Partito Comunista Internazionale Indice La Teoria marxista della Conoscenza

 
Su "Il Caso e la Necessità"
Come il signor Monod distrugge la dialettica
("Programme Communiste", n.58, 1973)


    Introduzione
  I.  Filosofia soprannaturale di un biologo molecolare
      I.1.  Cosa dice la biologia molecolare
      I.2.  Creazione soprannaturale della cellula ideologica
      I.3.  Creazione soprannaturale degli organismi ideologici
      I.4.  La metafisica dell’evoluzione
      I.5.  Caso, Necessità, Probabilità
      I.6.  Engels e il 2° principio della termodinamica
      I.7.  La Cittadella Scientifica Universale
  II. I criteri distintivi umani e il ruolo avuto dal lavoro
      nel processo di trasformazione della scimmia in uomo
      II.1. La nozione di antropomorfismo è legata a quella di tecnicità
      II.2. La corteccia media e la sua evoluzione
      II.3. L’evoluzione tecnica degli Antropiani
    Conclusione

 
 
 
 
 

Introduzione
 

Accade alle ideologie, come a tutte le produzioni umane, di percorrere nel loro ciclo la parabola: nascita, sviluppo, senescenza.

Vi fu un tempo in cui la coscienza teorica poté illudersi di essersi affrancata dai limiti ad essa imposti dalla Storia. La filosofia aveva perso il suo grigiore perché in tutte le sue manifestazioni la vita rifioriva: la borghesia rivoluzionaria, giacobina in politica e materialista nelle idee, poteva allora attribuire un significato universale e permanente alla sua ideologia di classe storicamente effimera. Felice epoca quella in cui una classe inebriata dai suoi successi teorici, politici e militari poteva fantasticare di essere sfuggita alle maglie di ferro del proprio tempo! La Ragione aveva fatto giustizia dei pregiudizi oscurantisti della scolastica medievale e delle favole del pretume di campagna; la rivoluzione democratica aveva spazzato via le illusioni religiose e i fantasmi della vecchia demonologia insieme alle barriere feudali, ai tributi e alle corporazioni, sgombrando il campo allo sviluppo della scienza, della manifattura e della grande industria, della libera concorrenza e della democrazia. Si apriva un’era di progresso generale, scolpita sui frontoni del nuovo ordine sociale, e simbolizzata dalla fiera insegna repubblicana sigillante la nuova arca dell’alleanza.

Ma, ahimè, il risveglio fu brusco e repentino! La Storia si incaricò di riportare alla ragione questa borghesia che, nel suo esuberante trionfalismo, aveva scambiato i propri pregiudizi di classe per principi atemporali; in realtà, la sua vittoria era offuscata dalla comparsa di un’altra classe, che proiettava su di essa la sua ombra, e che era destinata ad essere la sua antagonista e la sua affossatrice. Per scongiurare i nuovi pericoli che per i suoi limiti di classe si portava dietro fin dalla nascita, la borghesia si mise anch’essa a fantasticare e, per meglio esorcizzare le sue paure, si rifugiò nelle superstizioni del passato.

Nella sua fase rivoluzionaria, la sua filosofia della natura era fondata su basi materialiste e deterministe. Già dal XVII secolo, l’inglese Locke aveva mostrato che le idee nascono dai nostri contatti col mondo esterno, mentre Toland riprendeva la vecchia tesi di Democrito. In Francia, la Mettrie batteva la strada aperta dal materialista Gassendi e definiva l’uomo una macchina perfezionata, senza bisogno di tirare in ballo alcuna forza trascendente (anima, spirito o coscienza), dal momento che giudicava «il pensiero tanto poco incompatibile con la materia organizzata che sembrava esserne una proprietà». Questa corrente sfociò nei sistemi di Helvetius e di d’Holbach che, ripudiando i surrogati religiosi dell’innatismo, dimostrarono che la conoscenza è il risultato dei nostri rapporti col mondo esterno e non ne costituisce che il riflesso sotto forma di idee: alla nascita l’uomo non possiede che la facoltà di sentire, la quale sta alla base dello sviluppo successivo di tutte le sue facoltà intellettuali. Essi misero altresì in evidenza il ruolo giocato dall’educazione e dall’ambiente sulla formazione del carattere e della personalità.

Quanto alla filosofia sociale, la borghesia, al principio divino, garante dell’ordine feudale e della stabilità della divisione in tre stati, sostituì il Principio Democratico, fondato su di una antropologia che voleva leggi uguali per uomini uguali in diritto, e che ben esprimeva il proprio dominio di classe basato sulla libera concorrenza e sul rapporto di compravendita della forza lavoro. Questo principio in realtà mascherava i reali antagonismi che la nascente opposizione del quarto stato con la sua pretesa di formulare rivendicazioni proprie poneva sul tappeto. Nella sua fase rivoluzionaria, la borghesia aveva dunque un’ideologia dualista: materialista in quanto lo sviluppo delle forze produttive implicava il postulato di oggettività inerente alla conoscenza scientifica; idealista in quanto di fronte ad essa si ergeva già una nuova classe rivoluzionaria, il proletariato.

La fine del ciclo delle rivoluzioni democratiche borghesi nell’area europea si accompagna con la stabilizzazione dei rapporti capitalistici di produzione. E mentre nella sua fase antifeudale la borghesia aveva propugnato una concezione del mondo essenzialmente materialista, nel suo attuale periodo di imperialismo reazionario il rapporto si è rovesciato. Posta davanti alla necessità storica della propria sparizione, essa tenta di esorcizzarla negando il determinismo, non solo nelle dottrine sociali, ma fin nella sua concezione della materia e della vita. Resistere al proletariato, questo il suo solo programma, il principio fondamentale di tutta la sua ideologia; conservare il suo potere politico, questo è ormai per essa il problema essenziale. Ecco il segreto del suo formidabile rinculo teorico. Il ciclo dell’ideologia borghese è finalmente chiuso. Al termine della parabola essa si ricollega alle sue origini, al vecchio idealismo comune a tutti gli ordini sociali sempre alla ricerca di una stabilità impossibile e illusoria. Le sue categorie portano i nomi di contingenza, libertà, epistemologia critica, Umanità.... Poveri e derisori testimoni di una classe senza via di scampo, incapace di padroneggiare le forze produttive da essa stessa messe in moto e impotente a comprendere il senso della Storia che globalmente le sfugge di mano!

In questa ottica vanno intesi gli attacchi portati contro il materialismo dialettico da J. Monod, premio Nobel per la medicina, nel suo saggio "Il Caso e la Necessità".

Questo museo degli orrori dello scientismo borghese presenta un duplice interesse. Prima di tutto rivela crudamente la triste situazione in cui versano le scienze della natura (in special modo la biochimica) imbrigliate dalla metafisica che in esse si infiltra da tutti i pori, le decompone e le spinge verso catastrofi teoriche inaudite. La teoria dell’evoluzione può così diventare tranquillamente il regno dell’onnipotente «caso», proprio mentre da tutte le direzioni ci ossessionano con la trasmissione invariante di un preteso «codice»(1) genetico, perché si dimentica la verità elementare: è solo nelle condizioni sperimentali artificiali di laboratorio che le specie esistono in sé, come artefatti, come formule esaustive, come «mostri». Per contro, esse vanno studiate nel loro ambiente naturale, ove non costituiscono che uno dei poli della relazione che le collega al loro biotopo in un continuum dialettico in cui reagiscono reciprocamente, trasformandosi ed evolvendosi. È desolante dover ribadire cose tanto evidenti, che sono alla portata di un bambino di dieci anni, ma diventate misteriose per degli «scienziati» di categorie metafisiche e invischiati nelle insolubili contraddizioni dell’idealismo del loro ambiente sociale.

Il secondo motivo di interesse del saggio è dato dal fatto che esso ci permetterà di riscoprire un testo sempre nuovo, anche se vecchio di un secolo, e che in questa corte dei miracoli idealista sarà per noi un bagno di giovinezza teorica. Esso, affrontando i meccanismi dell’evoluzione umana, dimostra che il lavoro è il fattore materiale della trasformazione e del passaggio dalla «scimmia» all’uomo. Con questo, il patriarca del comunismo rivoluzionario, Federico Engels, si pone ben al di sopra delle «rozze» novità della «scienza» borghese.

Ma prima conviene fare la conoscenza del nostro Don Chisciotte della biologia molecolare e soffermarci sulla critica che egli muove al marxismo, critica che rivelando una grossolana incomprensione – non importa se reale o voluta – si riduce in sostanza a tre accuse.

1 - Aver abbandonato il postulato di oggettività (!) con la pretesa di voler applicare la dialettica ai fenomeni della natura, e finendo così col «proiettare nella natura inanimata la coscienza che l’uomo ha del funzionamento intensamente teleonomico (ossia finalista, n.d.r.) del proprio sistema nervoso centrale». Come si vede, il nostro fanfarone non ha capito che Marx ha una volta per tutte rimesso sui piedi quell’Hegel di cui Monod deride «l’enorme e pesante monumento» con la sufficienza risibile dell’«uomo di scienza» borghese.

Per noi, ineleganti realisti, la conoscenza è dottrina della realtà, di tutti i fenomeni naturali e sociali senza alcuna «aggiunta estranea». Se il nostro metodo è dialettico, questo non deriva per nulla dal fatto che noi cercheremmo, come Monod rinfaccia ad Engels (!), di scoprire nella natura «un progetto ascendente, costruttivo, creatore (allo scopo) di renderla finalmente decifrabile (?) e moralmente significante (?!)», ma deriva dal fatto incontestabile che la legge della materia e della vita è il divenire, che il divenire è nelle cose come nel pensiero: dialettica.

Citiamo qui un testo di partito che non lascia a questo proposito alcun dubbio: «La dialettica per noi in tanto è valida in quanto l’applicazione delle sue regole non viene contraddetta dal controllo sperimentale. Il suo impiego è certamente necessario, poiché dobbiamo pure trattare i risultati di ogni scienza con lo strumento del nostro linguaggio e del nostro ragionamento (sussidiato dal calcolo matematico: anche le scienze matematiche però per noi non si basano su pure proprietà del pensiero, ma su proprietà reali delle cose). La dialettica, cioè, è uno strumento di esposizione e di elaborazione, nonché di polemica e di didattica, essa serve alla difesa contro gli errori ingenerati dai metodi tradizionalisti del ragionamento (corsivo nostro) e per raggiungere il risultato, assai difficile, di non introdurre incoscientemente nello studio delle questioni dati arbitrari basati su preconcetti. Ma la dialettica è a sua volta un riflesso della realtà e non può pretendere per sé stessa di obbligarla o di generarla. La dialettica pura non ci rivelerà mai nulla di per sé stessa, tuttavia ha un enorme vantaggio rispetto al metodo metafisico perché è dinamica, mentre quello è statico... In conclusione la dialettica ci serve, sia (come dice Marx nella prefazione a "Il Capitale") per esporre quanto la ricerca analitica ha assodato, sia per distruggere l’ostacolo delle forme teoretiche tradizionali (c. n.). La dialettica di Marx è la più potente forza di distruzione. I filosofi si affannavano a costruire sistemi. I rivoluzionari dialettici distruggono con la forza le forme consolidate, che vogliono sbarrare la via all’avvenire. La dialettica è l’arma per spezzare le barriere, rotte le quali è rotto l’incanto della eterna immutabilità delle forme del pensiero, che si svelano come incessantemente mutevoli, si plasmano sul mutamento rivoluzionario delle forme(2).

2 - Essersi accanito a ripudiare ogni forma di epistemologia critica di tipo kantiano, e questo da Marx fino a... Zdanov. Pare di sognare! Passiamo sopra a Zdanov, immortale teorico del «realismo socialista» e ad altre simili trovate: non si può pretendere da un biologo piccolo-borghese che capisca la differenza tra uno dei padri del comunismo e un pallido falsificatore o innovatore stalinista al soldo dello Stato popolare panrusso; ma quello che non si può passare sotto silenzio è l’attacco circa il ripudio dell’epistemologia critica.

Da alcuni anni, un nuovo virus ha colpito quell’inverosimile provincia teorica che è la Parigi letteraria: l’epistemologia sta al "pensiero" come l’inquinamento sta alla vita quotidiana: una moda, una preoccupazione mondana. Si deve al serissimo Althusser questa inopinata infatuazione per una corrente intellettuale che altro non è se non la versione modernizzata di un kantismo mal digerito. Secondo questo ideologo del P.C.F., la "filosofia marxista" dovrebbe mettersi al servizio (com’è cavalleresco!) delle scienze "oggettive" e soprattutto "neutre", ossia librate al di sopra delle classi, allo scopo di difenderle dagli attentati dell’ideologia e quindi favorirne lo sviluppo. Per questo castratore del marxismo, col quale abbiamo regolato i conti a suo tempo(3), il materialismo dialettico diviene la teoria dei modi di produzione... delle conoscenze, un criticismo imbastardito delle scienze borghesi infeudate al capitale. Noi mostriamo, al contrario, che se le scienze non sono altro che ricette miranti al massimo di redditibilità, se il loro sviluppo è incerto, ristagna o addirittura rincula, se intere branche della ricerca non corrispondono ad alcuno dei bisogni reali dell’umanità, se anzi quelle che risponderebbero a questi bisogni non possono svilupparsi, la causa non è tanto «ideologica» quanto sociale, dal momento che la scelta degli oggetti e degli obiettivi della scienza riveste, più ancora delle sue costruzioni, un carattere di classe. Solo la rivoluzione libererà la «scienza», insieme a tutte le altre attività sociali dell’umanità.

3 - Di essere impotente, in ragione dei suoi a priori filosofici, a comprendere qualsiasi teoria scientifica, in questo caso quella... «del genio, come determinante ereditaria (sic!) invariante nel corso delle generazioni e persino delle ibridazioni». Su questo punto ritorneremo più avanti. Per ora ci limitiamo a notare che la citazione sul metodo dialettico riportata più sopra basta a far giustizia di questa accusa, che vale tutt’al più contro lo stalinismo (peccato di gioventù di Monod!) di cui dicevamo nello stesso testo che «legato al conformismo di posizioni costituite, manca delle possibilità di continuare questa lotta (della dialettica contro la metafisica, n.d.r.) anche nel settore scientifico».

