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Scienza borghese, drogatura ideologica Il Capitalismo scoppia di merci e di "Scienza" Grandezza della scienza della natura, miseria dell’ideologia dominante Fra neo-creazionisti
e liberal-evoluzionisti |
«Alla scienza vera – scriveva un portavoce della sinistra su L’Avanguardia del 13-4-1913 – come somma dei portati, delle ricerche e dell’attività umana, noi possiamo credere, ma non riteniamo possibile la sua esistenza nella società attuale minata dal principio della concorrenza economica e della caccia al profitto individuale. Urtiamo così un altro pregiudizio comune, quello della superiorità del mondo scientifico. Si credono oggi indiscutibili le decisioni delle accademie, come nel medioevo quelle delle sagrestie. Eppure sarebbe necessario un libro e non un articolo per svelare un poco i retroscena miserabili e mercantili della scienza! Il dilettantismo più incosciente, le più audaci ciurmerie, le più vili prepotenze delle minoranze dominanti, trovano con facilità la garanzia dell’etichetta scientifica... La scienza borghese è anch’essa al pari della filosofia un ammasso di frottole. Il socialismo scientifico non può respirare questa atmosfera di menzogna».
Il comunismo rivoluzionario, ossia l’unico socialismo e comunismo marxista, stritolerà teoricamente e fisicamente i vari Kautsky che tuttora blaterano «pane e scienza!», o meglio implorano alle deità della cultura di spezzare il pane dell’eucaristia scientifica per dare «coscienza» alle «masse».
Ma per i marxisti è evidente non solo che le applicazioni della scienza e in genere le cosiddette scienze sociali, storiche («umane»), sono meri strumenti di dominazione rincoglionatrice utili al capitalismo, ma altresì che le stesse scienze pure, nella misura in cui sono costrette, per non ridursi a insignificanti constatazioni sperimentali, a darsi un inquadramento teorico, non possono non attingere dal bagaglio ideologico capitalistico. Donde i fenomeni meravigliosamente analizzati da Engels e da Lenin (Antidühring, Dialettica della natura, Materialismo ed empiriocriticismo, Quaderni filosofici) che indicano come la scienza pura od applicata non possa non mettere capo, nell’attuale ordinamento sociale, ad una forma di mistificazione ideologica, che nulla ha da invidiare al vecchio misticismo e che anzi ben spesso attinge motivi da questo medesimo riabilitando il fideismo che il preteso rischiaramento della rivoluzione borghese proclamava sconfitto per sempre.
Abbiamo voluto ripetere, alla buona ed in breve, posizioni nostre caratterizzanti ed irrinunciabili, per introdurre un esempietto grazioso che ci sembra dimostri la effettiva «serietà» dell’anche più qualificata scienza borghese contemporanea.
Lo zoologo Konrad Lorenz (popolare perché sostiene di saper conversare con le oche selvatiche) nel suo libro sull’aggressività ha ripreso, con lievi modifiche, vecchie tesi del cosiddetto darwinismo sociale, imputando appunto a questo presunto istinto universale degli animali le lacerazioni della moderna società umana, con la sola distinzione che per l’autore l’istinto dell’aggressione, utile negli animali e nell’uomo stesso come basilare espressione «mascolina», diviene nocivo allorché lo si applica su vasta scala con i mezzi forniti dall’odierna tecnologia. Sussiste quindi per il Lorenz un eccesso di aggressività, che sfugge al controllo umano, e che al massimo si può sperare d’incanalare in manifestazioni relativamente innocue come... le partite di calcio.
Non spenderemo parole per sottolineare la veramente ochesca (chiedendo venia alle oche palmipedi) stupidità di simili argomentazioni, che assimilano l’aggressività come fenomeno biologico (anch’esso, nell’uomo, più o meno distorto e diretto dall’ambiente storico-sociale), la lotta di classe ed il conflitto bellico, che discendono dalla determinazione economica dei modi e rapporti di produzione interumani storicamente determinati.
* * *
Ma, se Lorenz si ispira in qualche modo al darwinismo sociale e cioè pensa che le contraddizioni della società borghese si spieghino con una universale lotta per la vita, non è mancata nemmeno la riedizione di un complementare atteggiamento teorico che ebbe a massimo esponente il geografo e naturalista Pietro Kropotkin, ben noto anarchico. Questi alla preponderanza della lotta per la vita oppose quella di mutuo appoggio (titolo di un suo saggio), sostenendo insomma che la «natura» umana (come la natura in genere) accanto ad una tendenza alla concorrenza ed alla sopraffazione ne ha una, in ultima analisi predominante, alla cooperazione. In realtà basta a demolire tutte queste costruzioni, a parte l’esplicita confutazione di Engels, la constatazione di Marx che nel 1847 obiettava a Proudhon non essere la storia altro che storia delle trasformazioni della cosiddetta «natura umana». Inutile aggiungere che il fatto dell’esser l’uomo tale in quanto modifica l’ambiente, non toglie la determinazione biologica, cui tuttavia s’assomma quella sociale come risultante dei rapporti di produzione che scaturiscono dal modo di produzione, e dai relativi mezzi di appropriazione e trasformazione dell’ambiente esterno. Ma questa complessa dialettica, sistematicamente deformata dai cultori di etologia, come il Lorenz e come i suoi avversari Claire e W. M. S. Russell, i quali hanno pubblicato un anno fa a Londra uno scritto dal titolo Violenza: scimmie ed uomo non sospettando di ripetere con alcune modifiche superficiali le tesi kropotkiniane; ed è divertente vedere come V. Reynolds (cfr; Nature, 221,99) ne ricavi una «filosofia progressista», opposta a quella «politicamente reazionaria» di Lorenz. È qui il caso di dire con la celebre battuta: invece pure; perché la spiegazione dei Russell vale quella dei Lorenz. Mentre questi paragonano senz’altro gli uomini alle scimmie (viva l’originalità!), i Russell li paragonano alle scimmie ingabbiate, cercando di fare dell’aggressività presa come idea in sé, dalle lotte dei cervi ai conflitti mondiali, un fenomeno «innaturale», indotto (psicoanaliticamente) da frustrazioni e provocazioni, nonché da ristrettezza di spazio e di cibo. Ed ecco che con Kropotkin viene risuscitato Malthus o meglio il neo-malthusianesimo: tutto sta... nel ridurre le nascite e nel trovare forme più eque di convivenza tra le nazioni ed in seno alle nazioni singole.
