre più flagrante, come si è visto per la fisica;
- infine, la divisione sociale del lavoro, che ha permesso in passato
il rigoglio delle scienze, ora ne ostacola lo sviluppo ulteriore.
Quest’ultimo punto è interessante perché è uno dei fattori cui si devono le agitazioni studentesche. Il capitalismo richiede sempre più scienza; ora, la forma in cui si svolge la produzione di scienza è molto in ritardo su quella della produzione materiale: fino a non molto tempo fa, la scienza era prodotta in modo semiartigianale e individuale; solo da qualche decennio il lavoro associato è stato seriamente introdotto in questo campo, ed ha causato una proletarizzazione dei docenti ed altri studiosi. Questi diventano dei proletari nella misura in cui non sono più padroni dei loro mezzi di produzione e dei loro prodotti, ma devono vendere la propria forza-lavoro: beninteso, questi lavoratori che costano caro e gli sono utili sotto molti aspetti, il capitalismo non li degrada al rango di proletari comuni: ne fa dei «proletari di lusso» (come ci sono «polli di stia»).
Ma questa «modernizzazione» dell’insegnamento e della ricerca viene in realtà già troppo tardi: agli inizi del capitalismo, l’introduzione del lavoro associato, la socializzazione della produzione, permise l’impetuoso sviluppo delle forze produttive; oggi queste forze soffocano nella morsa dei rapporti capitalistici. La stessa scienza attuale, borghese, non si trova più a suo agio entro la forma capitalistica: il suo sviluppo esige l’abolizione della divisione del lavoro, della contabilizzazione individuale o «aziendale», della concorrenza, del salariato.
Basta pensare al groviglio inestricabile che per la borghesia rappresenta la selezione e formazione di questa èlite: tutti gli ingegnosi ritrovati della psico-pedagogia si infrangono contro la realtà dei rapporti capitalistici. Del resto, a guardar bene, queste grandi scoperte non sono che pallide scimiottature di cose che sappiamo a menadito. Da gran tempo il Partito pratica il metodo di trasmissione di conoscenze e sviluppo del lavoro che gli «scienziati educatori» cercano brancolando nelle tenebre: l’«insegnamento» non è distinto dall’attività; la formazione dei giovani avviene senza «professori», mediante la loro partecipazione al lavoro collettivo; non occorrono esami o diplomi per controllare o sanzionare le capacità dei singoli; ognuno dà un contributo proporzionale alle sue forze e, se commette un errore, i compagni lo correggono senza tante storie. Ma, se il Partito può condurre la sua attività in questo modo che è insieme il più efficace e quello che consente ad ogni militante di esplicare al massimo le sue doti personali, ciò avviene perché il Partito è un organo collettivo unitario: lottando tutti per la stessa causa, i militanti non conoscono né concorrenza né arrivismo; non cercano né fortuna né gloria; l’attività s’impone loro come una necessità storica alla quale ciascuno dà spontaneamente il meglio di sé stesso.
Il fatto che questo modo di funzionamento assilli (senza che essi ne
abbiano chiara coscienza) un buon numero di riformatori dell’università
conferma semplicemente la tesi marxista che, a partire da un certo grado
di sviluppo, le forze produttive si ribellano contro la forma capitalistica
e richiedono oggettivamente la forma comunista. Ma, essendo impossibile
introdurre il comunismo a pezzi e bocconi nella società borghese,
le più «audaci» idee dei riformatori sfociano nell’utopia,
e il solo risultato reale del loro agitarsi è di coltivare l’illusione
di una riforma della società senza rivoluzione e dittatura del proletariato,
mentre la riforma effettiva dell’università avviene nel senso di
una
accentuazione della concorrenza (pudicamente detta «competizione»,
come se si trattasse di un sport disinteressato!): concorrenza per entrare
nella categoria «di lusso», per restarci e salir di grado;
concorrenza tra le facoltà, le unità di ricerca, ecc. Il
capitalismo non conosce altro mezzo per far lavorare gli uomini.