Come si vede, il «critico» è assai severo: il materialismo dialettico altro non è ai suoi occhi che un «animismo», un saggio di «sistemazione soggettiva della natura», e come tale un puro coacervo di «confusione», «nonsenso», «assurdità», e così via.. Sembra di sentire Duhring, già zittito da Engels nel secolo scorso. Ma non buttiamoci giù: come insegnava Lenin nella sua polemica d’inizio secolo contro gli empirio-criticisti Mach, Avenarius, Bogdanov e soci: «È impossibile non discernere dietro la scolastica gnoseologica dell’empiriocriticismo la lotta dei partiti in filosofia, lotta che traduce in ultima analisi le tendenze e l’ideologia delle classi nemiche della società contemporanea. La filosofia moderna è altrettanto impregnata dello spirito di partito quanto quella di duemila anni fa».

La citazione calza a pennello al preteso «materialismo meccanicista» di cui Monod tanto mena vanto, ai suoi vani sforzi per mettere a terra la dialettica, nonché alla sua metafisica del caso, che ci tocca ora prendere di petto, continuando contro l’ideologia borghese una secolare lotta di partito.
 
 
 
 

I. Filosofia soprannaturale di un biologo molecolare
 
 

«Oggi che basta interpretare in modo dialettico, cioè secondo il loro nesso, i risultati dello studio della natura..., la filosofia della natura è morta per sempre. Ogni tentativo di resuscitarla non sarebbe solo superfluo, sarebbe un regresso».

Questo celebre giudizio di Engels tratto dal suo "Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca" trova clamorosa conferma ne "Il Caso e la Necessità", opera militante borghese che, con la pretesa di rifiutare il materialismo dialettico è semplicemente scivolata sotto il livello della stessa scienza borghese.

Spogliati dall’involucro ideologico nel quale Monod li racchiude e li dissimula, i risultati in questione, ottenuti grazie all’uso di microscopi elettronici «capaci di ingrandimenti fino a 500 mila volte e di svelare strutture ultramicroscopiche della grandezza di 1 millimicron» (il micron è un millesimo di millimetro), possono così riassumersi:

«1) a dispetto delle sue dimensioni infinitesime, la cellula mostra una straordinaria complessità che supera di gran lunga quella dei calcolatori più moderni e 2) l’organizzazione cellulare è caratterizzata dal dualismo acidi nucleici-proteine, dualismo che corrisponde approssimativamente (corsivo nostro) alla coppia nucleo-citoplasma»(4).

Se, come diceva Lenin, «la giustezza della dialettica dev’essere verificata dalla storia delle scienze», il nostro materialismo dialettico nulla ha da temere dai microscopi elettronici. Non si potrebbe avere conferma più clamorosa della geniale anticipazione di Eraclito che lo stesso Lenin così formulava: «Lo sdoppiamento dell’uno e la conoscenza delle sue parti contraddittorie è l’essenza (una delle essenzialità, una delle note caratteristiche o peculiarità fondamentali, se non la fondamentale, della dialettica»(5).

Per costruire la sua «filosofia naturale», Monod usa tre procedimenti: in primo luogo, egli forza il significato oggettivo dei fatti osservati nel suo settore particolare; in secondo luogo, egli pretende di spiegare tutti i fenomeni complessi dell’evoluzione sulla base dei soli «principi» della biologia molecolare che, va sottolineato, non sono soltanto fatti parziali stabiliti in un campo particolare di quel vasto insieme che è la scienza biologica, ma sono fatti snaturati dall’ideologia; in terzo luogo, sostituendo la metafisica pre-hegeliana alla dialettica razionale, egli, dalla banale constatazione empirica che accanto a fenomeni regolari spiegati dalla scienza esistono fatti fortuiti (o semplicemente nuovi) assai più difficili da spiegare, trae la conclusione idealistica che è il Caso a reggere l’intero Universo, in cui lo spirito dell’uomo introduce arbitrariamente un ordine e una necessità, nonché la conclusione nichilista che, a guardare le cose da vicino, tutta la biosfera e il suo risultato ultimo, l’uomo pensante, avrebbero anche potuto non esistere! Detto fatto, il Professore, neanche fosse Dio, abolisce con la sola forza del pensiero se non proprio l’Universo, almeno la storia reale degli ultimi tre miliardi di anni che, a partire dai primi organismi monocellulari, molto più semplici ancora dei batteri del suo laboratorio, ha condotto all’«uomo sapiente», cioè a un mondo nuovo, quello della società. In questo perfetto pedante la società borghese riconosce una delle sue vette intellettuali!
 
 

I.1. Cosa dice la biologia molecolare
 

«Il nucleo, grazie ai geni dei suoi cromosomi, dirige le sintesi specifiche e l’ereditarietà; il citoplasma, con le sue proteine di struttura e le sue proteine-enzimi, è la sede delle attività funzionali e di sintesi. Il citoplasma riceve gli ordini dal nucleo, ed entrambi formano una coppia indissolubile pena la morte»(6).

Dunque, coppia dialettica indissolubile di due «contrari» definiti da funzioni differenti: il nostro materialismo non ha alcuna critica da muovere.

 Proseguiamo: «Come si compie la trasmissione degli ordini per quel che concerne l’elaborazione delle proteine?... Si tratta di fatto di una trasmissione codificata che è registrata da un elemento fisso su un elemento mobile che va a fissarsi nel punto in cui devono attuarsi gli ordini; questi elementi sono delle macro-molecole di acidi nucleici e sono di due specie: il DNA che interessa i geni del nucleo e l’RNA che si trova più comunemente nel citoplasma».

Criticando la mania degli scienziati di identificare il movimento («che è modificazione in generale») col cambiamento di luogo, cioè col movimento meccanico, Engels notava: «Con ciò non si intende dire che ogni forma superiore di movimento non possa sempre essere connessa necessariamente con un effettivo movimento meccanico (esterno o molecolare); proprio così come le forme superiori di movimento ne producono contemporaneamente anche delle altre: non è possibile... vita organica senza modificazioni meccaniche, molecolari, chimiche, termiche, elettriche ecc. Ma la presenza di queste forme collaterali non esaurisce l’essenza della forma principale in questione. Noi ridurremo certamente un giorno il pensiero, sperimentalmente, a movimenti molecolari e chimici nel cervello; ma sarà con ciò esaurita l’essenza del pensiero? ("Dialettica della natura", Movimento meccanico).

Il movimento meccanico di cui si parla qui sopra, anche se non necessariamente inadeguato, non può comunque «esaurire» la cito-fisiologia che, a detta dei biologi, pone «problemi estremamente difficili»: quanto a Monod, sarà meccanicista per principio!

«L’informazione inscritta su schede perforate (il DNA dei geni) è portata da copie di queste schede (l’RNA messaggero) a macchine semiautomatiche programmate (i ribosomi) che assemblano le proteine della specie; queste macchine sono alimentate in parti distaccate (gli aminoacidi) dal RNA messaggero».

Si cade qui nel simbolismo «informatico» e in una fantasticheria da cartoni animati. Le descrizioni non possono essere più evolute della scienza che le formula! Ancora:

«I prodotti manifatturati dalla cellula controllano essi stessi la loro fabbricazione...: all’occorrenza, l’agente operatore che scatena la sintesi proteica è bloccato da un agente repressore. L’operatore è un gene specifico, mentre il repressore una proteina specifica sintetizzata da un gene regolatore. Quest’ultimo ha una controreazione, il primo una reazione positiva... La reazione positiva ha per effetto di accelerare costantemente il movimento, mentre la controreazione costituisce il fenomeno inverso».

Su questo ritorneremo. Infine: «Un altro aspetto del potere auto costruente del vivente è la duplicazione. Al momento della mitosi (divisione cellulare del batterio) la cellula-madre lega a ciascuna delle due cellule-figlie un duplicato del suo corredo genetico nucleare (il DNA); la cellula-figlia è l’esatta copia dell’elemento primitivo: ecco l’autoriproduzione, base dell’ereditarietà».

E questo è tutto.
 
 

I.2. Creazione soprannaturale della cellula ideologica
 

Da tutto questo, il glorioso prof. Monod trae tre conclusioni:

1 - «Il meccanismo della traduzione (dell’informazione inscritta nel DNA, n.d.r.) è assolutamente irreversibile. Non si è mai osservato, e d’altronde non sarebbe concepibile, un trasferimento di informazione in senso inverso, dalla proteina al DNA. Questa nozione si basa su una serie di osservazioni oggi così complete e sicure e (corsivo nostro) con conseguenze così rilevanti soprattutto sulla teoria dell’evoluzione che essa si deve considerare uno dei principi fondamentali della biologia moderna... Non si può concepire alcun meccanismo in grado di trasmette al DNA una qualsiasi istruzione o informazione. Tutto il sistema è quindi interamente e profondamente (7) conservatore, chiuso su sé stesso, e assolutamente incapace di ricevere un’istruzione qualsiasi dal mondo esterno».

2 - «Questo sistema che stabilisce relazioni a senso unico tra DNA e proteina come pure tra organismo e ambiente, sfida qualunque descrizione dialettica. È un sistema fondamentalmente cartesiano e non hegeliano: la cellula in fondo è una macchina».

3 - «Sembrerebbe dunque che, in virtù della sua struttura, questo sistema debba opporsi a... ogni evoluzione. Non v’è alcun dubbio che sia così, e questo fatto rappresenta la spiegazione di un fenomeno in realtà ben più paradossale dell’evoluzione stessa, cioè la prodigiosa stabilità di alcune specie che hanno saputo riprodursi senza modificazioni apprezzabili per centinaia di milioni di anni» (corsivi nostri) (8).

Chi è quell’imbecille che una volta disse: «La forma di sviluppo della scienza della natura, nella misura in cui pensa, è l’ipotesi?» Noi avremmo cambiato tutto ciò, noi arditi pionieri dei viaggi intermolecolari! Al contrario, noi affermiamo che, proprio nella misura in cui pensa, la scienza della natura si guarda bene dal perdersi in vane supposizioni, ma avanza arditamente a colpi di affermazioni perentorie! Tenetevi forte: «Il dovere che si impone, oggi più che mai, agli uomini di scienza è quello di pensare la loro disciplina nel quadro generale della cultura moderna per arricchirlo... di quelle idee... che essi ritengano umanamente significative» (dalla prefazione a "Il Caso e la Necessità"). Per amore della cultura moderna, dunque, Monod non esita un istante a riabilitare Cartesio, morto nel 1650 e a seppellire, a titolo postumo, Hegel morto nel 1831. Poi soddisfatto del dovere compiuto, ci lascia chiaramente intendere che la commovente invarianza del limulo marino, quest’eroe fra «alcuni« altri della Non-Evoluzione (9), gli sembra ben altrimenti significativo, umanamente parlando, e in ogni caso assai più paradossale di tutta quella cosiddetta «ortogenesi» che da Lamarck (1809) e Darwin (1859) in poi ci hanno propinato a non finire.

Non serve alcun microscopio elettronico per seguire il meccanismo della costruzione ideologica. Quando Monod, sfidando eroicamente il ridicolo, afferma che le relazioni «tra organismo e ambiente sono a senso unico» viene smentito dalla stessa ingenua descrizione che la macro-cibernetica fornisce del processo. Quando la proteina-repressore blocca la sintesi ordinata dal gene operatore, essa non lo fa né per «caso» né in funzione del suo «libero arbitrio». Jacob ci dice che questo fenomeno di «repressione» o di «blocco» è la risposta della colonia di batteri a determinati cambiamenti della composizione del liquido di soluzione che costituisce il suo ambiente. Questa «controreazione» raffigura proprio, anche se in forma caricaturalmente rigida, quella relazione dialettica tra organismo e ambiente di cui Monod non ne vuol sapere, ma senza la quale la vita sarebbe inconcepibile. Il «principio» della cellula batterica (che si ritroverà beninteso sotto altra forma negli organismi complessi) è il centralismo organico, non l’anarchia. Ma la cellula non è una macchina. Essa sfida la descrizione cartesiana che Monod ne dà, e di cui la biologia molecolare in generale non è responsabile. Prima alterazione ideologica.

Se si passa ora alla questione ben più delicata del rapporto nucleo-citoplasma o DNA-proteina, appare stravagante l’affermazione che non v’è «alcun dubbio» che in virtù della sua struttura «il sistema deve opporsi a... ogni evoluzione», laddove se c’è una cosa fuor di ogni dubbio questa è proprio l’evoluzione, con il pretesto che l’osservazione di batteri con tre miliardi di anni di evoluzione alle spalle non consentirebbe agli scienziati moderni di «concepire» come «un’informazione qualsiasi» possa passare dalla proteina al DNA! Seconda alterazione ideologica.

Se lo scopo è quello di spiegare scientificamente la stabilità relativa evidente delle specie nel corso di milioni di anni, l’affermazione che tra organismo e ambiente «la relazione è a senso unico» manca completamente il bersaglio.

Se invece si tratta di verificare sperimentalmente la teoria della non-ereditarietà delle somazioni (10), affermare che il nucleo è «totalmente conservatore», mentre invece è ben noto che in esso avvengono mutazioni, significa andare ben oltre lo scopo. In entrambi i casi, l’unico risultato è quello di ridicolizzarsi inutilmente. In realtà, questi eccessi provano che non è di questo che si tratta. Se Monod «accresce l’informazione», cioè, volgarmente, altera i già magri dati scientifici, è perché le sue mire sono ideologiche.

Poco importa a quest’«uomo di scienza» che le «osservazioni» non possono essere per definizione né «complete» né «sicure» per l’eccellente ragione che la biologia molecolare data da vent’anni mentre l’evoluzione da... tre miliardi di anni, sicché non esiste neanche lontanamente la possibilità di osservare al prestigioso microscopio anche un solo batterio il cui «codice» genetico non sia stato «corretto» nel corso di un numero astronomico di divisioni cellulari! Poco importa! La nozione dell’irreversibilità della trasmissione di «informazioni» dal DNA alla proteina non è comunque in dubbio: «Le sue conseguenze sono così rilevanti soprattutto per la teoria dell’evoluzione che essa si deve considerare uno dei principi fondamentali della biologia moderna». Perché trattare così sfrontatamente l’esperienza e la teoria scientifica? Perché l’importante è fare i conti una volta per tutte con la teoria dell’evoluzione. Soprattutto. Una nozione così indispensabile al professor Monod per condurre in porto un’impresa tanto audace non può che essere un pilastro della scienza. Oramai, tutti i biologi senza eccezione dovranno comportarsi di conseguenza. Il professore ci propina tutto quanto con il minimo di parole indispensabili. Che densità ideologica!

