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Terza Internazionale 2° Congresso - Pietrogrado, luglio 1920 |
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Il mondo capitalista e l’Internazionale Comunista
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La borghesia di tutto il mondo ricorda con melanconia e rimpianto i vecchi tempi andati. Oggi, tutte le basi della politica interna e internazionale sono sconvolte o fortemente intaccate. Per il mondo degli sfruttatori il domani è gravido di tempesta. La guerra imperialista ha distrutto definitivamente il vecchio sistema di alleanza e di mutuo soccorso su cui erano basati l’equilibrio internazionale e la pace armata. Dalla pace di Versailles non è scaturito alcun nuovo equilibrio.
Prima la Russia, poi l’Austria-Ungheria e la Germania sono state gettate fuori dalla competizione. Potenze di prim’ordine, un tempo ai primi posti fra i pirati dell’imperialismo mondiale, sono state a loro volta saccheggiate e smembrate. Per l’imperialismo vittorioso dell’Intesa s’è aperto uno spazio illimitato di sfruttamento coloniale che comincia sul Reno, abbraccia tutta l’Europa centrale ed orientale e finisce all’oceano Pacifico. Forse che il Congo, la Siria, l’Egitto o il Messico possono essere comparati con le steppe, le foreste e le montagne della Russia o con le forze operaie, con gli operai qualificati della Germania? Il nuovo programma coloniale dei vincitori era molto semplice: rovesciare la rivoluzione proletaria in Russia, fare man bassa delle nostre materie prime, accaparrarsi la manodopera tedesca e il carbone tedesco, imporre all’imprenditore tedesco il ruolo di sorvegliante di schiavi e avere così a disposizione sia le merci ottenute che i profitti delle imprese. Il vecchio progetto di “organizzare l’Europa”, concepito dall’imperialismo tedesco all’epoca dei suoi successi militari, è stato ora ripreso dall’Intesa vittoriosa. Trascinando sul banco degli imputati i furfanti del governo tedesco, i governanti dell’Intesa li considerano tuttavia come loro pari.
Ma anche nel campo dei vincitori ci sono dei vinti. Ubriacata dal suo sciovinismo e dalle sue vittorie, la borghesia francese già si vede padrona dell’Europa. In realtà mai prima d’ora la Francia è dipesa più servilmente dalle sue più potenti rivali, l’Inghilterra e l’America. La Francia impone al Belgio un programma economico e militare e trasforma il suo debole alleato in una provincia vassalla ma, nei confronti dell’Inghilterra, essa gioca tutt’al più il ruolo di un Belgio. Per il momento, gli imperialisti inglesi lasciano agli usurai francesi l’onere di farsi giustizia nei limiti continentali che sono loro assegnati, facendo così ricadere sulla Francia l’indignazione dei lavoratori europei e inglesi. La potenza della Francia, dissanguata e in rovina, è solo apparente e fittizia; e prima o poi i socialpatrioti francesi saranno costretti a prenderne atto.
L’Italia, più ancora della Francia, ha perduto d’importanza nelle relazioni internazionali. Mancando di carbone, mancando di pane, mancando di materie prime, assolutamente disgregata dalla guerra, la borghesia italiana, nonostante tutta la sua cattiva volontà, è incapace di far valere nella misura in cui lo vorrebbe i diritti che crede di avere alla spoliazione e alla violenza, anche in quegli angoli di colonia che l’Inghilterra le ha concesso.
Il Giappone, in preda alle contraddizioni proprie del regime capitalista in una società che è rimasta feudale, è alla vigilia di una profonda crisi rivoluzionaria; e, a dispetto di circostanze piuttosto favorevoli nella politica internazionale, questa crisi ha già paralizzato il suo slancio imperialista.
Restano soltanto due vere grandi potenze mondiali, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti.
L’imperialismo inglese si è sbarazzato del suo rivale asiatico, lo zarismo, e della minacciosa concorrenza tedesca. La potenza della Gran Bretagna sui mari ha raggiunto il suo apogeo. Essa circonda i continenti con una catena di paesi ad essa sottomessi. Nel mare del Nord non ha rivali: ha messo le mani sulla Finlandia, l’Estonia e la Lettonia; ha tolto alla Svezia e alla Norvegia le ultime vestigia della loro indipendenza; ha trasformato il mar Baltico in un golfo che appartiene alle acque britanniche. Inoltre, avendo in pugno il Capo, l’Egitto, l’India, la Persia e l’Afghanistan, essa ha fatto dell’Oceano Indiano un mare interno totalmente sottomesso al suo potere. Controllando gli oceani, l’Inghilterra controlla anche i continenti. Sovrana del mondo, essa non trova limiti alla propria potenza che nella repubblica americana del dollaro e nella repubblica russa dei soviet.
La guerra mondiale ha definitivamente costretto gli Stati Uniti a rinunciare al loro conservatorismo continentale. Espandendosi il suo sviluppo, il programma del suo capitalismo nazionale – “l’America agli Americani” (dottrina di Monroe) – è stato rimpiazzato tout-court dal programma dell’imperialismo: “Il mondo intero agli Americani”. Non accontentandosi più di sfruttare la guerra attraverso il commercio, l’industria e le operazioni di Borsa, alla perenne ricerca di altre fonti di ricchezza rispetto a quelle che succhiava dal sangue europeo quando era neutrale, l’America è alla fine entrata in guerra, giocando un ruolo decisivo nella disfatta della Germania e avocando a sé tutte le questioni di politica europea e mondiale.
Sotto la bandiera della Società delle Nazioni, gli Stati Uniti hanno cercato di esportare al di qua dell’oceano l’esperienza che essi avevano già compiuto di una federazione di grandi popoli appartenenti a razze diverse; hanno voluto incatenare al loro carro trionfale i popoli dell’Europa e delle altre parti del mondo, assoggettandoli al governo di Washington. La Società delle Nazioni avrebbe dovuto trasformarsi, insomma, in una società monopolistica mondiale controllata dalla ditta: “Yankee & C°”.
Il Presidente degli Stati Uniti, il gran profeta dei luoghi comuni, è sceso dal suo Sinai per conquistare l’Europa portando con sé quattordici articoli. Gli agenti di Borsa, i ministri, gli affaristi della borghesia non si sono ingannati per un solo minuto sul vero significato della nuova verità rivelata. In compenso i “socialisti” europei, lavorati dal lievito di Kautsky, sono stati colti da un’estasi religiosa e si sono messi a danzare, come il re Davide, accompagnando l’arca santa di Wilson.
Ma al momento di affrontare le questioni pratiche, all’apostolo americano non è sfuggito che, nonostante la straordinaria ascesa del dollaro, il primato sulle vie marittime che uniscono e che dividono le nazioni apparteneva ancora e sempre alla Gran Bretagna, perché essa dispone della flotta più forte, della gomena più lunga, ed ha un’antica esperienza nella pirateria mondiale. Inoltre Wilson si è scontrato con le repubbliche sovietiche e con il comunismo. Profondamente colpito, il messia americano ha sconfessato la Società delle Nazioni, di cui l’Inghilterra aveva fatto una delle proprie cancellerie diplomatiche, e ha voltato la schiena all’Europa.
Sarebbe tuttavia puerile pensare che dopo aver subito un primo scacco da parte dell’Inghilterra l’imperialismo americano rientrerà nel suo guscio, conformandosi di nuovo alla dottrina di Monroe. No, continuando ad asservire con mezzi progressivamente più violenti il continente americano, trasformando in colonie i paesi dell’America centrale e meridionale, i democratici e i repubblicani si preparano, per mettere i bastoni fra le ruote alla Società delle Nazioni voluta dall’Inghilterra, a costituire una loro propria Lega, nella quale l’America del Nord svolgerà il ruolo di centro mondiale. Per affrontare la questione sul giusto versante, gli Stati Uniti hanno l’intenzione di trasformare la loro flotta, nel corso dei prossimi tre o cinque anni, in uno strumento potente più di quanto sia la flotta britannica. È un obbligo per l’imperialismo inglese, di fronte a ciò, porsi la domanda: essere o non essere?
La Francia, che contava di giocare un ruolo di arbitro fra l’Inghilterra e gli Stati Uniti, s’è trovata trascinata nell’orbita della Gran Bretagna come un satellite di seconda grandezza; la Società delle Nazioni è per essa un fardello intollerabile di cui cerca di disfarsi fomentando l’antagonismo fra inglesi e americani.
Così le forze più potenti lavorano alla preparazione di un nuovo scontro mondiale. Il programma di emancipazione delle piccole nazioni, che era stato avanzato durante la guerra, si è risolto nello sfacelo completo e nell’assoluto asservimento dei popoli balcanici, vincitori e vinti, nonché nella balcanizzazione di buona parte dell’Europa. Sotto la spinta degli interessi imperialistici, le potenze vittoriose hanno smembrato i grandi paesi sconfitti, facendo leva sulle diverse nazionalità presenti al loro interno. È evidente che qui non è in ballo il principio di nazionalità: una delle caratteristiche dell’imperialismo consiste proprio nel distruggere i quadri nazionali, quelli delle grandi potenze non esclusi. Di fatto, i piccoli Stati borghesi così creati non sono che sottoprodotti dell’imperialismo. Queste piccole nazioni cuscinetto – l’Austria, l’Ungheria, la Polonia, la Iugoslavia, la Boemia, la Finlandia, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, l’Armenia, la Georgia, ecc. – apertamente oppresse dall’imperialismo o ufficialmente protette, ma sempre vassalle, sono di fatto dominate attraverso le banche, le ferrovie, il monopolio del carbone, e condannate a soffrire difficoltà economiche e nazionali intollerabili, conflitti interminabili, rotture sanguinose.