I nostri democraticissimi riscovano pure la nozione di «spazio vitale» (Lebensraum), mascherandola con un preteso universale «istinto di territorio», per cui l’eccessivo affollamento, invece di essere un risultato delle presenti contraddizioni, ne diventa una causa essenziale.
Navigando così sul fognoso oceano piccolo-borghese, si avvista l’isolotto di Proudhon, col suo giardino e l’albero di fico al quale ciascun «libero produttore» ha «diritto». I Russell sognano di «conquistare lo spazio» per salvare l’individualità compromessa, e propongono una serie di misure che paiono attinte un po’ dal «socialismo» proudhoniano e fabiano, un po’ dall’Esercito della Salvezza: limitazione delle nascite, muri isolati acusticamente, casamenti a sviluppo orizzontale anziché verticale, stanze da bagno per tutti, «riduzione» degli inquilini per ogni vano di casa popolare di slums, coree o baraccopoli, pianificazione generale della privacy universale...
Al che commenta spassosamente Reynolds: «Si tratta incontestabilmente di una filosofia socialista basilare!» Ma il fine e dotto commento comprende anche delle critiche: la limitazione delle nascite - spiega Reynolds - riduce il tasso d’incremento demografico piuttosto che la massa globale della popolazione, e la «violenza» potrebbe essere legata al sesso maschile, al cromosoma Y. Prova ne sia il gran numero di criminali con due cromosomi Y. Altro che Lombroso con la sua «antropologia criminale», altro che «l’antropologia scientifica del professore-poliziotto Ottolenghi» di cui parlava il nostro articolo del 1913!
Sia i Lorenz, sia i Russell, hanno trovato dunque la formula della
salvazione:
gira e rigira, tutto si riduce al vecchiotto binomio «pane e
giochi
da circo». A tutto ciò possiamo aggiungere, col
(nientepopodimeno)
premio Nobel Linus Pauling la... vitamina C, o con il duo dei
«polemologi»
Gaston Bouthoul e Franco Fornari, la psicoterapia preventiva
anti-bellica.
Il vecchio positivista Achille Loria pensava tra l’altro di sfamare le
«plebi» cospargendo di vischio le ali degli aeroplani e
raccogliendo
gli uccelli che vi rimanevano impaniati. I nostri scienziati odierni
vogliono
invece rimuovere i «lati spiacevoli» (sempre Proudhon!) del
capitalismo con il giuoco del calcio, le pillole ricostituenti, i muri
con pannelli isolanti, le docce e via di seguito. Sia questo esempio un
piccolo «spaccato del progresso scientifico oggi tanto
conclamato,
e un indice di misura dell’affidamento che la «scienza
imparziale»
dà alla borghesia di ripetere sempre con maggior monotonia le
sue
mistificazioni ideologiche per rincitrullire gli affamati con la
promessa
di spezzar loro il pane eucaristico del sapere. Chi ha ferro ha pane,
diceva
invece Blanqui, e solo chi ha pane ha scienza: l’unica alternativa alla
scienza borghese sarà la scienza socialista, la scienza di tutta
la specie umana, ma il cammino ad essa non è affatto ideologico,
né teorico né culturale: è il cammino del
rovesciamento
della prassi, ossia dell’attività rivoluzionaria.
Oggi come mai il capitale scoppia di merci, di cultura e di scienza, eppure borghesia ed opportunismo pretendono di sfuggire all’indigestione proponendo più merci, più cultura, naturalmente pianificate, programmate, razionalizzate (nella loro vuota testa); è una vera e propria dannazione.
«La ricchezza delle società nelle quali domina la forma capitalistica di produzione, si enuncia come una immensa accolta di merci. L’analisi della merce, forma elementare di questa ricchezza, sarà quindi il punto di partenza delle nostre ricerche».
Così esordisce Marx ne Il Capitale, individuando, cartesianamente, la forma semplice, elementare, della società borghese.
A sua volta il capitale, messo crudamente sul banco anatomico dalle mani spietate del proletariato armate del bisturi del materialismo storico e dialettico, si ingegna ad innalzare su questa verità elementare cortine di fumo a base di «linguaggio sublime», sempre più ipocrita quanto più la prassi si fa crassa e schifosa.
L’«immensa accolta di merci» è l’ingombrante cadavere che il capitale trova davanti a sé, è il suo proprio limite, contro il quale non valgono moralismi, belati alla fratellanza, alla solidarietà, all’uguaglianza. Niente, nel modo di produzione capitalistico può sfuggire alla condanna di diventar merce, né la fede, né il sentimento, né gli affetti più o meno zuccherati.
Come nelle mani del re Mida tutto diventa oro, tutto nelle mani della società anonima del Capitale diventa merce, merce da scambiare a tutti i costi perché si tramuti nel vile denaro, sempre più irrimediabilmente carta straccia, che alimenti la riproduzione allargata del ciclo produttivo: se la merce, oltre al suo valore di scambio, la sua connotazione essenziale, conserva ancora un certo valore d’uso, è ormai un mero accidente, capace in fin dei conti di avvelenare in qualche modo l’esistenza dei produttori, specialmente quando si tratta della merce più «sublime», tipo tempo libero, cultura, elevazione dello spirito ecc..
Non sfuggono a questa condanna quelle realtà che l’ideologia borghese si sforza di presentare come «valori assoluti», distinti ed indipendenti dalla «prassi vile e plebea», al di sopra della lotta delle classi e degli interessi, bassa cucina con la quale le «anime belle» si illudono di non avere a che fare.
È il caso dell’arte, della cultura, della scienza, considerate riserva di caccia dai moderni chierici, peggiori di quelli chiesastici e feudali, dal momento che fanno di tutto per nascondere la tonsura, per mescolarsi in vili atteggiamenti pecorecci con «il popolo lavoratore», con la classe operaia. Fanno di tutto per mostrarsi «alla mano» ma ci tengono un mondo a rivendicare l’appartenenza alla sola specie di bestie definita «sapiens».