Di fronte a questa sfida inaudita dell’Anti-Stalin della molecola, come hanno reagito i paleontologi, gli embriologi, gli antropologi, in breve quanti per mestiere avevano potuto fregiarsi finora di speciali diritti sulla teoria dell’evoluzione? Praticando la democrazia degli spiriti, hanno scritto un saggio per difendere il determinismo e una prefazione (11) per proclamare la nullità della Scienza e il proprio personale fallimento in materia... di evoluzione. Mai bilancio così disastroso fu stilato tanto serenamente. Quindi hanno intitolato il tutto «L’Anti-Caos». Con questo genere di difensori, il principio di oggettività non ha, come si vede, nulla da temere dai diktat della biologia molecolare, dalla Scienza della speculazione filosofica, dal determinismo del Caso o dalla democrazia pedante dell’anticomunismo di Monod.

Prima conclusione: Il Professore ha condotto in porto il suo primo tentativo ideologico. È riuscito a trasformare prima la cellula vivente in cellula-macchina, poi in pura idea di cellula, in monade fuori da ogni comprensione profana. Risalendo il corso della Storia, è insomma ritornato alla fonte, alla speculazione greca, agli atomi di Epicuro. Nessuno è quindi più qualificato di lui per spiegarci scientificamente l’Evoluzione biologica, «dal momento che la Scienza stessa proclama la sua bancarotta».
 
 

I.3. Creazione soprannaturale degli organismi ideologici
 

Sulla base della cellula ideologica sarà un gioco da ragazzi procedere alla creazione di organismi ideologici interi. Basterà fare astrazione da tutti quei dettagli empirici complicati e oziosi che rischiano solo di alterare lo schema puro del centralismo autarchico del DNA. «La scienza è l’analisi», che diamine! (12).

Quando i comuni (13) scienziati vogliono dare una definizione in generale degli organismi viventi, cosa dicono?

«Gli esseri organizzati: - vivono assimilando materia esterna, fornitrice di energia (auto-conservazione); - generano altri organismi che perpetuano la specie (riproduzione); - controllano e sincronizzano in permanenza la loro attività (auto-regolazione); - mutano nel corso degli anni (evoluzione)» (da "L’evoluzione biologica o l’Anti-Caos", Le basi biologiche dell’evoluzione).

Nella filosofia di Monod niente potrebbe essere così naturale. C’è in ballo nientemeno che la programmazione di un calcolatore per conto della NASA marziana (Monod ha tradito la sua vera vocazione) in modo che non vengano ficcati nella stessa classe di oggetti un cavallo e un’automobile, un’ape e un cristallo di quarzo: punto di partenza eminentemente biologico!

Tre proprietà basteranno: morfogenesi autonoma - teleonomia - invarianza riproduttiva. Questa la Santa Trinità degli organismi ideologici (14).

La morfogenesi autonoma: consiste nel «carattere autonomo e spontaneo dei processi che costruiscono la struttura macroscopica degli esseri viventi». Un processo «autonomo» non obbedisce soltanto a leggi proprie: è indipendente da ogni altra realtà. Applicando questo concetto all’autocostruzione degli esseri viventi (15), la biosfera sarebbe completamente sottratta alle leggi del resto della natura. Seguiamo l’edificante ragionamento con cui il nostro ideologo pretende di provare una tale straordinaria affermazione.

Del tutto semplicemente, egli comincia con l’opporre «la maggior parte degli oggetti naturali la cui morfologia macroscopica è dovuta in larga parte all’azione di agenti esterni» agli esseri viventi, la cui «struttura non deve praticamente nulla all’azione delle forze esterne, mentre deve tutto (!), dalla forma generale fino al minimo particolare, a interazioni morfo-genetiche interne all’oggetto medesimo». Qui Monod supera sé stesso! A proposito degli oggetti naturali, egli ci fa notare scrupolosamente che la loro morfologia è dovuta soltanto in larga parte all’azione di agenti esterni: se, per seguirlo, noi proviamo a pensare per esempio che alcuni agenti erosivi (come la pioggia e il gelo, le onde del mare, le miriadi di granelli di sabbia sollevati dal vento del deserto) modellano le stesse forme in rocce molto diverse come il granito e il calcare, che responsabilità la sua! Senza nemmeno rendersene conto ci spinge a considerare il rilievo di una roccia come il risultato... dialettico dovuto in parte alla sua struttura e in parte agli agenti erosivi che agiscono su di essa in funzione della sua situazione geografica. È pur vero che, per quanto inerti e passive, le rocce si trovano in un rapporto dialettico (16) con gli agenti erosivi, mentre sono perfettamente «autonome» rispetto alla estinzione delle specie e al crollo degli imperi da cui non sono assolutamente toccate.

Rispetto agli esseri viventi, al contrario, il nostro singolare biologo dimostra una sfacciataggine che sconfina nell’impudenza. (Ciò ci rafforza nella convinzione che la sua «filosofia naturale» è il degno prodotto della collaborazione immaginaria di un Terrestre ossessionato dalla cibernetica con un «Marziano digiuno di biologia», come lui stesso ha ipotizzato). E l’influenza delle forze esterne sulla loro struttura? «Praticamente nulla». E quella delle forze interne? Ad essa è dovuto «tutto». Insomma attribuendo un 2% alla prima, resta un... 100% per la seconda. Avendo così dato alla logica, all’aritmetica e al pubblico l’assicurazione del suo più profondo disprezzo, Monod conclude: «Un determinismo interno, autonomo, assicura la formazione delle strutture estremamente complesse degli esseri viventi». Perché questo «determinismo» è «autonomo»? Ma perché è «interno», perbacco! Bastava pensarci un attimo. Disgraziatamente per il nostro metafisico, se (per riprendere il suo gergo, sola espressione adeguata del suo pensiero) «il determinismo che assicura la formazione delle strutture infinitamente meno complesse della maggior parte degli oggetti naturali» non è affatto autonomo, come del resto egli stesso ammette («in larga parte»), il motivo non va cercato nel fatto che esso è «esterno», ma nel fatto che tra questi «oggetti» e le forze esterne che agiscono su di essi esiste un rapporto dialettico.

Monod non poteva peraltro «provare» l’autonomia della morfogenesi se non nel capitolo che precede quello sulla cellula, di cui essa costituisce naturalmente una conseguenza logica. Per contro, è riuscito in un’impresa sbalorditiva: aborrendo l’idea marxista che la realtà nel suo complesso è dialettica, egli ha ammesso di fatto che seppure totalmente passivi, seppure destinati senza difesa a una lenta ma inesorabile degradazione, gli «esseri» del mondo minerale sono soggetti a loro volta a questa dialettica. Ma ha escluso teoricamente una simile eventualità per gli esseri viventi, i quali peraltro si trasformano con l’ambiente ed evolvono pena la morte! Paradosso perfettamente spiegabile. Il nostro grande filosofo si fa questo piccolo ragionamento: gli esseri viventi sono attivi e in grado di riprodurre ad ogni generazione il genotipo in un nuovo essere: sono cioè meno dipendenti dalle forze distruttive della natura di quanto non lo siano i non-viventi. Da buon metafisico ne deduce immediatamente che è «l’autonomia» a distinguere gli esseri viventi dagli esseri inanimati. Non può evidentemente entrare in testa a questi dinosauri dell’evoluzione del pensiero umano che sono i non-dialettici che «autonomia» e «dipendenza» non sono affatto dei contrari assoluti, che più un essere è «autonomo» per un verso, più dev’essere «dipendente» per un altro verso. Verificandosi una profonda modificazione del clima e quindi della flora e della fauna, chi avrà più probabilità di sparire: l’animale, per un verso «autonomo», ma legato tuttavia all’ambiente da un’infinità di connessioni diverse, oppure la montagna totalmente «dipendente» dai cicli plurimillenari dell’erosione, ma per la quale la nozione di «ambiente» non ha alcun senso, perché troppo ricca di determinazioni? La risposta non lascia dubbi e mostra che, senza tirare in ballo alcuna diavoleria hegeliana, è il più «autonomo» ad apparire il più «dipendente» - e inversamente (17).

Conclusione: Pretendere che la biosfera costituisca una sfera «autonoma» nell’ambito della natura, significa trasformarla in una sfera soprannaturale in barba ad ogni conoscenza scientifica. Affermare che la morfogenesi degli esseri viventi dipende da «interazioni interne» totalmente affrancate dalle leggi del mondo esterno, significa attribuire loro un’origine mistica e trasformare il loro adattamento alle condizioni di vita sulla terra in un enigma impenetrabile. Oltre ad essere antidialettica, questa tesi si colloca al di sotto dello stesso livello raggiunto dalla scienza borghese (18).

La teleonomia: essa ingloba, pur non riducendosi a questo, la nozione di appropriazione (o adattamento) degli esseri viventi rispetto all’ambiente in cui vivono e quale si manifesta nelle loro strutture e nelle loro attività. Essa significa che gli esseri viventi sono degli «oggetti dotati di un progetto» (Monod) «che nessuna intelligenza ha concepito... e nessuna volontà scelto» (Jacob). Questa categoria ideologica attesta esclusivamente il fatto che l’arcaico dibattito del XVIII secolo contro la teologia e il fideismo, per noi materialisti marxisti chiuso da un bel pezzo, resta pur sempre d’attualità per i nostri ideologi borghesi. La teleonomia delinea insomma una biologia anticlericale: come si vede, il massimo della modernità!

Ciò premesso, scopriamo che la teleonomia è solo «una proprietà secondaria derivata dall’invarianza, la sola proprietà considerata primitiva»: ogni altra concezione sarebbe «incompatibile col postulato di oggettività». Dire «oggettivo» è lo stesso che dire che gli esseri viventi si sono adeguati alle condizioni ambientali perché si riproducono in modo invariante! Ma essi non lo fanno. E anche se lo facessero, ciò non cambierebbe di una virgola la questione: l’invarianza può conservare, ma non produrre alcunché. Se ha il potere di far «derivare» l’adattamento (teleonomia) del «codice genetico» che essa conserva, ciò può avvenire perché quest’ultimo vi si trovano già inscritto: cioè l’adattamento deriva non dall’invarianza ma dal «codice». Ma come fa il «codice» ad «informare» gli organismi adattati? Come, dal momento che è autonomo, si è esso stesso «informato» prima ancora di formarsi, visto che la biosfera non è sempre esistita? In altre parole, qual è la sua origine? Questo il problema. Ma «non è di problema che bisognerebbe parlare, quanto piuttosto di un vero e proprio enigma», risponde il professore. Anche la teleonomia rimane dunque «enigmatica»! La biologia anticlericale si limita a spostare i misteri, non li dissipa. Tutto il suo exploit «scientifico» si riduce a sostituire il detto biblico: «In principio era il Verbo», con il detto para-biblico: «In principio era il programma genetico».

L’invarianza riproduttiva (o invarianza tout court): secondo i «comuni» scienziati prima citati, tra le caratteristiche degli esseri viventi bisogna annoverare il fatto che essi «si modificano nel corso dell’età (evoluzione)». Privi delle certezze scientifiche della biologia molecolare e dei lumi della «filosofia naturale», quei disgraziati sono arrivati ad ipotizzare non solo che gli esseri viventi si sono evoluti, ma che avevano l’attitudine di farlo! Monod non nasconde il suo sdegno per un siffatto semplicismo teorico: «Per la teoria moderna, l’evoluzione non è affatto una proprietà degli esseri viventi poiché essa ha la sua radice nelle imperfezioni stesse del meccanismo di conservazione che costituisce, ed esso soltanto, il loro unico privilegio». Con poche stringate parole, Monod stabilisce le sette folgoranti tesi che gli spiriti mediocri dovranno assimilare per rendersi degni della «teoria moderna»:
1) Il meccanismo di conservazione (della riproduzione) è l’unico privilegio degli esseri viventi;
2) ergo, e anche la loro unica proprietà;
3) poiché, scientificamente, è il privilegio che distingue gli esseri viventi da tutti gli oggetti naturali e dagli artefatti (prova ne è che persino un calcolatore marziano li trova insoliti);
4) in quanto esseri privilegiati non possono annoverare imperfezione alcuna tra le loro proprietà;
5) poiché la fonte del privilegio è la perfezione;
6) ma siccome nessun essere è perfetto se non è immutabile, ne consegue che
7) la riproduzione invariante e pur sempre l’unica proprietà che può essere scientificamente riconosciuta agli esseri viventi: come volevasi dimostrare.

Il resto sono chiacchiere (19).

Se Monod fosse stato solo uno specialista obnubilato dallo studio dei meccanismi dell’ereditarietà, avrebbe potuto, grazie alle libertà democratiche, militare tranquillamente a favore della sua «riproduzione invariante». Cosa di non secondaria importanza, visti i «grandiosi mutamenti che hanno avuto per teatro le ere geologiche e la superficie del pianeta». Ma dal punto di vista di una filosofia moderna, una simile modestia sarebbe stata indecente. Godendo di una totale immunità, Monod ha sferrato un nuovo colpo da maestro: con una semplice inversione dell’ordine dei termini ha sostituito «riproduzione invariante» con «invarianza riproduttiva». (La Filologia ufficiale non aveva voce in capitolo: si trattava di un problema di fondo e non di forma. La lingua deve restare pura, ma il pensiero è libero, in democrazia). E il pensiero di Monod è chiarissimo: è l’invarianza e non la riproduzione ad aver assicurato la continuità della discendenza. Compiendosi all’inizio per semplice divisione cellulare e solo molto più tardi per fusione di due gameti, la riproduzione non è stata che l’astuto mezzo utilizzato dall’Invarianza per evitare (messo da parte ogni finalismo) che si spezzasse il filo che lega gli uomini di oggi al Batterio ancestrale (non si entra qui nel merito della variazione dal batterio all’uomo, che verrà esaminata più avanti). La prova che l’invarianza è senz’altro la caratteristica primaria del vivente è data dal fatto che si può eliminare l’aggettivo «riproduttivo» senza il minimo inconveniente. Il concetto appare così in tutto il suo rigore. Se la tesi era meta- o addirittura para-fisica, il francese era in compenso impeccabile: non fu contestato il diritto di cittadinanza all’«invarianza riproduttiva» nella più «chiara» fra tutte le lingue civili!

Ecco come, in pieno XX secolo, un professore del College de France ha, sulla base di una scienza dell’ereditarietà, improvvisato una filosofia che riduce la riproduzione allo stato di aggettivo amovibile, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo! A tanto si riducono le prodezze soprannaturali degli atei del XX secolo!