Quale mostruosa beffa storica è il fatto che la restaurazione della Polonia, che tanta parte rappresentò nel programma della democrazia rivoluzionaria e nelle prime manifestazioni del proletariato internazionale, sia stata alla fine realizzata dall’imperialismo a fini controrivoluzionari! La Polonia “democratica”, i cui precursori morirono sulle barricate di tutta Europa, è in questo momento un’arma insanguinata nelle mani dei briganti anglo-francesi scagliati contro la prima repubblica proletaria che il mondo abbia mai visto.
Accanto alla Polonia, la Cecoslovacchia “democratica”, venduta al capitale francese, fornisce la guardia bianca contro la Russia sovietica e contro l’Ungheria. L’eroico tentativo compiuto dal proletariato ungherese per affrancarsi dal caos politico ed economico dell’Europa centrale e avviarsi sulla strada della federazione sovietica – che rappresenta l’unica vera via di salvezza – è stato soffocato dalla reazione capitalista coalizzata nel momento in cui, ingannato dai partiti che lo dirigono, il proletariato delle grandi potenze europee è stato incapace di compiere il proprio dovere verso l’Ungheria socialista e verso sé stesso. Il governo sovietico di Budapest è stato rovesciato con l’aiuto dei socialtraditori che, dopo essersi mantenuti al potere per tre anni e mezzo, sono stati abbattuti a loro volta dalla canaglia controrivoluzionaria, i cui crimini hanno superato per efferatezza quelli di Kolciak, di Denikin, di Wrangel e degli altri agenti dell’Intesa. Ma anche se per ora sconfitta, l’Ungheria sovietica continua a mandare la sua luce, come uno splendido faro, a tutti i lavoratori dell’Europa centrale.
Il popolo turco non vuole sottomettersi alla vergognosa pace che gli impongono i tiranni di Londra. Per dare esecuzione alle clausole del trattato, l’Inghilterra non ha esitato ad armare la Grecia e scagliarla contro la Turchia. In questa maniera la penisola balcanica e l’Asia Minore, i greci e i turchi, sono condannati a nuove devastazioni e a reciproci massacri.
Nella lotta dell’Intesa contro la Turchia è stata arruolata l’Armenia, come lo fu il Belgio nella lotta contro la Germania e la Serbia nella lotta contro l’Austria-Ungheria. Dopo la costituzione dell’Armenia – che non ha frontiere definite e quindi neppure alcuna possibilità d’esistenza – Wilson ha rifiutato di accettare il mandato armeno che gli offriva la Società delle Nazioni: il sottosuolo dell’Armenia, in effetti, non contiene né petrolio né platino. L’Armenia “emancipata” è più che mai indifesa. Si può dire che non c’è Stato “nazionale” di recente creazione che non abbia il proprio irredentismo, il proprio ascesso nazionale latente.
Ma la lotta nazionale non risparmia neppure i territori in mano ai vincitori. La borghesia inglese, che vorrebbe prendere sotto la sua tutela i popoli dei quattro angoli del mondo, è incapace di risolvere in modo soddisfacente la questione irlandese che le si propone alla sua porta. Ma è nelle colonie che la questione nazionale è più gravida di minacce. L’Egitto, l’India e la Persia sono scossi da insurrezioni. I proletari avanzati d’Europa e d’America trasmettono ai lavoratori delle colonie la parola d’ordine della federazione sovietica.
L’ufficiale, governativa, nazionale, civilizzata, borghese Europa, così come è uscita dalla guerra e dalla successiva pace di Versailles, fa pensare ad un manicomio. I piccoli Stati artificiali, economicamente agonizzanti nei confini loro imposti, si combattono e si azzannano a vicenda per strapparsi qualche porto, qualche provincia, qualche insignificante cittadina. Essi aspirano alla protezione degli Stati più forti, proprio quando l’antagonismo di questi ultimi diventa ogni giorno di più insanabile: l’Italia mantiene un atteggiamento ostile nei confronti della Francia, e sarebbe disposta a sostenere contro di essa la Germania se quest’ultima fosse in grado di rialzare la testa; la Francia è avvelenata dall’invidia che nutre nei confronti dell’Inghilterra e, pur di ottenere il pagamento delle riparazioni, è pronta di nuovo a incendiare i quattro angoli dell’Europa; l’Inghilterra, con l’aiuto della Francia, mantiene l’Europa in uno stato di caos e d’impotenza per avere mano libera nelle sue manovre contro l’America; gli Stati Uniti lasciano che il Giappone si impantani nella Siberia orientale, per assicurare nel frattempo alla loro flotta la superiorità su quella inglese entro il 1925, a meno che l’Inghilterra non si decida a misurarsi con essi prima di allora.
Per completare a dovere questo quadro, l’oracolo militare della borghesia francese, maresciallo Foch, ci ammonisce che la prossima guerra inizierà là dove si è arrestata l’ultima: si vedranno prima apparire gli aerei, i tanks, i fucili automatici e le mitragliatrici in luogo dei fucili portatili; e le granate al posto delle baionette.
Operai e contadini d’Europa, d’America, d’Asia, d’Africa e d’Australia!
Voi avete sacrificato dieci milioni di vite e venti milioni di feriti e
d’invalidi! Adesso sapete almeno quello che avete ottenuto a questo prezzo!
Intanto, l’umanità scivola sempre di più nella rovina. La guerra ha materialmente distrutto i legami economici il cui sviluppo rappresentava una delle più importanti conquiste del capitalismo mondiale. Dal 1914 l’Inghilterra, la Francia e l’Italia sono state completamente separate dall’Europa centrale e dal Medio Oriente, e a partire dal 1917 anche dalla Russia. Per i numerosi anni di una guerra che ha distrutto quella che era stata l’opera di svariate generazioni, il lavoro umano, ridotto al minimo, è stato applicato principalmente a trasformare in merci le riserve di materie prime già accumulate e con le quali sono state costruite soprattutto armi e strumenti di distruzione. Nei campi economici in cui l’uomo entra in lotta immediata con la natura avara ed inerte, strappando alle sue viscere il combustibile e le materie prime, il lavoro è stato progressivamente annientato. La vittoria dell’Intesa e la pace di Versailles non hanno affatto fermato la distruzione economica e la decadenza generale, ne hanno soltanto modificato le modalità e le forme. Il blocco economico imposto alla Russia sovietica e la guerra civile suscitata artificialmente lungo le sue fertili frontiere hanno causato e causano ancora danni incommensurabili al benessere dell’intera umanità. L’Internazionale denuncia davanti al mondo che se la Russia fosse sostenuta dal punto di vista tecnico, in una misura anche assai modesta, essa potrebbe, grazie alle forme sovietiche della sua economia, fornire due o tre volte di più in prodotti alimentari e materie prime all’Europa di quanto non ne fornisse prima la Russia zarista. Al contrario, l’imperialismo anglo-francese costringe la Repubblica dei lavoratori a spendere tutte le sue energie e tutte le sue risorse nella difesa. Pur di privare gli operai russi di combustibile, l’Inghilterra ha trattenuto nelle sue grinfie Baku, il cui petrolio in tal modo è rimasto pressoché inutilizzato poiché essa non è riuscita ad importarne che una parte insignificante. Allo stesso modo, i banditi bianchi al soldo dell’Intesa hanno devastato il ricchissimo bacino carbonifero del Don ogni volta che sono riusciti a prendere l’offensiva in quel settore. Per non essere da meno, gli ingegneri e i fanti del Genio francese si sono dati da fare più di una volta per distruggere i nostri ponti e le nostre ferrovie, mentre il Giappone si dedica sistematicamente al saccheggio e alla distruzione della Siberia Orientale.
I due fattori più importanti per la rinascita dalla vita economica europea, la scienza industriale della Germania e l’alto tasso di produzione della sua manodopera, sono paralizzati dalle clausole della pace di Versailles più di quanto non lo fossero prima della guerra. L’Intesa si trova di fronte ad un dilemma: per rendere esigibili le riparazioni di guerra bisogna dare il modo di lavorare, ma per poter lavorare si deve lasciar vivere. E dare alla Germania smembrata ed esangue la possibilità di rifarsi una vita significa rendervi possibile dei sussulti di protesta. Ma la paura di una rivincita tedesca spinge il generale Foch a stringere ogni giorno di più la morsa militare intorno alla Germania per impedirle di rimettersi in piedi.
A ciascuno manca qualcosa, tutti sono in una situazione di bisogno. Non soltanto il bilancio della Germania ma anche quelli della Francia e dell’Inghilterra si segnalano esclusivamente per il loro passivo. Il debito francese ammonta a 300 miliardi di franchi, di cui almeno i due terzi, secondo l’affermazione del senatore reazionario Gaudin de Villaine, sono il risultato di ogni sorta di depredazioni, di abusi e di disordini.
La Francia ha bisogno d’oro, la Francia ha bisogno di carbone. Il borghese francese si appella alle innumerevoli tombe dei soldati caduti in guerra per rivendicare gli interessi dei suoi capitali. La Germania deve pagare: il generale Foch non ha forse abbastanza senegalesi per occupare le città tedesche? La Russia deve pagare! Per convincercene, il governo francese usa per devastare la Russia i miliardi strappati ai contribuenti in nome della ricostruzione dei dipartimenti francesi.