Scrivevamo (Il Programma Comunista, n. 9 del 1953) «perché la nostra specie di bestie è definita «sapiens»? Non certo perché abbiamo vinto alla «Totocreazione» contro l’asino e il pappagallo (rispettabili, vien fatto spesso di pensare, temibili concorrenti). L’uomo è la sola specie vivente che ha scienza, perché ha lavoro. Ma l’arte non sta in un cielo più alto che la Scienza o il Lavoro, sta proprio tra i due. La classica contrapposizione tra le due energie che ci reggono è Natura ed Arte. La specie animale sugge alla sola Natura, la specie Uomo produce sempre maggior parte di quanto lo fa vivere. Produzione è arte. Se la prima bestia a lavorare fosse stato un immortale e sterile Robinson, che non doveva trasmettere ai compagni e successori le regole del suo tagliare certe piante per farsi una palizzata in giro alla capanna, l’arte non sarebbe stata, in quanto solo avrebbe rilevato l’armonia di quella cintura organizzata rispetto al cespuglio in cui si cela lo sciacallo. Perché Arte e Arto sono la stessa parola? Perché non dal cervello e dall’assoluto spirito venne la immisurabile ricchezza delle umane costruzioni, ma dalla mano che prima modificò il ramo e la pietra in vista della ricerca di alimento. Ultimo arriva lo spirito, altissimo parassita di ignoti e millenari sforzi, ebbrezza superba della vita differenziata e collocata sull’altare di miliardi di immolate vittime in semplici umili atti che resero possibile ogni successivo passo, ogni rudimentale conquista, caldo e illuminato di entusiastiche altezze di cui sconciamente si chiama solo generatore, ignaro di quanto costò la prima fisica scintilla scaturita dal fondo delle gelide savane, a dispetto degli dei, e come era difficile a braccia intirizzite trarre dall’attrito di due legni mossi a velocità impossibile la temperatura di accensione. Quanti e quanti millenni dopo si seppe che occorrono 427 chilogrammetri per ogni caloria? Ma quando si datò la gigantesca conquista? Ed ha essa uno stupido nome?
È ben chiaro che una tale deduzione degli ultimi risultati dell’Arte e più dei massimi che non sono proprio gli ultimi, cade contro la censura spietata dei nostri nemici di partito e di classe, e che le loro concezioni si costruiscono col percorso diametralmente opposto...».
È il percorso contorto e problematico che è stato anche definito «lungo viaggio attraverso le sovrastrutture», la classica scorciatoia sui cui dirupi si sono impigliati fior di opportunisti, sicuramente molto più rispettabili di quelli formato 1975 che secondo la moda dominante si distinguono per il loro linguaggio cifrato e sociologico ipocrita e zeppo di «distinguo». Tocca a loro, più ancora che alla grande borghesia, la quale se non altro per quanto putrescente e balorda porta nelle vene sangue di classe, confermare la scultorea constatazione di Marx «più si sviluppano gli antagonismi tra le forze produttive crescenti e più si compenetra di ipocrisia l’ideologia della classe dominante. Più la vita svela la natura menzognera di questa ideologia, più il linguaggio di questa classe si fa sublime e virtuoso. Il capitale negli anni delle «vacche grasse» ha esaltato le virtù del mercato e del «libero gioco delle naturali forze economiche», al momento della immancabile e più profonda crisi del II dopoguerra mondiale scopre le virtù taumaturgiche della «volontà politica», del razionale dominio degli istinti, pretendendo di «demercificare» il grano, il petrolio, illudendosi di dominare i demoni da esso stesso evocati a colpi di Ukase, di esorcismi per i quali si stanno scomodando tutte le residue chiese volte a riscoprire l’inquietante odore di zolfo del demonio, riverniciato a nuovo ma sempre stranamente presentato nei panni della «sovversione» e dell’inganno. Di fronte ai duri fatti che il terreno materiale dell’economia politica sbatte sulle spalle dei proletari e minaccia la ripresa della lotta di classe, mettendo in risalto quella che un «economista» del campo opportunista ha candidamente definito «la ingovernabilità della forza lavoro», si scimmiottano le presunte scoperte perfino di Mao, a base di «politica al primo posto», di partecipazione, e si rivendica come richiesta capace di svegliare la «soggettività rivoluzionaria» maggior cultura, «ai livelli tecnico-scientifici attuali», fruizione di beni culturali tipo concerti di musica elettronica, ore di studio per i lavoratori rozzi ed ignoranti da erudire e sgrossare, e via di questo passo.
Tutte queste risorse naturalmente vengono presentate come «puri prodotti dello spirito», immuni dal circuito merce-denaro-merce, indipendenti dalla legge del valore.
Ma quando la borghesia è costretta a calare la maschera e a demercificare perfino insostituibili risorse di base come il grano (che principalmente serve a sfamare le famiglie operaie) e il petrolio, che ha fatto versare lacrime a fiumi ai piccolo-borghesi scopritori dell’ecologia e dell’ambiente, allora vuol dire proprio che con la precisione delle scienze naturali, la crescita delle forze produttive non è più contenuta dai vecchi rapporti di produzione, e dunque tanto meno può essere adeguatamente frenata dalle istituzioni politiche borghesi, democratiche o autoritarie, che fanno acqua da tutte le parti. Altro che «politica al primo posto»! Questa è la parola d’ordine democratica ed opportunista che illude la classe operaia promettendole interventi «coscienti e responsabili», proprio mentre si dispiega e si rafforza l’apparato statale e la sia violenza di classe.
L’urto delle forze produttive su vecchi rapporti sociali non risparmia nessuna delle «sovrastrutture», sia di forza che di coscienza. La ieratica è sempre più «illegale» legge si fa spietata quando si tratta di colpire proletari in rivolta e sempre più molle quando si tratta di salvare dall’accusa d’intrigo generali e sbirri assoldati per la repressione di classe. Il cosiddetto «stato di diritto» dimostra di funzionare alla perfezione quando si tratta di proteggere manutengoli di gran lusso che non resistono alla tentazione di fare gli affari loro sfruttando la posizione di «grands commis del capitale», permettendo che raggiungano i lidi dorati di paesi parassiti che vivono di incerti internazionali, e fa la finta di non funzionare quando si tratta di prestar fede ad accordi sottoscritti per pagare quattro baiocchi agli operai defraudati giornalmente di quanto loro spetterebbe, sempre stando alle formule farisaiche della legge. Ma la violenza dei rapporti sociali che si ergono sulla lotta delle classi, come il pretore del diritto romano, non si cura delle quisquilie e svela la mistificazione del diritto con la sua pretesa di regolare la società capitalistica.
