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Per la storia dell’azione pratica del Partito negli anni 1921‑22
(Da Il Partito Comunista nn. 27-28 1976; 29-34-38-39
1977; 43-44-50-51-52 1978)
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[Il Partito Comunista n. 27, novembre 1976]
Le vicende che narriamo e l’esperienza acquisita, sebbene per ragioni
del tutto accidentali prendano le mosse dal luglio 1921, costituiscono
una fonte preziosa non solo per la riaffermazione dei nostri principi,
ma anche per l’educazione rivoluzionaria dell’attuale organizzazione
di partito, cui, a differenza di allora, sorgendo sullo sfondo tragico
di un proletariato, più che battuto dal suo nemico di classe, avvilito
ed umiliato dal tradimento, è venuta a mancare quella vis vitalis
che è la lotta rivoluzionaria di classe.
Il lavoro per esigenze di chiarezza è stato suddiviso in tre filoni
fondamentali:
- Analisi della situazione italiana del tempo;
- Critica serrata e decisa da parte del P.C.d’Italia ai partiti opportunisti
(P.S.I.) ed alle organizzazioni sindacali guidate da dirigenti socialriformisti
(C.G.L.);
- La tattica del P.C.d’Italia e la sua azione pratica.
LA SITUAZIONE ITALIANA DEL TEMPO
La borghesia, dopo l’insuccesso dell’occupazione delle fabbriche
da parte degli operai e della terra da parte dei contadini, ascrivibili
all’inerzia ed all’indecisione del P.S.I. e della C.G.L., passa decisamente
all’attacco per spezzare definitivamente il proletariato italiano e per
fare ricadere su di esso interamente il peso della crisi, avendo sperimentato
chiaramente che il P.S.I. e la Confederazione hanno timore della lotta.
Lo Stato borghese si rafforza, si arma, viene accresciuto il corpo dei
carabinieri, istituita la guardia regia, i tribunali non fanno altro che
processare, condannare e riempire le galere di proletari, il fascismo dilaga
liberamente dovunque protetto e favorito dallo Stato; numerosi proletari
vengono massacrati impunemente, le Camere del Lavoro, le Case del Popolo,
le Cooperative saccheggiate ed incendiate. Da parte degli industriali e
degli agrari si passa decisamente alla riscossa, avendo compreso che l’avversario
è poco pericoloso in quanto simile ad un corpo muscoloso ma inattivo.
Gli industriali riducono a loro piacere le ore di lavoro, non rispettano
le otto ore giornaliere, effettuano serrate (famosa quella alla FIAT),
denunciano e non rispettano gli accordi sui salari, volendone imporre una
riduzione, licenziano gli operai e gettano nella miseria più nera le loro
famiglie, mentre i prezzi dei generi di prima necessità aumentano. Nel
settore dell’agricoltura gli agrari non rispettano i patti colonici ed
i contadini vengono ricacciati in condizioni da Medio Evo.
Il padronato si sente più forte che in passato, per questo cerca di
annullare le conquiste economiche conseguite negli ultimi anni di ripresa
proletaria. I primi a fare le spese di tale massiccia offensiva sono naturalmente
gli operai comunisti i quali sono licenziati, con la motivazione che i
comunisti nelle officine e nelle fabbriche sarebbero i responsabili dei
rapporti insostenibili creatisi al loro interno fra operai e padroni. Infatti
i consigli di fabbrica in mano ai comunisti, secondo i padroni, impedivano
la normale attività. Il licenziamento degli operai comunisti fu il primo
passo del massiccio attacco padronale, ed in questo atto la borghesia trovò
come alleati i capi socialriformisti Buozzi e compagni. L’esclusione
dei comunisti dalle fabbriche portò alla formazione di commissioni interne
socialiste, elette con l’aperta simpatia degli industriali, i quali offrirono
persino le macchine per stampare manifestini anticomunisti. Cacciati che
furono i comunisti, che erano gli elementi più combattivi dell’esercito
proletario, fu più agevole per gli industriali passare all’attacco contro
le posizioni conquistate dagli operai, con una serie di azioni e di iniziative
che culminarono nella riduzione dei salari. Quindi la lotta contro gli
operai comunisti fu l’inizio della lotta contro l’intera classe operaia.
Una volta licenziati i comunisti dalle fabbriche, ritenuti responsabili
delle difficoltà in cui si trovava la classe imprenditoriale, tutto avrebbe
dovuto procedere regolarmente. La situazione invece peggiorava: non erano
dunque i comunisti ad impedire il risveglio e lo sviluppo dell’industria,
bensì la crisi economica in cui si dibatteva il capitalismo. Venuti a
mancare i comunisti, nelle fabbriche le masse operaie si sono trovate disorientate,
il loro spirito combattivo ha ricevuto un grave colpo dai compromessi,
dalle sottomissioni, dalle umiliazioni che hanno ricevuto percorrendo la
strada su cui sono stati guidati dai capi socialdemocratici.
Di fronte alla disoccupazione, alla fame, alle violenze fasciste i dirigenti
socialriformisti non hanno lanciato alle masse, che le attendevano, parole
d’ordine chiare e fondate su un’aperta e generale lotta di classe,
ma si sono posti su posizioni di resa e di inattività, generando nel mondo
operaio e contadino un senso di abbattimento, di disillusione e di impotenza.
Abbandonata a se stessa di fronte all’offensiva avversaria, gran parte
della classe lavoratrice ha dovuto accettare per non morire di fame di
vendere la propria forza-lavoro ad un prezzo inferiore ai concordati, riservandosi
magari poi di compiere una seconda giornata lavorativa, e ciò naturalmente
a danno dei disoccupati.
Questa situazione favorisce i piani del padronato a cui è necessario
poter disporre di un grande esercito di riserva per attaccare le posizioni
raggiunte dalla classe operaia. D’altra parte i capitalisti sanno di
agire senza opposizione da parte dei dirigenti sindacali opportunisti,
i quali misconoscono quello che è il dovere principale delle organizzazioni
sindacali, cioè impedire la concorrenza fra gli operai ed il deprezzamento
della forza lavoro. Ma il comportamento collaborazionista dei capi confederali
va oltre, infatti i signori Buozzi, Baldesi e compagni fanno di tutto per
appianare la resistenza spontanea che gruppi di proletari oppongono all’attacco
capitalista, cercando di convincerli che i licenziamenti sono necessari,
le riduzioni dei salari inevitabili.
L’attacco capitalista nei confronti delle conquiste operaie già dall’inizio
del 1921 era stato denunciato chiaramente dal P.C.d’I. e dal suo Comitato
Sindacale. L’invito rivolto da parte comunista ai lavoratori perché
resistano, perché non cedano su alcun punto, perché non accettino le
imposizioni degli industriali, perché non sottoscrivano dei patti capestro,
fu interpretato come espediente per salvare dal licenziamento gli operai
comunisti e dette luogo a calunnie contro di loro, ma la verità era che
impedendo nelle fabbriche la reazione anticomunista si sarebbe salvata
la compagine operaia dalla disgregazione e dall’indebolimento. I fatti
successivi confermarono le nostre previsioni, e tutti gli operai, a qualunque
partito appartenessero, sentirono le conseguenze di quella mancata resistenza.
L’attacco capitalista apparve evidente e contro l’intera classe
operaia, socialista, repubblicana, popolare, anarchica o comunista. Dopo
gli operai comunisti toccò ai socialisti; licenziati o col salario decurtato;
colpiti anche gli stessi operai fascisti, i quali avevano fatto le spie
dei padroni in danno dei comunisti. Una ditta torinese (la Giachero) ridusse
i salari anche ai lavoratori fascisti e minacciò di espellerli dai fasci
se si fossero opposti. La classe padronale avvertiva di poter osare tutto
e prendeva provvedimenti e decisioni senza neppure dare il tempo alle Commissioni
Interne e alle organizzazioni sindacali di intervenire, di discutere, trattava
direttamente con gli operai per imporre vili ricatti.
Questo era possibile in quanto i dirigenti opportunisti e riformisti
del P.S.I. e della Confederazione, di un esercito agguerrito di volontà
di lotta avevano fatto un esercito diviso e disperso di fronte all’incalzare
dell’offensiva borghese. La classe operaia era calpestata e non le era
stato dato neppure il legittimo orgoglio di aver combattuto. Poi i dirigenti
confederali si scandalizzarono perché gli industriali non rispettavano
gli accordi salariali e si appellarono alla "opinione pubblica" perché
li giudicasse, oppure si meravigliavano che un ministro del lavoro non
riuscisse a far rispettare i contratti al padronato. Questi signori evidentemente
non sapevano che tutti i concordati hanno valore in base alle forze che
i contraenti hanno di farli rispettare.