L’accordo finanziario internazionale che avrebbe dovuto alleggerire il peso delle imposizioni francesi annullando i debiti di guerra alla fine non c’è stato: gli Stati Uniti si sono mostrati molto poco disposti a fare all’Europa un regalo di dieci miliardi di sterline.
Intanto l’emissione di carta moneta non conosce soste, raggiungendo ogni giorno cifre da capogiro. In Russia, dove esiste un’organizzazione economica unificata e una ripartizione sistematica delle derrate, e dove il salario in moneta tende sempre più ad essere sostituito con il pagamento in natura, la continua emissione di carta moneta e la rapida caduta dei tassi non fanno che confermare lo sfasciamento del vecchio sistema finanziario e commerciale. Ma nei paesi capitalisti la crescente quantità di buoni del Tesoro in circolazione è indice di un profondo marasma economico e del fallimento imminente.
Le conferenze convocate dall’Intesa fanno il giro del mondo, cercando ispirazione in questa o quella località alla moda. Ognuno reclama gli interessi sul sangue versato durante la guerra, un’indennità proporzionale al numero dei propri morti. Questa specie di Borsa ambulante ripete ogni quindici giorni la stessa cantilena, e cioè se deve ammontare al 50 o al 55 per cento la parte che spetta alla Francia di un contributo che la Germania non sarà mai in grado di pagare. In fondo, queste fantasmagoriche conferenze non hanno altro scopo che rendere omaggio alla tanto millantata “organizzazione” dell’Europa.
La guerra ha fatto subire un’evoluzione al capitalismo. La sistematica estorsione di plusvalore che un tempo era per l’imprenditore la sola fonte di reddito, sembra attualmente non essere un’occupazione abbastanza sostanziosa per i signori borghesi, che hanno preso gusto a moltiplicare i loro dividendi nel giro di pochi giorni a mezzo di sapienti speculazioni basate sul brigantaggio internazionale. Il borghese ha gettato alle ortiche i pregiudizi che gli erano d’impaccio ed ha acquisito in compenso una certa qual destrezza di mano che finora gli mancava. La guerra lo ha abituato, quasi si trattasse di ordinaria amministrazione, a ridurre paesi interi alla fame attraverso blocchi economici e militari, a bombardare ed incendiare città e pacifici villaggi, ad infettare sorgenti e fiumi con colture di colera, a trasportare esplosivi nelle valigie diplomatiche, ad emettere falsi biglietti di banca imitando quelli del nemico, a servirsi della corruzione, dello spionaggio e del contrabbando in proporzioni mai viste prima. I metodi di azione applicati in guerra sono rimasti in auge nel mondo commerciale anche dopo la conclusione della pace. Le operazioni commerciali di una certa entità si effettuano sotto l’egida dello Stato. Quest’ultimo non ha ormai niente da invidiare ad una banda di malfattori armati fino ai denti. Il mercato della produzione mondiale si restringe ogni giorno di più, la pressione sulla produzione diventa sempre più frenetica e tutto sempre più caro.
Ostacolare: questa l’ultima parola d’ordine della politica del capitalismo, la consegna che rimpiazza il protezionismo e il libero scambio! L’aggressione di cui è stata vittima l’Ungheria da parte dei furfanti rumeni, che hanno razziato tutto quello che hanno trovato a portata di mano, locomotive e gioielli indifferentemente, esemplifica perfettamente la politica economica perseguita dai Lloyd George e dai Millerand.
Nella sua politica economica interna la borghesia non sa come comportarsi tra un sistema di nazionalizzazioni, di regolamentazioni e di controllo da parte dello Stato, che potrebbe essere tra i più efficaci, e dall’altra parte le proteste che si fanno sentire contro le intromissioni dello Stato negli affari economici.
Il parlamento francese è alla ricerca di un compromesso per poter concentrare la direzione delle ferrovie della Repubblica in un’unica mano senza però ledere gli interessi dei capitalisti azionisti delle compagnie ferroviarie private. Nel frattempo, la stampa capitalistica conduce una feroce campagna contro lo “statalismo”, colpevole di porre un freno all’iniziativa privata. In America, benché la situazione delle ferrovie non sia migliorata con la soppressione del controllo governativo, dopo la parentesi della guerra, il partito repubblicano promette nel suo programma di affrancare la vita economica dall’arbitrato del governo. Il capo delle trade-unions americane, Samuel Gompers, un vecchio cerbero del capitale, si batte contro la nazionalizzazione delle ferrovie che invece i nuovi adepti e i ciarlatani del riformismo propongono alla Francia come una panacea universale. In realtà, l’intervento disordinato dello Stato serve solo ad assecondare l’attività rovinosa degli speculatori, gettando l’economia nel caos, proprio quando il capitalismo attraversa la sua fase di decadenza. Togliere ai trust i mezzi di produzione e di trasporto per trasferirli alla nazione, cioè allo Stato borghese, cioè al più potente e vorace dei trust capitalisti, non significa circoscrivere il male bensì farne una legge comune. La caduta dei prezzi e il rialzo del tasso della moneta sono soltanto indici ingannevoli che non riescono a nascondere la rovina imminente. I prezzi hanno un bel scendere, ciò non vuol dire che ci sia un aumento delle materie prime né che il lavoro sia diventato più produttivo.
Dopo la sanguinosa prova della guerra, la massa operaia non è più in grado di lavorare con lo stesso vigore nelle stesse condizioni. La distruzione accelerata di valori la cui creazione aveva richiesto anni di lavoro, lo sfrontato gioco di Borsa da parte della cricca finanziaria con poste di svariati miliardi, mentre tutto intorno si innalzano cumuli di ossa e di rovine, sono lezioni della storia assai poco adatte ad incentivare nella classe operaia la ferrea disciplina inerente al lavoro salariato. Gli economisti borghesi e i loro scribacchini ci parlano di una “ondata di pigrizia” che, secondo loro, starebbe abbattendosi sull’Europa minacciandone l’avvenire economico. Gli amministratori cercano di guadagnare tempo accordando qualche privilegio agli operai qualificati. Ma i loro sforzi sono vani. Per partecipare alla ricostruzione e allo sviluppo della produzione la classe operaia deve possedere la certezza che ogni colpo di martello avrà il risultato di migliorare la sua sorte, di renderle più facile l’istruzione e di avvicinarla ad una pace universale. Ma questa certezza non può esserle assicurata che dalla rivoluzione sociale.
L’aumento dei prezzi delle derrate alimentari semina il malcontento e la rivolta in tutti i paesi. Al flagello del carovita e all’ondata minacciosa degli scioperi le borghesie europee oppongono soltanto palliativi. Per essere in grado di pagare agli agricoltori anche solo una parte delle loro spese di produzione, lo Stato, soffocato dai debiti, si imbarca in losche speculazioni, derubandosi da solo pur di ritardare il momento della resa dei conti. Se da un lato è vero che alcune categorie di operai vivono attualmente in condizioni migliori che non prima della guerra, questo in realtà non ci dice nulla sullo stato economico dei paesi capitalisti. Un futuro improntato sui prestiti non può che essere foriero di miserie e di calamità.
Che dire degli Stati Uniti? “L’America è la speranza dell’umanità”: per bocca di Millerand, il borghese francese ripete questa massima di Turgot, sperando in un condono dei propri debiti, lui che i debiti non li rimette a nessuno. Ma gli Stati Uniti non sono in grado di tirar fuori l’Europa dall’impasse economica in cui si è cacciata. Negli ultimi sei anni essi hanno esaurito il loro stock di materie prime. L’adattamento del capitalismo americano alle esigenze della guerra mondiale ha contratto la sua base industriale. Gli europei hanno smesso di emigrare negli Stati Uniti. Un’ondata di ritorno ha strappato all’industria americana centinaia di migliaia di tedeschi, italiani, polacchi, serbi, cechi richiamati in Europa sia dalla mobilitazione che dal miraggio di una patria ritrovata. La mancanza di materie prime e di forze operaie si fa pesantemente sentire sulla Repubblica transatlantica e genera una profonda crisi economica per effetto della quale il proletariato americano entra in una nuova fase di lotta rivoluzionaria. L’America sta rapidamente europeizzandosi.
Neppure i paesi neutrali sono sfuggiti alle conseguenze della guerra e dei blocchi. Simile a un liquido racchiuso in vasi comunicanti, l’economia degli stati capitalisti, strettamente legati fra loro, grandi o piccoli, belligeranti o neutrali, vincitori o vinti, tende a prendere un solo ed eguale livello, quello della miseria, della carestia e del declino.
La Svizzera vive alla giornata, col rischio che un evento qualsiasi la precipiti nell’anarchia. In Scandinavia, il problema dell’approvvigionamento non potrebbe essere risolto nemmeno da una forte importazione d’oro: per avere il carbone, si è obbligati a bussare, dopo ripetuti inchini, alla porta dell’Inghilterra. A scapito della carestia in Europa, la pesca in Norvegia subisce una crisi inaudita. La Spagna, da cui la Francia ha importato uomini, cavalli e viveri, non riesce a tirarsi fuori dalle molte difficoltà dal punto di vista del vettovagliamento, ed è scossa da violenti scioperi e manifestazioni delle masse che la fame obbliga a scendere nelle piazze.
