|
|||
Partito Comunista d’Italia Sezione della Terza Internazionale |
|||
IL VALORE DELL’ISOLAMENTO |
I - Il Comunista, 24 luglio 1921
Il momento politico che si attraversa in Italia è difficile da comprendersi ed ancora maggiori difficoltà presenta per i partiti che vogliono in esso tracciare la loro via.
L’incertezza che domina nell’ora attuale in tutti i campi, dalla economia alla politica, fa sì che tutti i partiti abbiano finalità, coscienza, tattica e contorni poco definitivi, e che i loro rapporti di affinità o di opposizione, di alleanza o di conflitto si presentino molteplici e mutevoli oltre ogni dire.
In questo caos di forze e di tendenze, il partito politico marxista della classe lavoratrice, non ostante le recenti vicende critiche del suo sviluppo, ha il dovere, ed ha anche, secondo noi, ove utilizzi tutte le esperienze del suo passato e del movimento internazionale di cui è parte integrante, la possibilità di orizzontarsi felicemente, di tracciarsi un indirizzo sicuro verso la sua meta.
Non intendiamo dire soltanto delle direttive generali che scaturiscono dalla dottrina e dai capisaldi programmatici del movimento comunista, ma ancora del contegno da tenere in presenza dell’attuale situazione da comprendere appieno secondo il metodo critico marxista e dirigersi attraverso essa utilizzandone lo sviluppo particolare alla realizzazione delle proprie finalità rivoluzionarie.
Un primo aspetto di questo insieme di problemi tattici è il rendersi conto della funzione di tutti gli altri partiti e movimenti politici, per dedurne l’atteggiamento che occorre serbare nei loro confronti.
Non intendiamo riferirci alla considerazione delle infinite circostanze di fatto le quali, da un’analisi della crisi economica, ad un esame anche superficiale della corrente cronaca politica, conducono alla conclusione che siamo in un periodo di estrema instabilità delle istituzioni politiche che reggono il paese e dei rapporti sociali che trovano in quelle la loro espressione e la loro protezione, che le forme dello Stato appaiono in procinto di essere, più o meno profondamente, più o meno brutalmente modificate.
Quello che è difficile nel momento attuale è il definire il senso e la portata in cui tende a concretarsi questa mutazione di reggimento politico che tanto chiaramente si preannunzia.
Il lato scabroso della questione è lo spesseggiare di tendenze politiche e di programmi più o meno definiti e tra loro distinti che si potrebbero chiamare rivoluzionari.
Poiché in un certo senso esteso della parola è rivoluzionario ogni movimento che tenda a mutare i limiti costituzionali delle istituzioni, adoperando mezzi che per poco esorbitino dalla abituale esplicazione della funzione dei partiti nei quadri della legalità. Non è indispensabile che i mezzi di azione che tali correnti adoperano o dicono di voler adoperare giungono all’impiego della violenza armata insurrezionale: come per il passato si avevano colpi di Stato attraverso la limitata cerchia di una congiura di palazzo, così l’odierno regime democratico lascia intravedere la possibilità di rivolunzioncelle che abbiano teatro, anziché la piazza, i corridoi del Parlamento e l’anticamera dei ministeri.
Oggi in Italia vi sono tanti di questi movimenti che “tendenzialmente” possono aspirare alla qualifica di rivoluzionari, vi sono tanti programmi di rivoluzioni, ossia tanti progetti di tipo di reggimento sociale o statale da sostituire a quello vigente, che ne resta ottenebrata la chiarezza di quella fondamentale antitesi tra due sole forze nemiche, nella quale soltanto si delinea efficacemente il divenire della rivoluzione, di quella vera e formidabile che si concreta nella precisa concezione che ne abbiamo. L’esistenza di troppe specie di rivoluzionari rende difficile la rivoluzione nel senso che ingombra alla chiara impostazione definitiva della lotta rivoluzionaria.
Tra l’ingombro di queste forze la critica e l’azione comunista devono ad ogni costo e sinceramente, spezzando e sprezzando pregiudizi ed opportunismi, farsi luce ed aprirsi una via.
L’interrogativo che più imbarazza i componenti di cose politiche, che tra noi per somma sventura pullulano ogni giorno di più, è quello di classificare i vari gruppi e movimenti rivoluzionari o semi-rivoluzionari secondo la comune estimazione politica della destra e della sinistra.
Con ben altro criterio i comunisti debbono svolgere l’analisi della situazione, preoccupandosi di ridurre a unità le forze della conservazione, interpretando accortamente il valore conservatore di taluni movimenti, dalle scapigliate pose avanguardiste, e di condurre ad effettiva unità di coscienza e di metodo quelle forze che effettivamente dovranno inalvearsi nella realizzazione rivoluzionaria.