La tattica dell’inerzia, del lasciar fare, della rassegnazione, ed
il rifiuto di porsi sul terreno della lotta aperta contro la reazione capitalista,
adottata dai social-traditori, era motivata adducendo il fatto che il padronato
era il più forte.
Battuti sul terreno della resistenza ed incapaci di porsi su quello
dello scontro diretto ecco che si appellano allo Stato per cercare che
non tutte le conquiste ottenute dai lavoratori vengano strappate, illudendosi
di trovare nello Stato, con il quale vogliono collaborare, un aiuto contro
il padrone che diventa sempre più forte. Appellandosi allo Stato e cercando
di collaborare con esso si misconosce un insegnamento fondamentale della
dottrina marxista, ribadito più volte dall’Internazionale Comunista.
Infatti, nella situazione di allora, non è solo il padrone nemico del
proletariato a combattere per la sua vita, ma lo Stato, perché gli interessi
e le forze di tutti i padroni si raccolgono e si unificano nel potere dello
Stato, per cui non può non lottare contro lo Stato, per conquistarlo per
via rivoluzionaria. Il ricorso allo Stato per una ipotetica difesa contro
il padrone o il rifugiarsi sul terreno della collaborazione, disperando
della vittoria in campo aperto, è più che illusione tradimento, è consegnare
al nemico le forze rimaste dell’esercito proletario.
Il volto social-agnostico dei dirigenti confederali traspare evidente
da tutto il loro comportamento e dal tipo della loro azione. Di fronte
al massiccio attacco capitalista su tutto il fronte del proletariato propongono
e sostengono la tattica del caso per caso, che significa categoria per
categoria, luogo per luogo. Questa tattica è destinata naturalmente
all’insuccesso, è come mandare contro un intero esercito agguerrito
e compatto dei battaglioni ad uno ad uno. Infatti ora vengono mandati allo
sbaraglio i tessili, ora i chimici, ora i metalmeccanici, ora i lavoratori
della terra. Gli insuccessi di una lotta così frazionata servono ai mandarini
sindacali per trarre la conclusione che il padronato è il più forte,
che non è possibile perseguire la strada dello scontro diretto, per cui
non c’è altra via che la collaborazione e trasformare l’entusiasmo
fecondo dei lavoratori in tante poltrone in parlamento.
Lo sciopero generale minacciato dai tessili per la riduzione dei salari
costituisce un esempio lampante della tattica corporativa e controrivoluzionaria
dei dirigenti opportunisti. In una situazione che fa registrare uno dei
punti più alti dell’attacco capitalista alle conquiste dei lavoratori,
questo sciopero potrebbe assumere un enorme valore politico, segnare l’inizio
di una riscossa, di una grande offensiva. Ma il valore politico di queste
lotte per il salario non è posto all’attenzione delle masse, si cerca
di dargli il significato delle solite controversie sindacali, alle quali
è interessata solo una determinata categoria. Ma il colmo del tradimento
è che i mandarini sindacali si accordano con i padroni, revocano lo sciopero
ed accettano una riduzione dei salari del 20%, limitandosi ad ottenere
il rifiuto da parte degli industriali di attaccare «le conquiste di carattere
morale raggiunte dai lavoratori».
Anche la vertenza alla FIOM non si conclude con risultati diversi, infatti
i capi sindacali, per procedere ad una ripresa del lavoro nelle fabbriche,
riconoscono la necessità di superare con spirito conciliativo il periodo
di crisi che attraversa il paese. Per questo comportamento collaborazionista
e di aperta difesa del sistema di produzione capitalista, i bonzi sindacali
ricevono palesi e sentiti ringraziamenti da parte degli industriali; L’Idea
Nazionale, giornale nazionalista filofascista, dà ampia lode al senso
di responsabilità ed equilibrio dimostrato dagli organizzatori degli operai.
Ma il tradimento dei dirigenti confederali non conosce limiti ed arriva
ad imporre delle limitazioni al diritto di sciopero nei servizi pubblici.
In caso di scioperi generali per proteste locali devono essere esclusi
dal parteciparvi gli addetti ai servizi pubblici, ferrovieri, postelegrafonici,
tranvieri impiegati in servizi interurbani, fornai, gli addetti alla distribuzione
dell’energia elettrica e dell’acqua potabile. Così pure dagli scioperi
di carattere politico nazionale sono esclusi i fornai e gli addetti alle
distribuzioni dell’acqua potabile e dell’energia elettrica. Oltre a
ciò, si minaccia di espellere dalle Confederazioni quelle organizzazioni
e quei gruppi che agiscono in contrasto con le direttive sindacali stabilite
o mettono in cattiva luce l’operato della Confederazione. Si aggiunge
inoltre che ogni agitazione per essere portata avanti deve ottenere il
previo consenso ed autorizzazione del Comitato Esecutivo della Confederazione
dei Lavoro.
Anche in questo caso non poteva mancare un vivo ringraziamento della
controparte, cioè del padronato. La Tribuna, organo della borghesia,
infatti si rallegra per la decisione presa dalla C.G.L. di espellere quegli
elementi definiti estremisti e catastrofici; come pure sottolinea il fatto
positivo di disciplinare gli scioperi nei servizi pubblici e che siano
solo i capi supremi delle Confederazioni a maneggiare l’arma dello sciopero.
La
Tribuna afferma di apprezzare il merito civile di queste decisioni
ed assolve la C.G.L. dagli eccessi e dagli errori compiuti in passato,
dovuti a pressioni demagogiche che l’hanno indotta in errore, contro
l’intimo parere dei capi più veggenti ed equilibrati. Con le decisioni
prese, sempre secondo La Tribuna, la C.G.L. è giunta al riconoscimento
della interdipendenza delle forze e degli interessi sociali; tale posizione
assunta dalle Confederazioni favorirà la pace sociale ed agevolerà la
collaborazione per la salvezza nazionale; tale atto è davvero un atto
di conciliazione umana e nazionale, che cancella le responsabilità di
cui in passato la C.G.L. si era macchiata.
Questa volontà di conciliazione va oltre, e non poteva essere diversamente,
tenuto conto delle premesse. Infatti i mandarini sindacali Galli, Baldesi
e Caporali per la C.G.L. sono i firmatari dell’atto di pacificazione
stipulato il 4 agosto fra fascisti e socialisti. Baldesi, in Battaglie
Sindacali, organo sindacale delle Confederazioni, valuta il patto di
Roma come un «fatto morale che mira a spazzar via dalla vita civile tutto
quanto si era infiltrato e che avvelenava l’esistenza, esso è l’avvio
per un ritorno a metodi di civiltà che pongono fine ad altri che per una
strana inversione morale (n.d.r.: il fascismo come malattia morale!) sono
stati anche esaltati».
L’opera disfattista e antiproletaria dei bonzi sindacali non ha limiti
e le conseguenze sono assai più gravi in quelle zone, come per esempio
il ferrarese, che sono le roccheforti del fascismo. Nelle campagne ferraresi
il movimento contadino era assai forte e poteva considerarsi l’avanguardia.
Ciò lo aveva portato a trattare da pari a pari con i padroni, i quali
ricorsero alle violenze più inaudite sguinzagliando per le campagne squadracce
fasciste, protette dalle forze pubbliche, autorizzate ad intervenire quando
veniva opposta resistenza alle violenze. Ecco che in questa situazione
furono inviati dalla Confederazione del Lavoro i più vili ed accomodanti
mandarini sindacali, i quali emisero comunicati invitanti alla calma ed
alla rassegnazione, mentre la violenza fascista continuava più spietata
e feroce. Fu detto ai contadini: con la calma si dominano le situazioni,
siate disciplinati, non provocate. Il risultato fu che, rimasti in balia
di se stessi, senza alcuna guida che indicasse loro una precisa linea di
difesa, sotto la minaccia di gravi rappresaglie, molti passarono ai sindacati
autonomi controllati dall’Agraria e dagli stessi fascisti.
Non migliore sorte ebbero i contadini del pavese entrati in sciopero,
i quali, abbandonati a se stessi, si trovarono di fronte i cannoni fascisti.
[Il Partito Comunista n. 28, dicembre 1976]
Di fronte alla resa dei capi sindacali opportunisti e alla loro accettazione
di patti-capestro o patti-capitolazione, come alla FIAT e nell’agitazione
dei tessili, si riscontrano azioni di critica e di resistenza all’operato
delle Confederazioni in settori del proletariato. Per esempio, gli operai
tessili dei vari centri della Lombardia scendono in sciopero nonostante
i dirigenti l’abbiano revocato e non accettano la riduzione del salario,
impedirono a Buozzi di parlare e definiscono l’accordo una soluzione
vergognosa. Come risposta dai capi sindacali hanno che la posizione assunta
è "di marca comunista".