La borghesia conta fortemente sulle campagne. I suoi economisti affermano che il benessere dei contadini è straordinariamente aumentato. Ma anche questa è un’illusione. È vero che i contadini che portano i loro prodotti al mercato hanno più o meno fatto fortuna dappertutto durante la guerra. Hanno potuto vendere i loro prodotti a prezzi altissimi e pagare con una moneta che ora rende lievi i debiti contratti quando il denaro costava caro. Per loro questo è un evidente vantaggio. Ma durante la guerra i campi sono rimasti incolti ed il loro rendimento è calato. Inoltre, il prezzo dei manufatti, di cui i contadini hanno bisogno, è aumentato nella misura in cui il denaro ha perduto il suo valore. Le esigenze del fisco sono divenute smisurate e minacciano di inghiottire il contadino insieme ai suoi prodotti ed alle sue terre. Così, dopo un periodo di momentaneo aumento del benessere, i piccoli contadini si dibattono sempre più in difficoltà insormontabili. Il loro malcontento per gli effetti della guerra non potrà che crescere e il contadino, diventato esercito permanente, prepara non poche sgradite sorprese alla borghesia. La ricostruzione economica dell’Europa, di cui vanno parlando i ministri che la governano, è una menzogna. L’Europa va in rovina, e con essa tutto il mondo capitalistico.
Sulle basi del capitalismo non c’è salvezza. La politica dell’imperialismo è incapace di eliminare il bisogno; anzi l’aggrava, perché favorisce la dilapidazione delle riserve ancora disponibili. La questione delle materie prime e dei combustibili è un problema internazionale che si può risolvere soltanto sulla base di una produzione socializzata e pianificata su scala universale.
È necessario cancellare i debiti statali. È necessario emancipare la forza lavoro e i frutti del lavoro dall’enorme tributo che essi pagano alla plutocrazia mondiale. È necessario abbattere tale plutocrazia. È necessario distruggere le barriere doganali che atomizzano l’economia mondiale. Bisogna sostituire al supremo consesso economico degli imperialisti dell’Intesa un supremo Consiglio economico del proletariato mondiale al fine di realizzare uno sfruttamento centralizzato di tutte le risorse dell’umanità.
È necessario uccidere l’imperialismo affinché l’umanità possa
vivere.
3. IL REGIME BORGHESE DOPO LA GUERRA
Tutta l’energia delle classi possidenti è concentrata su due questioni: mantenersi al potere nel corso della lotta internazionale e impedire al proletariato di diventare padrone di ogni singolo paese. Su questi obiettivi i vecchi raggruppamenti politici della borghesia hanno sprecato le loro forze. I programmi di un tempo che separavano tradizionalmente i diversi settori della borghesia sono scomparsi senza lasciare traccia, ancor prima dell’attacco rivoluzionario del proletariato, e non soltanto in Russia, dove la bandiera del Partito cadetto diventò nel momento decisivo della lotta la bandiera di tutti i proprietari contro la rivoluzione degli operai e dei contadini, ma anche nei paesi in cui la cultura politica è più antica e ha radici più profonde.
Lloyd George si fa portavoce dell’unione dei conservatori, dei sindacalisti e dei liberali per la lotta comune contro il potere nascente della classe operaia. Questo vecchio demagogo colloca alla base del suo sistema la santa Chiesa, che egli paragona a una centrale elettrica la cui corrente alimenta equamente tutti i partiti delle classi abbienti. In Francia l’epoca dell’anticlericalismo, così viva fino a pochissimo tempo fa, sembra ormai un fantasma antidiluviano. Ora i radicali, i monarchici e i cattolici formano un blocco d’ordine nazionale contro il proletariato che insorge. II governo francese, pronto a stendere la mano ad ogni forza reazionaria, appoggia l’ultrareazionario Wrangel e riallaccia i rapporti diplomatici con il Vaticano.
Giolitti, campione di neutralità e tedescofilo, ha preso il timone del governo italiano come leader comune degli interventisti, dei neutralisti, dei clericali, dei mazziniani. È pronto a cambiare rotta e a fare un voltafaccia su questioni secondarie di politica interna ed estera, pur di respingere con la massima spietatezza l’offensiva dei proletari rivoluzionari delle città e delle campagne. Il governo di Giolitti si considera, e giustamente, l’ultima carta che la borghesia italiana può giocare.
La politica di tutti i governi e di tutti i partiti governativi tedeschi dopo la caduta degli Hohenzollern ha mirato a creare, in combutta con le classi dominanti dell’Intesa, un’atmosfera d’odio per il bolscevismo, cioè per la rivoluzione proletaria. Nel momento in cui lo Shylock anglo-francese stringe il cappio attorno al collo del popolo tedesco con brutalità sempre maggiore, la borghesia tedesca, senza distinzioni di partito, implora il nemico perché allenti la corda di quel tanto sufficiente a far sì che essa possa soffocare con le proprie mani l’avanguardia del proletariato tedesco. Questo è il succo delle periodiche conferenze e dei periodici accordi sul disarmo e sulla concessione di materiale bellico.
In America la linea di demarcazione tra repubblicani e democratici è completamente scomparsa. Queste due potenti organizzazioni di sfruttatori, adatte al ristretto ambito delle relazioni americane, hanno svelato la propria totale vacuità quando la borghesia americana è entrata nell’arena del brigantaggio mondiale.
Mai come ora gli intrighi dei singoli dirigenti e delle loro bande – tanto nelle opposizioni che nei gabinetti di governo – sono stati contraddistinti da tanto aperto cinismo. Ma nello stesso tempo tutti i capi e le loro cricche, i partiti borghesi di tutti i paesi, stanno costituendo un fronte comune contro il proletariato rivoluzionario.
Mentre i filistei socialdemocratici continuano a contrapporre la via “democratica” alle violenze e alla via della dittatura, le ultime vestigia della democrazia vengono calpestate e distrutte in tutti gli Stati del mondo. Dopo una guerra durante la quale le assemblee nazionali hanno svolto il ruolo di paraventi patriottici, impotenti ma rumorosi, delle cricche imperialistiche dominanti, i parlamenti sono caduti in uno stato di assoluta impotenza. Ora tutte le questioni importanti vengono decise fuori dal parlamento. L’illusorio allargamento delle prerogative parlamentari, proclamato con tanta solennità dai pagliacci imperialisti in Italia e negli altri paesi, non cambia in nulla la situazione. I veri padroni e governanti delle sorti dello Stato – Lord Rothschild, Lord Weir, Morgan e Rockefeller, Schneider e Loucheur, Hugo Stinnes e Felix Deutsch, Rizzello e Agnelli, questi re dell’oro, del carbone, del petrolio e del metallo – agiscono dietro le quinte e mandano in parlamento i propri fidati garzoni affinché sbrighino i loro affari.
Il parlamento francese, più screditato di qualsiasi altro per la sua falsa retorica e la sua cinica corruzione, il cui massimo svago consiste nel leggere in tre riprese i più insignificanti disegni di legge, apprende improvvisamente che i quattro miliardi stanziati per la ricostruzione delle regioni francesi erano stati spesi da Clémenceau per altri fini, in particolare per proseguire l’opera di devastazione in Russia.
La stragrande maggioranza dei membri del parlamento inglese, che si ritiene onnipotente, non è informata sulle reali intenzioni di Lloyd George e di Kerson riguardo alla Russia sovietica, o anche alla stessa Francia, più di quanto lo siano le comari dei villaggi del Bengala.
Negli Stati Uniti, il Congresso, nolente o volente, fa da coro al presidente, che è lui stesso servo dell’ingranaggio elettorale. Esso serve da apparato politico ai trust in una misura assai più larga ora, dopo la guerra, che prima.
Il parlamentarismo tardivo della Germania, aborto della rivoluzione borghese, che per parte sua altro non è che un aborto della storia, soffre nella propria infanzia di tutte le malattie caratteristiche della senilità. Il Reichstag della repubblica di Ebert, “il più democratico del mondo”, è impotente non soltanto di fronte al bastone da maresciallo brandito da Foch, ma anche di fronte ai maneggi di borsa dei suoi Stinnes, e ai complotti militari della sua casta di ufficiali. La democrazia parlamentare tedesca non è che uno spazio vuoto tra due dittature.
La stessa composizione della borghesia ha subìto profonde modifiche nel corso della guerra. Di fronte all’impoverimento generale del mondo intero, la concentrazione dei capitali ha fatto improvvisamente un enorme balzo in avanti. Aziende fino ad ora rimaste nell’ombra sono venute in primo piano. La solidità, l’equilibrio, la propensione verso i “ragionevoli” compromessi, l’osservanza di un certo qual decoro tanto nello sfruttare quanto nel godere dei frutti dello sfruttamento, tutto ciò è stato spazzato via dall’impeto della piena imperialistica.
Sono balzati alla ribalta nuovi ricchi: appaltatori di guerra, speculatori di basso livello, pescecani, avventurieri internazionali, contrabbandieri, criminali adorni di diamanti, feccia senza legge né fede, avida di lusso e pronta a qualsiasi brutalità contro la rivoluzione proletaria da cui non si può aspettare nient’altro che il nodo scorsoio.
L’attuale sistema, in quanto regime dei ricchi, si erge di fronte alle masse in tutta la sua impudenza. In America, in Francia, in Inghilterra il lusso ha assunto un carattere frenetico. Parigi, zeppa di parassiti del patriottismo internazionale, sembra, come dice “Le Temps”, una Babilonia alla vigilia della sua distruzione.