Non pretendiamo di fare una rassegna completa dei movimenti che inalberano un programma non in tutto “legalitario” ma solo di accennare qualche lato saliente di essi che serve bene a fissare analogie e differenze.
Ripetiamo un nostro noto concetto dicendo che non crediamo alla possibilità del colpo di stato di destra, della rivoluzione a rovescio, che ci regali un regime peggiore di quello monarchico e parlamentare che godiamo. Questo ridicolo spauracchio è stato troppe volte agitato da demagoghi di tutti i colori, perché si possa prenderlo sul serio.
Si è a volte annunziata la “dittatura militare” di Cadorna o di Giardino, del Duca d’Aosta o di D’Annunzio. Questi signori, col consenso dell’alta banca, dei pescicani e degli agrari e dei capi militari avrebbero chiuso il Parlamento e sostituito l’attuale reuccio.
In realtà tutti questi presunti movimenti di destra, diretti a tornare all’indietro, mostrano, in quanto non sono pure invenzioni, caratteristiche comuni coi movimenti dei pseudo rivoluzionari di sinistra. Tutti qui candidati dittatori e fautori di dittature reazionarie sono infatti usciti dalle file dell’interventismo, che, come a tutti è noto, aveva promesse politiche di “lotta contro la reazione feudale, clericale e militare” degli Imperi Centrali, pose di avanzata democratica, e militanti socialistoidi e sindacalisteggianti.
L’ipotesi di un attentato da “destra” all’attuale assetto statale italiano, per le ragioni dette in altri nostri scritti, è dunque da lasciare senz’altro da parte, per volgere la nostra attenzione alle correnti che aspirano ad una rivoluzione fino ad un certo punto, e, come dicevamo, ingombrano fastidiosamente il campo della lotta, incrociandosi maledettamente tra loro.
Diciamo subito che la tesi a cui giunge sicuramente la critica comunista è che tutti questi progetti non sono che piani per la migliore difesa e conservazione delle istituzioni presenti, introducendo in esse modifiche esteriori, per lasciare sussistere il contenuto essenziale; il sistema della economia privata e libera, ossia il capitalismo, ed il meccanismo democratico dello Stato, ossia il parlamentarismo.
Ogni lavoro politico diretto a far convergere l’attenzione e lo sforzo proletario in tali direzioni deve dai comunisti essere considerato come contro-rivoluzionario. Esistono, è vero, tra i movimenti che si propongono all’assalto dell’attuale regime taluni che non potremo classificare come anti rivoluzionari, seppure dissentiamo dai loro programmi, e sono il movimento sindacalista e quello anarchico, che ne costituiscono in fondo uno solo diviso in molte sfumature. Tuttavia il partito comunista deve rendersi conto del pericolo rappresentato dal fatto che questi movimenti, quasi a dimostrazione dei gravi errori di metodo rivoluzionario che contengono, presentano ogni tanto degli strani punti di contatto sentimentali, ed un pochino anche programmatici, con quelle prime correnti, nettamente controrivoluzionarie e disfattiste dell’azione proletaria. Perché in tutto questo la impazienza rivoluzionaria, la mania di battere in un senso quasi sportivo il record dell’estremismo, giocano una parte pericolosa generando il confusionismo rivoluzionario, la tesi semplicistica e facilona che, pur che si cominci ad agire, bisogna accettare tutte le alleanze, senza guardare troppo per il sottile alla finalità diversa della nostra che muoverà gli alleati in un primo momento.
Il movimento anarchico e sindacalista, nella sua opera di propaganda, fa ogni tanto senza quasi accorgersene delle concessioni, o per lo meno rilascia dei brevetti di rivoluzionarismo a quelli che sono in realtà i più insidiosi nemici della causa proletaria.
Questo si constata talvolta nel semplice riconoscimento di alcune ideologie di altri partiti politici, tal’altra nella tattica effettivamente adottata nei momenti di maggiore tensione della situazione.