Conclusione: quando l’ideologia proclama: «La Vita è l’Invarianza», essa è bizzarra, grottesca, ripugnante. Ma la società borghese intende: «La variazione è la morte». E siccome il movimento della storia la porta irrimediabilmente verso l’annientamento, anche se con una lentezza che mette a dura prova la pazienza dei rivoluzionari proletari, essa riconosce una verità di classe fin dentro una ripugnante bizzarria.
 
 

I.4. La metafisica dell’evoluzione
 

E ora come superare l’abisso che la filosofia «naturale» ha scavato tra sé e il reale? Come trarre un movimento da un’invarianza? Come dedurre l’evoluzione biologica dal «conservatorismo totale del meccanismo duplicatore del DNA» e dall’ «autonomia assoluta» del microcosmo nucleare? Monod realizzerà quest’impresa impadronendosi di un’ideologia trovata già bell’e pronta - la cosiddetta teoria «sintetica», figlia del neo-darwinismo, codificata dai biologi negli anni ’50 - e sovrapponendole una metafisica che essa non implicava, ma che invece era sicuramente contenuta nella sua «dottrina» dell’invarianza riproduttiva assoluta.

Generalizzando i risultati dei lavori di De Vriès (teoria delle mutazioni nei vegetali, 1901/1903) e soprattutto del fondatore della genetica T.H. Morgan, studioso delle mosche Drosofili (1910/1945), la teoria «sintetica» deve il suo nome alla pretesa di spiegare l’evoluzione da una parte con l’ausilio delle mutazioni dei geni, causa delle variazioni, e dall’altra parte ricorrendo alla selezione naturale, causa dell’adattamento delle specie all’ambiente attraverso l’eliminazione di organismi portatori di mutazioni nocive.

Sul piano strettamente scientifico, le insufficienze di questa teoria sono state rilevate più di una volta: 1) pur ammettendo che le mutazioni hanno delle cause, essa nega tuttavia di conoscerle; 2) essa riduce tutta la macro-evoluzione alla micro-evoluzione, pretendendo di spiegare con l’aiuto di una serie di mutazioni regolari dei geni tutte quelle trasformazioni che la paleontologia, ad esempio, studia con i metodi dell’anatomia comparata, e che sono collegate tra loro da una evidente logica interna, da un principio filosofico di correlazione. Ma se le mutazioni sono dei fatti ormai ampiamente dimostrati, non per questo possono però spiegare l’embriogenesi di una struttura precisa (un cuore, due polmoni, tot vertebre, ecc.) dal momento che rispondono manifestamente a un piano generale (20); d’altronde è chiaro che i meccanismi evolutivi non possono essere stati gli stessi a tutti i livelli tassonomici, per cui ciò che potrebbe valere per degli esseri monocellulari diventa assolutamente insufficiente una volta che lo si volesse applicare alla variazione di organismi altamente differenziati. È perciò inammissibile il monismo applicato alla spiegazione delle mutazioni. Infine 3) essa ignora del tutto i rapporti che intercorrono tra germe e soma, dal momento che esclude senz’altro l’integrazione delle somazioni nel corredo genetico. In breve, si rimprovera a questa teoria di tener conto esclusivamente della differenziazione delle specie, senza spiegare né la genesi di organi estremamente complessi come l’occhio o il cervello (che, se fossero il risultato di mutazioni genetiche, ne avrebbero comportato un’infinita) né la costituzione delle classi e degli ordini (per la stessa ragione).

La prima prodezza di Monod consisteva nel proclamare perfettamente e totalmente soddisfacente questa povera piccola teoria scientifica tanto controversa. Merita perciò che gli si muova l’obiezione classica fatta al mutazionismo e così formulata dal suo collega Jacob in persona: «Per estrarre da una roulette colpo dopo colpo, sottounità dopo sottounità, ciascuna delle centomila catene proteiche che possono comporre il corpo di un mammifero, occorrerebbe un tempo che supera, e di gran lunga, la durata assegnata al sistema solare». Ma che importa al nostro ideologo del calcolo delle probabilità.

Impadronendosi dei dati della teoria sintetica - mutazione e selezione - Monod li trasformerà in concetti - caso e necessità - costruendo sulla base già debole di quella teoria una metafisica di tipo pre-hegeliano. Infine, evocando per pagine e pagine la cosiddetta «gratuità» di fenomeni recentemente osservati dalla microbiologia (come la biosintesi di una data «galattosidasi» ad opera di dati «galattosidi» come l’idrolisi o l’assemblaggio delle sequenze proteiche che sembrano contraddire ogni legge), egli si abbandona senza ritegno ad un accesso di delirio sartriano nel tipico stile lirico-volgare alla Camus: «Il caso puro, il solo caso, la libertà assoluta, ma cieca, alla radice stessa del prodigioso edificio dell’evoluzione!»

Al «caso» sono dovuti il mondo, la biosfera e, beninteso, la società stessa. Secoli di determinismo buttati alle ortiche! Questo il degno coronamento degli sforzi ideologici di Monod, fedele riflesso della decomposizione teorica di quella classe controrivoluzionaria che è la borghesia! È arrivato il momento di vedere come la dialettica razionale spiega le categorie di «caso» e di «necessità» e in quali rapporti essi stanno con i concetti di invarianza e di mutazione.
 
 

I.5. Caso, Necessità, Probabilità
 

Nella "Dialettica della Natura" il nostro Engels (quello stesso Engels che Monod considera a dir poco ingenuo) ha non solo chiaramente posto, ma definitivamente risolto il problema che Monod così pietosamente ingarbuglia:

«Sul piano della teoria, la scienza della natura ha perseverato da un lato nella vuotezza di pensiero della metafisica wolffiana, per la quale qualcosa o è necessario o è casuale, ma non entrambe le cose nello stesso tempo; e dall’altro lato, nel determinismo meccanicista appena un po’ meno vuoto di pensiero, che a parole nega in generale il caso, per riconoscerlo nella pratica in ogni singolo avvenimento... Hegel scese in campo contro entrambe le concezioni con i principii, fino ad allora mai uditi, che il casuale ha una causa perché è casuale, proprio come non ha una causa perché è casuale; che il casuale è necessario, che la necessità determina se stessa come casualità, e che d’altra parte questa casualità è piuttosto assoluta necessità ("Logica", I, sez. III, cap. I, La Realtà). La scienza della natura ha semplicemente lasciato da un canto questi principii come paradossali giochi di parole, come contraddittori assurdi» (21).

 Proprio come continua a fare il metafisico Monod, più di un secolo dopo Hegel!

Avendo stabilito da un lato un principio di invarianza assoluto (fissità del patrimonio genetico) e dall’altro lato un principio di varianza anch’esso assoluto (piccole perturbazioni fortuite e perciò impercettibili e imprevedibili), Monod pensa che questa opposizione sia irrisolvibile con il solo ausilio delle categorie ereditate dalla vecchia metafisica idealista: il caso (come negazione della necessità) e la necessità (come negazione del caso). Viene quindi a trovarsi doppiamente confutato come materialista meccanicista rifugiatosi nelle braccia della metafisica (vedi passo sopra citato di Engels). A un siffatto manicheismo pseudo-biologico, i marxisti oppongono il concetto di varianza o di invarianza relativo: invarianza e mutazione non si escludono, ma sono l’una la condizione dell’altra. Lo stesso trattamento riservano al determinismo stile Laplace, secondo il quale la necessità nega radicalmente la casualità: sulla scorta di Hegel i marxisti comprendono non solo che la necessità è causa della casualità e che la casualità è causa della necessità, ma che la categoria dialetticamente superiore in cui si risolve questa opposizione apparente, «esteriore», non è altro che la possibilità reale o, come si dice oggi, la probabilità. Come si vede, la dialettica svolge qui in pieno il suo ruolo di prevenzione degli a priori metafisici che per gli scienziati borghesi restano sempre la causa delle ricadute nel vecchio modo di pensiero feudale-scolastico!

Lo stesso superamento dell’opposizione necessità assoluta-caso assoluto si ritrova in fisica, e proprio per non aver compreso ciò Monod tenta di presentare il suo antideterminismo biologico come un semplice aspetto dell’antideterminismo generale, verso il quale dovrebbe spingerci, secondo lui, «la fonte di incertezza più profonda che è ancora radicata nella struttura quantistica della stessa materia!» Le leggi della fisica - leggi di conservazione o di invarianza - si applicano, spiega(22), su queste incertezze elementari. Inoltre, tutte le leggi particolari hanno fondamento in una grande legge, quella dell’inesorabile degradazione dell’energia, che trova formulazione nel secondo principio della termodinamica, principio assolutamente non compreso da quell’ingenuo di Engels (23). Applicate tutto questo al mondo biologico e avrete la soluzione!

Per disgrazia del nostro metafisico, la meccanica quantistica non è affatto «indeterminista» come pretende la cattiva letteratura filosofica borghese: il famoso principio di incertezza di Heisenberg, che viene sempre tirato in ballo per affermare il contrario, serve solo a dissolvere il determinismo assoluto (24), insieme a un certo numero di nozioni sclerotizzate (25), in un determinismo tutto affatto rigoroso delle probabilità. La meccanica serve a prevedere, sulla base dello stato meccanico di un sistema in un momento dato e delle forze che agiscono su di esso, il suo «stato» in un dato momento ulteriore. Se non è in grado di fare questo, non serve a niente, e la meccanica quantistica rivendica senz’altro di saperlo fare. La leggenda sul suo «indeterminismo» è nata dal fatto che il punto di partenza era dato dalle concezioni accreditate dalla meccanica classica (Newton) e valide nel suo ambito. Classicamente, la «particella» è una «massa puntiforme» o «punto materiale» il cui stato meccanico è descritto dalle coordinate di posizione e di velocità. Questa concezione non poteva più essere di nessun aiuto per lo studio dei fenomeni osservabili alla scala microscopica degli elettroni e dei fotoni, costituenti ultimi della materia e della luce. A questa scala, in effetti, non solo le definizioni assolute («sostanza delle cose») si risolvono in definizioni relative (diventa impossibile distinguere tra «sostanza» e suoi «attributi»: il corpuscolo elettrico, per esempio, non è più «un piccolo corpo carico di elettricità»), non solo la nozione di massa perde la sua assolutezza (i corpuscoli non possono essere definiti che come degli stati e i loro rapporti che come inversioni da uno stato a un altro stato), ma, come peraltro si evince da quanto precede, diviene impossibile determinare rigorosamente e contemporaneamente la posizione e la velocità della «particella» (o la dislocazione spazio-temporale e la specificazione energetica).

La meccanica quantistica sostituisce quindi alle «categorie» classiche una nuova categoria: la funzione d’onda, che designa la probabilità della presenza dell’elettrone, per esempio, in un punto dello spazio sottoposto al campo di forza del nucleo. La meccanica quantistica perciò non è altro che l’insieme delle leggi e teoremi (26) che permettono di prevedere la funzione d’onda in un istante qualsiasi (se la si conosce in un istante dato), così come le forze che agiscono sulla «particella». Le famose «relazioni di incertezza» di Heiseberg inficiano così poco il determinismo (!) che servono anzi a definire proprio i margini di incertezza, come per esempio la posizione di un corpuscolo di cui è nota la velocità (o inversamente), laddove non è possibile conoscere simultaneamente entrambi i dati: è chiaro che se la regola dei fenomeni fisici fosse... «l’incertezza fondamentale», la «gratuità», e a maggior ragione la «libertà» (!) tanto care ai Sartre-Monod, quest’operazione sarebbe del tutto arbitraria e votata al fallimento. Ma non è così!

In conclusione, l’utilizzazione che Monod fa della fisica quantistica conferma appieno quanto diceva Lenin decenni addietro circa l’impotenza a pensare dialetticamente che, sul piano logico, è alla base dello sfruttamento idealistico della crisi di questa scienza all’inizio del secolo, sfruttamento che, sul piano sociale, serve perfettamente agli interessi della borghesia. Dedicheremo perciò al nostro filosofo della reazione morta questo passo di "Materialismo ed Empiriocriticismo": «L’errore della dottrina di Mach (Monod)... è di non prendere in considerazione ciò che separa il materialismo metafisico dal materialismo dialettico. L’ammissione di non si sa quali elementi immutabili, dell’essenza immutabile delle cose, non costituisce il vero materialismo: è un materialismo metafisico, cioè antidialettico».

Questo è l’uomo che, in nome della Scienza, ha condannato non solo Engels, ma tutta quanta la dialettica.
 
 

I.6. Engels e il 2° principio della termodinamica
 

Attaccando Engels sul 2° principio della termodinamica Monod ha voluto stabilire la tesi dell’incompatibilità di dialettica e scienza (27). Ma per sua disgrazia, la scienza contemporanea ha dato ragione proprio ad Engels. Vediamo come.

Il primo principio della termodinamica non è altro alla fin fine che il principio della conservazione dell’energia. E siccome è un principio di conservazione, non consente di trovare un senso di evoluzione. Ma l’esperienza insegna che i processi fisici hanno luogo sempre in un senso e mai nel senso inverso. Per fare un esempio classico, consideriamo una barra di rame le cui estremità siano a contatto una con un blocco di ghiaccio, l’altra con una fiamma. Viene a stabilirsi allora nella barra un gradiente termico, cioè una temperatura che varia a seconda del settore considerato. Isolando bruscamente la barra dall’ambiente esterno, si constata che essa evolve verso uno stato di equilibrio con temperatura uniforme in ogni sua parte. Supposto che l’energia totale resti costante, non contraddice il primo principio l’apparizione spontanea di un gradiente termico in una barra (o altro sistema) isolata: ma alla luce dell’esperienza questo non avviene mai.

«Un sistema isolato che ha subito una evoluzione non ritorna mai al suo stato iniziale»: questa la definizione del 2° principio della termodinamica, che proprio esperimenti di questo genere hanno generalizzato ed innalzato a verità assoluta. È in questi termini «assoluti e definitivi» che la termodinamica enunciava il 2° principio, che diveniva dunque un principio di irreversibilità dei processi naturali, dal momento che «l’entropia» (grandezza il cui senso di variazione esprime l’irreversibilità) di un sistema isolato può solo aumentare o al massimo rimanere costante, con una tendenza verso uno stato di massima entropia.