La politica, la giustizia, la stampa, le arti e la Chiesa si allineano al fianco di questa borghesia. Ogni ritegno, ogni principio è stato lasciato da parte. Wilson, Clémenceau, Millerand, Lloyd George e Churchill non rifuggono dalle frodi più sfrontate né dalle più rozze menzogne e, quando sono colti con le mani nel sacco, passano indifferenti a nuove imprese criminali. Le regole classiche della doppiezza politica, quali le enunciava il vecchio Machiavelli, diventano innocenti aforismi di un babbeo di provincia a paragone con i princìpi che guidano oggi i governanti borghesi. I tribunali, che in passato nascondevano la propria essenza borghese sotto orpelli democratici, ora sono diventati aperti strumenti del disprezzo di classe e della provocazione controrivoluzionaria. I giudici della Terza Repubblica hanno prosciolto l’assassino di Jaurès senza batter ciglio. I tribunali della Germania, che si è dichiarata “repubblica socialista”, incoraggiano gli assassini di Liebknecht, di Rosa Luxemburg e degli altri martiri del proletariato. I tribunali della democrazia borghese servono a legalizzare solennemente tutti i crimini del terrore bianco.
La stampa borghese porta in fronte il marchio della venalità, come un marchio di fabbrica. I principali giornali della borghesia mondiale non sono che mostruose fabbriche di menzogne, di calunnie e di veleno morale.
Gli umori e i sentimenti della borghesia sono soggetti a nervosi alti e bassi, come i prezzi dei suoi mercati. Durante i primi mesi che hanno seguito la fine della guerra la borghesia internazionale, soprattutto la borghesia francese, tremava di fronte al comunismo minacciante. Essa si rendeva conto dell’imminenza del pericolo proprio nella misura in cui aveva commesso crimini sanguinosi. Ma ha saputo respingere il primo attacco. Legati ad essa dalle catene di una comune responsabilità, i partiti socialisti e i sindacati della Seconda Internazionale le hanno reso un ultimo servizio, offrendo la schiena ai primi colpi inferti dalla collera dei lavoratori. A prezzo del completo naufragio della Seconda Internazionale, la borghesia ha ottenuto un po’ di respiro. È bastato un certo numero di voti controrivoluzionari ottenuti da Clémenceau alle elezioni parlamentari, è bastato un equilibrio instabile per qualche mese, è bastato l’insuccesso dello sciopero di maggio perché la borghesia francese intravvedesse con sicurezza la solidità incrollabile del suo regime. L’orgoglio di questa classe ha allora raggiunto un’altezza pari a quella raggiunta, prima, dalle sue paure.
La minaccia è diventata l’argomento esclusivo della borghesia. Essa non crede alle frasi ed esige fatti: che si arresti, che si disperdano le manifestazioni, che si confischi, che si fucili! Lloyd George consiglia seccamente ai ministri tedeschi di fucilare i loro comunardi, così come fece la Francia del 1871. Un funzionario di terz’ordine può contare sui tumultuosi applausi della Camera se alla fine di uno striminzito resoconto sa piazzare qualche bella minaccia all’indirizzo degli operai. Mentre l’amministrazione si trasforma in una organizzazione sempre più sfrontata, destinata ad eseguire sanguinose repressioni contro le classi lavoratrici, altre organizzazioni controrivoluzionarie private, formate sotto la sua protezione e poste ai suoi ordini, lavorano per impedire gli scioperi con la violenza, per provocare, per offrire false testimonianze, per distruggere le organizzazioni rivoluzionarie, per impadronirsi delle istituzioni comuniste, per massacrare e incendiare, per assassinare i tribuni rivoluzionari. Nello stesso tempo, vengono prese misure a difesa della proprietà privata e della democrazia. I figli dei grandi proprietari, i piccolo-borghesi senza arte né parte e in generale gli elementi declassati, in primo luogo gli aristocratici delle diverse specie emigrati dalla Russia, formano l’inesauribile riserva di quadri per gli eserciti irregolari della controrivoluzione. Alla loro testa sono ufficiali cresciuti alla scuola della guerra imperialista. I ventimila ufficiali dell’esercito di Hoenzollern costituiscono, soprattutto dopo la rivolta di Kapp-Lueltvitz, un solido nucleo controrivoluzionario su cui la democrazia tedesca non riuscirà ad avere la meglio se il martello della dittatura proletaria non verrà a romperlo. Quest’organizzazione centralizzata di terroristi del passato regime è completata da distaccamenti di partigiani, costituiti dagli alti carnefici prussiani.
Negli Stati Uniti, organizzazioni come la National Security League o i Knight of Liberty sono i reggimenti d’avanguardia del capitale e al loro fianco agiscono quelle bande di briganti che sono le agenzie di spionaggio privato (Detective agencies).
In Francia la Ligue Civique non è altro che una perfezionata organizzazione di crumiri e la Confederazione del lavoro, peraltro riformista, è posta fuori legge. La mafia degli ufficiali bianchi d’Ungheria, che continua ad avere un’esistenza clandestina sebbene il suo governo di boia controrivoluzionari sussista per le buone grazie dell’Inghilterra, ha mostrato al proletariato del mondo intero come si pratichi quest’opera civilizzatrice e che cosa sia quest’umanità preconizzata da Wilson e da Lloyd George, dopo aver maledetto il potere dei soviet e le violenze rivoluzionarie.
I governi “democratici” della Finlandia, della Georgia, della Lettonia e dell’Estonia sudano sangue per raggiungere il livello di perfezione del loro prototipo ungherese. A Barcellona la polizia ha ai suoi ordini una banda di assassini. Ed è lo stesso dappertutto.
Anche in un paese vinto e rovinato come la Bulgaria gli ufficiali senza impiego si riuniscono in società segrete che sono pronte al primo segnale a dar prova del loro patriottismo ai danni degli operai bulgari. Alla luce del regime borghese quale è emerso dalla guerra mondiale, il programma della conciliazione di interessi antagonisti, della collaborazione di classe, del riformismo parlamentare, della socializzazione graduale e dell’unità nazionale si manifestano come una tragica buffonata.
La borghesia ha abbandonato una volta per tutte l’idea di cattivarsi il proletariato per mezzo delle riforme. Ora corrompe con qualche regalo lo strato superiore della classe operaia e costringe all’obbedienza la grande massa col ferro e col sangue.
Oggi non c’è un solo problema serio che si possa decidere con il
voto. Della democrazia nulla resta, fuorché il suo ricordo nella mente
dei riformisti. Lo Stato, ogni giorno di più, regredisce alla sua forma
originale, vale a dire a squadroni di uomini armati. Invece che a contare
voti, la borghesia è occupata a contare i fucili, le mitragliatrici e
i cannoni che avrà a propria disposizione quando il momento di decidere
la questione del potere e della proprietà non potrà più essere rinviato.
Non c’è più posto per la collaborazione o per la mediazione. Soltanto
l’abbattimento della borghesia varrà a salvarci. Ma a ciò si può arrivare
soltanto con l’insurrezione del proletariato.
Lo sciovinismo, la cupidigia, la discordia si scontrano in una sfrenata sarabanda e, davanti al mondo intero, solo il principio del comunismo resta vitale e creatore. Nonostante che il potere dei soviet si sia affermato all’inizio in un paese arretrato, devastato dalla guerra e circondato da nemici potenti, esso ha rivelato tutta la sua tenacia e la sua incredibile vitalità. Ha dimostrato coi fatti la forza del potenziale del comunismo. Dopo la creazione dell’Internazionale Comunista, lo sviluppo e il consolidamento del potere sovietico costituiscono i punti culminanti della storia mondiale.
La capacità di formare un esercito, fin qui, è stata considerata come il criterio di ogni attività economica o politica. La forza o la debolezza dell’esercito sono l’indice che serve a valutare la forza o la debolezza dello Stato dal punto di vista economico. Il potere dei soviet ha creato, sotto il rombo del cannone, una forza militare di prim’ordine e grazie ad essa ha battuto, con una superiorità indiscutibile, non soltanto i campioni della vecchia Russia monarchica e borghese, le armate di Kolcak, Denikin, Judenic, Wrangel e altri, ma anche gli eserciti nazionali delle repubbliche “democratiche” scese sul fronte per ingraziarsi l’imperialismo mondiale (Finlandia, Estonia, Lettonia, Polonia).
Dal punto di vista economico la Russia sovietica, in questi primi tre anni, non solo ha compiuto il miracolo di resistere ma si è sviluppata, perché gli strumenti dello sfruttamento strappati dalle mani della borghesia sono diventati nelle sue mani strumenti di produzione industriale. Il rumore dei pezzi d’artiglieria sull’immenso fronte non le ha impedito di prendere le misure necessarie per mettere in sesto l’agitata vita economica ed intellettuale. La monopolizzazione, da parte dello Stato socialista, delle principali derrate alimentari e la lotta senza pietà contro gli speculatori hanno salvato le città russe da una micidiale carestia e hanno permesso il vettovagliamento dell’Armata rossa. La regolamentazione delle industrie e l’organizzazione dei trasporti sono state rese possibili dall’accentramento statale delle officine, delle fabbriche, delle ferrovie e delle linee di navigazione. La concentrazione delle industrie e dei trasporti nelle mani del governo conduce a una semplificazione dei sistemi tecnici, creando modelli unici per i pezzi diversi, modelli che servono come prototipo per ogni ulteriore produzione. Soltanto il socialismo rende possibile una precisa valutazione della quantità di bulloni necessari per le locomotive, per i vagoni e per gli steamer da produrre e da riparare. Nello stesso modo si può periodicamente prevedere la produzione grosso modo necessaria di pezzi di macchina da adattare ai prototipi, con incalcolabili vantaggi per l’intensificazione della produzione.