Ci limiteremo ad esempi. Una serie di sfumature insensibili ci può condurre dagli anarchici… a quei tali presunti dittatori “di destra” di domani. Guardiamo a D’Annunzio. Egli è tanto poco un reazionario nel senso che voglia sopprimere i due cardini della democrazia: regime a suffragio larghissimo, illimitata libertà alle corporazioni sindacali riconosciute dallo Stato che a questi concetti ha ispirato la “costituzione fiumana”. Questo stesso programma è stato esaltato in un recente convegno dei giovani “corridoniani” ossia di quei giovani sindacalisti rimasti con quella parte della Unione Sindacale che passò all’interventismo più smaccato, la Unione del lavoro dei De Ambris, ieri luogotenenti dannunziani ed oggi leaders politici di quel movimento. Orbene Guerra di Classe, organo dei sindacalisti rivoluzionari, esamina con espressioni di simpatia quel programma, pur facendo naturalmente delle riserve, che però non sono le giuste riserve che ne possono colpire i lati antirivoluzionari. Che quel programma e quell’atteggiamento politico siano veramente sindacalisti è cosa che lasciamo giudicare a Guerra di Classe, ma che siano veramente “rivoluzionari” ecco quello che mettiamo in gran dubbio. I corridoniani sono per la “repubblica sociale dei sindacati” e nella loro replica al giornale del sindacalismo ufficiale chiariscono questo loro concetto: uno Stato ultraliberale, che garantisca la libertà e l’ordine per tutti i cittadini, che non si immischi nelle cose della economia, e che lasci libero campo alla funzione dei sindacati operai.
Questo concetto non è nemmeno in parte rivoluzionario: Guerra di Classe si limita a trovarlo poco preciso, ma ciò nonostante trova rivoluzionario il programma nel suo insieme: a questo errore essa è condotta dall’errore intrinseco del metodo sindacalista come metodo rivoluzionario, e così ci fornisce uno di quegli esempi indiretti che mostrano il pericolo dei movimenti rivoluzionari affini al nostro, ma non chiaramente orientati sul terreno del comunismo internazionale marxista. Una repubblica sociale, uno Stato, una costituzione come la pensano D’Annunzio e i giovani corridoniani, col suo ultraliberalismo nel campo sindacale, è uno Stato ultraliberale con le intraprese del capitalismo, in quanto rinunzia alla funzione di intervento regolatore nella economia. Non è che una mascheratura abilmente rivoluzionaria dell’attuale Stato borghese, colla sua vernice di eguaglianza democratica e di neutralità sociale, e la effettiva sua funzione di guardiano armato dello sfruttamento capitalista. Troppa fretta ha il giornale sindacalista a compiacersi di quella concezione come schiettamente “libertaria e sindacalista”. Il che conduce a domandarsi se non sia molto più facile essere libertari e sindacalisti che efficacemente e realmente rivoluzionari nel senso classista. Le obiezioni di Guerra e Classe sono infatti incomplete. Cosa vuol dire questa repubblica neutrale, essa si dice, se dovrà essere la repubblica sindacale in cui, rovesciato rivoluzionariamente il potere borghese, le funzioni dello Stato sono rimpiazzate da quelle dei Sindacati? La riserva è tanto insufficientemente rivoluzionaria che essa ricorda una stretta parentela con un altro piano di pseudo rivoluzione caratteristico nella politica italiana: quella costituente professionale dei riformistoni confederali che, come la costituzione dannunziana, pretendeva di avere sapore di sovietismo!!
E tutto questo conduce alla sana concezione rivoluzionaria comunista, e indica uno dei pericoli della incompleta impostazione del problema rivoluzionario, poiché non si avrà vittoria rivoluzionaria del proletariato se la lotta non si delinea ad abbattere insurrezionalmente l’attuale potere costituito, per costituirvi, con chiarezza di finalità e ferrea volontà rivoluzionaria, l’unico reggimento politico che non sia una delusione delle masse e una rivincita della controrivoluzione: la forza politica statale organizzata saldamente nelle mani del proletariato: la dittatura di questo; lo Stato di classe, artefice dell’intervento rivoluzionario economico; in quanto ogni forma di neutralità statale dell’economia e di eguale distribuzione a tutti della libertà, è falsamente rivoluzionaria, è anzi squisitamente reazionaria e significa conservazione del regime borghese.
Un altro esempio: un denominatore comune di quelle formulazioni “rivoluzionarie” che hanno il solo valore di diversivi all’azione del proletariato è il sentimento “nazionale”. Tutti vogliono far la rivoluzione “per la nazione”. I veri rivoluzionari sono invece quelli che la vogliono compiere “per la classe”, se anche dopo si potrà parlare come di uno Stato di classe, di una “nazione di classe”, di cui i peggiori nemici e “stranieri” saranno i borghesi italiani.
Mentre è evidente che questo denominatore nazionale sta alla base dei programmi di “rinnovamento” dei fascisti, dei dannunziani, dei legionari, degli arditi del popolo, dei Giulietti, dei corridoniani, ecc. ecc., sembrerebbe ingiusto farne carico ai sindacalisti e agli anarchici, che hanno fatto aperta professione di antipatriottismo. E noi non vogliamo certo accusarli di nazionalismo, solo indicare su questo terreno un’altra loro inclinazione a confluire talvolta con tutti quegli altri movimenti, sia pure per un momento e con valore incidentale, ma in modo da fornire un’altra prova della intrinseca debolezza programmatica e tattica dei metodi loro proprii.
