International Communist Party Sulla questione sindacale

Sul filo del tempo
Le scissioni sindacali in Italia
(Battaglia Comunista, n. 21 del 1949)



Ieri

Non è facile riordinare un poco le nozioni e le posizioni sui rapporti dei partiti e tendenze politiche col movimento operaio economico in Italia, e i loro riflessi sull’aggrupparsi e lo sciogliersi delle confederazioni sindacali su base nazionale.

Nelle lotte del risorgimento borghese nazionale i gruppi di lavoratori ove esistono embrionalmente sono alleati coi patrioti e tendono verso le posizioni più decise: garibaldine, mazziniane, anticlericali. Raggiunta l’unità borghese liberale si formano a seconda dello sviluppo sociale nelle varie regioni associazioni e società operaie in cui da un lato si confondono coi proletari gli artigiani, e dall’altro prevale il paternalismo dei capi politici del nuovo regime parlamentare.

I gruppi più avanzati si svegliano coi primi aderenti all’Internazionale negli anni 1867-71 e nelle sezioni, talune molto forti come in Romagna, Toscana, ed anche Campania, si hanno riflessi delle lotte tra Mazzini Bakunin e Marx con prevalenza della tendenza libertaria, cui in effetti si devono, quando comincia a chiarirsi la differenza funzionale tra associazioni politiche e organizzazioni economiche, i primi sindacati veri e propri, malgrado che gli anarchici tendenti all’individualismo, non pochi in Italia, diffidino non solo della formazione di partiti ma anche di quella di organi sindacali.

Questi sono i pochi spunti di preistoria sindacale, il cui sviluppo sarebbe di interesse massimo, che ci permettono di arrivare all’apporto importantissimo del movimento politico e del partito socialista nella organizzazione delle classi lavoratrici italiane dell’industria e della terra. Non va infatti mai dimenticato che se in Italia la diffusione dell’industria è diversissima da regione a regione e solo in una parte minore del paese diviene, più tardi, di peso paragonabile a quello che ha in altre nazioni europee vicine, esiste distribuito da Nord a Sud, sia pure con disuniformità locali, un proletariato agricolo di puri braccianti le cui prove nella lotta di classe intesa nel senso critico nettamente marxista, ossia da protagonista e non da alleato secondario e transitorio di una classe più rivoluzionaria, hanno una potente tradizione di battaglia contro il padronato capitalistico e lo Stato borghese, che solo la dilagante imbecille viltà dei capi odierni degrada a jacqueries di servi della gleba affamati di proprietà e non di socialismo contro il fantasma di un baronato inesistente, che dovrebbero debellare alleanze demo-liberali per la conquista di riforme borghesi. Peggio pare quando questo schema fantomatico di lotte si prospetta come rivoluzionario.

A fianco del partito socialista e per opera dei suoi propagandisti, che sono al tempo stesso organizzatori – non ancora funzionari – sindacali, sorgono le prime leghe. Esse naturalmente associano lavoratori di tutti i partiti e di tutte le credenze sulla base della loro attività lavorativa nelle fabbriche o nei poderi. Non meno naturalmente sono, e sono chiamate da amici e da nemici, leghe rosse e leghe socialiste; nella loro sede ha spesso recapito la sede del partito e si tengono le conferenze di propaganda politica, di cui è solo un aspetto occasionale quella elettorale, soprattutto in quanto i compagni candidati corrono pochi pericoli di sfuggire alla trombatura.

Infatti il borghese, il benpensante ed il prete scomunicano nello stesso tempo la pretesa dei lavoratori di ottenere con la sola forza della loro unione un meno esoso trattamento economico, e quanto arrivano a capire della propaganda socialista, che sentono – ed è – lanciata contro tutte le ortodossie religiose nazionali e liberali.

Non si tratta qui di apologizzare un tempo romantico di socialismo, ma di allineare contributi di fatti per la comprensione dell’evolversi del regime capitalistico e delle reazioni ad esso del movimento operaio, il quale nelle sue forme organizzative e nelle sue tendenze non può evitarne le ripercussioni.