Il metodo seguito dai dirigenti federali verso le organizzazioni e gli
operai che si pongono sul terreno della aperta lotta di classe è quello
dell’intimidazione, della minaccia di espulsione, come fa l’Internazionale
gialla di Amsterdam. Un esempio di questo comportamento si può riscontrare
nella polemica verificatasi fra la Camera del Lavoro di Savona, diretta
dai comunisti, e la segreteria nazionale della C.G.L. Il motivo della polemica
è la lotta contro la riduzione dei salari e l’accordo di Roma per la
pacificazione. Di fronte alle critiche della Camera del Lavoro di Savona
per l’operato della Confederazione, Baldesi ribadisce l’obbligo della
disciplina da parte degli organizzati, chi non vuole rispettarla può prendere
altre strade e aggiunge che la C.G.L. ha un patto di alleanza con il P.S.I.
che intende far rispettare da tutti i suoi aderenti.
Alla collaborazione dei dirigenti confederali con gli industriali nel
campo economico corrisponde in quello politico la collaborazione del P.S.I.
con i vari gruppi borghesi. Fra P.S.I. e C.G.L. ci sono stretti rapporti
di alleanza. I comunisti come quelli di Savona sono suoi avversari e non
sarà data loro la possibilità di prendere iniziative come quelle intraprese
«in quanto per ora non avete la fortuna di essere i nostri padroni».
L’ATTO DI PACIFICAZIONE
Il patto di pacificazione fra socialisti e fascisti rappresenta l’atto
più evidente della politica di collaborazione e di riconciliazione fra
le classi svolta dal P.S.I.. Si vuole far dimenticare alle masse proletarie
il passato e le violenze subite dalle guardie bianche al servizio del capitale.
Il P.S.I., muovendosi sul terreno pacifista, fa proprio il punto di vista
dei turatiani, che sostenevano il disarmo degli odi e delle mani, la lotta
con le armi civili della propaganda e della discussione, cioè usando quei
mezzi che offrono le istituzioni borghesi. Il principio del social-pacifismo
ha alla base il comandamento cristiano "non uccidere" e l’invito a porgere
l’altra guancia all’offensore. Il garante di questo trattato di pace
sarà lo Stato, arbitro il governo nelle controversie che seguiranno. Ma
com’è possibile credere ad uno Stato al di sopra delle classi, arbitro
imparziale, quando tutti gli strumenti dello Stato borghese hanno servito
fino ad ora il fascismo in tutte le sue imprese, quando il governo è il
manutengolo del fascismo ed i fascisti si vantano di essere i tutori dello
Stato? Il fascismo non si è sviluppato in antitesi allo Stato; credere
al carattere antistatale del fascismo è grave errore dei socialisti.
Nelle parole della Sinistra «il fascismo non è che un aspetto della
violenza borghese – l’aspetto controffensivo che anticipa l’attacco
del proletariato offensivo di domani (...) Lo Stato è un’organizzazione
di difesa della classe più forte, è il prodotto degli antagonismi inconciliabili
esistenti fra le classi. È un potere collocato dalla borghesia apparentemente
al di sopra della società, destinato ad attutire il conflitto fra le classi
e mantenerlo nei limiti dell’ordine. Lo Stato si rafforza come potere
sempre più man mano che si acuiscono i conflitti di classe. Per i socialdemocratici
ed i piccoli borghesi lo Stato è organo della conciliazione fra le classi».
Pertanto non è una menomazione per i fascisti accordarsi con lo Stato
e riconoscerne l’autorità. Chi ha tradito nel firmare questo patto di
pace non sono i fascisti, ma i socialisti, i quali accettano di trattare
e di accordarsi con la classe nemica e riconoscono come arbitro nelle contese
uno degli strumenti di lotta più perfezionati e potenti degli stessi avversari,
cioè lo Stato. Il trattato di pace di Roma darà mano libera al governo
per reprimere ed iniziare una reazione legale; tale reazione legale, per
ragioni facilmente comprensibili sarà sempre più feroce contro il proletariato
ed il P.S.I. dovrà tacere, in quanto con il patto stipulato autorizza
quanto il governo fa per mantenere la cosiddetta pace sociale.
I socialisti giustificano l’atto di pacificazione in nome dell’umanitarismo,
della civiltà, del bene del paese. Con questo patto il P.S.I. si ascrive
il merito di voler ricondurre le lotte politiche ed economiche sul terreno
loro naturale, che non è quello dell’imboscata, dell’assassinio e
dell’incendio. È il tentativo, sempre secondo il P.S.I., di richiamare
tutti al rispetto dei diritto di vivere che solo i selvaggi non riconoscono.
Bacci, segretario del P.S.I., in un articolo sull’Avanti, paragona il
fascismo a quelle manifestazioni della natura (temporali e terremoti) contro
le quali non si accetta il combattimento, ma si corre ai ripari e sottolinea
il senso di responsabilità dimostrato dal P.S.I., il quale, senza accettare
la battaglia cruenta e l’annientamento di uomini e di cose, pur sotto
i colpi più accaniti dell’avversario, ha dimostrato come si possa ricondurre
tutti all’esplicazione civile dei programmi politici e sociali, così
indispensabili, per il P.S.I., ai fini del progresso ed ai più radicali
cambiamenti nella struttura della società.
Con l’atto di pacificazione il P.S.I. crede di favorire ed accelerare
la crisi del fascismo – questo determinerebbe una scissione al suo interno
fra l’ala oltranzista dei grandi agrari emiliani, facenti capo a Farinacci,
e l’ala meno intransigente capeggiata da Mussolini. I socialisti non
capiscono che il fascismo che conta non è quello dei fascisti. Ciò che
conta è l’armamento del capitalismo, dello Stato borghese, che la crisi
fascista non può toccare. La Sinistra: «Lo Stato si rafforza come potere
sempre più man mano che si acuiscono i confitti di classe». Mussolini
stesso ebbe a dire: «Per me il fascismo non è fine a sé stesso, ma un
mezzo per ristabilire l’equilibrio nazionale», e commenta l’atto di
pacificazione affermando: «La battaglia è vinta», e sottolineando come
esso rappresenti una tappa importante ai fini di disarmare il movimento
socialista di ogni velleità rivoluzionaria e bolscevica. Inalberare la
bandiera pacifista da parte del P.S.I. costituisce per la borghesia una
sicurezza di fronte allo stato d’animo pieno di odio e d’incognite,
e desideroso di vendetta, determinatosi nelle masse proletarie in seguito
alle continue violenze subite.
D’altra parte, il proletariato non è come un orologio che si può
caricare quando si vuole, per cui questa sagra pacifista non serve che
a indebolire il suo potenziale rivoluzionario e non può essere giustificata,
secondo quanto dicono i socialisti, come un momento di tregua, di sosta,
utile al proletariato per ritemprare e raccogliere le proprie energie.
Mentre la borghesia continua la sua reazione, una volta sperimentata l’impotenza
del P.S.I. a fronteggiare sul terreno dell’aperta lotta di classe l’offensiva
capitalista. Gli stessi socialisti sperimenteranno sulla propria pelle
come l’atto di pacificazione sia stato solo una commedia.
A farne le spese fu anche il deputato socialista Di Vagno, mentre partecipava
ad una manifestazione di contadini pugliesi, i quali, nonostante che per
alcuni mesi avessero saputo contrastare validamente con la forza la controffensiva
padronale, erano stati invitati da Turati, con toni patetici ed umanitari,
a mutare comportamento, con la raccomandazione di non raccogliere le provocazioni
e le ingiurie degli avversari, di essere «buoni, pazienti, santi, di non
meditare vendetta ma di compatire e perdonare i nemici di classe in quanto
la violenza non può dare dei frutti ai violenti e coloro che oggi offendono
piegheranno domani la cervice e temeranno per l’opera propria compiuta».
Anche al P.C.d’I. viene rivolto l’invito a partecipare alle trattative
per la pacificazione, ma la risposta non può essere che negativa. Bombacci
risponde che nessun accordo ci può essere tra il carnefice e le sue vittime,
fra gli oppressori e gli oppressi. Per aver rifiutato di prender parte
a questo "mercato di scaicchi", il Partito Comunista viene considerato
una associazione di assassini, di delinquenti, di teppisti bolscevichi,
ed additato come la causa di tutte le disgrazie che si abbattono sul paese
ed in definitiva la causa del fascismo, alle cui azioni offrirebbe motivo
e giustificazione.