In una polemica che si svolge su Umanità Nuova, Luigi Fabbri, rispondendo alle critiche di Damiani sull’atteggiamento politico degli anarchici italiani negli ultimi anni, rivendica la opposizione alla guerra e al patriottismo borghese, ma ha pure qualche frase come questa: «insorgemmo anche contro i socialisti a difesa dei volontari caduti nelle Argonne quando alcuni vollero di questi non solo criticare le opinioni ma anche offendere il coraggio». E nella citata critica di Guerra di Classe al programma dei corridoniani è passata per buona e lodevolmente rivoluzionaria questa ridicolissima formulazione. «Sindacalismo vale a dire concezione libertaria e latina in perfetta antitesi con comunismo concezione autoritaria e teutonica, che ha preso la cittadinanza slava, ecc.». Questo non vuol dire altro che quei movimenti libertari, con la loro esitanza ad accettare l’unica vera tesi rivoluzionaria: dittatura statale e accentramento, al di fuori della quale non c’è che un’altra ipotesi storica: consolidamento del domino borghese, cadono nel tranello di valorizzare autentici controrivoluzionari. Le riserve alla tesi comunista, o meglio alle sue adulterazioni a scopo di deviazione delle masse, si traducono bene in quel semi-nazionalismo rivoluzionario. Si propone da molte parti una rivoluzione si, ma una rivoluzione latina, ossia “libertaria”, preoccupata degli interessi nazionali. Questo, per la illuminata critica rivoluzionaria, vuol dire uno strozzamento, una castrazione della rivoluzione, fermandola nel momento in cui piomberà su quella parte della nazione che è controrivoluzionaria, per immobilizzarla nella stretta potente della sua dittatura. Ed è deplorevole che, per la mania di criticare il comunismo, l’autoritarismo, l’intervento rivoluzionario accentratore statale dell’economia, i rivoluzionari autentici sindacalisti e anarchici si pongono a fare il gioco del falso rivoluzionarismo, del confusionismo rivoluzionario, ultimo espediente di conservazione della borghesia.
Un’attenta considerazione di questi problemi e di questi contatti, di cui abbiamo dato solo qualche saggio sperando di farci in tal modo intendere più facilmente, dovrebbe servire, attraverso l’assidua propaganda nostra, a condurre tutti gli amici veri della rivoluzione sul terreno delle tesi comuniste, con la riprova indiretta che ogni altra via conduce a trovarsi gomito a gomito coi nemici del proletariato. Questa debolezza “nazionale” non è forse anche condivisa dal partito socialdemocratico i cui capi di destra gridano: Viva l’Italia! I cui capi di sinistra distinguono tra il fallimento dello Stato e quello della “economia nazionale”?
Ad un altro articolo gli aspetti più concreti della questione e le conclusioni nei riguardi della tattica che noi dobbiamo adottare nel campo in cui agiscono, pericolosamente confusi, i rivoluzionari e i ciarlatani della rivoluzione.
II – Il Comunista, 31 luglio 1921
Nell’articolo precedente abbiamo citato a mo’ d’esempio alcuni casi, scelti tra altri moltissimi, di punti di incontro e di contatti tra quei movimenti di sinistra del proletariato che si differenziano da noi comunisti per vedute particolari (sindacalisti ed anarchici) con altri movimenti falsamente rivoluzionari e che racchiudono in sé solo un inganno per il proletariato ed una serie di risorse conservatrici per il regime borghese.
Di questi non abbiamo parlato distintamente ed ordinatamente, ma solo vi abbiamo largamente accennato man mano che venivano a taglio negli esempi suddetti. Non crediamo diffonderci molto a dimostrare come movimenti che campeggiano tra il partito repubblicano, quello socialista, il sindacalismo “corridoniano”, il dannunzianesimo che dai legionari si stende agli arditi e ai fascisti (mentre per le più volte dette ragioni ci rifiutiamo di vedere tra essi il movimento che farà il colpo di Stato per la “dittatura di destra”), coi loro programmi di rinnovamento dell’attuale reggimento sociale e politico italiano, svolgono un’opera deviatrice delle energie rivoluzionarie del proletariato e complice della conservazione dei privilegi della classe dominante. Tutti quei movimenti indistintamente, come più volte abbiamo dimostrato, e come si potrebbe sempre più porre in evidenza con dichiarazioni recenti ed atteggiamenti caratteristici dei loro capi, anche quando si servono della violenza, si pongono su di un terreno parlamentare e democratico, che sono per noi indiscutibilmente le condizioni migliori di difesa del principio borghese. Che alcuni ostentino il loro liberalismo formale e la loro simpatia per le organizzazioni professionali proletarie, altri dichiarino di condizionare tutto ciò ad un disarmo del proletariato ad ogni proposito di rovesciare il regime borghese (ossia di realizzare la dittatura bolscevica, distruggendo le nostre libere istituzioni, sabotando la nazione ecc.!) e fin allora esercitino la controffensiva più sanguinosa, non toglie che resti il medesimo fondamentale inquadramento storico degli uni e degli altri. Voler fermare l’avanzata proletaria entro le colonne d’Ercole della democrazia equivale per noi, e per diretta ferrea conseguenza storica, ad accingersi ad affrontarla con le mitragliatrici e le rivoltelle della reazione.