È più tardi che altri partiti oltre il socialista scendono nell’agone sindacale con propositi non solo di concorrenza ma di contrattacco sociale. Soprattutto in Romagna sorgono leghe e Camere del Lavoro che chiamammo gialle in contrapposto alle rosse socialiste. Alla base della diversa tradizione ed ideologia politica vi è una differenziazione sociale: i repubblicani organizzano i grassi mezzadri di Romagna dal portafoglio a soffietto con trentadue scomparti e che passano di mercato in mercato vendendo e comprando bovini da mille lire oro come scatole di zolfanelli, consumando indi pasti e bevute nibelungiche nelle trattorie con alloggio e stallaggio. I lavoratori devono contendere a costoro il loro magro salario giornaliero, e con la loro Camera del Lavoro fregiata del ritratto emaciato di Mazzini conducono gli scioperi, mentre spesso le lotte tra i due partiti si liquidano a legnate e peggio. Invano infatti i braccianti, ad esempio della ricca e rossa Imola, andrebbero in cerca del letterario barone, potrebbero al più trovare in casa il conte Tonino Graziadei, ma per avventura si imbatterebbero in uno dei pochi che in Italia avessero letto e capito Marx. Capire non è seguire, ma è pur sempre cosa rara e simpatica.

Nel Veneto invece domina la frazionatissima proprietà e prevalgono i preti. Quando non basta più il pulpito e il circolo cattolico appena meno buio e silenzioso della sacrestia, vediamo fondare la Camera del Lavoro bianca. Se riunisca sindacati, mutue o consorzi di agricoltori per comprare concime non è facile dire, talvolta ha la targa comune addirittura a quella della Banca Cattolica. Il buon credente risparmia per l’altra vita ma anche per questa valle di lagrime. Siamo al tempo della Rerum Novarum. La previdenza è il fulcro dell’economia pretesca e piccolo borghese ed è la bestia nera dell’economia nostra marxista, non è così, Tonino? Ma le statistiche dei depositi di Ivanovo Vossnessensk hanno battuto quelle di San Donà del Piave...

A questo punto in Italia vi sono tre Confederazioni sindacali, sebbene con diverso peso regionale: rossa gialla e bianca. Seguitiamo ad esaminare la cosa col semplicismo di noi poveri e limitati monocromatici. Se l’ultima la volete chiamare nera, la cosa va lo stesso.

La crisi tante volte rammentata del distacco del sindacalismo rivoluzionario fu in gran parte una reazione alla degenerazione a destra del movimento socialista. Questa ebbe doppio aspetto: parlamentare e confederale. Il partito come tale, coi suoi migliori militanti e nella stessa direzione, veniva sopraffatto dalla doppia forza del gruppo parlamentare e della gerarchia dei capi confederali, due forze egualmente orientate verso una forma legalitaria e conciliante di azione, al traguardo della quale era facile vedere la collaborazione economica coi padroni e politica coi ministeri borghesi. Capi sindacali e deputati affermarono una autonomia dal partito per un buon motivo democratico, che gli inscritti al partito erano numericamente assai meno degli organizzati economici da un lato, degli elettori politici dall’altro. L’estremo riformismo dei Bonomi e dei Cabrini sviluppò un vero “sindacalismo riformista” che, pur considerando suo campo di azione al posto della piazza lo studio dell’industriale e il gabinetto del prefetto, si teneva libero dalle influenze di partito e perfino da quelle della pur destra deputazione socialista, svalutando quindi – sintomo comune a tutti i revisionismi del marxismo radicale – l’azione di partito rispetto a quella puramente economica.

I sindacalisti soreliani o rivoluzionari fiancheggiati dagli anarchici fecero leva sul disgusto delle masse per gli eccessi del metodo quietista prevalente nelle leghe operaie e nel partito troppo dedito al fatto elettorale, e posero in prima linea i loro slogans preferiti dell’azione diretta, ossia della imposizione al padronato senza intermediari di parlamentari e di funzionari statali, e dello sciopero generale come mezzo di appoggio tra l’una e l’altra categoria. Dalla Confederazione Generale del Lavoro socialista, ma in sostanza dominata da riformisti anche se questi erano minoranza nel partito, uscirono le organizzazioni della detta tendenza e fondarono la battagliera Unione Sindacale Italiana protagonista di non dimenticabili battaglie operaie. Il forte e non meno ricco di tradizioni classiste Sindacato Ferrovieri, pur riprovando il riformismo confederale, si tenne fuori dalle due organizzazioni nazionali.