Si trattava insomma di un tentativo di applicare il 2° principio non solo alle macchine a vapore, ma all’intero universo. Tentativo che nel secolo scorso portò a questo risultato: l’universo è un sistema isolato (sic!); quindi deve tendere verso uno stato di equilibrio finale in cui tutta la materia e tutti i raggi saranno uniformemente distribuiti e in cui nulla potrà più accadere (in altre parole, in cui l’entropia sarà massima). La previsione di questo stato «di equilibrio finale» dell’universo, o, come si diceva, della sua «morte termica», presupponeva d’altronde uno stato «originario» di squilibrio totale, cioè, sotto un’altra forma, l’idea della... creazione del mondo. Contrariamente a quanto insinua Monod, questa concezione era tutt’altro che accettata da tutti gli scienziati, se pure borghesi, del secolo scorso. Non si va per il sottile, visto che si tratta di imputare ad Engels il crimine di «lesa scienza». Infatti, non aveva forse egli osato negare formalmente il 2° principio dicendo, nella "Dialettica della Natura": «In qualunque modo si formuli il secondo principio di Clausius, esso comporta in ogni caso una perdita di energia... L’orologio dell’universo, per camminare, deve essere prima caricato; e cammina finché non arriva allo stato di equilibrio, dal quale solo un miracolo può farlo uscire e rimetterlo in movimento di nuovo. L’energia impiegata per caricarlo è scomparsa (corsivo nostro), perlomeno qualitativamente, e può essere restituita solo da un impulso esterno (corsivo di Engels)... quindi la quantità di movimento o di energia presente nell’universo non è costante». Ma allora, notava ancora Engels, «tutta la teoria della conservazione della forza è assurda», come sono assurde «tutte le conclusioni che Clausius ne trae; quindi l’energia deve essere stata creata, quindi dev’essere creabile, quindi distruttibile. Ad absurdum!» E concludeva che «nel modo che spetterà agli scienziati dell’avvenire mettere in luce» la contraddizione tra il secondo principio di Clausius e il principio della conservazione dell’energia doveva essere superata. Quegli «scienziati» per noi appartengono già al passato (o al massimo al presente): hanno trasformato il secondo principio in un semplice teorema di meccanica statistica, cioè hanno tolto ogni carattere assoluto a ciò che non era che una estrapolazione e generalizzazione dell’esperienza, per lasciargli solo un significato statistico. Vediamo come, molto schematicamente.

Alla base di questa questione c’è il fatto che la materia non è un continuum, ma è costituita di elementi discreti, diciamo di molecole, definizione che qui può bastare. È normale che le «leggi» o principi che reggono il comportamento, per esempio di una massa di gas, devono potersi spiegare sulla base dei teoremi della dinamica dei sistemi materiali. Ma ci si scontra qui con una difficoltà: il numero delle molecole che entrano in gioco negli esperimenti correnti è talmente enorme che è fuori questione studiare il movimento di ciascuna di esse individualmente presa: bisogna ricorrere alla meccanica statistica.

Prendiamo il caso limite in cui la quantità di gas tende allo zero, come può essere ad esempio quello in cui un serbatoio A contenente solo dieci molecole di gas viene messo in comunicazione col serbatoio B. Supponendo che non ci sia interazione tra le molecole (se ci fosse il risultato qualitativamente non cambierebbe, ma il tutto sarebbe solo un po’ più complicato), ogni molecola avrebbe le stesse possibilità di trovarsi indifferentemente sia in A che in B, e questo indipendentemente dal posto in cui si trovano le altre. L’eventualità più probabile è quella che corrisponde all’equilibrio: 5 molecole in A e 5 in B. Tuttavia, delle eventualità che si scostano dallo stato d’equilibrio devono per forza realizzarsi, anche se la probabilità che si realizzino è tanto più bassa quanto più lo scarto sarà grande. È un po’ come il gioco a testa o croce fatto con 10 monete. La probabilità che si ottenga 0 (zero) «testa» e 10 «croce» (o viceversa) e di 1/1024, mentre è di 252/1024 per 5 «testa» e 5 «croce». Ciò non toglie che se uno lanciasse le monete 1.024.000 volte, quella bassissima probabilità dovrebbe realizzarsi all’incirca 1.000 volte: vi è dunque una differenza essenziale tra una probabilità piccola quanto si vuole e una probabilità nulla! Grosso modo, il secondo principio quale lo si comprende ora discende da questo aspetto «probabilistico», che non ha niente a che vedere col rigetto del determinismo a profitto di non si sa quale «libero arbitrio», ma è semplicemente un’altra forma del determinismo, come Engels, a differenza di tanti scienziati, aveva perfettamente visto. Praticamente, in tutti gli esperimenti correnti, mettendo in gioco un numero di molecole dell’ordine di 1023 (1 seguito da 23 zeri), e un numero totale di concatenazioni dell’ordine di 10 alla potenza 1023  (1 seguito da 1023 zeri), la probabilità che tutto il gas si concentri spontaneamente in uno dei due serbatoi è così ridicolmente bassa che, in pratica, su spazi e in tempi osservabili per noi, possiamo accettare il secondo principio nella sua forma classica. Ma se si esce dai limiti cui sono soggetti la capacità visiva e la durata della vita umana per osservare le cose alla scala cosmica, la prospettiva cambia completamente: nello spazio e nel tempo infiniti, ogni fenomeno possibile deve realizzarsi. Allora la rappresentazione globale che dobbiamo farci del comportamento dell’universo è completamente differente da quella che discendeva dal secondo principio inteso classicamente: anche supponendo che l’universo sia finito, non si può più dire che esso deve evolvere «a senso unico» verso uno stato di equilibrio di massima entropia: tutto quello che si può dire è che lo stato di equilibrio è il più probabile, ma che necessariamente devono presentarsi (seppure sempre più raramente mano a mano che ci si scosta dall’equilibrio) tutti gli stati possibili. In realtà l’universo è infinito, sicché parlare di «sua entropia» non ha più senso che parlare del suo volume o della sua massa! La sola cosa che si può definire è al massimo una densità locale di entropia, che deve rispondere a due requisiti: 1) variare nello stesso istante da un luogo all’altro e nello stesso luogo nel corso del tempo; 2) essere costante in media, a condizione di prendere questa media su grandi spazi per un tempo breve, e viceversa, laddove «grande» va inteso naturalmente alla scala cosmica.

Engels rifiutava di lasciarsi legare le mani dal secondo principio, metteva in guardia dal trarne conclusioni «filosofiche» e prevedeva che si sarebbe dovuto cambiarlo. Ma in nome di cosa? Ma in nome della metafisica naturalmente, assicura Monod, affibbiando al povero Engels l’appellativo di «animista», e mettendo il tutto a carico della... Dialettica! Balle! Quello che Engels opponeva a una delle leggi della fisica era la concezione globale della fisica. Egli metteva in discussione un’affermazione particolare della scienza in nome dell’affermazione generale della scienza.

Solo la dialettica è, quindi, scientifica.
 
 

I.7. La Cittadella Scientifica Universale
 

Dopo aver visto di fronte a che razza di filosofia «soprannaturale» il mondo borghese, con alla testa il premio Nobel, si inchina, prenderemo in esame come il nostro adoratore dell’irrazionale concepisce un ordine sociale razionale, quello che, in opposizione col socialismo proletario profano, egli battezza «vero socialismo».

Nell’ultimo capitolo del suo libro, Monod prende atto con soddisfazione che la scienza ha conquistato un posto di primo piano nelle «società moderne», ma lamenta che queste ultime, «liberali o marxiste che siano» (?!), rimangono sorde al «suo messaggio» (?), perché vogliono sì utilizzarla per produrre maggiori ricchezze, ma si rifiutano di mettersi al suo servizio. Monod non nasconde la sua profonda disapprovazione e reputa urgente il porvi rimedio attraverso un totale capovolgimento... ideologico! Dopo tutto, la «scienza» è l’attività assegnata al professore dalla divisione sociale del lavoro e che egli, con un’aberrazione abbastanza diffusa, perché derivante proprio da quella divisione, considera come l’unica attività vera. Di qui a pensare che la scienza è anche la sola attività che possa giustificare l’esistenza della stessa società il passo è breve, e Monod lo compie baldanzosamente, lanciandosi nella descrizione di un ordine sociale fondato (sic!) sull’etica (sic!!) della conoscenza, «etica che darebbe luogo a istituzioni votate alla difesa del Regno trascendente delle idee... in cui, liberato dalle costrizioni materiali... l’uomo potrebbe finalmente vivere in modo autentico».

L’organizzazione della specie umana in società stabili, che rispondeva alla necessità di sopravvivere, è stato il risultato delle sue caratteristiche di unica specie produttrice, senza bisogno di altre «giustificazioni». Inoltre, la formazione di un dato tipo di società, il suo sviluppo, il suo passaggio a un tipo superiore sono retti non dai desideri degli uomini, fossero anche premi Nobel, ma da leggi oggettive, come lo sviluppo delle forze produttive, la lotta di classe, la vittoria rivoluzionaria della classe oppressa; beninteso, la collocazione di una attività sociale qualsiasi, compresa la nobile attività scientifica, nell’insieme delle attività umane è anch’essa direttamente o indirettamente subordinata a quei fattori materiali e brutali. Ma di tutto questo il signor Monod non vuol saperne o meglio non è in grado di comprenderlo, non solo perché è complessivamente solidale con la borghesia, ma anche a causa della visione limitata che la sua limitata attività sociale gli impone: ecco spiegato il segreto delle frottole che ci viene propinando sul fatto che in una società razionale non sarebbe la scienza ad essere al servizio della specie, ma, al contrario, la specie al servizio della scienza (?!), magari con l’ausilio di... istituzioni repressive adatte alla bisogna! Eccola allora saltar fuori, ma nel campo storico e sociale, quella «proiezione animista» che Monod ha rinfacciato al marxismo di voler introdurre nelle scienze della natura, ripetendo con sospetta insistenza quest’accusa balorda per pagine e pagine! In altre parole, il signor Monod che, come tutti i suoi compari, rifiuta visceralmente l’applicazione del determinismo scientifico alla società, alla storia e quindi all’avvenire della specie, finisce per sognare una società modellata secondo i pregiudizi particolari della sua casta di appartenenza: mera paranoia ideologica!

Adeguandosi alla moda del XX secolo, Monod presenta come il solo «vero socialismo» il suo «Regno trascendente delle idee». Ma tiene a precisare che il passaggio a questo Eden potrà avvenire solo alla condizione di... «abbandonare totalmente l’ideologia che domina il pensiero socialista da un secolo e più». In altri termini: morte al socialismo scientifico, alla sua maledetta dialettica teorica e alla sua ancora più maledetta rivoluzione pratica. Ma cosa propone in cambio al proletariato rivoluzionario? Nulla. O piuttosto la trasmutazione magica della sua etica personale in una società e (udite!) in uno Stato reali e la transustanziazione degli uomini di carne e sangue in... puri spiriti, sotto l’effetto di una «liberazione dalle costrizioni materiali» di cui questo grande scienziato non si è degnato di rivelare a noi altri, poveri «animisti», le vie e le forme. Come può un borghese reazionario e idealista comprendere che il vero problema è quello della liberazione del proletariato, e al limite di tutta la specie, dalle barbare costrizioni che su di esso fa pesare il dominio del capitale?

È giunto finalmente il momento di volgere le terga a questo sacerdote del caso, a questo «socialista» della proteina, a questo rappresentante classico, perfetto della decomposizione borghese per studiare, come avevamo promesso, il testo di Engels sul «ruolo avuto dal lavoro nella trasformazione della scimmia in uomo». Esso mostrerà chiaramente al lettore che, dopo più di un secolo, l’applicazione delle tesi del materialismo dialettico ai problemi dell’evoluzione ha portato a risultati ben più significativi di quanto non abbia ottenuto la «moderna» teoria neo-darwinista (cosiddetta sintetica) e a maggior ragione la metafisica di un biologo molecolare ammalato di presunzione.
 
 
 
 

II. I criteri distintivi umani e il ruolo avuto dal lavoro nel processo di trasformazione della scimmia in uomo
 
 
 

È importante innanzitutto ricostruire la lotta portata avanti dalla Paleontologia umana contro le resistenze religiose e razionaliste, contro due concezioni ideologiche e storiche entrambe espressione di interessi di classe ben precisi: da una parte, il conservatorismo teologico e teocratico feudale che non può accettare le grandi categorie storiche ed evolutive che rimettono in causa l’idea di un ordine naturale e umano immutabile, fissato una volta per sempre dalla volontà divina nelle linee ferree di un piano prestabilito. Dall’altra parte, l’idealismo speculativo borghese il quale, se è vero come è vero che ha storicamente prodotto la geologia e la paleontologia, ruotanti entrambe intorno ai concetti di «divenire storico» e di «evoluzione», ciò è dovuto al fatto che il materialismo volgare dei suoi ideologi rifletteva la concezione del mondo di tutta una classe tesa a farla finita con la maniera di produrre, di scambiare e, per ciò che ci interessa qui, di pensare tipica di una formazione sociale che avendo ormai esaurito tutte le sue possibilità di sviluppo era divenuta fondamentalmente reazionaria.

Nondimeno, queste teorie non potevano non andare incontro anch’esse, per le conclusioni radicali implicite nelle grandi scoperte dell’antropologia, a resistenze ancora più forti e che erano espressione, nel cuore stesso del pensiero scientifico contemporaneo, degli interessi di classe di uno strato sociale che, avendo in mano le leve di comando della società, non poteva né voleva in ultima analisi che chiudere gli occhi sul significato di quelle conclusioni.

È classica tesi marxista che le scienze borghesi sono costrette, mano a mano che si sviluppano, a confermare le leggi del Materialismo dialettico; ma, fatto anche più importante, gli ideologi borghesi, sono portati a negare continuamente il carattere dialettico dei risultati della loro stessa scienza. Cosciente o meno, questo «rigetto» ha un senso politico preciso: esprime i limiti oltre i quali la speculazione borghese non può andare senza negare i fondamenti stessi della sua ideologia, vale a dire la concezione generale del mondo che incarna i suoi interessi di classe.

Questo fenomeno è stato particolarmente evidente per quel che concerne lo sviluppo della Paleontologia umana.

Già un secolo fa Engels aveva formulato in un breve ma denso studio l’ipotesi che il lavoro, inteso essenzialmente come attività tecnica, fosse stato alla base dello sviluppo della specie umana. Facciamo notare che questa ipotesi non poggiava su alcuna base «materiale» certa, data l’ignoranza degli «specialisti» dell’epoca e sparse le indicazioni provenienti dagli scavi.