È quindi fuori di discussione per i comunisti l’opportunità tattica di intese ed alleanze con questi complottatori da palcoscenico di pseudo rivoluzionari che ci regalerebbero la repubblica di Eugenio Chiesa e il soviettismo politico di D’Annunzio, o la “repubblica dei sindacati” più o meno giuliettizzati.
Si potrebbe pensare che questi movimenti, una volta iniziati, creerebbero quella situazione di instabilità del potere statale in cui l’assalto a fondo del proletariato potrebbe inserirsi efficacemente, e ciò è anche possibile, ma non bisogna dimenticare che in questa seconda fase i peggiori nemici sarebbero i rivoluzionari del momento precedente, che sarebbe sommamente pericoloso che quella avanguardia del proletariato che segue il programma comunista fosse dominata dalla speranza di avere in coloro degli amici, come avverrebbe se nella prima fase si marciasse gomito a gomito con essi. Nessuno nega che il divenire della storia può allacciare e sciogliere coincidenze di sforzo e di obbiettivo, ma è buona tattica solo quella che prepara tali forze e tale organizzazione di forze materiali e spirituali che si possa superare il momento più critico, quello cioè in cui si deve lottare da soli. Il più grande pericolo per la preparazione rivoluzionaria è quello di accedere ad un’alleanza, poniamo coi repubblicani o i socialisti, in una situazione in cui questi, ad esempio, dicano di essere d’accordo coi comunisti in una difensiva contro gli eccessi fascisti, perché questo equivale a rinunziare al nostro specifico compito di partito, consistente nel dare alle masse la coscienza delle situazioni che si prepareranno nel corso della lotta e di quella che sarà la posta della battaglia suprema tra rivoluzione e controrivoluzione.
Ora questa tattica, che scaturisce chiaramente dalle premesse dottrinali e dalle pratiche esperienze tattiche del Partito Comunista, è difficilissimo farla intendere a sindacalisti rivoluzionari e anarchici. Ecco perché dalla considerazione tattica che conviene al nostro partito escludere ogni “fronte unico” con repubblicani, socialisti, ed altri irregolari della rivoluzione – conclusione che forse riesce accetta alla quasi totalità dei compagni del nostro partito – non passiamo ad un’altra che forse è di più difficile accettazione, ostandovi tutto il sentimentalismo ed il facilonismo rivoluzionario che è appunto uno dei più grandi ostacoli per l’organizzazione di una seria preparazione rivoluzionaria in Italia, alla valutazione cioè dei gravi errori ai quali si potrà essere tratti se si accetterà il criterio di una stretta collaborazione con anarchici e sindacalisti.
Questi non hanno le ragioni che noi abbiamo per intendere l’incompatibilità ad intendersi ed allearsi con movimenti semiborghesi dal rivoluzionarismo esteriore, e, come abbiamo già mostrato con altri esempi, valorizzano certe correnti e certi atteggiamenti che la nostra critica discerne come squisitamente reazionari solo perché sedotti dalle loro pose di estremismo di forma, di apparenza.
Ora noi affermiamo che generalmente il movimento comunista deve rifuggire da ogni intesa organizzativa con movimenti i quali non dirigono le loro preparazioni nel senso delle esigenze della lotta decisiva. Prima di chiarire meglio perché i sindacalisti e gli anarchici sono gravemente lontani da avere quella coscienza e quell’orientamento tattico spieghiamo in modo assai semplice cosa intendiamo per “intesa organizzativa”. Ogni azione ha bisogno di preparazione, perciò stesso di organizzazione, perciò stesso di disciplina. Noi dichiariamo che per i comunisti sovrapporre alla disciplina organizzativa del loro partito l’impegno, ad esempio, ad eseguire le disposizione di un “comando unico” costituito da delegati di vari partiti – e ciò non solo se si tratta di legarsi in questo reciproco impegno con i movimenti rivoluzionari falsificati di cui prima si parlava, ma altresì nei riguardi dei sindacalisti e degli anarchici.