Il progresso economico, l’organizzazione scientifica dell’industria, la messa in opera del sistema Taylor epurato da tutte le sue tendenze allo sfruttamento (sweating) non incontrano più nella Russia sovietica altri ostacoli se non quelli che gli imperialisti stranieri cercano di causare.
Mentre gli interessi delle nazionalità, scontrandosi con le usurpazioni imperialiste, sono causa di conflitti, di rivolte e di guerre senza tregua in tutto il mondo, la Russia socialista ha dimostrato che lo stato operaio è in grado di conciliare le esigenze nazionali con i bisogni economici, epurando le prime da ogni forma di sciovinismo e i secondi da ogni forma di imperialismo. Il socialismo vuole realizzare una confederazione di tutte le regioni, di tutte le province e di tutte le nazionalità entro un piano economico unificato. Il centralismo economico, liberato dallo sfruttamento di una classe sull’altra, e di una nazione sull’altra, e quindi vantaggioso per tutti, è compatibile con il libero sviluppo delle economie nazionali.
L’esperienza della Russia sovietica permette ai popoli dell’Europa centrale, dei Balcani sud-orientali, dei possedimenti britannici, a tutte le tribù e le nazioni oppresse, agli egiziani e ai turchi, agli indiani e ai persiani, agli irlandesi e ai bulgari, di convincersi che la solidarietà fraterna di tutte le nazionalità del mondo è realizzabile soltanto attraverso una federazione di repubbliche sovietiche.
In Russia la rivoluzione ha creato il primo Stato proletario. In tre anni di vita i suoi confini sono stati sottoposti a continui mutamenti: si sono ristretti sotto la pressione militare esterna dell’imperialismo mondiale; si sono allargati ogni volta che tale pressione si è allentata.
La lotta per la Russia sovietica è diventata tutt’uno con la lotta
contro il capitalismo mondiale. La questione della Russia sovietica è
diventata la pietra di paragone per tutte le organizzazioni operaie. Il
secondo infame tradimento della socialdemocrazia tedesca dopo quello del
4 agosto 1914 si è avuto quando, essendo a capo dello Stato tedesco, essa
cercò la protezione dell’imperialismo occidentale invece di allearsi
con la rivoluzione d’Oriente. Una Germania sovietica unita a una Russia
sovietica avrebbero costituito una forza più potente di tutti gli Stati
capitalisti messi assieme! L’Internazionale comunista ha proclamato che
la causa della Russia sovietica è la propria causa. Il proletariato internazionale
non rinfodererà la spada finché la Russia sovietica non sarà divenuta
un anello della catena della Confederazione mondiale delle repubbliche
sovietiche.
5. LA RIVOLUZIONE PROLETARIA E L’INTERNAZIONALE COMUNISTA
La guerra civile è all’ordine del giorno in tutto il mondo; la sua consegna è: Potere ai soviet.
Il capitalismo ha proletarizzato enormi masse umane. L’imperialismo ha scosso le masse dalla loro inerzia e le ha spinte al movimento rivoluzionario. In questi ultimi anni la stessa nozione di “masse” ha subito un mutamento. Quelle che nell’era del parlamentarismo e del sindacalismo erano considerate “masse” oggi costituiscono l’élite. Milioni e milioni di persone che in passato erano estranee alla vita politica si vanno ora trasformando in una massa rivoluzionaria. La guerra ha messo tutto il mondo in stato di mobilitazione, ha ridestato l’interesse politico persino nei settori più arretrati, ha suscitato negli uomini illusioni e speranze per poi disilluderli. L’esclusivismo corporativo tra gli operai, la relativa stabilità del tenore di vita tra gli strati superiori del proletariato, la disperazione muta e apatica diffusa tra gli strati più bassi, questi tratti sociali caratteristici del vecchio movimento operaio sono svaniti per sempre. Innumerevoli altri individui sono stati trascinati nella lotta. Le donne che hanno perduto i loro mariti e i loro padri e hanno dovuto mettersi a lavorare al posto loro prendono larga parte al movimento rivoluzionario. Gli operai della nuova generazione, abituati fin dall’infanzia agli sconvolgimenti della guerra mondiale, hanno accolto la rivoluzione come il loro elemento naturale.
La lotta passa per fasi diverse, paese per paese, ma questa lotta è la lotta finale. Non di rado le ondate del movimento confluiscono in forme organizzative antiquate, conferendo loro una temporanea vitalità. Vengono a galla qua e là vecchie etichette e parole d’ordine semidimenticate. Nelle menti c’è confusione, ci sono pregiudizi, illusioni. Ma il movimento nel suo complesso ha un carattere profondamente rivoluzionario. Non lo si può né soffocare né arrestare. Si estende, si rafforza, si purifica, ripudia tutto ciò che è vecchio. Non si fermerà che quando il proletariato mondiale avrà conquistato il potere.
L’espressione fondamentale di questo movimento è lo sciopero. La causa primaria che lo suscita irresistibilmente è il costo crescente della vita, ma non di rado lo sciopero trae origine da singoli conflitti locali. Esso divampa come grido di protesta delle masse spazientite dalle truffe parlamentari dei socialisti. Nasce dal sentimento di solidarietà con gli oppressi del proprio e degli altri paesi. Le sue caratteristiche sono contemporaneamente economiche e politiche. Spesso vi si trovano commisti residui di riformismo e parole d’ordine di rivoluzione sociale. Lo sciopero si spegne, sembra finire, poi di nuovo divampa, scombinando la produzione, tenendo sotto costante tensione l’apparato statale. Fa infuriare la borghesia perché coglie ogni occasione per esprimere la sua simpatia per la Russia sovietica. I presentimenti degli sfruttatori non sono privi di fondamento. Questo sciopero iniziale non è altro, in realtà, che il segnale della rivoluzione sociale, la mobilitazione del proletariato internazionale.
La stretta interdipendenza in cui si trovano i vari paesi, e che così catastroficamente si è rivelata durante la guerra, mette in rilievo la particolare importanza di quei settori interessati ai collegamenti tra i differenti paesi, e pone in prima linea i ferrovieri e in generale i lavoratori dei trasporti. Il proletariato dei trasporti ha avuto occasione di dimostrare un parte della sua forza nel boicottaggio dell’Ungheria e della Polonia bianche. Lo sciopero e il boicottaggio, metodi che la classe operaia ha utilizzato agli albori delle lotte sindacali, vale a dire ancora prima di utilizzare il parlamento, hanno oggi un campo d’azione ben più vasto ed assumono un significato nuovo e minaccioso, come il bombardamento dell’artiglieria prima dell’attacco decisivo.
La crescente impotenza del singolo di fronte all’incalzare degli eventi storici spinge ad entrare nei sindacati non soltanto nuovi strati di operi e operaie ma anche impiegati, funzionari, intellettuali d’estrazione piccolo-borghese. Finché la rivoluzione proletaria non porterà necessariamente alla creazione dei soviet, che acquisiranno immediatamente l’egemonia su tutte le vecchie organizzazioni operaie, i lavoratori continueranno a fluire nei sindacati tradizionali; essi ne tollerano per il momento le forme superate, i programmi burocratici, i capi, ma introducono in queste organizzazioni la crescente energia rivoluzionaria delle masse.
Gli strati più umili, i proletari rurali, i braccianti agricoli, i manovali alzano la testa. In Germania, in Italia e in altri paesi si osserva una magnifica crescita del movimento rivoluzionario dei braccianti agricoli e il suo avvicinamento fraterno al proletariato delle città.
L’atteggiamento dei contadini poveri nei confronti del socialismo si sta modificando. Se gli intrighi dei riformisti parlamentari che cercano di sfruttare i pregiudizi dei contadini sulla proprietà sono falliti, il movimento autenticamente rivoluzionario del proletariato e la sua implacabile lotta contro gli oppressori ha fatto nascere un barlume di speranza nel cuore dei contadini più arretrati e ottenebrati, dei più curvi sulla zolla, dei più miserabili.
L’abisso della miseria umana e dell’ignoranza è senza fondo. Dietro ad ogni strato sociale che insorge ce n’è un altro che tenta di risollevarsi. Ma l’avanguardia non deve aspettare di avere una massa compatta fino alle ultime file per ingaggiare la battaglia. Il proletariato porterà a termine l’opera di risveglio, di elevazione e di educazione dei suoi settori più arretrati soltanto dopo che avrà preso il potere.
I lavoratori delle colonie e dei paesi semicoloniali si sono destati. Negli immensi territori dell’India, dell’Egitto e della Persia, sui quali allarga i suoi tentacoli l’idra mostruosa dell’imperialismo inglese, in questo oceano umano senza fondo sono ininterrottamente al lavoro forze latenti le cui ondate fanno vacillare, nella City, le azioni di Borsa e gli animi.