I comunisti, per non aver accettato di compiere questo delitto contro
il proletariato italiano, sanno di essere il bersaglio della coalizione
reazionaria comprendente non solo i fascisti, ma anche i socialisti e i
popolari. Essi sanno che il disarmo si accetta solo se imposto con la forza
degli avversari e che non consegneranno mai spontaneamente le armi, rinunciando
alla lotta, ma che devono restare e che resteranno ai loro posti di combattimento
nella posizione inamovibile che è loro propria. Non ricorreranno mai allo
Stato per un’ipotetica difesa contro il padrone divenuto più forte,
in quanto non credono ad uno Stato imparziale, estraneo alla lotta di classe
e capace di realizzare la pace sociale.
Credere a queste fandonie è rinnegare ogni principio di lotta di classe,
è credere alla consanguineità fra sfruttatori e sfruttati. «Il P.C.d’I.
non sarà mai il Maramaldo del proletariato o se si preferisce il Pulcinella,
come lo è il P.S.I.. Il comportamento dei socialisti nasconde il bersaglio
da colpire, i socialisti stessi in nome della legalità, dell’ordine
e della pace sociale, saranno le spie ed i complici dei fascisti nel ruolo
di carnefici; del resto già i fatti di Firenze e di Maremma lo hanno dimostrato
chiaramente».
L’atto di pacificazione è in funzione anticomunista; la persecuzione
contro i comunisti sarà legale; essere comunista, lottare per l’avvento
al potere della classe proletaria non costituirà un delitto solo secondo
un Farinacci, ma sarà un delitto da perseguire nel nome stesso della legge.
Quei proletari che si opporranno con la violenza alla reazione borghese
verranno affidati alla giustizia, ad una corte arbitrale presieduta da
un De Nicola qualsiasi, che solo l’imbecillità dei socialisti può ritenere
giudice imparziale. Ogni violenza di classe che sarà compiuta dalle masse
proletarie verrà definita "delinquenza comunista".
La riprova dell’accordo social-fascista contro i comunisti è data
da tutta una serie di comunicati ed atti ufficiali firmati congiuntamente
dai rappresentanti autorevoli dei due partiti. Possiamo esaminarne alcuni
particolarmente significativi.
In seguito all’uccisione di un giovane fascista avvenuta nelle vicinanze
di Cremona, fascisti e socialisti sottoscrivono un manifesto comune in
cui si parla di "malvagio agguato comunista", si condannano gli assassini
e quella propaganda che li aveva spinti alla delinquenza. Le firme in calce
al manifesto sono di Farinacci e di un sindaco socialista. Sempre nel Cremonese
fra fascisti e socialisti viene stabilito un accordo in cui si legge che
le due parti contraenti si impegnano ad arginare il movimento comunista,
a formare una commissione mista alla quale dovevano essere denunciati tutti
coloro che appartenevano al movimento comunista. Inoltre ci si impegna
ad impedire la venuta nella zona di elementi ritenuti sovversivi.
Nel milanese socialisti e fascisti, sempre in relazione all’atto di
pacificazione, firmano un accordo in cui viene stabilita l’espulsione
dalle leghe dei comunisti, l’obbligo di denunciare le loro attività,
il divieto di pubblicare e di pronunciare frasi sovversive ed anti-patriottiche,
il rispetto assoluto di ogni iniziativa fascista. L’accordo social-fascista
comprende anche dei particolari curiosi come l’obbligo di portare nei
cortei socialisti bandiere rosse fregiate con un largo nastro tricolore
trasversale ed il divieto assoluto per i socialisti di attaccarsi al petto
distintivi dei soviet.
I comunisti naturalmente sottolineano agli occhi del proletariato questi
patti d’infamia, ma al tempo stesso sono consapevoli che l’accordo
social-fascista non può sopprimere le ragioni di lotta fra il proletariato
e la borghesia; la storia infatti che, come ha detto Marx, è storia di
lotte fra le classi, proseguirà il suo corso e la pace sociale può essere
conseguita solo dopo l’abbattimento violento del sistema borghese e la
presa del potere da parte del proletariato, e non attraverso patti come
quello di Roma che, riconoscendo allo Stato il supremo diritto di far rispettare
l’accordo, di fatto non fa che dare alla borghesia piena libertà di
amministrare la violenza a proprio uso e consumo, in quanto lo Stato è
strumento della classe dominante per tenere sottomessa e per sfruttare
la classe oppressa.
IL FRONTE UNICO SINDACALE
Di fronte alla resa ed alla posizione collaborazionista del P.S.I. e
della C.G.L., di fronte all’offensiva massiccia e decisa del capitalismo,
il dovere del Partito Comunista è quello di assumere il ruolo di guida
nella lotta del proletariato contro la reazione borghese, di chiamare alla
resistenza e alla riscossa l’intera classe lavoratrice, e di dare a questa
lotta la stessa unità e decisione che si riscontra nel campo avversario.
Infatti l’esperienza dimostra che quanto più il fronte di battaglia
è ampio, più numerose sono le prospettive di vittoria, poiché l’avversario
di classe sarà costretto a dividere le sue forze.
Già dai primi mesi del 1921, di fronte ai primi licenziamenti di operai
comunisti dalle fabbriche, il partito aveva chiamato l’intera classe
operaia a difendersi unitariamente dall’attacco del padronato, portando
la lotta oltre i limiti delle singole categorie professionali e dei vari
raggruppamenti locali.
«Nell’attuale situazione non ci si può limitare allo stretto
orizzonte delle questioni e controversie contingenti e particolari, ma
si devono porre i capisaldi di un’azione generale e compatta di tutto
il proletariato, il quale deve difendere precise posizioni di principio,
abbandonando le valutazioni di dettaglio su questa o quella profferta avversaria.
Infatti ogni concessione anche limitata su questioni fondamentali va ripudiata
come creazione di un precedente che darebbe battaglia vinta agli avversari,
i quali sarebbero resi più audaci ed agguerriti dai primi successi. Il
mezzo a cui si dovrà ricorrere non appena, su qualsiasi fronte o per qualsiasi
categoria o gruppo di lavoratori vengano intaccate le condizioni di vita
conquistate, è lo sciopero nazionale generale. Pertanto chi tocca una
categoria, un gruppo di operai o anche un solo operaio, tocca tutto il
proletariato».
I punti fermi fondamentali sui quali ancorare l’azione di difesa delle
masse proletarie, il Partito e il suo Comitato Sindacale li stabiliscono
in base alle condizioni in cui si trova la classe lavoratrice, ai suoi
bisogni concreti, alle sue necessità urgenti, senza preoccuparsi di sapere
se siano compatibili o no con lo sfruttamento capitalista.
I partiti comunisti infatti, secondo le Tesi sulla tattica formulate
al Terzo Congresso dell’Internazionale Comunista, non devono limitarsi
a formulare dei programmi minimi, come fanno invece i centristi e i riformisti,
ma devono portare avanti rivendicazioni immediate e concrete, tenendo conto
solo dello stato di disagio e di miseria che il proletariato non può e
non deve sopportare.
Compito dei partiti comunisti è poi quello di allargare il campo delle
lotte che si sviluppano in nome di tali rivendicazioni, approfondirle e
collegarle fra di loro sul terreno delle rivendicazioni immediate, subito
comprese ed accettate dalle masse proletarie, mostrare chiaramente il tradimento
socialdemocratico e conquistare la fiducia delle masse stesse e la loro
adesione ai princìpi e agli obiettivi del comunismo. Poiché il capitalismo
nell’attuale crisi è costretto, per mantenersi in vita, non solo a rifiutare
ogni ulteriore concessione, ma a cercare di ritogliere al proletariato
le posizioni conquistate e rifiutargli perfino il minimo necessario per
l’esistenza, ecco che la tattica delle rivendicazioni immediate assume
un valore rivoluzionario. I leaders dei partiti socialdemocratici ed i
mandarini sindacali infatti, nell’attuale situazione di crisi del capitalismo,
non portano neppure avanti le loro tradizionali direttive rivendicazioniste
e riformiste, perché tale tipo di azione impedirebbe il riassestamento
della produzione capitalista, quindi non predicano la resistenza collettiva
ma accettano la disoccupazione e la riduzione dei salari.
Le rivendicazioni immediate contro i licenziamenti, i bassi salari e
la repressione legale ed illegale costituiscono un mezzo di incitamento
rivoluzionario di vari strati proletari e poiché la borghesia, nello stato
di cose attuali, non può fare concessioni su questo terreno, di fronte
alla loro resistenza, ecco che mobilita le guardie bianche per il massacro
dei lavoratori. Di fronte alla spietata reazione borghese i proletari possono
toccare con mano l’incapacità del regime capitalista a soddisfare anche
i loro più elementari bisogni, e perverranno a quelle stesse conclusioni
che i partiti comunisti sostengono, cioè che per le masse proletarie l’unica
via di salvezza dalla miseria e dalla fame sta nell’abbattimento violento
del potere della borghesia.