Si noti che l’escludere intese organizzative non esclude che si svolgano azioni nelle quali le forze comuniste possono agire in direzione concomitante ad altre forze politiche; ma occorre conservare il pieno controllo delle nostre forze per quel momento in cui le alleanze di un periodo transitorio potranno e dovranno decomporsi ed in cui si porrà in tutta la sua integrità il problema rivoluzionario.
Non discutiamo l’ipotesi di accedere a quelle intese organizzative col proposito di “tradirle” o sfruttarle nel loro complesso di forze nel nostro senso alla prima occasione. E scartiamo questa tattica non per scrupoli di ordine morale, ma perché, data appunto la funesta influenza di quel “confusionismo rivoluzionario” di cui trattiamo, anche purtroppo sulle masse che seguono il nostro partito, il gioco sarebbe troppo pericoloso, e la manovra del disimpegno riuscirebbe a nostro danno. Per preparare le masse alla severa disciplina dell’azione rivoluzionaria occorre grandissima chiarezza di atteggiamenti e di movimenti, e quindi occorre portarsi fin dal principio su di una piattaforma ben definita e sicura: “nostra”. Altrimenti fabbricheremo le piattaforme per altri, per movimenti che o sono scientemente reazionari malgrado le pose rinnovatrici, o sono rivoluzionari, ma non hanno del processo rivoluzionario la giusta visione.
Quanto abbiamo detto ci servirà discretamente, chiusa la parentesi, a definire il problema importantissimo di quale sarà il momento critico, decisivo, quale sarà per servirci ancora una volta della espressione la posta della suprema partita rivoluzionaria, quale la posizione ultima su cui le falangi nemiche si affronteranno, ed alla quale appunto occorre aver predisposto le nostre forze. E qui si vedrà perché in questo gli anarchici e i sindacalisti pericolosamente errano, in un senso che a parole li fa più “rivoluzionari” dei comunisti, ma in realtà li porta sul terreno di quei movimenti obliqui ed equivoci che uccidono il contenuto stesso della “unica possibile rivoluzione” che possa essere chiamata tale.
Noi dunque diciamo: nessuna intesa organizzativa con movimenti che non siano impostati nella direzione dell’urto definitivo e che non si preparino a quel preciso obbiettivo. Come noi possiamo chiaramente definire quell’obbiettivo rivoluzionario al di fuori del quale vi è il pericolo di fare il gioco del nemico, fissandone i caratteri principalissimi, generali, il non riconoscimento di uno solo dei quali conduce in realtà a cadere nel tranello controrivoluzionario?
Noi crediamo che a base della nostra tattica debba stare questo criterio: nessuna intesa organizzativa, ossia nessun fronte unico con quegli elementi che non si prefiggono: la lotta rivoluzionaria armata del proletariato contro lo Stato costituito, intesa come un’offensiva, un’iniziativa rivoluzionaria – l’abolizione, attraverso questa lotta, della democrazia parlamentare assieme al meccanismo esecutivo dello Stato attuale – la costituzione della dittatura politica del proletariato che porrà fuori della legge rivoluzionaria tutti gli avversari della rivoluzione.
Queste basi fondamentali di un’intesa tattica non le facciamo discendere dal gusto puramente astratto di dire: collaboreremo nella preparazione pratica della rivoluzione solo con quelli che ne condividono sostanzialmente il nostro concetto teorico comunista. No, non si tratta di un lusso dottrinario, se pure le considerazioni che ci conducono a quel criterio tattico stanno a confermare ancora una volta quale magnifica guida dell’azione sia la nostra dottrina marxista. Si tratta proprio di utilizzare razionalmente gli insegnamenti pratici dell’esperienza.
Finora si è sempre riscontrata una tendenza quasi naturale a stabilire di quelle intese tra partiti diversi per una serie di finalità limitate e specifiche: difesa di vittime politiche, agitazioni particolari ecc. Su basi strettamente definite si potrebbe considerare come meno allarmante la costituzione dei cosiddetti comitati unici, ma vi è sempre la grave obiezione che è imprudente abituare i compagni e la massa a questo modo semplicista ed apparentemente facile di trovare aiuto e moltiplicare la propria forza e la propria influenza da un momento all’altro. Ma dove la incompatibilità tattica dei “fronti unici” diviene evidente e allorché essi si prefiggono un obiettivo più largamente politico, e soprattutto sul terreno dell’azione armata. Quando arriviamo al concetto di “agitazione per il ristabilimento delle pubbliche libertà” ossia per la “conservazione delle posizioni conquistate dal proletariato” allora si comincia a delineare l’insidia della tattica delle intese. Il “ritorno alla vita normale” ossia alla vita dell’anteguerra e dell’ “antecrisi” propugnato dai socialdemocratici è un obiettivo conservatore e reazionario perché è in contrasto con la fondamentale tesi dei comunisti che questo è il periodo della crisi ultima del capitalismo che non può trovare altri punti di equilibrio che la dittatura borghese e il terrore bianco reggentesi sulla cieca distruzione, o la rivoluzione proletaria, unica premessa di un riassestamento dei rapporti sociali. Un’azione per la difesa del proletariato contro la reazione non può essere concepita che come una azione del proletariato per rovesciare il regime. Ecco perché i comunisti devono rifiutare di partecipare ad iniziative di intese politiche aventi carattere “difensivo” contro gli eccessi dei bianchi, ma con l’obiettivo insidioso di ristabilire “l’ordine” e fermarsi li. Gli stessi lanzichenecchi fascisti non hanno altro obiettivo politico che quello di “ristabilire l’ordine” e dinnanzi ad un proletariato incapace o rinunciatario all’offensiva rivoluzionaria essi desisterebbero dalle loro gesta.