I cultori della borghesia illuminata non mancano di evocare i fantasmi della «barbarie» feudale, di auto da fé, di caccia alle streghe ogni volta che la violenza viene dispiegata apertamente, specie quando ciò avviene negli Stati degli altri, pretende di attribuire il tutto a «deplorevoli ritardi di sviluppo», alla mancanza di «cultura», e promette a piene mani più scuole per educare, più ospedali per guarire, più scienza per sapere. Finge di non capire che, al contrario, il marcio e la violenza sono il frutto del capitalismo putrescente, comprese le «atrocità» tribali che vengono perpetrate a danno contadini poveri e di sottoproletari nel cuore dell’Africa, in Etiopia e altrove, comprese le mani mozzate e la «giustizia» amministrata direttamente dal truce Bokassa in aperta piazza per l’esempio di tutti.
Non esiste più, nella fase imperialistica del capitale, vecchio rancore etnico o tribale che non sia subordinato direttamente o indirettamente (cioè in via diplomatica o democratica) alla legge del profitto. Quando la borghesia attribuisce simili guasti ai residui feudali, nel 1975, mentisce spudoratamente, e cerca di nascondere in questo modo la violenza degli apparati statali, dei suoi mezzi di coercizione e di tortura, a petto ai quali i marchingegni del castello feudale, compresi i trabocchetti, sono romanticherie degne d’essere rimpiante. Questa stessa classe che si presentò sulla ribalta della storia come liberatrice e con i meriti di avere spezzato prepotenze e privilegi, inquisizioni e persecuzioni, che aveva avuto il merito di fondare le moderne scienze della natura e della storia, oggi trema davanti alle sue stesse scoperte, e, sul fuoco sprigionato, come è inevitabile, dalla scienza, anche se imprigionata nella camicia di forza del limite capitalistico, getta acqua perché non bruci essa stessa e per assoggettarlo agli interessi della dominazione di classe. Quella borghesia che ha scoperto la scienza del pensiero dialettico, ora si scandalizza del suo stesso genio perché «sotto la sua forma razionate la dialettica diventa scandalo e abominazione per lei stessa, perché nella concezione positiva dell’ordine esistente essa include nello stesso tempo l’intelligenza della sua negazione, della sua necessaria distruzione perché riaffermando il movimento stesso, di cui ogni forma costituita non è che una configurazione transitoria, essa non si lascia fermare da niente ed è essenzialmente critica e rivoluzionaria» (Marx/Engels, L’Ideologia Tedesca).
Ed anche quando sostiene la fine di ogni ideologia, perché velenosa ed astratta, come fa dire ai suoi «ideologi», loro sì imperituri, almeno fino alla abolizione del capitale, ed afferma l’attuale superiorità della «scienza positiva», neutrale e tecnica, non si rende conto che essa stessa «non è mai razionale, od in un certo senso non è borghese, sebbene la borghesia sviluppata e conservatrice sappia presto ridurla in edizioni di classe. La scienza non è che la costruzione spontanea dei risultati della tecnica del lavoro nei suoi procedimenti più vantaggiosi, che è irreversibile in quanto nessuno riuscirà a rinunziarvi per motivi di principio e puramente ideologici. Come il lavoro associato è risorsa che passa oltre ogni frontiera, così lo è la registrazione e descrizione dei processi naturali, una volta rimossi gli ostacoli delle vecchie scuole e cenacoli teologici e non teologici per l’opera della demolizione critica, divenuta abbattimento di poteri statali. Già nel moderno mondo irretito di menzogna ideologica assai più di quello medievale, la tecnica e la scienza della natura non hanno più patria. Non per nulla il Croce le pone fuori della Filosofia, e vuole che questa tenga la umana storia. Quando anche questa sfuggirà alle tenebre del trasumanato spirito, anche la scienza di essa storia non avrà più patria e alla fine non avrà più classe». (da Il Programma Comunista, n. 4 del 1953).
Si scopre così che la stessa «scienza» viene tentata di imbalsamazione o di santificazione al chiuso degli «istituti di ricerca pura», quando al contrario non è che il frutto del lavoro vivo, che nella forma capitalistica di produzione si sente compresso e tende per sua natura a travolgere «torri d’avorio», confini nazionali, di corporazione e di classe. Mentre la borghesia esalta la neutralità della scienza per renderla innocua, un’ultima icona da proporre all’adorazione dei rozzi proletari dopo la ingloriosa fine dell’oppio religioso e dei più vari «valori dello spirito», la teoria rivoluzionaria del proletariato ne coglie la portata dirompente e capace di travolgere il dominio della classe nemica.
Lungi dal riconoscere ad arte scienza e cultura, una vita propria, indipendente dalle contraddizioni di classe, sa riconoscere il loro significato specifico, il loro spessore sociale, la loro potenza dialettica, e dunque non necessariamente e definitivamente asservibili ad una classe e tanto meno neutralizzabili. Ma il giudizio su queste realtà, «sovrastrutture» come le chiama Marx, non può essere improntato al piatto empirismo ed evoluzionismo che si limiti alla constatazione della loro esistenza e si rifiuti di stabilire delle leggi in rapporto alla loro materiale e pratica interazione. Il marxismo consiste in questo: nel riconoscimento storico e incontrovertibile, che «le idee dominanti sono le idee della classe dominante», escludendo la possibilità di conquistare la liberazione di classe attraverso una generica critica delle idee, od una «critica critica», ma individuando nelle forze materiali che governano la società la leva per abolire l’antagonismo nella società. Consiste inoltre nell’esclusione della possibilità di poter costruire un’autonoma «cultura di classe», a meno che non si intenda per essa il possesso della teoria della rivoluzione che non si illude di poter «divulgare» in generiche «scuole serali» o peggio «corsi a livello universitario», ma nel vivo della lotta di classe.
D’altronde la storia insegna: la lotta contro le idee delle forze conservatrici, mentre è dovere rivoluzionario da non disgiungere mai dal vivo della lotta di ogni giorno, è anche il terreno più resistente, che sopravvive alla fine e al declino delle forze sociali che l’hanno prodotto, e non perché dotate di qualità divine e trascendenti, ma in quanto, come è verificato dalle scienze naturali moderne, l’evoluzione stessa della specie umana parte dalla scoperta della mano giunge alla crescita della capacità cranica, sissignori, dai 600 centimetri cubici del pitecantropo ai 1400 circa del più imbecille individuo 1975. È evidente allora che la crescita del serbatoio mentale diviene e freno e stimolo per ogni forza rivoluzionaria: l’inerzia e l’attaccamento alle idee del passato rimane anche quando sono praticamente estinti i rapporti sociali e le tecniche materiali che li hanno prodotti: prova della loro eternità?