Riassumiamo l’ipotesi di Engels nei suoi punti più importanti:
a) L’andatura eretta (bipedismo) costituisce il fatto decisivo per il «passaggio» dalla scimmia all’uomo e si accompagna con la liberazione della mano, anch’essa correlativa alla divisione delle funzioni (locomozione e prensione) tra gli arti anteriori e i piedi;
b) La mano è l’organo e il prodotto del lavoro;
c) In virtù della legge di correlazione dello sviluppo secondo cui «determinate forme di singole parti di un essere organico sono sempre collegate a certe forme di altre parti, che non hanno apparentemente alcun rapporto con le prime. Modificazioni di determinate forme portano con sé modificazioni della forma di altre parti del corpo senza che noi siamo in grado di spiegare tale rapporto»;
d) Lo sviluppo del lavoro garantito dalla liberazione della mano e dalla funzione locomotoria ha dato luogo a rapporti di assistenza e comunicazione tra i membri dei gruppi primitivi. Dall’attività tecnica discende dunque la nascita del linguaggio considerato come strumento di produzione: «Dapprima il lavoro; dopo il lavoro e contemporaneamente al lavoro il linguaggio».

Queste quattro tesi formulate da Engels sono state accuratamente ignorate dalla scienza ufficiale borghese che, nella questione generale della determinazione dei caratteri specifici dell’uomo legata al problema del meccanismo evolutivo, ha preferito avventurarsi nelle sabbie mobili dell’idealismo. La Paleontologia umana in effetti nel XVIII secolo parti dall’idea dell’affinità dell’uomo con i grandi primati; e non seppe far altro che imboccare la strada mediana tra le scimmie ad essa note e l’homo sapiens.

L’errore più grave e persistente fu quello di stabilire una linea diretta che univa a noi, attraverso i Neanderthaliani, il quartetto di antropoidi attuali: gorilla, scimpanzé, orango e gibbone.

La ragione di questo atteggiamento va ricercata nei presupposti idealistici dell’ideologia borghese sempre alla ricerca di un «grado zero» della coscienza umana.

Rousseau nel suo "Saggio sull’origine dell’ineguaglianza" ne dà una tipica esemplificazione: l’uomo, che allo stato di natura è dotato di tutti gli attributi «attuali», s’allontana dallo zero iniziale, inventa poco a poco sia attraverso l’imitazione degli animali sia attraverso il ragionamento ciò che, nel campo tecnico e sociale, lo conduce al mondo presente.

Siamo di fronte a una concezione «cerebrale» e quindi idealista dell’evoluzione umana, che si pone agli antipodi della tesi di Engels secondo la quale l’uomo non è definito da testa, coscienza e spirito, ma dalla facoltà specifica e sociale di produrre gli strumenti di produzione al fine di trasformare la natura e piegarla ai suoi bisogni.

La colomba disinvolta dell’idealismo non si preoccupa di poggiare le ali su una qualche base ben fondata, e teorizza i propri interessi di classe sublimandoli in «concetti».

Non è nostra intenzione ripercorrere le disavventure della Paleontologia borghese, impotente a integrare nella sua visione «razionalistica» anche le scoperte materiali più probanti, ma bisogna tuttavia arrendersi all’evidenza: il ritrovamento del clan degli «Australopiteci» e in particolare dei resti rinvenuti in Kenya dello Zinjantropo, grande australopiteco che faceva già uso di utensili di pietra, ha definitivamente smentito le castronerie che negli ultimi due secoli si sono scritte sull’argomento.

Con questo grande antenato si è delineata un’immagine dell’uomo a dir poco sconcertante per il piccolo-borghese universitario e democratico che concepisce sé stesso e l’individuo umano in generale solo attraverso la testa: quella di un vero uomo con un piccolo cervello e non di un superantropoide con una grossa scatola cranica.

Ma per fortuna i fatti sono testardi, sicché il materialismo dialettico finisce sempre per penetrare anche nei cervelli più ottusi. E nel campo delle scienze la via è una sola: precisamente quella dialettica materialista, che prima o poi arriva ad imporsi. È quanto riconosce implicitamente lo specialista di turno, Leroi-Gourhan, nel suo studio sui rapporti tra tecnica e linguaggio: «A più di un secolo dalla scoperta del cranio di Gibilterra, quale immagine che presenti criteri comuni alla totalità degli uomini e dei loro antenati è possibile costruirsi? Il primo e più importante di tali criteri è la stazione eretta; ma è anche l’ultima ad essere stata riconosciuta, sicché per diverse generazioni il problema dell’uomo è stato posto su basi false.

Tutti i fossili noti, per quanto possono essere strani come l’Australopiteco, possiedono la stazione eretta. Altri due criteri fanno da corollari al primo: la faccia corta e la mano libera durante la locomozione. Per comprendere il legame esistente tra la stazione verticale e la faccia corta (che Engels aveva chiarito più di un secolo fa, n.d.r.) è stato necessario attendere questi ultimi anni con la scoperta del bacino e del femore dell’Australopiteco... La libertà della mano comporta quasi necessariamente una differenziazione dell’attività tecnica dell’uomo rispetto a quella delle scimmie: il fatto di avere libere le mani durante la locomozione unitamente a una faccia corta e priva di canini offensivi impone l’utilizzazione di organi artificiali, vale a dire gli utensili.

Posizione eretta, faccia corta, mano libera durante la locomozione e possesso di utensili mobili sono effettivamente i criteri fondamentali per distinguere l’uomo. Questo elenco tralascia del tutto i caratteri specifici delle scimmie, e da esso appare come non si possa pensare all’uomo nelle forme di transizione che avevano soddisfatto i teorici fino al 1950.

Può stupire il fatto che l’importanza del volume del cervello intervenga solo in seguito (aprite bene le orecchie signori borghesi, siete stati traditi proprio da uno dei vostri specialisti più disinteressati, costretto ad ammettere la validità delle tesi di Engels!). In realtà, è difficile dare la preminenza ad un certo carattere piuttosto che a un altro, perché nell’evoluzione della specie tutto è collegato; mi sembra certo però che lo sviluppo cerebrale sia in qualche modo un criterio secondario. Sul piano dell’evoluzione in senso stretto esso è correlativo alla posizione eretta e non, come si è creduto per molto tempo, essenziale».

Resta da precisare il ruolo svolto dal lavoro nelle trasformazioni successive della nostra specie, alla luce delle ultime scoperte della Paleontologia umana. Vedremo che, lungi dal contraddire la concezione marxista classica, per la quale il lavoro ha creato l’umanità, esse confermano in pieno le ipotesi di Engels e il metodo materialista dialettico.

Cominciamo con l’analizzare la categoria marxiana di «lavoro». Dopo aver chiarito nella II sezione del I Libro de "Il Capitale" il rapporto capitalistico borghese della compravendita della forza-lavoro, Marx arriva a definire il significato di lavoro nella sua forma più generale come: «astratto da ogni impronta particolare che può imprimergli questa o quella fase di progresso economico della società, ovvero pensato non come attività produttrice di merce (sotto l’aspetto esteriore di valore di scambio), bensì di valore d’uso, cioè di utensili o di oggetti non scambiabili necessari al consumo quotidiano. In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, di fronte alla natura, gioca egli stesso il ruolo di una potenza naturale. Egli mette in moto le forze di cui è dotato il suo corpo, braccia e gambe, testa e mani, per appropriarsi i materiali della natura e dar loro una forma utile alla vita. Operando mediante tale moto sulla natura esteriore e modificandola, egli modifica allo stesso tempo la natura sua propria e sviluppa le facoltà in questa assopite».

Ciò che caratterizza l’umanità sia a livello di specie come fattore di maturazione biologica, che sul piano individuale nel suo rapporto singolare con la natura, è quindi l’attività tecnica lavorativa poiché: «L’impiego e la creazione dei mezzi di lavoro, benché già propri, in germe, di certe specie animali, caratterizzano eminentemente il lavoro umano». Per questo Franklin definisce l’uomo «un animale che fabbrica strumenti». A questo stadio dell’analisi del processo lavorativo nei suoi momenti semplici e astratti, «da una parte l’uomo e il suo lavoro, dall’altra la natura e i suoi materiali, sono sufficienti... e non abbiamo bisogno di presentare il lavoratore in rapporto con altri lavoratori... poiché l’attività finalizzata alla produzione di valori d’uso, l’appropriazione degli elementi naturali per i bisogni umani, è la condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, una necessita fisica della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita o, piuttosto, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana».

A scorno del piccolo-borghese ozioso e degenerato che vede nel lavoro la «maledizione della specie», da cui lo libererebbe la società «comunista» (allegoria della caduta originale e del paradiso ritrovato), termineremo con una luminosa citazione che ben esprime quella necessità materiale sentita nella carne e assimilata nel suo piccolo cervello già dal nostro lontano antenato: «In quanto produce valori d’uso, in quanto è utile, il lavoro, indipendentemente da ogni forma di società, è la condizione indispensabile dell’esistenza dell’uomo, una necessità eterna della natura che ha la funzione di mediare il ricambio organico fra uomo e natura» ("Il Capitale", I, 1).

Proprio su questa tesi cardinale - l’attività tecnica, il lavoro definito come la caratteristica specifica dell’uomo - convergono peraltro, come vedremo, le più recenti ricerche della Paleontologia umana.

Il problema ultimo intorno al quale hanno ruotato i grandi dibattiti che nel tempo hanno infiammato la scienza dei fossili umani è imperniato sul significato da attribuire alle trasformazioni della capacita encefalica e delle possibilità cerebrali verificatesi nel corso del divenire della specie.

Per la tesi idealista, il graduale diffondersi dell’homo sapiens va inteso nel senso di una ininterrotta crescita verso un punto di massima coscienza. In questa concezione, in cui l’umanità si definisce partendo dalla testa, la cultura emergerebbe a poco a poco dalle incerte brume dell’animalità per dar vita ad un essere dotato di lucida coscienza e portato a una vaga religiosità. Questa, a grandi tratti, la prospettiva di un Teilhard de Chardin, che scopre nel «fenomeno umano» una sorta di vettore lanciato verso l’acquisizione di facoltà spirituali. Naturalmente, oggi come oggi, è assolutamente impossibile dare a questo grande affresco idealistico la minima base materiale probante, contrariamente alla concezione materialistico-dialettica che poggia ormai su un complesso di prove inconfutabili.

 Di fatto, la tesi che viene fuori da queste ricerche in campo paleontologico attesta che, lungi dal precedere l’evoluzione delle tecniche e del corpo, il divenire della «coscienza» va ravvisato nel suo stretto legame con le capacita di adattamento, che sono, nel caso dell’uomo, di ordine essenzialmente tecnico. Conviene però mettersi d’accordo sul termine di «coscienza». Per la tradizione filosofica idealistica, da Aristotele a Hegel, passando per Cartesio e Kant, la «Ragione» rappresenta l’unico criterio distintivo tra uomo e animale. Il linguaggio viene considerato come una realtà, schermo che maschera il pensiero attraverso cui, in qualche modo, potremmo identificarci con Dio. Così, secondo Aristotele, l’uomo «è un animale ragionevole» e le parole sono «i simboli degli stati d’animo». Per Cartesio, la Ragione è l’insieme delle nostre idee chiare e distinte, la totalità di ciò che la divinità, nella sua infinita Grazia, ha voluto che potessimo concepire. In questa tradizione, ora agonizzante, il linguaggio rappresenta la maschera dello spirito, il velo che bisogna strappare per afferrare il pensiero in tutta la sua purezza. Per il Materialismo Dialettico, al contrario, l’umanità (conviene ancora «relativizzare» quest’astrazione idealistica) non è determinata dalla testa o dalla coscienza, ovvero non esiste altra coscienza che quella espressa in una duplice materialità, come linguaggio e come prodotto sociale: «Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per gli altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini» (da Marx, "L’Ideologia tedesca").

Linguaggio, capacità cervicale e tecnicità devono essere intesi nel loro sviluppo parallelo e nella loro interazione reciproca, cioè come i differenti aspetti di uno stesso processo dialettico: questo, non se ne dolgano i più recalcitranti idealisti, obiettivamente confermano le ricerche e i fatti materiali recentissimi.
 
 

II.1. La nozione di antropomorfismo è legata a quella di tecnicità
 

I concetti cardine della tradizione idealistica in campo paleontologico secondo cui i nostri più lontani antenati, gli Antropiani, sarebbero affini all’attuale famiglia delle scimmie da cui si sarebbero separati alla fine del terziario, si possono considerare ormai superati. La serie di categorie quali Pitecantropo, Preominide, Australopiteco hanno fatto il loro tempo, riflessi di una mentalità antimaterialista per la quale l’evoluzione umana esprimeva la maturazione della coscienza o dello «spirito».

 Tutto all’opposto, sappiamo oggi che l’Antropomorfismo costituisce una famiglia distinta da quella delle scimmie, come attesta il gruppo degli Antropiani, ed è caratterizzata per l’adattamento della struttura del corpo all’andatura su due piedi. Questa definizione posturale dei primi «umani» si esprime in uno schema funzionale radicalmente divergente da quello delle scimmie antropiane odierne: il bacino è adattato al tronco che deve mantenersi in equilibrio, la colonna vertebrale possiede delle curve di compensazione la cui risultante è una verticale, il piede riveste una disposizione particolare (dita a raggi paralleli); infine la testa sta in equilibrio alla sommità della colonna vertebrale e il foro occipitale è ad angolo retto.

 Anche la vecchia ipotesi di una affinità con le scimmie è impossibile, a meno di cercare il nostro più lontano ascendente nel bel mezzo del terziario. Ma allora non si può più parlare di «grandi scimmie» nel senso attuale del termine.

Mentre ignoriamo quasi tutto dell’Oreopiteco, scimmia a tendenza umanoide che si fa risalire al Miocene, possediamo invece un insieme di conoscenze relativamente dettagliate circa l’esistenza, tra la fine del terziario e l’inizio del quaternario, di una popolazione africana di creature bipedi che facevano già uso di utensili, inventariata sotto vari nomi (Plesiantropi, Australantropi, Zinjantropi). L’immagine generale che tali esseri ci offrono è abbastanza coerente: camminano in posizione eretta, hanno braccia normali, si tagliano utensili stereotipi battendo pochi colpi sull’estremità di un ciottolo, hanno un’alimentazione parzialmente carnivora. Questa raffigurazione, comune per gli umani, non ha alcun rapporto con quella di qualsiasi scimmia; l’unica differenza importante, di grado però e non di natura, sta nelle dimensioni del cervello, incredibilmente piccolo (500/600 cm3).