La ventata della guerra. La Confederazione del Lavoro, sempre diretta da elementi della destra del partito socialista, resistette senza scissioni nella opposizione alla guerra pur rifiutando di proclamare lo sciopero generale nelle giornate di ubriacatura patriottica del maggio 1915. Si spezzò malamente la Unione Sindacale e ne avemmo due: quella interventista di De Ambris, quella contraria alla guerra del libertario Armando Borghi. I nomi si usano per stringere il brodo.
 
 
 
Oggi

Quando apparve il fascismo, che in sostanza era la stessa corrente a cui ben rispondevano da una parte i destrissimi Bissolatiani e Bonomiani, e dall’altra gli pseudo sinistri dell’interventismo vuoi repunenniano, vuoi sindadeambrisiano, si provò anche esso in campo sindacale, anzi fondò i suoi sindacati suonando sull’accordo nazionale il motivo della lotta al padronato, tra l’altro nell’interessante discorso di Dalmine. Non per niente convinse non trascurabili esponenti di quelle correnti, inquadrando un Michele Bianchi che nel brodo sindacalista italiano ebbe una parte da più che prezzemolo, e le carote riformistiche Rigola Calda e gli altri dei Problemi del Lavoro. Il fascismo era il solo vero possibile erede del riformismo, ossia della bestia nera di noi archeiomarxisti.

I sindacati fascisti comparvero come una delle tante etichette sindacali, tricolore contro quelle rosse gialle e bianche, ma il mondo capitalistico era oramai mondo del monopolio, e si svolsero nel sindacato di Stato, nel sindacato forzato, che inquadra i lavoratori nell’impalcatura del regime dominante e distrugge in fatto e in diritto ogni altra organizzazione.

Questo gran fatto nuovo dell’epoca contemporanea non era reversibile, esso è la chiave dello svolgimento sindacale in tutti i grandi paesi capitalistici. Le parlamentari Inghilterra e America sono monosindacali e i sindacati nelle loro gerarchie servono i governi quanto in Russia.

La Vittoria delle Democrazie e il ritorno in Italia dei ricineschi più che ricinati personaggi premarcia non è quindi stata una reversione del fascismo, molto meno regressista di costoro (ma intanto annoti Tonino che noi, monomarxisti ecc. più diamo ad uno del progressista più desidereremmo di vederlo livragato).

Se la situazione storica italiana fosse stata reversibile, ossia se avesse qualche base la sciocca posizione del secondo Risorgimento e della nuova lotta per la Nazione e l’Indipendenza, cavallo più che mai inforcato dagli stessi stalinisti, non avrebbe avuto un minuto di esistenza la tattica di fondare una confederazione unica di rossi e di gialli, di bianchi e di neri, e senza l’influenza dei fattori di forza storica, cui dovendo dare un nome va preso quello di Mussolini, le masse non avrebbero subito quest’ordine bestiale recato dall’enciclica moscovita nella Pasqua 1944.

Le successive scissioni della Confederazione Italiana Generale del Lavoro, col distaccarsi dei democristiani e poi dei repubblicani e socialisti di destra, anche in quanto conducono oggi al formarsi di diverse confederazioni, e anche se la costituzione ammette la libertà di organizzazione sindacale, non interromperanno il procedere sociale dell’asservimento del sindacato allo Stato borghese, e non sono che una fase della lotta capitalista per togliere ai movimenti rivoluzionari di classe futuri la solida base di un inquadramento sindacale operaio veramente autonomo.

Gli effetti, in un paese vinto, e privo di autonomia statale posseduta dalla locale borghesia delle influenze dei grandi complessi statali esteri, che si punzecchiano su queste terre di nessuno, non possono mascherare il fatto che anche la Confederazione che rimane coi socialcomunisti di Nenni e Togliatti non si basa su di una autonomia di classe. Non è una organizzazione rossa, è anche essa una organizzazione tricolore cucita sul modello Mussolini.

La storia del “risorgimento” sindacale 1944 sta a dimostrarlo, coi suoi nastri tricolore e le sue stille di acqua lustrale sulle bandiere operaie, con le basse consegne di Unione Nazionale, di guerra antitedesca, di nuovo Risorgimento Liberale, con la rivendicazione, tuttora in atto, di un ministero di concordia nazionale, direttive che avrebbero fatto vomitare un buon organizzatore rosso – anche di tendenza riformista spaccata.