Tutt’altro, prova della loro maggiore resistenza, e smentita, se pur ce ne fosse ancora bisogno, della pretesa di cominciare la rivoluzione con le idee, dimenticando che le stesse idee rivoluzionarie sono nate «dopo» l’inizio della pratica rivoluzionaria, anche se incosciente o istintiva. E con questo cadono le velleità idealistiche e piccolo-borghesi di «rivoluzionare le coscienze, di sensibilizzare, di aiutare a capire».
Il marxismo rivoluzionario ha salutato la caduta degli dei e delle idee eterne, ma non con faciloneria e sufficienza: prima ancora di decretare la loro fine, ha raccolto con la precisione delle scienze naturali il loro testamento sociale, la loro eredità, la capacità di sollecitare i vivi, di impedire la loro azione o di renderla più difficile. La negazione che il materialismo storico fa dell’ideologia borghese e delle forze sociali del passato non è puramente ideale, ma dialettica, non fondata sulla testa, ma rimessa in piedi, secondo l’ormai classica definizione di Marx ed Engels. Mentre dunque ancora oggi, soprattutto il piccolo-borghese ed opportunista va in brodo di giuggiole di fronte all’opera d’arte, e si atteggia lui stesso ad artista dimenandosi ed imbrattando, angustiandosi e contorcendosi per l’impossibilità «esistenziale» di poter esprimere se non il «nulla», il marxismo classico ci dà un affresco poderoso e storico, capace di ammirazione per il genio (non individuale) delle civiltà che ci hanno preceduto, compresa, e massime, la grande civiltà borghese (non si è rivoluzionari se non si è in grado di riconoscere il valore rivoluzionario della borghesia stessa), ma anche capace del più profondo disprezzo nei confronti di necrofili incapaci di riconoscere la decadenza e la putrefazione.
«La storia universale non è esistita sempre; la storia come storia universale è un risultato» (Marx, Per la critica dell’economia politica). A maggior ragione le sue specifiche manifestazioni, quelle che per comodità di metodo sono state catalogate dalla stessa ideologia borghese, come le più alte: arte, religione, filosofia.
Né abbiamo mai detto che la cosiddetta Arte, che, come dicevamo, è una stessa parola con Arto, è un prodotto che si identifica meccanicamente con i «prosaici lavori pratici», ma ribadiamo che si eleva da quella base, e non ce ne adontiamo, anzi ci sentiamo esaltati nel riconoscere come la tecnica umana sia capace di perfezionarsi, come prendiamo atto del come, di fronte alla rottura della società in forze antagonistiche, le forze sociali dominanti hanno puntualmente operato la cattura e la difesa strenua egoistica dei frutti del lavoro sociale. Per cui, anche quando oggi la borghesia promette di rendere bene comune a tutti i tesori del lavoro sociale, artistico (che, almeno quello attuale, fa generalmente schifo), scientifico, ancora una volta mente, perché è disposta a concedere semplicemente i sottoprodotti, i rifiuti, le briciole alla classe dominata. Ciò è sotto gli occhi di tutti: promette scuole, ma quelle degli operai, dei sottoproletari sono vergognose, mentre quelle del borghese sono «private» e di lusso, promette salute attraverso la scienza, ma il disgraziato non può neanche essere ricevuto in un buco di ospedale, mentre al furbo è riservata ancora una volta la clinica privata.
Ed allora noi non abbocchiamo, non crediamo alla scienza e alla cultura di una classe che per sua natura non può concedere che illusioni. La scienza ha bisogno di essere strappata dalle sue mani, dal suo scrigno custodito con il ferro, anche quando promette a tutti di poter raggiungere, con la buona volontà ed il sacrificio, «i più alti gradi dell’istruzione».
Non ci lasciamo turbare dal fatto che la classe dominante può illudere gli sprovveduti e gli sciocchi sentimentali, quando non sono interessati e falsi opportunisti, per il fatto che oltre agli strumenti materiali di produzione (e dei prodotti sociali, sia ben chiaro) detiene anche i frutti del lavoro sociale di millenni di lavoro umano e animale (abbiamo da rivendicare, se vogliamo, anche lo sfruttamento dei somari!), detiene la proprietà di tesori che «continuano a suscitare in noi un godimento estetico, e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili», ma, concludiamo ancora con Marx: «un uomo non può tornare fanciullo o altrimenti diviene puerile. Ma non si compiace forse della ingenuità del fanciullo e non deve egli stesso aspirare a riprodurne, ad un più alto livello, la verità? Nella natura infantile, il carattere proprio di ogni epoca non rivive forse nella sua verità naturale? E perché mai la fanciullezza storica dell’umanità, nel momento più bello del suo sviluppo non dovrebbe esercitare un fascino eterno come stadio che più non ritorna? Vi sono fanciulli rozzi e fanciulli saputi come vecchietti...».
Ecco, i difensori della presunta cultura e scienza attuale, che anzi
ne rivendicano di più come se fosse capace di risolvere i mali
dello
sfruttamento di classe, sono uomini divenuti puerili, purtroppo non
più
fanciulli rozzi o saputi, ma vecchietti saputi ed infantili.
Alla morte di A. Einstein la grancassa dei cosiddetti mass-media, che noi materialisti dialettici preferiamo chiamare col più comprensivo e comprensibile termine di «ideologia della classe dominante», si fece in quattro per nascondere l’effettiva portata conoscitiva del suo pensiero, amplificando, e speculando sugli aneddoti più o meno esaltanti o curiosi riferiti al «santo laico» tutto scienza e amor della natura, mezzo clown e mezzo bigotto, a proposito di pacifismo e avvertimenti contro il démone che si nasconde dietro le scoperte e i segreti della materia. Non ha certamente mancato la grande occasione del centenario della nascita per ritagliare meglio la figura del vispo vecchietto e confezionarne un’immagine, prima irriverente, fasulla e degna della cartapesta tipica della leggerezza hollywoodiana che sta celebrando il suo scomposto rinascimento. Di fronte alla massa informe e sterminata dei versacci intorno ad una mente che di tutto si curò fuorché della sua immagine per il «pubblico», la scienza borghese, anche quella blasonata e accademica, non è andata più in là delle citazioni estrapolate da quella o quell’altra tendenza o formula di Einstein, senza riuscire a comprendere come egli abbia potuto conciliare l’inesauribile e curioso interesse per la natura e le sue leggi con la caparbietà tutta galileiana con la quale respinse le suggestioni metafisiche o parafisiche confinanti con la superstizione e lo scetticismo.