Abbiamo visto che la scienza borghese, lungi dall’aleggiare nell’etere della «conoscenza pura», è determinata dal capitale e coinvolta globalmente nelle contraddizioni della società capitalistica: vedremo ora che, in più, essa è un’arma di conservazione borghese.
Anzittutto, perchè il «progresso scientifico» è uno dei grandi alibi della borghesia. I mali di cui soffre l’umanità sono evidenti; non potendo negarne l’esistenza, la borghesia procura di mascherarne le cause sociali parandosi dietro le «forze naturali». Mentre, in realtà, le forze produttive dell’umanità sono già troppo sviluppate per la forma capitalistica, la propaganda borghese dà ad intendere ai proletari che le loro miserie siano dovute a un insufficiente dominio della natura.
In un discorso di Waldeck Rochet («France Nouvelle», 17 gennaio 1968), troviamo un esempio caratteristico di questa mistificazione, che rinvia il miglioramento delle sorti dei proletari a un avvenire imprecisato: «Via via che i progressi della scienza e della tecnica permettono di aumentare la produzione e la produttività del lavoro...»! Respingendo con orrore la lotta di classe per l’abbattimento della dominazione borghese, questi messeri predicano la sottomissione di «tutte le classi» agli imperativi del progresso della scienza e della tecnica borghese, da cui invece i proletari non hanno nulla da attendere! Si vede qui che anche le conquiste più serie della scienza borghese giocano a favore del conservatorimo capitalistico, portando acqua al mulino dell’illusione del Progresso. (Allo stesso modo, l’autorità scientifica di un Einstein non faceva che convalidare l’idealismo piccolo-borghese, democratico e pacifista, di cui egli non si è mai potuto liberare).
Inoltre, la borghesia trae spunto dai successi delle scienze naturali
per costruire una «scienza sociale» sedicentemente al disopra
delle classi, in realtà per giustificare la propria filosofia
sociale e la propria forma di società. Qui le contraddizioni
del pensiero borghese (riflessi delle contraddizioni sociali) esplodono:
- nelle scienze della natura, la borghesia ha accettato di fatto
il materialismo; altrimenti, non ci sarebbe stata nè scienza nè
espansione produttiva;
- nella scienza della società, non può accettarlo
perchè implica la sua morte.
Per mascherare tale contraddizione, la borghesia ha sfruttato l’enorme confusione che, nel linguaggio, si traduce nell’ambiguità del termine «ragione»: quando la borghesia stessa si è presentata come la Luce («i lumi») contro l’oscurantismo, come la Ragione contro le superstizioni, il vocabolo «ragione» confondeva due diversi concetti: quello della razionalità del mondo e quello di una Ragione immanente e trascendente.
Per «razionalità del mondo» si intende il fatto che i fenomeni e accadimenti del mondo non sono indipendenti e incoerenti, ma legati gli uni agli altri; che è possibile trovare queste relazioni e le leggi che le regolano e così «capire» il modo: è, semplicemente, il concetto del determinismo. Ora, questo non è una «innovazione» della borghesia, che ha solo dato espressione estrema a una tendenza vecchia quanto l’uomo e non ignota neppure agli animali. Nè si tratta di un principio a priori, ma di una conquista perenne: dire che «tutto è legato a tutto» è una frase vuota (che rischia di metter capo all’assurdo: il legame tra la conquista della Città Santa da parte dei Crociati ed il terremoto, putacaso, in Sicilia, è estremamente tenue ed indiretto!). Quel che conta è scoprire che cosa è legato, in che modo, a che cos’altro.