Quando i comunisti pervenissero al fianco di altri movimenti politici ad immobilizzare il fascismo con un’azione di “difesa proletaria” in accordo con altri elementi; raggiunto che fosse lo scopo, mentre noi vorremmo profittare di aver debellato in parte il nemico per andare oltre, all’abbattimento del potere borghese, i nostri alleati di ieri, fautori del ristabilimento della vita normale, vedrebbero logicamente in noi i perturbatori e diventerebbero allora i nostri peggiori nemici. Si può osservare che avendo fino allora utilizzate le loro forze ed esercitata la nostra propaganda in seno alle masse, ci sarebbe possibile travolgerli e proseguire nella nostra azione specifica prendendone allora da soli e direttamente le redini. Ma chi ragiona così dimostra di avere un concetto letterario e teatrale della rivoluzione, e di non intendere che le condizioni del suo successo stanno soprattutto nella preparazione organizzativa delle forze che per essa lottano; preparazione la quale nella fase ultima deve, pena il disastro, prendere il carattere tecnico di un inquadramento, di una disciplinata organizzazione militare. Ora una evoluzione tattica è facilmente eseguibile finché si lotta a colpi di discorsi, di ordini del giorno e di verbali dichiarazioni politiche, ma il cambiamento di fronte è impossibile dal punto di vista organizzativo. La scissione politica è una realtà ed una esigenza storica, ma scissione di un esercito già impegnato nella lotta è la rovina inevitabile, essa non lascia dietro di sé due eserciti, ma nessun esercito, poiché l’organizzazione militare di lotta è necessariamente fondata sull’unicità gerarchica dei collegamenti dei comandi, sulla indissolubilità di tutti i servizi annessi. Quella parte dell’esercito diviso in due opposti campi che passerebbe al nemico, anche sconfitto, ma non scisso, avrebbe sicuro punto di appoggio e possibilità di azione. L’altra parte, quella che dovrebbe agire da sola, resterebbe senza alcuna consistenza organizzativa, senza rete di inquadramento funzionante e quindi destituita di capacità di combattere.
Ecco perché siamo contro le intese difensive, tanto più quando si tratti non di opporsi alla “reazione” colle geremiadi liberalesche, ma di opporre ad esse una azione di forza. Nel primo caso non si conchiude nulla, nel secondo si travisa l’indirizzo della preparazione rivoluzionaria.
Il lettore può constatare che queste considerazioni puramente tattiche si traducono nel criterio da noi accennato di non addivenire ad accordi con coloro che negano in principio l’azione proletaria come offensiva contro il regime e contro lo Stato e sono disposti ad ammetterla solo come difensiva da quelli che essi inesattamente definiscono gli “eccessi” della borghesia: la borghesia oggi commette un unico “eccesso”: quello di essere al potere. E vi sarà fin quando esisterà il sistema democratico parlamentare. Un esempio di quegli alleati falsamente rivoluzionari può essere incidentalmente dato dal tenente Secondari e dall’on. Mingrino che dicono: organizzazione armata per ristabilire l’ordine civile, e poi andare a casa. Questo per noi è disfattismo che forse è peggiore di quello dei socialdemocratici che hanno per parola d’ordine: pacificare calando le brache e sconfessando la difensiva quanto l’offensiva violenta delle masse. Ed infatti non vi è distinzione tra difensiva e offensiva di classe nella terribile situazione attuale; appunto perché (ottimo maestro il fascismo) la lotta di classe è oggi divenuta una guerra vera e propria e nella guerra, come ogni tecnico militare conferma, ci si difende offendendo e si offende difendendoci. Il generale o il soldato che dicessero che bisogna che l’esercito si difenda solo, e non prenda mai l’offensiva, sarebbero fucilati come disfattisti “dalla difesa stessa”.