Quindi le rivendicazioni immediate, oltre a fare acquistare al proletariato
una coscienza e solidarietà di classe, lo rendono consapevole della necessità
delle rivendicazioni ultime, che si riassumono nella conquista del potere
statale. La differenza fra la tattica riformista e quella comunista sta
nel fatto che la prima mira ad attutire i contrasti fra capitale e forza-lavoro,
a farli sboccare nell’accordo e nella collaborazione fra le classi, mentre
la seconda tende a liberare tutti i conflitti, a generalizzarli, a favorirne
lo sviluppo, per quanto possibile, oltre i limiti originari; infatti è
nella lotta che i partiti comunisti si sviluppano. Da ciò l’invito dell’Internazionale
«andate verso le masse, ponetevi alla testa delle loro lotte, formate
il Fronte Unico Proletario». Nella lotta il combattente proletario potrà
riconoscere che l’organizzazione comunista è l’unica coraggiosa ed
energica guida del proletariato, mentre i partiti socialisti esauriscono
la loro attività nelle chiacchiere sulle riforme e nelle impotenti richieste
parlamentari.
Sarebbe un grave errore (nel quale incorse per esempio la scuola olandese),
richiamandosi alla lotta rivoluzionaria finale, giudicare come troppo limitati
gli obiettivi delle lotte quotidiane della classe e assumere di fronte
ad essi un atteggiamento passivo.
In relazione alle adesioni delle masse lavoratrici ai principi del comunismo,
l’Internazionale Comunista sottolinea l’importanza della conquista
dei sindacati proletari da parte dei comunisti, con la conseguente epurazione
dei dirigenti opportunisti. In tal modo i sindacati si trasformeranno in
falangi dell’esercito rivoluzionario, imbevendosi dello spirito comunista
e lottando inquadrati dal partito di classe per la conquista del potere.
Per conquistare i sindacati i comunisti devono smascherare l’azione
dei loro capi, liberare la classe proletaria dall’influenza nefasta di
questi servi della borghesia, opporre alle loro direttive precise proposte
concrete, in modo che si determini la separazione degli operai dai loro
capi social-riformisti.
Nei confronti della Confederazione Generale del Lavoro, la direttiva
data dal partito è che i comunisti che vi militano devono restarvi a tutti
i costi, nonostante i mandarini sindacali facciano di tutto per espellerli.
Il comportamento dei bonzi non deve spingere all’avventata conclusione
che convenga prepararsi alla scissione sindacale. Lo stesso Lozowsky, segretario
dell’Internazionale Sindacale Rossa, del resto, sottolinea che il compito
dei comunisti consiste nella conquista dei sindacati e non nel cercare
di produrre la scissione. Non bisogna ripetere l’errore commesso dagli
anarco-sindacalisti, allorché nel 1911, disgustati dalla politica portata
avanti dai dirigenti confederali, vollero dar vita ad un’organizzazione
di "veri rivoluzionari" e così facendo si isolarono dalle masse proletarie.
[Il Partito Comunista n. 29, gennaio 1977]
All’interno della C.G.L. i comunisti devono esercitare a fondo la
critica alla politica collaborazionista dei dirigenti in modo da debellare
l’indirizzo opportunista della Confederazione.
Già subito dopo la scissione di Livorno, allorché i dirigenti confederali,
tutti socialdemocratici, rimasero nel P.S.I., tenendo legata a questo la
massima organizzazione sindacale del proletariato, il partito giudicò
il problema sindacale di vitale importanza, in quanto il suo stesso avvenire
era strettamente legato alla formazione di una solida base in seno a tutte
le organizzazioni proletarie. Da ciò la necessità di creare al proprio
fianco un forte Comitato Sindacale diretto e controllato dagli organi del
Partito stesso e capace di organizzare e disciplinare le forze comuniste
già iscritte alla Confederazione.
Al Congresso confederale le posizioni comuniste sulla questione sindacale
ottennero 600.000 voti e successivamente numerose furono le Camere del
Lavoro ed i sindacati di mestiere che sottoscrissero le direttive comuniste.
Ma il debellare i bonzi sindacali dipendeva da un rapporto di forze all’interno
dell’organizzazione; pertanto i comunisti fecero opera affinché nelle
Confederazioni entrassero tutti i lavoratori rivoluzionari che ne erano
fuori e tendevano ad unificare gli organismi sindacali proletari che parimenti
si trovavano fuori dei quadri confederali. In tal maniera nuove forze si
sarebbero associate all’opposizione svolta dalle minoranze comuniste
in seno alla C.G.L. e saebbe statso possibile ingaggiare una lotta decisiva
e senza quartiere contro i capi opportunisti per la conquista delle Confederazioni
e per fare di esse uno strumento dell’azione rivoluzionaria del proletariato
italiano.
In aderenza a tali direttive è la posizione assunta dai comunisti nel
X Congresso del Sindacato Ferrovieri Italiani tenutosi a Bologna, in cui
i compagni comunisti sostengono la necessità che il S.F.I. entri nella
C.G.L. ed aderisca all’Internazionale Sindacale Rossa. Parimenti sotto
tale prospettiva va considerato l’invito rivolto all’U.S.I. per l’unificazione
con la C.G.L.. La linea sindacale comunista risponde non solo alla necessità
di combattere l’indirizzo opportunista dei dirigenti confederali, ma
ha come presupposto fondamentale il fatto che la lotta di classe esige
l’unità più completa delle forze dei proletariato. Infatti il frazionamento
degli organismi sindacali operai determina una diminuzione di forze ai
fini della lotta di classe. Da queste considerazioni deriva la proposta
comunista di formare il Fronte Unico Proletario.
Inoltre è la borghesia stessa che dà in proposito la lezione. Infatti
nell’attuale situazione tutti i gruppi capitalisti dominanti concentrano
ed unificano sempre più le loro organizzazioni, sia politiche sia economiche.
In relazione a tali posizioni ed all’attacco massiccio che la borghesia
porta alle conquiste raggiunte dai lavoratori, il Comitato Sindacale comunista
rivolge un appello alle tre organizzazioni sindacali italiane che organizzano
il maggior numero di lavoratori (C.G.L., S.F.I., U.S.I.) per la difesa
e la riscossa proletaria contro l’offensiva borghese.
Questo appello comprende una serie di punti precisi, di principio, che
interessano tutte le categorie di lavoratori e sulla difesa di questi punti
si invita a sostenere una grande e compatta battaglia. I punti enunciati
sono: otto ore di lavoro; rispetto dei contratti vigenti e dell’attuale
livello globale dei salari; rispetto dei patti colonici; assicurazione
dell’esistenza per i lavoratori licenziati e per e loro famiglie attraverso
la corresponsione di un indennizzo proporzionato al costo della vita ed
al numero dei componenti la famiglia tendendo a raggiungere il livello
dell’integrale salario, gravando gli oneri in parte sulla classe industriale
ed in parte sullo Stato; integrità del diritto della organizzazione e
riconoscimento di questa.
Elevare questi punti a questioni di principio significa attuare lo sciopero
generale nazionale di tutte le categorie organizzate degli operai e dei
contadini, non appena su qualunque fronte, per una qualsiasi categoria
o in qualsiasi zona, le classi padronali attaccheranno le posizioni raggiunte
dai lavoratori.
La C.G.L. risponde all’iniziativa presa dal Comitato Sindacale comunista
e fa osservare che l’appello è "illegale", in quanto tutti gli iscritti
devono avanzare le proprie proposte servendosi degli organi che lo statuto
confederale designa a loro legittimi rappresentanti. Quanto al contenuto
dell’appello i dirigenti confederali lo definiscono «un meschino tentativo
di speculazione demagogica sopra i tremendi dolori che sopporta attualmente
il proletariato italiano».
Parlare di sciopero generale nazionale per i mandarini sindacali è
insensato, puerile; tutto, secondo questi signori, si dovrebbe risolvere
per via parlamentare con l’approvazione di certe leggi, ritenute il solo
strumento valido per porre un rimedio alle tristi condizioni in cui si
trovano le masse di proletari. Il colmo della demagogia, secondo i capi
confederali, è costituito dalla proposta comunista di corrispondere un
salario ai disoccupati in proporzione al costo della vita e alle dimensioni
della loro famiglia. Questo, secondo Baldesi, rappresenterebbe la fabbrica
della disoccupazione e non il rimedio ad essa, tenendo conto della situazione
in cui si trovano le industrie e del fatto che lo Stato, per aumentare
i sussidi ai disoccupati, ha bisogno di riempire le sue casse. Ciò è
possibile, secondo Baldesi, solo facendo approvare delle leggi in parlamento.
L’U.S.I. risponde che i riformisti restano tali anche nel fronte unico
e che, comunque, se i comunisti riusciranno a piegare la Confederazione
all’azione generale da loro stessi proposta, l’U.S.I. sarà ben lieta
di parteciparvi. Chiedere ai comunisti la conquista della C.G.L., come
fanno gli anarco-sindacalisti, è chiedere la luna, è voler raggiungere
il fine senza preparare i mezzi, è voler ottenere la vittoria senza lotta.