Nel movimento dei popoli coloniali l’elemento sociale si combina in modi diversi con l’elemento nazionale, ma entrambi sono diretti contro l’imperialismo. La strada che partendo dai primi tentativi conduce alle forme mature di lotta è percorsa a marce forzate dalle colonie e dai paesi arretrati in generale, sotto la pressione dell’imperialismo contemporaneo e sotto la guida del proletariato rivoluzionario.
II promettente riavvicinamento tra i popoli musulmani e non musulmani, saldati gli uni agli altri dalle catene della dominazione inglese e della dominazione straniera in genere, l’epurazione interna del movimento, la costante diminuzione dell’influenza del clero e della reazione sciovinista, la lotta simultanea condotta dagli indigeni sia contro gli oppressori stranieri sia contro i governanti locali, i proprietari fondiari, i preti e gli usurai, tutto ciò sta trasformando l’esercito nascente dell’insurrezione coloniale in una grande forza storica, in una riserva inestinguibile per il proletariato mondiale. I paria si sollevano. Le loro menti ridestate corrono con fervore alla Russia sovietica, alle barricate innalzate nelle strade delle città tedesche, agli scioperi sempre più numerosi in Gran Bretagna, all’Internazionale comunista.
Il socialismo che, direttamente o indirettamente, contribuisce a perpetuare la posizione privilegiata di una nazione a spese di un’altra, che si adatta alla schiavitù coloniale, che ammette differenze di diritti tra popoli di diverso colore e razza, che aiuta la borghesia della metropoli a mantenere la sua dominazione sulle colonie anziché sostenere la ribellione armata delle colonie stesse, il socialismo inglese che non appoggia con tutti i mezzi possibili l’insurrezione dell’Irlanda, dell’Egitto e dell’India contro la plutocrazia di Londra, questo “socialismo”, lungi dal pretendere la delega politica e la fiducia del proletariato merita, se non del piombo, almeno un marchio d’infamia.
Ora, nella sua attività rivoluzionaria internazionale, il proletariato è ostacolato non tanto dai cavalli di frisia che la guerra ha lasciato tra paese e paese, quanto dal conservatorismo, dall’egoismo, dalla stupidità e dal tradimento delle vecchie organizzazioni dei partiti e dei sindacati che hanno vissuto sulle spalle dei lavoratori nell’epoca precedente. I dirigenti dei vecchi sindacati utilizzano ogni mezzo per contrastare e ostacolare le lotte rivoluzionarie delle masse operaie, oppure, se non possono fare altrimenti, si mettono alla testa degli scioperi per poterli meglio soffocare agendo ambiguamente dietro le quinte.
II tradimento storico perpetrato dalla socialdemocrazia internazionale non ha eguali in tutta la storia della lotta contro l’oppressione. È in Germania che le conseguenze sono più terribili. Il crollo dell’imperialismo tedesco è stato, allo stesso tempo, quello del sistema dell’economia capitalista. Ad eccezione del proletariato non c’era nessuna classe che potesse aspirare al potere statale. II successo della rivoluzione sociale era ampiamente garantito dallo sviluppo tecnologico, dalla forza numerica e dall’alto livello intellettuale della classe operaia tedesca; sfortunatamente la socialdemocrazia tedesca le ha sbarrato la strada. Con manovre complicate, in cui scaltrezza e idiozia si sono intrecciate, essa ha stornato l’energia del proletariato dal suo sbocco naturale e necessario: la conquista del potere. La socialdemocrazia si era sforzata per decenni a conquistare la fiducia delle masse per poi mettere, al momento decisivo, quando era in gioco la sorte della società borghese, tutta la sua autorità al servizio degli sfruttatori.
Il tradimento del liberalismo e il fallimento della democrazia borghese sono niente se comparati con il tradimento criminale dei partiti socialisti. Persino il ruolo giocato dalla Chiesa, di questa centrale elettrica del conservatorismo, come l’ha definita Lloyd George, passa in secondo piano di fronte al ruolo antisocialista della seconda Internazionale.
La socialdemocrazia ha cercato di giustificare il suo tradimento contro la rivoluzione durante la guerra con la formula della difesa nazionale. Dopo la conclusione della pace, copre la sua politica controrivoluzionaria con la formula della democrazia. Difesa nazionale e democrazia, queste le solenni formule della capitolazione del proletariato di fronte alla volontà della borghesia. Ma la caduta non si ferma qui. Continuando la sua politica di difesa del regime capitalista, la socialdemocrazia è obbligata, a rimorchio della borghesia, a prendere a calci tanto la difesa nazionale che la democrazia. Scheidemann ed Ebert baciano le mani dell’imperialismo francese del quale reclamano l’aiuto contro la rivoluzione sovietica. Noske impersonifica il terrore bianco e la controrivoluzione borghese. Albert Thomas si trasforma in valletto della Società delle Nazioni, di questa vergognosa agenzia dell’imperialismo. Vandervelde, eloquente immagine della Seconda Internazionale di cui era il capo, diviene ministro del re, collega del baciapile Delecrois, difensore dei preti cattolici belgi e avvocato delle atrocità capitaliste commesse sui negri del Congo. Wenderson, che scimmiotta i grand’uomini della borghesia, e che figura, a seconda dell’ordine del giorno, come ministro del re e come rappresentante dell’opposizione operaia di Sua Maestà. Tom Shaw, che reclama dal governo sovietico irrefutabili prove per dimostrare che il governo di Londra è composto da scrocconi, da banditi e da spergiuri.
Che sono dunque tutti questi signori, se non i nemici giurati della classe operaia? Renner e Seitz, Niemets e Tousar, Troelstra e Branting, Daszinsky e Ccheidze, ciascuno di costoro traduce, nella lingua della sua disonesta piccola-borghesia, il fallimento della Seconda Internazionale. Karl Kautsky, infine, ex-teorico della Seconda Internazionale ed ex-marxista, autorizzato a recitare a pappagallo, diventa il consigliere della stampa gialla di tutti i paesi.
Sotto la spinta delle masse, gli elementi più elastici del vecchio socialismo, senza per questo cambiare natura, mutano d’aspetto e di colore, rompono o si preparano a rompere con la Seconda Internazionale battendo in ritirata, come sempre, di fronte a ogni azione di massa e rivoluzionaria, e anche davanti a qualsiasi serio preludio d’azione.
Per caratterizzare e, allo stesso tempo, per confondere gli attori di questa mascherata basta dire che il partito socialista polacco che ha per capo Daszinski e per patrono Pilsudski, il partito del cinismo borghese e del fanatismo sciovinista, dichiara di ritirarsi dalla Seconda Internazionale. L’élite dirigente, parlamentare, del partito socialista francese che oggi vota contro il bilancio e contro il trattato di Versailles resta in ultima analisi uno dei pilastri della repubblica borghese. I suoi gesti d’opposizione vengono spinti, ogni tanto, di quel tanto che basti per non scardinare la semifiducia dei più conservatori tra gli strati del proletariato. Nelle questioni fondamentali della lotta di classe il socialismo parlamentare francese continua ad ingannare la volontà della classe operaia suggerendole che l’attuale momento non è propizio per la conquista del potere perché la Francia è troppo impoverita; così come non era il momento ieri, a causa della guerra; e prima della guerra c’era la prosperità industriale a impedirla e, prima, la crisi industriale... A fianco del socialismo parlamentare e sullo stesso piano si pone il sindacalismo ciarliero e bugiardo degli Jouhaux & C. La creazione, in Francia, di un partito comunista forte e temprato per spirito d’unità e di disciplina è una questione di vita o di morte per il proletariato francese.
La nuova generazione di operai tedeschi compie la propria educazione e basa la sua forza sugli scioperi e nelle insurrezioni. La sua esperienza le costa tante più vittime quanto più il partito socialista continua a subire l’influenza dei conservatori socialdemocratici e degli abitudinari che hanno ancora per la testa la socialdemocrazia dei tempi di Bebel, che nulla comprendono del carattere rivoluzionario dell’epoca attuale, che tremano di fronte alla guerra civile e al terrore rivoluzionario, si lasciano trasportare dalla corrente degli avvenimenti attendendo il miracolo che deve venire ad assistere la loro incapacità. È nel fuoco della lotta che il partito di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht insegna agli operai tedeschi quale sia la strada giusta.
Mentre gli sviluppi di questi ultimi anni, rompendo la stabilità della vita economica nella conservatrice Inghilterra, ha reso le masse lavoratrici quanto mai capaci di assimilare il programma rivoluzionario, il meccanismo ufficiale della nazione borghese, con il suo potere regio, la sua Camera dei Lord, la sua Camera dei Comuni, la sua Chiesa, i suoi sindacati, il suo partito operaio, Giorgio V, il vescovo di Canterbury e Menderson, resta intatto come freno automatico, potente, nei confronti d’ogni sviluppo. Non c’è che il partito comunista, scevro da metodi abitudinari e da spirito di setta, che possa opporre l’elemento proletario a questa élite ufficiale.
In Italia, dove la borghesia riconosce francamente che ormai la sorte del paese è, in fin dei conti, nelle mani del partito socialista, la politica dell’ala destra, rappresentata da Turati, si sforza di far rifluire il torrente della rivoluzione proletaria nel solco delle riforme parlamentari. Proletari d’Italia! Pensate all’Ungheria, il cui esempio è entrato disgraziatamente nella storia, per ricordare che nella lotta per il potere, come durante l’esercizio del potere, il proletariato deve restare intrepido, respingere tutti gli elementi equivoci e far giustizia, senza pietà, di tutti gli elementi di tradimento!