Ogni altro programma “rivoluzionario” che non sorpassi i limiti dell’attuale meccanismo rappresentativo ed esecutivo statale, racchiude le stessissime insidie. Dire che l’ordine può essere ristabilito placando una parte della borghesia, o colla genuflessione, o colla resistenza armata, non è che una traduzione in altri termini dell’espressione che si può ancora attendere una forma di equilibrio e di assetto sociale senza spezzare il meccanismo del potere borghese, ma solo modificandone alcune forme.
Ma vi sono, finalmente, gli anarchici e i sindacalisti che vogliono come noi l’offensiva rivoluzionaria contro lo Stato, che vogliono come noi demolire il regime della democrazia parlamentare; perché non legarsi strettamente con questi? Perché porre quella terza condizione di dover accettare senz’altro anche la costituzione, dopo la vittoria del proletariato, della ferrea dittatura politica e statale?
Tatticamente la nostra opposizione a questa intesa “sul terreno organizzativo” discende dalle stesse considerazioni, che ad certo momento quelle forze che hanno aiutato ad abbattere la borghesia, opponendosi alla costituzione di un regime dittatoriale renderanno poi più difficile e penoso lo schiacciamento dei tentavi controrivoluzionari.
E le considerazioni che precedono conducono ad assomigliare molte riserve che vengono dagli anarchici e dai sindacalisti al nostro metodo “dittatoriale” alle differenze che ci dividono dai movimenti pseudo rivoluzionari.
Vi è un’analogia tra la pretesa degli anarchici che la rivoluzione instauri la illimitata libertà di organizzazione e di propaganda politica, e la loro tenace illusione che correnti della “sinistra borghese” possano con loro concorrere a ristabilire, in regime capitalistico e parlamentaristico, questo ambiente di libertà politica. E la borghesia potrebbe arrivare a permettere la libertà di pensare e di propagandare “idee” ma è assurdo attendersi dalle “agitazioni (più o meno convulsionistiche) contro la reazione” che essa consenta l’effettiva organizzazione politica che tende a rovesciarne il potere. Ora la borghesia ha bisogno di dare l’illusione liberale; il proletariato no. L’opposizione degli anarchici alla dittatura dimostra che essi sono proclivi a certe seduzioni del liberalismo borghese. Questo vuol dire che fidare sulle loro strette alleanze condurrà a valorizzare certi movimenti piccolo-borghesi, come quelli di cui abbiamo parlato, poiché gli anarchici pigliano per moneta contante il loro acceso liberalismo, e per spirito rivoluzionario le loro filippiche contro la dittatura e l’autoritarismo dei “marxisti teutonici e slavi” senza accorgersi che si tratta di autentico controrivoluzionarismo, di sacro terrore borghese per l’avvento del proletariato al potere.
I sindacalisti sono dal canto loro pronti ad accettare come rivoluzionario chi sfoderi il ridicolo concetto dello Stato estraneo alle cose economiche, che lasci illimitata libertà alla lotta sindacale, e non vedono che questo preteso rinnovamento dello Stato non è che il consolidamento dello Stato borghese.
In conclusione di questa esposizione incompleta in rapporto alla gravità del problema noi diciamo: mille esperienze di questa complessa fase politica italiana ci confermano che è giusto porre il problema della preparazione rivoluzionaria su queste basi: affasciare, inquadrare, organizzare anche militarmente le forze che mirano a spostare le basi dello Stato, ma solo quelle che concepiscono questo spostamento come un’antitesi tra due eventualità della storia: o la conservazione dello Stato borghese, democratico e reazionario al tempo stesso, o la costituzione dello Stato proletario fondato sulla dittatura di classe.
Le altre soluzioni agitate dai mille gruppetti che alimentano in modo pernicioso il confusionismo rivoluzionario odierno possono classificarsi in due grandi categorie: in quella dell’insidia e in quella dell’errore. Ma gli organismi politici che stanno sull’uno o sull’altro terreno, pur potendo e dovendo esserci i secondi molto più simpatici e prossimi dei primi, non devono essere da noi affiancati in intese organizzative di preparazione rivoluzionaria.
Si delinea quindi quello che, a nostro modo di vedere, è oggi il compito specifico del partito comunista: agire come un coefficiente di orientamento, di raddrizzamento, di continuità sicura nel pensiero e nell’azione, in mezzo al caos delle mille correnti “rivoluzionarie” che esibiscono i loro programmi e i loro metodi e vedono spesso accettati i medesimi, o le curiose filiazioni dei loro “incroci” o il loro miscuglio universale tipo “fronte unico”, da gruppi della classe proletaria.
Altri potrà credere di avere una via più breve. Ma non sempre la via che appare più facile è la più breve, e per meritare della rivoluzione è troppo poco avere soltanto “fretta” di “farla”.