In qual senso possiamo dire che le «superstizioni» sono irrazionali? Non perchè neghino il determinismo, ma perchè, non potendo trovare le vere cause di un fenomeno, tentano di spiegarlo con un falso determinismo, che è generalmente antropocentrico, attribuisce all’uomo un Potere eccezionale, e serve a fini sociali. Così forze naturali che sfuggivano alla comprensione umana erano messe al servizio di un dato ordine sociale: così faceva la Bibbia quando spiegava il cataclisma geologico da cui si originò la valle del Giordano con i vizi e le turpitudini degli abitanti di Sodoma e Gomorra, o, in tempi ben più recenti, la Santa Inquisizione quando addebitava il terremoto di Lisbona agli Ebrei ed altri eretici. La borghesia è però andata troppo per le spicce nel trattare come sciocche superstizioni tutte le conoscenze delle società che l’hanno preceduta: gli stessi talismani non erano poi una cosa tanto idiota; il guerriero che si ritiene invulnerabile non conosce la paura; il suo comportamento in battaglia e lo stesso esito di questa risultano modificati; l’individuo convinto che una pietra «magica» gli assicura una felice disgestione, digerisce effettivamente meglio. Inoltre, la scienza ha molto spesso trattato come «superstizione» ciò che era il frutto di osservazioni millennarie, come, secoli fa, quello «scienziato» che scherniva gli «ingenui contadini brettoni che credono che la luna abbia a che vedere con le maree». Ancora oggi, la più scientifica previsione meteorologica non è più sicura di quella dei contadini, fondata su una lunga esperienza. Ricordiamo anche i due casi di rotture di dighe, in cui una vecchia esperienza condensata nei nomi di luogo (Malpasset, in Francia) sapeva che il terreno non era sicuro: ignorando il significato dei toponimi, geologi ed ingegneri costruirono le dighe proprio nei posti sbagliati.
Naturalmente, ciò non significa che si debbano riprendere tutte le credenze antiche. Ma anche quando la loro critica scientifico-razionalistica era fondata, essa serviva alla borghesia per accreditare l’idea di una Ragione a priori. Invece di intendere la razionalità umana come la ricerca del vero adeguamento dei mezzi a dati scopi, la borghesia ne ha fatto un Assoluto: e non per errore o per caso, ma perchè tale ragione astratta, al di sopra delle società, al di sopra delle classi, indipendente dagli uomini e a tutti ugualmente accessibile, è il fondamento teorico della sua filosofia sociale: su di essa poggia il Principio Democratico, la peggior superstizione di ogni tempo, la credenza che sia la libera espressione delle libere opinioni a determinare i rapporti sociali ed il divenire sociale. Con la «Ragione», la borghesia ha insieme eliminato un antropocentrismo semplicistico (quello per cui si fanno delle processioni per ottenere la pioggia), istituendone e istituzionalizzandone uno più raffinato: l’antropocentrismo che riconosce le leggi della natura ma ne esclude l’uomo; che lo pone come una Libertà
Tale credenza, che giustifica la forma politica della società borghese è, lo ripetiamo, una superstizione peggiore di tutte le superstizioni antiche. Se i Greci spiegavano la folgore o i maremoti con le ire di Zeus e di Poseidon, si può dire a loro discarico che erano effettivamente incapaci di trovarne la spiegazione vera. Ora che la borghesia pretende di spiegare i fenomeni sociali, e in specie le catastrofi che colpiscono l’umanità, con la superstizione democratica, la loro spiegazione scientifica reale è perfettamente accessibile all’uomo. Ma essa non è data da una Scienza astratta, bensì da una scienza che si proclama apertamente scienza di classe, e che non può essere se non la scienza della classe obiettivamente chiamata a distruggere il capitalismo, una scienza-azione, la scienza rivoluzionaria del proletariato.