Le catastrofi militari, seguite da una terribile crisi economica, inaugurano un nuovo capitolo nella storia del movimento operaio degli Stati Uniti e in altri paesi del continente americano. La liquidazione del ciarlatanismo e dell’impudenza wilsoniana è di per se stessa la liquidazione di questo socialismo americano frammisto di illusioni pacifiste e di attività mercantile, di cui è coronamento il sinistro sindacalismo di Gompers e compagnia. La lotta contro l’imperialismo così potente e minaccioso degli Stati Uniti e contro le forze mobilitate dal dollaro in sua difesa non può che poggiare sulla stretta unione dei partiti operai rivoluzionari e delle organizzazioni proletarie del continente americano, dall’Alaska a capo Horn.
I socialisti governativi e i loro simili in tutti i paesi accampano pretesti per accusare i comunisti di provocare, con la loro tattica intransigente, la risposta della controrivoluzione di cui essi contribuiscono a consolidare le file. Quest’accusa politica, non è altro che un’eco tardiva delle lagnanze del liberalismo. Quest’ultimo sosteneva che la lotta autonoma del proletariato spinge le classi abbienti nel campo della reazione. Questo è incontestabile. Se la classe operaia si astenesse dal minare le basi del dominio capitalistico, la borghesia non avrebbe nessun bisogno di ricorrere a provvedimenti repressivi. Lo stesso concetto di controrivoluzione non sarebbe mai sorto se la storia non avesse conosciuto la rivoluzione. Il fatto che le insurrezioni del proletariato spingano inevitabilmente la borghesia ad organizzare mezzi di autodifesa e di contrattacco significa semplicemente che la rivoluzione è la lotta tra due classi inconciliabili che può aver fine soltanto con la vittoria definitiva di una di esse. II comunismo rifiuta con disprezzo la politica che consiste nel mantenere le masse nell’immobilismo agitando come spauracchio la sferza della controrivoluzione. Alla disgregazione e al caos del mondo capitalistico, la cui mortale agonia minaccia di distruggere la civiltà umana, l’Internazionale comunista oppone la lotta combinata del proletariato mondiale per la distruzione della proprietà privata dei mezzi di produzione, e per la ricostruzione dell’economia nazionale e mondiale fondata su un piano economico unico, stabilito e realizzato dalla solidale comunità dei produttori.
Riunendo sotto la bandiera della dittatura del proletariato e del sistema sovietico milioni di lavoratori di ogni parte del mondo, l’Internazionale Comunista purifica, rafforza e organizza le proprie file nel fuoco della lotta.
L’Internazionale Comunista è il partito dell’insurrezione del proletariato mondiale rivoluzionario. Essa rigetta tutte le organizzazioni e i partiti che, in forma aperta o velata, istupidiscono, corrompono e indeboliscono il proletariato; essa esorta il proletariato a non inchinarsi davanti ai feticci di cui si veste la dittatura della borghesia: legalitarismo, democrazia, difesa nazionale, ecc.
L’Internazionale Comunista non può ammettere nelle proprie file neppure quelle organizzazioni che, pur iscrivendo nel loro programma la dittatura del proletariato, persistono nel condurre una politica che preconizza uno scioglimento pacifico della crisi storica. Di per sé la pura e semplice accettazione del sistema sovietico non risolve nulla. La forma sovietica di governo non possiede nessun potere miracoloso. La virtù rivoluzionaria sta nel proletariato stesso. È assolutamente necessario che il proletariato insorga e lotti per la conquista del potere; soltanto allora l’organizzazione sovietica si rivelerà arma insostituibile nelle mani del proletariato.
L’Internazionale Comunista pretende l’espulsione dalle file del movimento operaio di tutti quei dirigenti che sono direttamente o indirettamente legati, con una collaborazione politica, alla borghesia. Quelli che ci servono sono dirigenti che nutrano per la borghesia un odio mortale, che organizzino il proletariato in vista di una lotta senza pietà, che siano pronti a guidare alla battaglia l’esercito degli insorti, che non si fermino a mezza strada qualsiasi cosa accada e che non esitino a colpire spietatamente tutti coloro che tentino con la forza di opporsi a loro.
L’Internazionale Comunista è il partito mondiale dell’insurrezione e della dittatura del proletariato. Per essa non esistono altri scopi né altri problemi che non siano quelli riguardanti tutta la classe operaia. Le pretese delle piccole sette, ciascuna delle quali vuole salvare la classe operaia a modo suo, sono estranee e contrarie allo spirito dell’Internazionale Comunista. Essa non è in possesso di nessuna panacea universale, di nessuna formula magica; essa si basa sull’esperienza internazionale passata e presente della classe operaia; purifica questa esperienza da tutti gli errori più grossolani e dai tralignamenti; ne generalizza i risultati e non riconosce né adotta che le formule rivoluzionarie che sono quelle dell’azione di massa.
Organizzazione sindacale, sciopero politico ed economico, boicottaggio, elezioni parlamentari e municipali, tribuna parlamentare, propaganda legale e propaganda illegale, organizzazione segreta in seno all’esercito, attività nelle cooperative, barricate, l’Internazionale Comunista non rifiuta nessuna forma di organizzazione o di lotta creata nel corso dello sviluppo del movimento operaio, ma nello stesso tempo non ne privilegia nessuna come panacea universale. Il sistema dei soviet non è un principio astratto che i comunisti vogliono opporre al principio del parlamentarismo. I soviet sono un apparato di classe che deve eliminare il parlamentarismo durante la lotta e sostituirlo come risultato della lotta. Pur combattendo nel modo più deciso contro il riformismo dei sindacati e contro il carrierismo e il cretinismo parlamentari, l’Internazionale Comunista non esita però a condannare gli appelli settari che incitano ad abbandonare le file delle organizzazioni sindacali che contano milioni di iscritti o a rifiutare di lavorare nelle istituzioni parlamentari e municipali. I comunisti non si staccano in nessun modo dalle masse ingannate e tradite dai riformisti e dai socialpatrioti ma ingaggiano una lotta senza quartiere nel seno stesso delle organizzazioni di massa e delle istituzioni della società borghese per poterla abbattere celermente e a colpo sicuro.
Sotto l’egida della Seconda Internazionale, i metodi dell’organizzazione e della lotta di classe, che erano quasi esclusivamente di natura legale, ridiventarono in fin dei conti soggetti al controllo e alla direzione della borghesia, i cui agenti riformisti agivano da freno sulla classe rivoluzionaria. L’Internazionale Comunista strappa questo freno dalle mani della borghesia, si conquista tutte le organizzazioni, le unisce sotto una direzione rivoluzionaria, e per loro tramite pone di fronte al proletariato un’unica meta, cioè la conquista del potere per la distruzione dello Stato borghese e per l’edificazione della società comunista.
In tutta la sua attività, sia come dirigente di una insurrezione rivoluzionaria, organizzatore di gruppi clandestini, segretario di un sindacato, agitatore politico nelle assemblee di massa o membro in parlamento, lavoratore di una cooperativa o combattente sulle barricate, il comunista deve restare fedele al proprio ruolo di membro disciplinato del Partito comunista, di infaticabile lottatore, un nemico mortale della società capitalista, delle sue basi economiche, delle sue menzogne democratiche, della sua religione e della sua morale; dev’essere il difensore pieno d’abnegazione della rivoluzione proletaria e l’instancabile campione della nuova società.
Operai e operaie!
Non c’è sulla terra che una sola bandiera per cui valga la pena
di combattere o morire: è la bandiera dell’Internazionale Comunista!
Firmato:
RUSSIA: N. Lenin, G. Zinov’ev, N. Bucharin, L. Trotski. GERMANIA: P. Levi, E. Meyer, Y. Walcher, R. Wolfstein. FRANCIA: Rosmer, Jacques Sadoul, Heuri Guilbeaux. INGHILTERRA: Toni Quelch, Gallacher, E. Silvya Pankhurst, Mas Laine. AMERICA (USA): Fleen, A. Frayna. A. Bilan, J. Reed. ITALIA: D. M. Serrati, N. Bombacci, A. Graziadei, A. Bordiga. NORVEGIA: Frys, Shaefflo, A. Madsen. SVEZIA: K. Dalstroem, Samuelson, Winberg. DANIMARCA: O. Jorgenson, M. Nielsen. OLANDA: Wijncup, Jansen, Van Leuve. BELGIO: Van Overstraeten. SPAGNA: Pestana. SVIZZERA: Herzog, I. Humbert-Droz. UNGHERIA: Racoczy, A. Rudniamkij, Varga. GALIZIA: Levitsky. POLONIA: J. Mardevsky, LETTONIA: Stouychka, Krastyn. LITUANIA: Mitzkévic-Kapsukas. CECOSLOVACCHIA: Vanek. Gula, Zapototsky. ESTONIA: R. Wakman, G. Poegelman. FINLANDIA: I. Rakhia, Letonmiaky, K. Manner. BULGARIA: Kabakcev, Maksimov, Sablin. JUGOSLAVIA: Milkic. GEÒRGIA: M. Tsakiah. ARMENIA: Nazaritjan. TURCHIA: Nichad. PERSIA: Sultan-Zadé. INDIA: Atchatia, Sheffik. INDIE OLANDESI: Maring. CINA: Lao Siu-ciu. CORFA: Pak Djinchoun, Him Houlin.