Il S.F.I. ribadisce l’autonomia del sindacato ferrovieri e svela di
fatto il suo carattere per certi aspetti corporativo.
Nonostante la risposta negativa sulla formazione di un fronte unico
sindacale per la difesa proletaria da parte dei dirigenti della C.G.L.,
dell’U.S.I. e del S.F.I., il Comitato Sindacale comunista non desiste
dalle iniziative prese e si appella direttamente alle masse proletarie,
le quali non possono non sentire la validità della proposta comunista.
Spetta ai gruppi comunisti e ad ogni singolo militante di svolgere un’intensa
azione di propaganda a sostegno delle proposte. Nelle officine dove ancora
si lavora, i gruppi comunisti devono organizzare gli operai e spiegare
loro in tutti i particolari le proposte dell’agitazione.
I gruppi di officina formatisi devono organizzarsi inoltre per industrie
e mettersi in contatto con gli altri gruppi simili. È necessario che tutti
insieme abbiano uno stretto collegamento con il Comitato Sindacale comunista
locale. Dove esiste disoccupazione si devono formare dei consigli di disoccupati
per rioni e per quartiere. Questi consigli devono anch’essi mantenere
stretti collegamenti con i gruppi di officina.
Le organizzazioni che seguono le direttive comuniste convochino i loro
organi dirigenti, le loro assemblee, i consigli generali, e trasmettano
il loro assenso all’appello comunista alla Centrale Confederale. Anche
dove i comunisti sono in minoranza si deve fare ogni sforzo per arrivare
all’esame ed all’accettazione della proposta comunista da parte dei
lavoratori organizzati. Le questioni che dividono i comunisti dall’indirizzo
dei dirigenti confederali devono essere costantemente sollevate dai compagni
nelle riunioni di Federazione, nelle Camere del Lavoro, ma soprattutto
nelle assemblee delle Leghe, che raccolgono effettivamente le masse degli
organizzati. La propaganda all’appello comunista deve essere svolta,
oltre che attraverso la stampa, tramite l’organizzazione di comizi e
di riunioni di operai occupati e disoccupati. Solo attraverso una vasta
azione di propaganda e di preparazione è possibile imporre ai dirigenti
sindacali confederali la discussione e l’accettazione delle proposte
comuniste.
Grandiosa fu a Torino la manifestazione dei 10.000 disoccupati che ebbe
luogo il 1° settembre 1921, nella quale Bordiga ribadì che l’unico
mezzo per salvare la classe proletaria dalla fame e dalla miseria era la
lotta generale contro la borghesia, per cui i sindacati avrebbero dovuto
trasformarsi in organi di lotta rivoluzionaria.
La necessità del Fronte Unico Proletario, fatta dal Comitato Sindacale
comunista, venne ribadita nel primo Convegno delle organizzazioni sindacali
comuniste, tenutosi a Milano nei giorni 8 e 9 settembre, a cui parteciparono
dirigenti di numerose Camere del Lavoro, Federazioni, Leghe, Sindacati
di mestiere, Comitati e organizzazioni sindacali che si muovevano secondo
le direttive comuniste.
In tale convegno vennero affrontate ed approfondite varie questioni
importanti, come:
1) i rapporti fra l’Internazionale Comunista e l’Internazionale
Sindacale Rossa;
2) la funzione dei gruppi comunisti;
3) il problema dei disoccupati;
4) la necessità per i militanti comunisti nella C.G.L. di spingere
le Confederazioni ad aderire senza riserve all’Internazionale Sindacale
Rossa, rompendo ogni legame con l’Internazionale gialla di Amsterdam.
Per quanto concerne i rapporti fra l’Internazionale Comunista e l’Internazionale
Sindacale, in contrasto con coloro (fra i quali l’U.S.I. e quella spagnola)
che sostenevano l’assoluta indipendenza ed autonomia dell’Internazionale
Sindacale di Mosca dalla III Internazionale Comunista, viene sostenuta
la necessità di stretti rapporti fra le due Internazionali. Infatti l’assoluta
indipendenza è inammissibile poiché per ottenere la vittoria è indispensabile
unire in un unico fascio tutte le forze rivoluzionarie. Le due Internazionali
si completano a vicenda ed ogni tentativo di separarle condurrebbe ai più
deprecabili risultati. Del resto la borghesia stessa ce ne dà un esempio
nel blocco compatto che la sua organizzazione economica forma con quella
politica. L’indipendenza nei confronti dell’Internazionale Comunista
minaccerebbe seriamente di divenire una dipendenza verso il capitale.
Per quanto riguarda i rapporti internazionali della Confederazione,
il dovere dei comunisti è di spingerela ad aderire senza riserve all’Internazionale
Sindacale Rossa, tagliando nettamente i ponti con l’Internazionale gialla
di Amsterdam, la quale è un baluardo della borghesia ed i suoi capi agenti
del capitalismo. Essa infatti sosteneva la collaborazione fra le classi,
la riconciliazione con la borghesia, la pace sociale, il passaggio graduale
ed indolore al socialismo e negava il valore della rivoluzione e della
dittatura del proletariato.
Non è possibile ai comunisti avallare il comportamento ambiguo tenuto
dalla C.G.L., la quale, come disse Lozowsky al Primo Congresso dell’Internazionale
Sindacale Rossa, «è sposata con Amsterdam ed amoreggia con Mosca», poiché
aderiva contemporaneamente a due organizzazioni internazionali in lotta
fra loro, benché nella realtà si muovesse ben più sulle posizioni di
Amsterdam che non su quelle dell’Internazionale Sindacale Rossa. Infatti,
sia nel III Congresso dell’Internazionale Comunista che nel I Congresso
dell’Internazionale Sindacale Rossa, le fu posto l’ultimatum "o Mosca
o Amsterdam".
Per quanto riguarda i gruppi comunisti, al primo convegno delle organizzazioni
sindacali comuniste viene sottolineata, di fronte a certe perplessità
manifestate da alcuni compagni, la loro funzione, che è, inscindibilmente,
politica ed economica al tempo stesso.
Vengono ribadite le norme già stabilite dal partito per la formazione
e l’attività dei gruppi comunisti, i quali devono essere delle piccole
cellule attive, formate da almeno tre compagni iscritti al Partito Comunista.
Tali gruppi comunisti si formano nelle fabbriche, nelle aziende agricole,
nelle Leghe di mestiere, nelle cooperative di consumo e di produzione,
nei circoli operai e nei sindacati. Il loro scopo principale è di svolgere
opera di propaganda e di penetrazione delle direttive comuniste in seno
alle masse lavoratrici; sono quindi una longa manus del Partito
e del Comitato Sindacale comunista, con i quali devono mantenere stretti
e continui rapporti.
L’ultima questione affrontata nel primo Convegno delle organizzazioni
sindacali comuniste è quella dei disoccupati. I socialdemocratici considerano
i senza lavoro come Lumpenproletariat e li abbandonano a se stessi,
invocando per essi solo l’elemosina dello Stato o rimedi che sono soltanto
dei palliativi temporanei. Il comportamento dei riformisti ha fatto sì
che nuclei di disoccupati si sono sentiti abbandonati a se stessi, per
cui in alcuni casi si sono mostrati propensi a portare avanti iniziative
in contrasto con la realtà e la logica.
D’altra parte i capitalisti hanno compreso che la disoccupazione è
la più terribile macchina da guerra che si possa muovere contro il proletariato
e le sue organizzazioni; essa, infatti, le serve a portare la discordia
nei ranghi della classe operaia, opponendo i disoccupati a coloro che ancora
lavorano. Quello che per il capitalismo costituisce l’esercito di riserva
da manovrare nel proprio interesse, per i comunisti deve divenire un esercito
attivo della rivoluzione, propulsore di un ordinamento sociale che non
conosca lo spettro della disoccupazione. Pertanto, nei confronti dei disoccupati,
è necessario ribadire costantemente che la disoccupazione è frutto del
regime borghese e che questo flagello non può essere risolto nella società
capitalista; esso sparisce solo dopo il rovesciamento del potere borghese.
La borghesia e l’opportunismo sindacale, con la creazione di casse
di assicurazione e di altre forme assistenziali, cercano di convincere
il proletariato che la sua esistenza può essere assicurata sotto il capitalismo,
nascondendogli in realtà il pericolo che la minaccia. I disoccupati, secondo
i comunisti, devono restare nelle organizzazioni sindacali e non formare,
com’è avvenuto in Germania, organizzazioni separate di disoccupati.