A questa scienza sofisticata e influente, apparentemente suggestionata dalla forza o dal gioco della materia, quando non delusa e sgomenta dalle immani difficoltà che ogni reale conquista comporta, Einstein potrebbe rispondere paradossalmente con Amleto: «Esistono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne contempli la tua filosofia», perché il suo Dio, che non gioca a dadi come ebbe splendidamente a dire, pur disdegnando il piatto empirismo e l’adorazione per le cose che si vedono e si toccano, non gli ispirò mai la mistica che tutto annega nel mistero, ma la capacità di leggere matematicamente e dialetticamente le regole che governano la realtà contro le divulgazioni più volgari riassunte nel classico e popolare «tutto è relativo». Einstein seppe andare più in là, nella distruzione degli apriorismi e dei pregiudizi, di quanto poté la luminosa mente di E. Kant, scandalizzando i «kantiani» del suo tempo, come tutti gli epigoni, peggiori del caposcuola, distruggendo le forme a priori di spazio e di tempo e proponendo una sintesi di queste apparentemente insormontabili colonne d’Ercole del pensiero, niente affatto a priori, ma tutta reale e naturale: lo spazio-tempo è una relazione reale, è la quarta dimensione, come ormai anche l’»uomo della strada», idolo della democrazia, ha sentito dire da qualche «professore». Con Einstein la «coscienza» subisce la più disastrosa sconfitta; il pensiero tanto esaltato nella persona dell’«individuo» Einstein dalla canea degli esaltati per il mostro e per il genio a tutti i costi, il più clamoroso ridimensionamento dopo i fatti dell’idealismo ottocentesco; «quello che sappiamo è un granello di sabbia in rapporto all’immenso universo che ci sta davanti»; la semplicità di Einstein sta in questa milizia di scienziato che aspira a conoscere la natura per come essa è, senza aggiunte estranee; niente altro di quello che Engels, notoriamente non disprezzato dal grande fisico, aveva scritto nel suo Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca: «la concezione materialistica della natura significa semplicemente la comprensione della natura così come essa è, senza alcuna aggiunta estranea, e come tale, originariamente, era ovvia per i filosofi greci. Ma tra quegli antichi greci e noi stanno più di due millenni in cui ha dominato una concezione del mondo erroneamente idealistica». È questa concezione idealistica che Einstein è riuscito a debellare con la forza della semplicità anti-accademica e anti-professorale, «rivelando» non teologicamente o «laicamente» la razionalità della natura, ma semplicemente, fuori da ogni «umanesimo» alla moda, della specie che già Galileo considerava caduco, quello per intendersi che immagina la natura come forza in funzione della sua coscienza e dei suoi tanto strombazzati «valori». Non farà dunque meraviglia se come comunisti rivoluzionari, continuiamo a rivendicare in lui un esaltante esempio di «preistorico» uomo-specie, intendendo per preistorico non il tanto esorcizzato ominide che l’uomo civilizzato teme rinasca dalla sua presunta insuperabile «animalità», quanto l’evoluta civiltà capitalistica, che pure nei prodotti del pensiero, in qualche rarissima occasione, come nel caso di Einstein, dimostra nei fatti la necessità della sua distruzione, perché non qualche «individuo» specie fiorisca, ma l’umanità a tutto tondo, quella vera storia che solo il comunismo inaugurerà.
I critici borghesi ed opportunisti della teoria einsteniana, a pezzi e bocconi, come è loro stile, ammettono la validità del suo modo di vedere il mondo, e si meravigliano soprattutto del fatto che solo dopo circa mezzo secolo dall’enunciazione della sua teoria della relatività si cominciano a «toccare con mano» risultati pratici e utili: ulteriore prova che perché il pensiero di Einstein dia i suoi frutti è necessario abbattere il circolo vizioso delle leggi capitalistiche che alla scienza sempre più chiedono utilità immediata, «fatti», e non «parole», come recita la pubblicità.
Solo una società di specie come noi, ormai felicemente soli, reclamiamo non solo possibile, ma inevitabile, sarà in grado di ottenere senza urgenze produttive immediate risultati validi per la specie dal punto di vista sia pratico che conoscitivo, che estetico, se non dispiace agli umanisti piccolo-borghesi tutti rivolti al culto del privato lirismo.
I più raffinati degli esegeti stanno ammettendo a denti stretti che sempre meno ci si può illudere, a proposito della teoria einsteniana dell’universo, di trovare «prove pratiche dirette» della sua validità pur ammettendo la sua fecondità infinita. Lo scienziato lo aveva detto, proprio per combattere sia i fautori del positivismo, che già Marx definiva «merdoso», sia i teorici dell’indeterminismo. «(è) un errore pretendere che la loro descrizione teorica sia fatta dipendere direttamente da affermazioni empiriche, come mi sembra implicito nel principio della complementarietà di Bohr, la cui precisa formulazione del resto, non sono stato capace di comprendere, nonostante i molti sforzi che gli ho dedicato».
Un trionfo per noi teorici che non contentandoci di veder giustamente reclamata l’oggettività della realtà di un cranio di tal cubatura contro l’involuzione e la rinuncia certamente non casuale della borghesia e dell’opportunismo dilagante alla comprensione della oggettività della stessa storia umana, del suo divenire secondo leggi deterministiche che non significa per niente meccaniche, ma dialettiche, siamo i soli a rivendicare il valore della teoria rivoluzionaria come patrimonio di un organo capace di sintesi, non individuale né geniale, ma combattente e militante, il partito di classe. Siamo gli unici a difendere dagli attacchi del soggettivismo e dello scetticismo ammantati di pluralismo e delle foglie di fico democratiche la possibilità, anzi la necessità di riconoscere obiettive leggi nella lotta tra le classi antagonistiche; è vero, la natura della società divisa in classi non è «razionale» nel senso naturale che intendeva Einstein quando si riferiva al cosmo, ma scoscesa e sanguinosa; a maggior ragione è necessario non affidarsi alle false formule coniate, non a caso, dalla debole attitudine borghese di applicare alla società il metodo e la potenza di trasformazione applicato alla natura; come Einstein dichiarava di non poter «sopportare il pensiero che un elettrone esposto ad un raggio di luce possa con la sua propria decisione scegliere il momento e la direzione secondo cui saltar via» al punto da dire «se fosse così preferirei essere un calzolaio o persino un impiegato in una casa da gioco che un fisico», così noi comunisti rivoluzionari preferiremmo darci allo stesso mestiere se dovessimo riconoscere la scientificità della sentenza illuministica «l’opinione governa il mondo».