 Gli Australantropi sono quindi «uomini» a tutti gli effetti con una scatola cranica ridotta, corrispondente alla loro tecnica rudimentale: la barriera orbitale non è ancora caduta e la parte frontale del cranio continua a essere molto limitata: è l’ultimo ostacolo a scomparire prima del tipo attuale.

Ma la cosa interessante che viene fuori da tutti questi ritrovamenti è la presenza di utensili accanto ai resti di testimonianze ossee, a conferma della tesi che la tecnica è una caratteristica specifica umana che ha giocato un ruolo decisivo come agente dell’evoluzione. Dal profondo passato degli Antropiani fino allo stadio che precede il livello attuale, dallo Zinjantropo fino ai Neantropiani della razza di Cromagnon (-30.000 anni), l’evoluzione della specie umana basata sul bipedismo appare come la risultante e il contraccolpo degli effetti del lavoro sulla morfologia del cranio e la capacità encefalica, con la sparizione progressiva della prominenza sovraorbitale, l’apertura del ventaglio corticale e l’affinamento della corteccia - modificazioni che a loro volta reagiscono dialetticamente sulle possibilità tecniche della specie.

Questo processo ha abbracciato centinaia di migliaia di anni, ma possediamo sufficienti testimonianze materiali per ripercorrerne, col concorso di altri dati (teoria delle localizzazioni cerebrali, anatomia e fisiologia cerebrali), le grandi tappe.

La struttura del cervello degli ominidi è dunque in stretto rapporto con l’esercizio della tecnica presente nelle forme umane più rozze. Ma la stessa attività tecnica è contemporaneamente causa e prodotto della situazione posturale che, liberando la mano dalle esigenze della locomozione, la rende disponibile ai bisogni della vita di relazione.

Così, a differenza di quanto avviene per le scimmie antropoidi, la posizione eretta, già a partire dallo Zinjantropo ha per corollario un aumento della superficie della volta cranica nella regione fronto-temporo-parietale media. Questo aumento è graduale ed è possibile seguirne gli sviluppi dalla scimmia a ciascuna delle forme antropiane. Di fatto, se fin dai primi Australantropi l’evoluzione corporea può considerarsi compiuta, per contro l’evoluzione cerebrale è soltanto all’inizio e si esprime con il continuo aumento della superficie della corteccia nelle regioni fronto-parietali medie.

L’evoluzione della tecnica e quella, parallela, della struttura del cervello, sono concepibili soltanto all’interno di uno stesso processo dialettico che si svolge in questo modo: il lavoro si ripercuote sulla funzione cerebrale, la quale, affinandosi, dà luogo a una tecnicità più elaborata e complessa che comporta una vita di relazione più ricca, causa a sua volta di una nuova differenziazione dell’encefalo, e così via, fino al raggiungimento dell’attuale profilo d’equilibrio cerebrale medio.

Ciò detto, al fine di stabilire l’evoluzione sincronica di utensili e cervello, dobbiamo comparare i differenti stati cronologici del loro divenire in seno al gruppo zoologico degli «Antropiani».
 
 

II.2. La corteccia media e la sua evoluzione
 

La nozione di «espansione cerebrale» e in special modo quella relativa alla corteccia media è di fondamentale importanza poiché quest’ultima è la sede della motilità primaria. Come quello dei mammiferi superiori, il cervello dell’uomo presenta, lungo il canale di Rolando, sulle circonvoluzioni frontali ascendenti, una zona motoria primaria nella quale è possibile distinguere con precisione, dalla base al vertice, i gruppi di neuroni che controllano la faccia, le dita della mano, l’arto superiore, il tronco, l’arto inferiore.

Vi si ritrova l’immagine capovolta della macchina corporea, di cui l’area suddetta costituisce il quadro di controllo. La quantità di neuroni adibita a ogni regione del corpo è proporzionale alla complessità di funzioni che se ne richiedono: nell’uomo odierno l’80% dei neuroni dell’area considerata sono adibiti al controllo motorio della testa e degli arti superiori, in altre parole i due poli del campo di relazione mobilitano i 4/5 del dispositivo motorio primario. La lingua, le labbra, la laringe e le dita rappresentano da soli quasi la metà di quest’area.

Un altro fatto presenta un notevole interesse, ed è la contiguità delle zone della faccia e della mano nell’area in questione e la loro situazione topografica comune, il che rivela la stretta coordinazione esistente tra l’azione della mano e quella degli organi anteriori della faccia. Simiani e Antropiani possiedono quindi la stessa corteccia, che presiede al movimento di tutte le parti del corpo, in cui faccia e mano rivestono un ruolo predominante. Nelle scimmie l’area motoria primaria è accompagnata da un’area premotoria conquistata mediante il primo sviluppo del ventaglio corticale, mentre nell’uomo attuale il dispositivo corticale è costituito, per quanto riguarda la parte motoria, dall’area motoria primaria, davanti alla quale si trova l’area premotoria come nelle scimmie. Ancora più avanti è venuta ad aggiungersi un’area ulteriore, contraddistinta da una struttura intermedia tra quella dell’area premotoria e quella dei lobi frontali, privi di neuroni motori. L’evoluzione procede nel senso di un’apertura del ventaglio corticale.

Un altro fatto da sottolineare è che nelle scimmie superiori la zona di corteccia che presiede al linguaggio è praticamente inesistente, per cui viene a mancare la stessa possibilità fisica di costituire un linguaggio. In compenso, a una posizione eretta e alla mano libera che può far uso di strumenti mobili, quindi a una calotta cranica notevolmente svincolata nella volta media, non può corrispondere se non un cervello già attrezzato per la parola.

L’estensione del cervello è dunque il corollario della stazione posturale e dell’attività tecnica, il correlativo del lavoro, come sta ad indicare l’evoluzione degli utensili presso gli Antropiani.
 

II.3. L’evoluzione tecnica degli Antropiani
 

L’evoluzione degli utensili nell’età della pietra è avvenuta in quattro tempi: «all’origine», gli strumenti da taglio, i raschiatoi, sono ottenuti tramite semplice frantumazione di due ciottoli. In un secondo momento, gli strumenti sono «nuclei» da cui sono state rimosse delle schegge il più delle volte su entrambe le facce usando un percussore di pietra. Il terzo tempo vede la produzione di arnesi realizzati percuotendo il «nucleo» con strumenti da taglio in cui le schegge sono lavorate su una sola faccia. Infine, il quarto episodio di questa storia della lavorazione degli strumenti di pietra è quello della produzione di utensili tramite sagomatura delle schegge.

Questa evoluzione nella lavorazione della pietra nel Paleolitico ha coperto centinaia di migliaia di anni ed è il risultato dell’acquisizione di una serie di gesti supplementari che implicano già un alto grado di previsione nello svolgimento delle attività tecniche.

La notevole lentezza della differenziazione degli utensili deve evidentemente essere messo in parallelo con la lentezza caratteristica nella trasformazione del cranio antropiano: come abbiamo visto, l’evoluzione è sincronica nella misura in cui gli effetti meccanici della postura e del lavoro interagiscono sulla fisiologia e sulla morfologia generale della specie, dal momento che le trasformazioni essenziali avvengono per rimaneggiamento nelle proporzioni delle differenti parti del cervello attraverso l’aumento di densità delle cellule e la moltiplicazione delle connessioni.

 Quanto al linguaggio, espressione materiale della «coscienza», esso è legato neurologicamente alla capacità di fabbricare strumenti e i suoi gradi di evoluzione corrispondono ai diversi momenti dello sviluppo della tecnica antropiana.

  L’Australantropo doveva possedere un linguaggio di livello parallelo a quello dei suoi utensili, senza dubbio poco sviluppato, ma sicuramente superiore a quei semplici segnali vocali «richiesti» dalle situazioni e determinati dall’ambiente: si tratta già di un insieme di simboli disponibili.

Gli Arcantropi, con la loro duplice serie di gesti, possedevano di certo un linguaggio dalla sintassi più elastica, ma con ogni probabilità ancora limitato all’espressione di situazioni concrete.

Nei Neanderthaliani si verifica l’esteriorizzazione dei primi simboli non «concreti» per la trasmissione differita di informazioni sotto forma di racconti e l’espressione di sentimenti ancora imprecisi.

Sebbene estremamente rischiose e vaghe, perché non verificabili, queste ipotesi sono formulate sulla base dell’indubbio legame esistente fra linguaggio e motilità tecnica, le due principali caratteristiche antropiane che interessano le medesime vie cerebrali.

Riassumiamo: la mano prodotto del lavoro, l’evoluzione delle strutture cerebrali, il raccorciamento del viso, l’apertura della corteccia media, la soppressione della barriera orbitale, questi i fatti incontestabili e materialmente verificati.

La struttura del patrimonio genetico dell’uomo deve dunque essere stata modificata nel corso della sua evoluzione in parallelo con l’utilizzazione di strumenti. Il fatto che i complessi meccanismi di questa trasformazione non siano ancora del tutto chiariti è di secondaria importanza, dal momento che ormai nuovi ulteriori dati non potrebbero contraddire lo schema generale proposto da Engels; e tutti i Monod di questo mondo, nel loro furore idealista, non possono farci niente. La visione materialistico-dialettica della «trasformazione della scimmia in uomo» è globalmente giusta.

Per ora, tanto ci basta.
 
 
 
 

Conclusione
 

La confutazione fornita dalle tesi di Engels alla teoria del «caso creatore», principio ultimo della trasformazione della specie secondo Monod, sebbene insufficiente, vista la limitatezza delle conoscenze, a mettere in luce tutti i meccanismi dell’evoluzione, consentirà tuttavia di orientare le ricerche future di questi settori delle scienze della natura su tutt’altre basi materialistico-dialettiche di quelle proposte finora. Ma occorrerà che la ricerca si affranchi dall’idealismo, il che presuppone la dissoluzione delle sue basi economiche e sociali, il deperimento dei rapporti borghesi di produzione. Questo farà fare un enorme salto in avanti alle scienze in generale, senza perdere di vista il soddisfacimento pratico dei bisogni reali degli uomini(28).

Il «segreto» dei meccanismi dell’evoluzione non va cercato nelle teorie borghesi parziali che sono sotto l’influenza del modo di pensare metafisico di cui la «filosofia naturale della biologia moderna» di Monod è una clamorosa espressione. Le scienze non si sviluppano autonomamente, non si scelgono il campo di indagine né autoproducono i loro concetti. Con tutte le loro contraddizioni, esse non sono che la manifestazione più astratta della maniera di produrre, vivere e pensare delle varie forme di società e dell’ideologia delle classi dominanti.

Così, fino al XVIII secolo, la categoria feudale di stabilità è l’immagine astratta di un ordine feudale immutabile e la matrice esplicativa dell’insieme dei fenomeni della natura: le specie sono considerate nella loro fissità come apparse una volta per tutte e, dotate dei loro attributi atemporali, perduranti in una eternità senza storia; l’idea di evoluzione non sfiora nemmeno lo spirito degli scienziati dell’«età classica», il cui pensiero rimane strettamente prigioniero dei modelli ideologici dominanti. Così, se per Buffon, ad esempio, il leone è «il re degli animali», ciò è dovuto al fatto che esso simbolizza nell’ambito del regno animale la potenza sovrana della maestà regale. Così Linneo fornisce nel suo "Sistema Naturae" una classificazione metodica e gerarchica degli esseri viventi, che egli giustappone spazialmente fuori da ogni prospettiva storica.

È merito storico della borghesia rivoluzionaria e materialista aver introdotto il concetto di evoluzione delle specie con l’aggiornamento, parallelo alla sua conquista del potere politico, della categoria filosofica di storia, a cui resta legato il nome di Hegel.

Ma se l’evoluzione come fenomeno reale fu subito accettata dalla scienza borghese, non altrettanto lo furono i suoi meccanismi che, ne abbiamo avuto un accenno con Monod, rimangono ancora per essa piuttosto oscuri e misteriosi. Per Lamarck l’evoluzione è il risultato della trasmissione dei caratteri acquisiti durante l’esistenza nel processo di adattamento all’ambiente e ai suoi cambiamenti. La sua "Filosofia zoologica" si basa su due leggi regolatrici dell’azione delle «circostanze»: 1) «L’impiego frequente e sostenuto di un organo lo fortifica e l’ingrandisce; il mancato uso lo indebolisce, lo deteriora e lo fa scomparire»; 2) «Tutto ciò che viene acquisito perduto in questo modo agisce sulla riproduzione».

 Darwin spiega l’evoluzione delle specie sulla base della lotta per l’esistenza, che elimina implacabilmente i meno adatti, e operando la selezione mediante le piccole differenze che esistono fra gli individui. De Vriès è il padre del «mutazionismo» meccanico, secondo cui le variazioni sono il risultato delle trasformazioni del patrimonio genetico per salti qualitativi o «mutazioni«, senza che possano trasmettersi ereditariamente i caratteri acquisiti. Ma questo schema teorico, che rappresenta l’attuale punto di approdo della scienza borghese, non serve a spiegare altro che... l’evoluzione, senza assolutamente spiegare i grandi risultati da essa acquisiti, come per esempio la modificazione dello scheletro, perché bisognerebbe far ricorso a mutazioni successive che interessano un gran numero di ossa.

Come si vede, per i biologi borghesi il problema è ben lungi dall’essere risolto, anzi – Monod insegna – avviene un rinculo sul terreno indeterminista del ruolo assoluto svolto dal caso.

 Non ci sogniamo quindi nemmeno lontanamente di «aggiornare» Engels, la cui visione globale resta di gran lunga qualitativamente superiore alle soluzioni parziali idealistiche e antidialettiche della biologia molecolare. Il Materialismo Dialettico, al di la delle mode idealistiche borghesi, resta quanto di più nuovo vi può essere nella concezione generale della natura e della società umana; prodotto degli antagonismi di classe e scienza del proletariato rivoluzionario, esso sarà il sistema di pensiero della società comunista di domani e, per questo, si oppone alle mezze verità e alle menzogne odierne di una borghesia che, negando la sua fine prossima e ineluttabile nella Storia, non può evidentemente leggerla nella Natura!
 