Contro questa scienza, la borghesia mobilita tutte le sue forze, e in particolare la sua scienza. La scienza perseguita il piccolo Dulcamara che vende erba secca come «rimedio segreto degli Aztechi» contro questo o quel male, e certo l’imbroglioncello sfrutta a suo vantaggio le sofferenze umane e l’impotenza della scienza borghese. Ma il suo è (talvolta più efficace e) infinitamente meno dannoso del ciarlatanismo intrinseco di questa stessa scienza: ponendosi come Scienza In Sé, pretendendo che una scienza astratta al di sopra delle classi debba regolare le questioni sociali, la scienza lotta direttamente contro la presa di coscienza rivoluzionaria del proletariato. Per questo – non per soddisfare meschine vanità – la borghesia leva tanto alle stelle la scienza e gli scienziati: finchè i proletari, tenuti dalla divisione del lavoro nell’ignoranza e nell’abbrutimento, ammirano scienza e scienziati e ne attendono salvezza, la borghesia può dormire fra due guanciali!
Diremo dunque che il proletariato non debba nulla alla scienza borghese?
Sarebbe assurdo. Il proletariato deve alla borghesia la distruzione delle
forme di produzione sclerotizzate, la realizzazione – a sue spese – di
quell’impetuoso sviluppo delle forze produttive che lo pone obiettivamente
davanti alla necessità della sua rivoluzione; che rende possibile
e necessario il comunismo. Questo aspetto storicamente rivoluzionario del
capitalismo si ritrova, beninteso, anche sul piano teorico: la scienza
borghese ha avuto annch’essa la sua fase rivoluzionaria, consistente nella
demolizione dello schema di un universo raggelato in categorie immutabili,
e nella dimostrazione della storicità della natura. Questa
fase è contrassegnata da due grandi tappe, (citiamo dei nomi per
facilitarne il ricordo):
- Galileo e Kant: dalla negazione del moto «assoluto» e
del cosmo geocentrico all’affermazione della storicità del sistema
solare;
- Lamarck e Darwin: dimostrazione dell’evoluzione delle specie viventi
e avvicinamento alle leggi che la governano; origine della specie umana.
Ecco le grandi conquiste della scienza borghese. Arrivata di fronte all’uomo, essa gira al largo: la terza tappa, la dimostrazione della storicità delle forme socio-familiari e delle leggi che reggono la loro evoluzione ad opera di Morgan, esce già dal quadro della scienza borghese.
Questa, infatti, non ha mai accettato il lavoro di Morgan: oggi non ci si accontenta di ignorarlo; tutta l’attività etnologica tende a nascondere il grande tronco storico messo in evidenza da Morgan sotto i ramoscelli divergenti: l’«approfondimento» dei particolari non mira che a spezzare o dissimulare l’unità della via maestra dello sviluppo storico e delle sue leggi. Questo perchè, se può accettare la storicità ed il determinismo nella natura, la borghesia non può accettarli nella società umana: per lei, la storia è un lento cammino dalle tenebre verso quell’Ideale di Ragione che è la società borghese. E più questo «ideale» svela sua vera essenza, più la borghesia respinge con orrore il determinismo che ne annuncia la morte, e si rifugia nella superstizione.
Il lavoro di Morgan segna il tramonto della fase rivoluzionaria della scienza borghese; compiuto sullo slancio di questa scienza, la supera e si congiunge alla scienza proletaria nata nel frattempo in Europa: è forse la sola opera scientifica se non «al di sopra» delle classi, almeno «fra due classi»: ma non poteva rimanere in questa posizione instabile; la scienza borghese, segnando con ciò i suoi limiti, l’ha rinnegata, e Marx ed Engels hanno subito capito che si inseriva perfettamente nella scienza proletaria, cui apportava una clamorosa conferma storica.
Via via che la fase rivoluzionaria della borghesia si esauriva e il
capitalismo vittorioso entrava in fase d’espansione, poi cominciava a putrefarsi,
la scienza borghese doveva seguire un’evoluzione parallela: essa non poteva
che svilupparsi secondo le esigenze del capitale rinculando sul piano dei
principi, non poteva che porre la sua razionalità al di sopra delle
classi e pretendersi depositaria della salvezza dell’umanità. Questa
Scienza astratta oggi non è più che un oppio del proletariato,
e non c’è da stupirsi se convive in così buona armonia con
la sua nemica di ieri, la religione. La borghesia non cerca più
la coerenza: nel suo terrore del proletariato, essa utilizza alla rinfusa
Dio e la Ragione, il Papa e la Democrazia.