Siamo convinti che non il libero arbitrio, peggio se individuale, ma nemmeno collettivo, foss’anche statale o di classe statisticamente intesa, governa i rapporti sociali, ma il determinismo, le leggi di causalità, lo spazio-tempo, la massa-energia, che comprendono e connettono l’intera realtà, non solo naturale e inorganica, ma storica e umana.
Questa fede, nonostante la professione di apoliticità, o meglio di incompetenza in campo politico, non impedì allo scienziato di azzeccarne più d’una anche in campo sociale, comunque molto di più dei politicanti che pur facendo professione di «rivoluzionari professionali» non si accorgono di non saper esercitare neppure il modesto mestiere di calzolaio, svolgendo meglio quello servile di lustrascarpe della borghesia. In un articolo introduttivo del primo fascicolo della Monthly Review (maggio 1948) intitolato Il perché del socialismo scriveva: «è l’anarchia economica della società capitalistica così come essa è oggi, a mio parere, la vera sorgente del male. Vediamo davanti a noi una gigantesca comunità di produttori i cui membri lavorano senza sosta per spogliarsi l’un l’altro dei frutti del loro lavoro collettivo»... Sono convinto che c’è un solo modo di eliminare questi gran mali, precisamente attraverso la formazione di un’economia socialista, accompagnata da un sistema educativo che sia orientato verso fini sociali. In tale economia i mezzi di produzione sono posseduti dalla società stessa e sono utilizzati in modo pianificato».
Al partito di classe, diciamo noi, spetta la direzione di questo
enorme
piano sociale. Il nostro omaggio ad Einstein, che resta immutato,
è
quello che gli abbiamo tributato alla sua morte, anzi confermato
dall’urgenza
che la società umana, contro le anguste e miopi società
nazionali,
si appropri degli strumenti necessari per la vera vita della specie.
Nel campo della riflessione che da sempre gli uomini compiono su se stessi, la conoscenza della natura ha permesso di collegare in modo inscindibile l’umanità e tutte le altre forme di vita e ha mostrato quanto sia immensamente lunga la «grande catena dell’essere», dalla quale derivano tanto l’uomo che tutti gli altri organismi viventi; essa è stata uno strumento di formidabile efficacia per dare un senso e sistemare, in una costruzione unitaria, la vita sul pianeta, alla loro infinita varietà e alle loro origini. L’uomo fin dai tempi più antichi ha sempre cercato l’origine «del tutto».
Nelle epoche passate man mano che questa ricerca si fa più profonda ed accurata – fuori dal campo di dominio della metafisica e della religione – corrode sempre più il rigido schema di una natura organica fissa ed immutabile. Tutto ciò non è avvenuto linearmente anzi gli ostacoli trovati lungo il cammino sono stati di diversa natura. Le nuove scoperte scientifiche, vagliate dalla realtà, cozzavano contro i vecchi schemi basati il più delle volte sulle scritture bibliche.
Darwin fu il primo a dimostrare praticamente, con prove inconfutabili, che la natura procedeva attraverso un continuo divenire dialettico dove non esistevano categorie fisse. In questo modo il concetto di evoluzione delle specie entrò prepotentemente nella ricerca scientifica e fece fare passi da gigante alla conoscenza della natura. Mentre l’evoluzione – riconosciuta come dato di fatto – è applicata a tutte le scienze, la borghesia se ne serve per costruire una nuova religione, messa da parte la vecchia perché oramai è in contraddizione con la realtà. La Scienza è la nuova religione e la borghesia ne fa un Assoluto. Non per errore o per caso, ma perché tale Scienza, posta al di sopra della società, al di sopra delle classi, indipendentemente dagli uomini e a tutti ugualmente accessibile, è il fondamento teorico della filosofia sociale: su di essa si basa il Principio Democratico; la peggiore superstizione di ogni tempo, la credenza che sia la libera opinione a determinare i rapporti sociali e il divenire sociale.
Questa nuova religione cozza con quella vecchia, ne nascono delle dispute e a volte le polemiche si fanno anche violente. Oggi siamo di fronte a una di queste dispute «altisonanti» dove le tesi degli uni (creazionisti) vengono contrapposte alle tesi degli altri (evoluzionisti).
In tempo di crisi, come quella che attanaglia la società attuale, il ritorno, oppure meglio definito, il rifiorire di teorie basate sulla creazione divina del cosmo ci danno la misura della profondità di tale crisi. Essa, si riflette su tutti i campi siano questi «filosofici» o «scientifici», politici o sociali. Per il Principio Democratico tutto ciò è pretesto per una sua ulteriore esaltazione. La teoria dell’evoluzione viene messa in discussione dai creazionisti, ma tutto ciò non è un male: la democrazia raggiunge la massima espressione quando esistono due o più «poli contrapposti», purché tutto sia condotto nell’ambito di scritti o dibattiti sublimati dalla società che li ha partoriti.
Nel caso preso da noi in esame possiamo subito notare come non esista oggi, oramai, contrapposizione di classe tra le due teorie: tutte e due possono coesistere e arricchirsi di «nuove ipotesi».
La ricerca dell’origine della vita ha un fascino per l’uomo – un
fascino
suggestivo dettato dal sapere che la specie ha dietro le spalle una
storia
ininterrotta di qualche miliardo di anni – ma per tornare ai termini
del
problema bisogna prendere in esame le due posizioni e vedere come il
marxismo
superi le tesi contrapposte.