 
 


Note:

1. L’impiego del termine «codice» per designare il patrimonio genetico della specie ha un valore puramente analogico, e quindi molto riduttivo: testimonia solo il fatto che i fenomeni analizzati dalla biologia molecolare restano per essa in larga parte un... «linguaggio cifrato». Anche se non gli si può rimproverare nulla, si deve dubitare tuttavia che l’analogia possa in qualche modo contribuire alla... «decifrazione».

2. Da "Sul metodo dialettico", Prometeo, n.1, 1950.

3. Da "Althusser o dei limiti dell’intelligenza piccolo-borghese", Programme Communiste, n.55, 1972.

4. Da "L’èvolutione biologica o l’Anti-Caos".

5. Da "Quaderni filosofici. A proposito della dialettica".

6. Preferiamo trarre questa descrizione da "L’évolutione biologica o l’Anti-Caos", in "Le basi biologiche dell’evoluzione", piuttosto che da "Il caso e la necessità" il cui stile «filosofico» è insopportabile e l’oggettività dubbia.

7. «Interamente»  prima; «profondamente»  poi: restrizione; ma «assolutamente incapace»  riporta a «interamente»; dunque l’ideologo sa di mentire, ma avanza spedito: gli animali-macchina non ci capiranno niente ma, anche nel caso contrario, che importa? Avrà comunque raggiunto il suo scopo. La convergenza di cinismo e oscurantismo intellettuale in un tale «luminare della scienza»  non può essere un fatto individuale: fornisce un’immagine troppo scoperta e fedele della controrivoluzione per non stigmatizzarla.

8.  "Il caso e la necessità", Mondadori, 1988. Con questa edizione sono state confrontate, quando è stato possibile, le numerose citazioni riportate nel testo.

9. È Jacob che ne parla nella "Logica del vivente". Colpito dal fenomeno dell’invarianza, Jacob non è perentorio come Monod riguardo all’evoluzione. la sua opera è per molti aspetti ben più seria e interessante del pessimo saggio dello spaccone della biologia molecolare, ma siccome nella nostra epoca di decadenza sono le sbruffonate e i fatti sensazionali a mietere successo, è naturalmente Monod ad avere gli onori della cronaca!

10. Modificazioni nelle cellule somatiche causate dall’attività dell’essere vivente. Nella sua formulazione antropomorfica, la non ereditarietà delle somazioni è detta «non ereditarietà dei caratteri acquisiti», ed è stata formulata per la prima volta da Weismann intorno al 1883 a seguito della scoperta della differenza fra cellule germinali o gameti (germen) e cellule di tutti gli altri tessuti (soma).

11. L’immagine che questa prefazione ci offre del livello intellettuale e del tono morale della biologia francese alla data 1972 è una conferma clamorosa del giudizio dato da Lenin ad inizio secolo sull’insieme della scienza borghese internazionale. Essa mostra che i Monod sono alla fine il castigo storico che degli imbelli del genere si meritano. Vediamone le chicche: «La scienza non ha mai spiegato nulla. È un punto sul quale insistiamo molto (sic). Noi non spieghiamo nulla. È una delle ragioni del nostro spiritualismo.
La scienza ogni giorno di più ci fornisce la prova della sua insufficienza». Costoro, che a differenza di Monod si dedicano per mestiere al principio di oggettività nelle scienze della natura, non perdono tempo a discutere il «nuovo principio fondamentale»  proposto imperativamente da Monod: non credendo più alla scienza, a che pro? Professor Monod, anche se aveste mille volte ragione, perché accanirvi a voler spiegare l’evoluzione? Perché si affannano a dirvi che «la scienza non ha mai spiegato nulla?»  Si dicono «spiritualisti» per delusione. Ma è vero anche l’opposto: «l’insufficienza»  della scienza è la loro propria insufficienza, perché la scienza è soltanto un’astrazione che ricopre la loro attività sociale. Essa non può oltrepassare i limiti stessi dei degni «spiritualisti»  che la fanno! Così va la «cittadella del sapere»  sotto la decadenza borghese!

12. Il materialismo dialettico disdegna egualmente entrambi i campi che dividono la biologia moderna, i tomisti (o riduzionisti) fautori dell’analisi microscopica e gli integristi (o evoluzionisti) fautori dello studio delle collettività animali e dei loro comportamenti. Gli uni e gli altri si trovano d’accordo su un solo fatto: rinfacciarsi reciprocamente l’incapacità di percepire i «segreti»  della vita e dell’evoluzione. Niente è più comico che il vedere le persone accapigliarsi perché c’è chi pretende di arrivare alla conoscenza attraverso l’analisi e chi invece attraverso la sintesi, o meglio abbordando direttamente la totalità in quanto tale! È una disputa tipicamente scolastica dal momento che non tiene conto che analisi e sintesi costituiscono una unità dialettica i cui termini sono indissolubilmente legati; d’altra parte, dal punto di vista dialettico, tanto è assurdo pretendere che basta conoscere una parte per conoscere il tutto quanto pensare che la totalità può essere conosciuta direttamente senza passare per l’analisi che permette di spiegare sia i fatti più nascosti sia quelli più astratti, che è proprio la chiave di volta  dell’insieme. Non si riesce ad immaginare per esempio "Il Capitale" di Marx senza l’analisi della «cellula», la merce. Ma non si riesce ad immaginarlo nemmeno senza la ricostruzione teorica della vasta totalità di rapporti propri alla società capitalistica e, a più forte ragione, alla previsione dei loro movimenti reciproci a partire dalle astrazioni teoriche tratte dallo studio scientifico di quella «cellula» (valore - lavoro - plusvalore - profitto, ecc.): analisi e sintesi! (vedi "Introduzione alla critica dell’economia politica, Il metodo dell’economia politica").
Le cose sono evidentemente più complesse in una scienza della natura dal momento che entra in gioco la cooperazione di un gran numero di individui nello stesso momento e nel corso della storia, ma i principi sono gli stessi: «La dialettica è nello stesso tempo analitica e sintetica, non nel senso che essa giustappone i due metodi di conoscenza..., ma piuttosto nel senso che essa li contiene come superati e si comporta al tempo stesso analiticamente e sinteticamente in ciascuno dei suoi procedimenti» (da Lenin, "Quaderni filosofici").

13. Monod è il Filosofo solitario che pretende di offrire su un piatto d’argento al pubblico strabiliato la (!) soluzione del (!) grande problema dell’evoluzione. Da perfetto metafisico è anche individualista e messianico. Un borghese classico, una figura arcaica!

14. Nella insulsa finzione di Monod «è un programmatore marziano digiuno di biologia ma informatico di professione»  col quale egli ha avuto «un’esperienza immaginaria» (sic!), che ha trovato queste tre «proprietà». Dati i risultati, gli crediamo sulla parola. Ma abbiamo mostrato che Monod non riserva esclusivamente ai... Marziani le «esperienze immaginarie».

15. Non ci metteremo qui a stabilire entro quali limiti è consentito di dire in generale che un processo qualunque è «autonomo»: ciò ci porterebbe troppo lontano dalla biosfera e dalla sua evoluzione. Quello che è certo, è che «l’autonomia assoluta» è il nulla.

16. Rapporto dialettico perché lega indissolubilmente due cose: le rocce, che sono rocce reali solo nella misura in sui sono soggette all’erosione dell’acqua, del gelo, ecc.; gli elementi, che appaiono come agenti erosivi solo in rapporto alle rocce e non, per esempio, in rapporto alle specie viventi! All’interno di questo rapporto è altrettanto stupido parlare di «autonomia»  della roccia, che non può sfuggire alla lenta degradazione meccanica e chimica dovuta all’erosione, quanto parlare di «autonomia»  dell’agente erosivo, che non è il solo a determinare la sagoma della roccia.

17.  Si potrebbero moltiplicare gli esempi: chi è più «autonomo» relativamente alle costrizioni materiali, ai legami di sangue, al dispotismo del costume e della tradizione, di un «libero»  cittadino della società borghese? Ma chi più di lui è dipendente da una molteplicità di costrizioni tipiche di questa società, completamente sconosciute alle tribù primitive, e che, in fin dei conti, ne fanno uno schiavo sia del sistema del salario, sia semplicemente di tutti i rischi dell’economia capitalistica: crisi economiche e guerre? O ancora: chi è più «autonomo»  del despota americano del mondo che impone la sua legge a tutte le potenze? Ma chi più di esso è dipendente dal resto del pianeta per il suo approvvigionamento di materie prime, per le sue esportazioni di merci e di capitali, e dunque per il suo ordine interno? La logica dialettica è universale, non se n’abbia a male il signor Professore.

18. Alcuni professori di craniologia comparata protestano in un articolo di "L’Anti-Caos" contro la «morfogenesi autonoma» dell’illustre Monod nei termini seguenti: nella morfogenesi la gravitazione agisce passivamente... Essa limita i tentativi e fatalmente li orienta. L’evoluzione si è inquadrata in questa sola via possibile aperta alla condizione terrestre. Seguendo questa rotta inflessibile e invisibile, a tentoni, attraverso mutazioni... l’evoluzione... non è che il risultato di condizioni imposte dall’esterno. L’evoluzione dei Vertebrati appare come comandata da una tonicità predominante sempre più marcata dei muscoli estensori della colonna vertebrale e degli arti...: è una organizzazione degli esseri in un equilibrio conforme alle leggi del cosmo (corsivo nostro), cioè in accordo con il mezzo ambiente e le esigenze della gravitazione. Quest’ultima non spinge le variazioni... verso il solo bipedismo a formula umana. Essa si è adattata e si adatta ad ogni altra soluzione morfologica a condizione che le norme imposte dal cosmo siano rispettate (corsivo nostro)... I fattori esterni non solo... dirigono e modificano i rapporti (tra le forme), ma addirittura alcuni di essi, come ad esempio la gravità, con la loro costanza, hanno permesso la realizzazione del processo ortogenetico che ha portato all’uomo. Oltre a questo fattore noto, ve ne sono altri solo supposti (la possibile influenza del campo magnetico?) o addirittura a noi del tutto sconosciuti, e che forse hanno avuto un ruolo preponderante... ("L’Anti-Caos", L’umanizzazione del cranio).

19. Monod accusava insomma la scienza ufficiale di insegnare nelle nostre scuole delle assurdità, dei concetti metafisici ormai superati del tipo: se «gli esseri organizzati si modificano nel corso dell’età» è perché hanno «la proprietà di evolvere» !!! Irriducibile, ma cortese, la scienza ufficiale rispondeva: «Quest’ultima asserzione si può discutere»  tramite i collaboratori dell’"Anti-Caos". Si voleva dire che era «discutibile»  o «da discutere» ? Mistero. Da una parte, essi notavano in tutta oggettività: «Secondo Monod è falsa». Dall’altra parte, aggiungevano scrupolosamente: Per contro, secondo Lamotte e l’Heritier ("Biologia generale", vol. I), «l’attitudine a variare»  rappresenta «una caratteristica fondamentale degli esseri viventi»; essa ha prodotto dei cambiamenti di cui alcuni (sic!) «di una vastità grandiosa hanno avuto per teatro le ere geologiche e la superficie del Pianeta». Ma non traevano alcuna conclusione. Non c’è da stupirsi: ciò che distingue la Scienza borghese dalla Filosofia non è forse proprio il rifiuto di trarre conclusioni? Questo diritto democratico non si confonde forse con l’oggettività come essa la concepisce? Naturalmente, e proprio per questo, essa pensa che senza democrazia non si dà scienza, perché senza rifiuto di trarre conclusioni... «è l’ideologia a trionfare!»

20. Abbiamo visto più sopra che gli specialisti del cranio spiegano questo piano in maniera tutt’altro che mistica mediante le leggi del cosmo.

21. Da "Dialettica della natura", Casualità e necessità.

22. v. "Il caso e la necessità", cap. 6, Invarianza e Perturbazioni.

23. v. "Il caso e la necessità", cap. 2, Vitalismi e Animismi.

24. Determinismo metafisico sì, ma valido entro dati limiti, poiché fino alla metafisica materialistica ha avuto storicamente il suo contenuto positivo (Marx: "Contributo alla storia del materialismo francese") e ha fatto scoperte in «scienze che sembravano di sua competenza»  dal che si può arguire che nel suo campo di competenza la stessa metafisica conserva un certo valore (Engels: "Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca"), mentre non serve più a nulla in altri campi. La dialettica serve qui a prevenire l’opposizione assoluta tra positivo e negativo, perfino per la metafisica materialista... e la meccanica classica.

25. Per esempio, la nozione che una realtà dev’essere una cosa avente dimensione, forma, individualità e suscettibile inoltre di essere misurata. Al contrario, lo sviluppo della conoscenza mostra che esistono realtà che hanno solo «un ordine di grandezza», e non «una geometria», che si presentano come pluralità e non come individui, che sono calcolabili e non misurabili, in breve che sono cose senza essere «cose», «esseri»  concepibili solo nel «divenire»  (ciò che confuta in pieno la concezione esistenzialista di Sartre secondo cui «il movimento non è che una malattia dell’essere» !!!), scoperte perfettamente intelligibili e niente affatto fuorvianti per un pensiero dialettico, così come la dissoluzione del vecchio dualismo materia-energia che Lenin chiamava, in polemica contro le interpretazioni idealistiche: «Scomparsa della materia». Ciò significa che scompare il limite al quale finora si arrestava la nostra conoscenza della materia, scompaiono certe proprietà della materia che prima ci sembravano assolute, immutabili, primordiali (impenetrabilità, inerzia, massa, ecc.) e che ora si dimostrano relative, esclusivamente inerenti a certi stati della materia, poiché l’unica proprietà della materia, il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico, è la proprietà di essere una realtà oggettiva, di esistere fuori della nostra coscienza (Cf. "Materialismo ed Empiriocriticismo, La materia è scomparsa").

26.  Per esempio: il quadrato della funzione d’onda che indica la proporzionalità di presenza; la funzione d’onda più semplice per un campo centrale come quello determinato da un nucleo atomico è «una funzione che si traduce mediante una decrescenza esponenziale della probabilità di presenza man mano che la distanza cresce», ecc...

27. v. "Il caso e la necessità", cap. 2, Vitalismi  e Animismi.

28. Questo non significa che, nel socialismo, la Scienza sarà meramente «utilitaria»: al contrario, oggi essa è utilitaria, ma per il capitale.