Ciò produrrebbe un dualismo di interessi pericoloso per la compattezza
e l’unità del fronte proletario.
Fra operai occupati e disoccupati, ai fini della lotta contro il sistema
borghese, non ci sono differenze; in ogni operaio oggi occupato c’è
un possibile disoccupato di domani, perché la disoccupazione è come un’arma
rivolta contro tutti gli operai e non riguarda solo i disoccupati. Il compito
dei comunisti è quello di mantenere stretti contatti fra il proletariato
disoccupato e quello che ancora lavora, facendo capire al primo che non
potrà ottenere successi se non difendendo gli interessi di tutta la classe
lavoratrice in quanto gli obbiettivi sono comuni.
Agli operai ancora occupati va fatto costantemente presente che la sorte
della disoccupazione li riguarda direttamente e che la lotta dei disoccupati
deve essere la lotta di tutti i lavoratori contro lo sfruttamento e l’affamamento
del proletariato da parte della classe borghese.
Al 1° Convegno delle organizzazioni sindacali comuniste viene inoltre
presa la decisione di dare vita ad un organo settimanale sindacale, "Il
Sindacato Rosso".
GLI "ARDITI DEL POPOLO"
Resta infine da esaminare l’atteggiamento del Partito verso certi
movimenti spontanei, come gli Arditi del Popolo, i quali hanno dato un
inquadramento militare alle loro forze (come per esempio la legione proletaria
nel Parmense). Queste organizzazioni si pongono come scopo fondamentale
quello di rispondere sul piano dell’azione alle violenze fasciste.
Gli Arditi del Popolo, formati in prevalenza da ex combattenti, ammiratori
di D’Annunzio, avevano come programma la difesa dei "lavoratori del braccio
e del pensiero" soggetti alla reazione fascista, in modo da poter ristabilire
l’ordine e la normalità nella vita sociale. Essi si ponevano al disopra
dei partiti e non avevano un preciso programma politico. Tale organizzazione
ebbe notevole sviluppo in tutta l’Italia ed il partito sentì il dovere
di precisare la sua posizione nei confronti degli Arditi del Popolo, anche
perché tra i compagni comunisti si erano venute a determinare delle situazioni
equivoche. Alcuni militanti comunisti infatti avevano aderito a questa
organizzazione e preso l’iniziativa di costituire gruppi locali di Arditi
del Popolo. Il Partito ne mise in evidenza i limiti, sostenendo che essi
non avevano capito come la brutalità delle bande bianche che li indignava
tanto non era che un aspetto del regime oppressivo borghese. Il proletariato
infatti non si trovava contro soltanto un’associazione privata ma l’intero
apparato statale con la sua polizia, la sua burocrazia e i suoi tribunali.
Inoltre essi non si rendevano conto che il fascismo era fenomeno legato
alla crisi del regime capitalista e che sarebbe sparito solo con la soppressione
di questo. Quindi risulta utopistico parlare di voler riportare l’ordine
e la normalità nella vita sociale. Questo "ordine e normalità" nella
vita sociale per i comunisti è possibile solo dopo la vittoria della rivoluzione
e non nell’ambito del sistema borghese.
Nonostante queste ampie riserve il Partito sottolinea che, sul piano
dell’azione svolta, gli Arditi del Popolo non possono essere considerati
degli avversari. Per quanto concerne l’inquadramento militare del proletariato,
che costituisce la estrema e più delicata forma di organizzazione della
lotta di classe, attraverso comunicati ufficiali del Comitato esecutivo
e della Federazione giovanile, si ribadisce ai militanti e simpatizzanti
comunisti che il Partito ha stabilito e realizzato forme proprie ed indipendenti
di inquadramento militare delle forze comuniste, costituite da squadre
di 10 elementi e da compagnie formate da 5 a 10 squadre, suddivise per
zona e per provincia. Pertanto è necessaria da parte dei comunisti la
più ferrea disciplina.
Quindi i comunisti non devono partecipare ad iniziative prese da altre
organizzazioni e formazioni che sono estranee al Partito, la cui popolarità
apparente nasconde gravi errori e pericolose conseguenze e deriva da considerazioni
romantiche e sentimentali. I compagni che non si attengono alla disciplina
del partito per quanto riguarda l’inquadramento militare, vengono minacciati
di severi provvedimenti ed è prevista anche la loro espulsione dalle file
del partito stesso.
[Il Partito Comunista n. 34, giugno 1977]
Riprendiamo con questo numero l’esposizione delle direttive impartite
dal Partito Comunista d’Italia diretto dalla Frazione di Sinistra al
proletariato impegnato nelle lotte del 1921. La parte che qui segue si
riferisce ai mesi di ottobre, novembre e dicembre.
IL CONGRESSO DELLA F.I.O.M.
La proposta comunista del fronte unico sindacale e la formulazione di
obbiettivi di lotta, riguardanti l’intera classe proletaria italiana
e da portare avanti con l’arma dello sciopero generale nazionale, trovano
consensi nelle masse lavoratrici, determinando, di conseguenza, serie preoccupazioni
nei riformisti confederali i quali, dinanzi alla violenta offensiva padronale
e fascista, continuano a dirigere l’organizzazione su posizioni di inerzia
e di passività. In questa azione disfattista ai danni della classe proletaria,
i mandarini sindacali hanno come fedeli alleati i capi socialisti che,
di fronte alla reazione fascista dello Stato borghese, biascicano i salmi
turatiani dell’evangelismo gesuitico, si elevano a martiri della violenza
altrui e, in nome dell’umanitarismo e del pacifismo, vanno persino a
piangere sulle bare fasciste come a Modena.
In tale situazione l’azione di resistenza e di lotta generale, proposta
dai comunisti contro l’attacco padronale e la sua guardia bianca, si
presenta come l’unica soluzione in grado di difendere gli interessi dell’intero
proletariato italiano e di impedire quella dura sconfitta a cui i social-riformisti
vorrebbero portarlo, senza avergli dato neppure la possibilità di combattere.
Per cercare di sabotare il valore delle posizioni comuniste e neutralizzarne
il consenso ottenuto fra le masse lavoratrici, i dirigenti della C.G.L.
tramite Battaglie Sindacali, organo della Confederazione Generale
del Lavoro, rivolgono un caloroso appello alla "Concordia". Questo atteggiamento
paternalistico viene adornato a bella posta di slogans inneggianti all’unità
d’azione della classe proletaria. Il Comitato Centrale Sindacale comunista,
di fronte a tale appello, risponde che non è affatto contrario alla concordia
fra socialisti e comunisti in seno alla C.G.L., anzi, da parte comunista
si è sempre sostenuta la necessità di un accordo fra tutte le organizzazioni
sindacali del proletariato per poter arrivare ad una sola e grande unione
sindacale di tutti gli sfruttati.
Del resto queste posizioni sono alla base della proposta del fronte
unico sindacale sostenuta dai comunisti. Di fronte all’invito alla concordia
rivolto dai dirigenti confederali, i comunisti non ne negano la validità
nell’azione sindacale, ma vogliono però conoscere le finalità concrete
di questo appello, cioè gli obiettivi e la linea della lotta. La concordia
fra socialisti e comunisti all’interno della C.G.L. è possibile solo
se esiste una identità di posizioni programmatiche e di lotta. In ossequio
alla concordia i comunisti non accetteranno mai di avallare la linea remissiva
dei mandarini confederali, di partecipare ai loro sciocchi mercanteggiamenti,
di assumere il ruolo di corresponsabili nella disfatta del proletariato
italiano di fronte all’offensiva capitalistica.
Quanto siano divergenti le posizioni dei dirigenti della C.G.L. da quelle
comuniste emerge chiaramente nel congresso straordinario della FIOM tenutosi
a Roma.
Nella relazione introduttiva l’onorevole Buozzi alle proposte formulate
dal Comitato Centrale Sindacale comunista contrappone «l’utilità di
continuare la tattica del caso per caso». Secondo il segretario
della FIOM, con la classe padronale si dovrà trattare non solo per regione
o per città, ma anzi fabbrica per fabbrica. Ciò equivale a dire "si salvi
chi può": nella situazione in cui il proletariato italiano si trova significa
la disgregazione totale delle masse lavoratrici e la loro soggezione assoluta
alla reazione capitalistica. La tattica sostenuta da Buozzi e compagni
non solo porterà i metallurgici alla sicura sconfitta, ma avrà come
conseguenza di fare dimenticare agli operai i fini supremi della lotta
di classe, per fargli ritornare all’egoismo di categoria, di luogo e
di fabbrica.
Certamente se gli industriali avessero partecipato al Congresso metallurgico
di Roma sarebbero stati i primi ad applaudirlo, ma il loro ringraziamento
giunge ugualmente puntuale attraverso un comunicato dell’Associazione
Industriali Italiani. In esso viene sottolineata l’utilità di continuare
con il sistema degli accordi regionali o locali ed anche per singole ditte,
«in quanto tale metodo permette la migliore sistemazione delle vertenze
salariali a vantaggio degli operai».