1. Creazionismo
Uno dei più ampi «attacchi» alla teoria evoluzionistica è quello lanciato negli Stati Uniti da un folto gruppo di fondamentalisti religiosi i quali credono alle verità letterarie della Bibbia per quanto riguarda la creazione del mondo e degli esseri viventi. Tra questi signori si contano biologi, «informatici», fisici, rappresentanti dei settori di ricerca più «avanzati»; molte associazioni richiedono anzi, come titolo per l’ammissione, un diploma od una laurea in materia scientifica. I creazionisti chiedono che all’insegnamento della loro dottrina sia dedicato lo stesso tempo che viene speso per insegnare l’evoluzione (un capolavoro di «tolleranza democratica»), e a tale scopo hanno fatto causa a parecchi Stati della Federazione americana.
I creazionisti ritengono che l’insegnamento dell’evoluzione sia «dannoso al bambino» in quanto contraddice la sua coscienza innata (sic) della realtà e tende quindi a creare in lui conflitti mentali ed emotivi. Esso tende ad eliminare ogni freno morale ed etico nello studente e conduce in pratica (niente po’ po’ di meno che) ad un amoralismo animalesco. Esso può tendere a privare la vita di ogni significato e di ogni scopo in considerazione del concetto inculcato nello studente secondo cui egli non sarebbe altro che un prodotto casuale di un processo accidentale, privo di ogni significato. La filosofia evoluzionistica insinua spesso che la forza fa il diritto, una convinzione che conduce a sua volta o all’anarchismo (evoluzione incontrollata) od al collettivismo (evoluzione controllata) e prosegue l’articolo del nostro bravo fondamentalista religioso con altre perle del tipo «Darwin è il responsabile di tutti i mali del mondo moderno. Questa mitologia scimmiesca di Darwin è la causa del permissivismo, della promiscuità, delle pillole, dei profilattici, delle perversioni, degli aborti, della pornografia, (e figuratevi persino) dell’inquinamento, dell’avvelenamento e (pure) della proliferazione di criminali di tutti i generi». Il movimento antievoluzionista è una protesta contro «questo cancro dell’umanesimo laico orientato in senso evoluzionistico che sta distruggendo l’intelligenza e la fede dei nostri giovani».
L’attuale istruzione scientifica impartita nelle scuole degli Stati
Uniti incoraggerebbe lo scetticismo, il dubbio, l’indipendenza di
pensiero
e l’uso della ragione.
2. Evoluzionismo
Per combattere queste «posizioni» ecco nascere e svilupparsi il partito avversario che difende l’evoluzione, Darwin e la sua teoria: i cosiddetti evoluzionisti. Ma quelli che oggi si sono schierati contro i creazionisti sono a favore della Scienza e del Sapere con la S maiuscola, credono che il ruolo più importante della scienza sia quello di abituarci ad un «pensiero razionale», e di incoraggiare lo «scetticismo» e la libera investigazione; l’assalto all’evoluzione sarebbe un assalto alla scienza, ma anche alla «libertà politica». Proseguono le tesi degli evoluzionisti che «il creazionismo scientifico è unattacco intollerabile all’istruzione non solo perché è l’antitesi della ragione ma perché si oppone al fondamento stesso della vera istruzione: l’onestà intellettuale. Dove vadano a pescare questi piccoli borghesi la «onestà intellettuale» non si sa bene né cosa sia in un mondo pieno di menzogne quale è il capitalismo. Devono ammettere che: «i risultati che la ragione ha conseguito, li ha conseguiti contro la opposizione dell’autorità e della tradizione; se avesse avuto la meglio l’autorità, non conosceremmo ancora ciò che Galileo vide con il suo cannocchiale», ma la ragione viene presa come un Assoluto e come tale messa al centro dell’universo.
«La questione più importante, quindi, è
semplicemente
se l’istruzione preparerà la gente ad usare la testa o a seguire
senza discutere una dottrina impostale dalla società. Se si
debba
insegnare la teoria dell’evoluzione o della creazione è solo un
aspetto particolare di questo problema più generale; e in ultima
analisi questo problema più generale è un problema
politico».
Insomma: chi è per il creazionismo è per
l’Autorità,
è a favore della Nuova Destra, che è poi uguale a quella
vecchia; oppure, chi si schiera per l’evoluzionismo, si schiera a
fianco
della Democrazia e a favore della Scienza e della Ragione.
3. Marxismo
Noi marxisti evoluzionisti dialettici non possiamo vedere la scienza slegata dalla società che l’ha partorita, quindi troveremo riflesse nel suo interno tutte le contraddizioni del modo di produzione sociale.
Il dilemma-bagarre – creazionismo o «evoluzionismo» – non ci riguarda, le tesi degli uni possono benissimo convivere con le tesi degli altri; tutte e due hanno come finalità la conservazione del potere della classe dominante. Lo stesso dualismo è posto in politica – fascismo o democrazia –: noi non siamo né per l’uno né per l’altra; in nessuno dei due schieramenti è più scienza. L’unica, ultima, scienza oggi è nella marcia in avanti della rivoluzione, nel Comunismo. Abbiamo anche scritto – e per i riformisti e i resistenziali è un grosso scandalo – che tra democrazia e fascismo non esiste antitesi politica, il volto del fascismo è l’altra faccia di una stessa medaglia, della dominazione della classe borghese; il fascismo ne è la rappresentazione pura.
Notiamo solo che se l’«evoluzionismo» è l’«esaltazione illuministica» della scienza borghese, il creazionismo rispecchia oggi meglio il dominio che la borghesia esercita nel campo scientifico, un dominio non più mistificato dal valore della Scienza come «essenza capace di orientarsi» verso il traguardo del benessere sociale.
La realtà è che la «scienza» borghese nemmeno è riuscita a sfamare l’umanità.
Solo nel comunismo avremo scienza non di classe, al servizio della specie, e solo allora si svilupperà nella direzione che meglio può servire all’umanità e non saprà cosa farsi, se non per distruggerla pezzo a pezzo, della superstiziosa, preistorica e preumana «scienza» borghese.
«La scienza oggi è la marcia in avanti della rivoluzione; è la scienza di classe del proletariato, la teoria e la prassi rivoluzionaria, la dottrina storica e l’esperienza delle lotte del proletariato; è l’organizzazione del proletariato in classe rivoluzionaria; in una parola, la scienza umana oggi è il Partito. Solo il Partito di classe del proletariato rappresenta, difende e mette in azione la sola scienza che conti, e che ingloba tutte le altre» (Da "Marxismo e scienza borghese", Il Programma Comunista, nn. 21 e 22 del 1968).