5. La scienza del proletariato
Così, la scienza borghese, ieri rivoluzionaria, è oggi un ostacolo sul cammino del proletariato. Non è neppure più che questo, perchè noi ci disinteressiamo totalmente dei «progressi» che può ancora compiere; da un lato perchè sappiamo che non andrà molto lontano, dall’altro perchè oggi ciò non importa nulla: I problemi che attualmente si pongono all’umanità non sono dovuti a insufficiente padronanza delle forze naturali, ma al fatto che l’umanità non padroneggia le proprie forze.
Il suo dominio sulla natura, la sua scienza e le sue forze produttive sono sfuggite al suo controllo, sono divenute «autonome» sotto forma di capitale, la dominano e si moltiplicano a sue spese secondo le leggi del capitale. E non si tratta qui di un rapporto fra l’uomo e la macchina (che la superstizione borghese tende a «personalizzare» come gli antichi personalizzavano la folgore) e il capitale non è per noi un’entità metafisica. Si tratta del rapporto reciproco fra gli uomini nell’attività produttiva.
Proprio perchè i rapporti di produzione sono fondati sull’appropriazione privata, sul mercato e sul salariato, essi hanno trasformato le forze produttive sociali in «capitale», cioè in un meccanismo sociale di produzione che può solo funzionare secondo le leggi dell’economia capitalistica.
Il problema non è quindi di accrescere quantitativamente le forze produttive (fra cui la scienza): questo aumento, peraltro realizzato dal capitalismo, non fa che rendere più violenta la contraddizione tra le forze produttive e i rapporti di produzione, provocando convulsioni sociali che la superstizione borghese interpreta in chiave «scientificamente» fantastica.
Si tratta di rivoluzionare qualitativamente le forze produttive, mediante il sovvertimento dittatoriale dei rapporti sociali di produzione.
Perciò il proletariato, classe oggettivamente chiamata a realizzare questa rivoluzione, capovolge l’ordine «logico» della scienza, che vorrebbe costruire prima una fisica «compiuta», quindi una biologia «compiuta», per giungere infine a una scienza sociale. Il proletariato parte dalla scienza della società umana e le subordina tutte le altre. Solo la conoscenza delle leggi dello sviluppo sociale gli permette di realizzare questa rivoluzione imposta dalla storia; solo dopo di aver liquidato le contraddizioni sociali, gli uomini, divenuti padroni della propria forza, potranno riprendere efficacemente lo studio della natura. Liberata dalle contraddizione del modo di produzione capitalistico, la scienza integrata nell’insieme delle attività sociali progredirà allora a passi di gigante.
In sintesi, potremmo rifarci a un detto di Vallès. In un articolo inteso (già allora!) a radunare gli scienziati e gli intellettuali intorno alla bandiera del proletariato, egli usa la formula: «La Rivoluzione non è che la marcia in avanti della Scienza». Ora se è vero che, come si è visto, lo sviluppo della scienza, e di tutto il complesso delle attività umane, passa necessariamente per la rivoluzione comunista, la formula di Vallès rispecchia l’idealismo borghese che ha fin troppo appestato il movimento operaio (francese soprattutto): mettendo la Scienza al di sopra della società, esso disarma il proletariato. La formula va rovesciata e rimessa sui due piedi: La scienza oggi è la marcia in avanti della rivoluzione; è la scienza di classe del proletariato, la teoria e la prassi rivoluzionaria, la dottrina storica e l’esperienza delle lotte del proletariato; è l’organizzazione del proletariato in classe rivoluzionaria; in una parola, la scienza umana oggi è il PARTITO. Solo il Partito di classe del proletariato rappresenta, difende e mette in azione la sola scienza che conti, e che ingloba tutte le altre.