Di fronte a queste strane coincidenze di posizioni fra l’onorevole
Buozzi e gli industriali italiani, i comunisti impegnano tutte le loro
forze nello smascherare il ruolo anti-proletario dei capi confederali.
Il compagno Repossi, in opposizione alle tesi sostenute nel Congresso di
Roma, come la tattica del "caso per caso", vero suicidio per la classe
operaia, nega che il proletariato italiano non abbia forze sufficienti
per difendersi dall’attacco padronale, ribadisce la necessità della
lotta generale e del Fronte Unico Proletario, inoltre addita nello sciopero
di tutte le categorie di lavoratori l’arma da impugnare di fronte alla
reazione borghese. Contro le proposte della direzione della FIOM i comunisti
presentano un ordine del giorno che contiene il seguente postulato:
La lotta deve essere portata avanti con direttive e tattica uniche
su tutto il fronte delle organizzazioni nazionali affiliate alla FIOM.
Mantenimento degli accordi salariali vigenti. Rispetto dei limiti di salario
e loro applicazione per qualunque nuova assunzione di manodopera. Su questi
punti elevati a questione di principio i comunisti invitano l’organizzazione
ad impegnare tutta la sua forza e tutti i suoi mezzi di lotta.
MASSIMALISTI E RIFORMISTI A
CONGRESSO
Come i capitalisti non lesinano consensi alla tattica dei capi confederali,
così guardano con occhi benevoli al successo che il massimalismo serratiano
otterrà al 18° congresso socialista che si svolge a Milano. La stampa
borghese nei giorni precedenti l’apertura di tale congresso già anticipa
quali saranno le conclusioni finali, che si possono compendiare nella formula
"unità del partito senza collaborazione", e se ne compiace. Infatti una
scissione nel P.S.I. avrebbe lasciato l’ala destra, Turati e compagni,
liberi di andare al governo, ma le masse proletarie aderenti al P.S.I.,
per tradizione o per forza d’inerzia o per inquadramento in organismi
controllati dal partito stesso, mai avrebbero dimenticato la propaganda
post-bellica svolta dal P.S.I.. I capi della destra quindi, usciti dal
partito, sarebbero divenuti degli isolati posti al di fuori del movimento
operaio.
Di questi individui al governo che cosa se ne sarebbe fatta la borghesia?
Nulla. Avvocati gonfi di vento come Turati, mediocri sofisti del tipo di
Treves, maneggioni da corridoio simili a Modigliani ve n’erano già decine
in parlamento. Sarebbe stato a Montecitorio un gruppo in più di persone
vuote ed insignificanti alla caccia famelica di posti e di favori. Ciò
avrebbe aumentato solo la concorrenza per i rappresentanti della borghesia
in parlamento, ma non si sarebbe prodotto nessun fatto degno di nota. Quello
che interessava ai capitalisti era il controllo del proletariato, e uomini
come Turati e compagni potevano servire ottimamente alla causa borghese
solo rimanendo collegati alle masse lavoratrici. Le capacità di cooperatori
della borghesia infatti sarebbero svanite istantaneamente qualora fosse
venuto meno a questi individui il contatto con la classe operaia, in seno
alla quale svolgevano sistematicamente un lavoro disfattista.
Dal Congresso di Livorno in poi l’azione della Destra socialista aveva
dato ottimi risultati per la borghesia portando l’intero partito sulle
posizioni social-pacifiste turatiane. Questo processo di sabotaggio della
causa proletaria però non era ancora compiuto fino ai limiti voluti dal
capitalismo, occorreva altro tempo e lavoro. L’azione deleteria dei socialisti
riformisti sulle masse operaie e contadine doveva quindi continuare a svolgersi,
Turati e compagni dovevano continuare a restare nel P.S.I. in quanto solo
così avrebbero potuto adempiere alla missione affidata loro dalla borghesia,
la quale attraverso il fascismo aveva fatto tornare in auge queste vecchie
Cariatidi che cominciavano ad essere messe in disparte.
Non è infatti un caso che in quasi tutti i centri battuti dalla reazione
fascista fossero tornati alla ribalta i riformisti. Se nelle file del
P.S.I. doveva restare la destra turatiana era ugualmente vero che per fare
il gioco della borghesia il partito doveva continuare a mantenere una certa
aureola di rivoluzionarismo, in modo da conservare la fiducia delle
masse socialiste. A questo ruolo assolveva il massimalismo inconcludente
e parolaio di Serrati, il quale volendo che Turati e compagni rimanessero
nel partito non faceva altro che realizzare nel modo più perfetto i piani
della borghesia. L’ideale per il nemico di classe era che questa vestale
da marciapiede della intransigenza potesse esercitare ancora la sua funzione
fino a quando tutto il P.S.I., senza scosse, fosse divenuto un partito
piccolo-borghese e dietro al quale si fosse avvilito il maggior numero
di proletari possibile.
Il 18° congresso del P.S.I. si apre a Milano con una relazione del
segretario Bacci, il quale sostiene che due necessità si impongono al
partito, restare sé stesso e rimanere unito. Viene difesa l’azione svolta
dal P.S.I., dal congresso di Livorno in poi, ed esaltato l’atteggiamento
tenuto verso il fascismo. La linea di condotta civile portata avanti dalla
direzione socialista secondo Bacci, avrebbe dato buoni frutti, cioè avrebbe
reso possibile il successo del partito nelle elezioni del maggio, inoltre
la tattica di attesa di fronte al fascismo armato avrebbe indotto l’opinione
pubblica a cambiare atteggiamento verso il P.S.I., riconoscendo che l’anima
del partito sarebbe un’anima di "civiltà", ispirata a "valori umanitari".
Tali affermazioni dimostrano come i dirigenti socialisti avessero ripudiato
totalmente la dottrina marxista della lotta di classe. Ogni partito sovversivo
ripone la sua forza nelle masse dei lavoratori ed a queste deve rivolgersi
costantemente in quanto solo con la loro azione è possibile affrontare
e risolvere le situazioni che si presentano nello svolgersi della storia
sociale. I dirigenti socialisti appellandosi all’opinione pubblica hanno
mutato parere, evidentemente nutrono sfiducia nelle masse proletarie, la
cui azione di lotta viene ad essere ritenuta ormai insufficiente alle necessità
del momento e non in grado di cambiare la situazione. Viene vista pertanto
nella "opinione pubblica" la grande leva da manovrare in sostituzione della
mobilitazione del proletariato.
Di fronte alla protervia dei mercenari della borghesia ed alla passività
delle masse operaie e contadine guidate dal P.S.I., l’opinione pubblica,
per i social-pacifisti, avrebbe dovuto insorgere e dare tutto il suo appoggio
alle vittime disarmate ed inerti. Ma che cosa è questa opinione pubblica?
Essa non è altro che la piccola e media borghesia, a cui i capi socialisti
si appellavano e sulla quale facevano affidamento. Non immaginavano neppure
per un momento che la salvezza e la vittoria del proletariato sono unicamente
riposti nella sua forza organizzata, ma ritenevano strumento risolutivo
dei conflitti di classe l’opinione pubblica, cioè i ceti intermedi della
società borghese nella cui orbita sono finiti per aggirarsi. Un mutamento
dell’opinione pubblica è possibile solo ad una condizione: che il proletariato
rinunci alla sua lotta.
Insensata alla luce della dottrina marxista è anche l’altra tesi
dei social-riformisti, per cui essendo il fascismo armato non era possibile
fare nulla contro di esso, ma solo mantenere la lotta nell’ambito della
legalità. È da stolti infatti pensare che la borghesia si lasci spodestare
senza ricorrere alla difesa armata dei suoi privilegi, quando la situazione
lo renda necessario, e ritenere di poter contenere la lotta del proletariato
nel rispetto della legge, con le armi cosiddette civili, in quanto il giorno
in cui la borghesia avverte che la legalità diviene per essa un’arma
pericolosa è essa stessa la prima a rinnegarla ed a porsi sul terreno
dell’aperta ribellione alla legge scritta. I fatti stessi ne danno piena
conferma.
Nei cinque giorni del congresso socialista di Milano il tema più dibattuto
fu il collaborazionismo, e pure c’erano problemi fondamentali da affrontare
come la disoccupazione e la riduzione dei salari. A questi problemi fu
accennato solo tenendosi sulle linee generali: tutti gli esponenti delle
correnti, compresi i massimalisti, si trovarono concordi nel sostenere
nella pratica una azione che non avesse nulla in comune con l’inquadramento
delle forze proletarie a scopo rivoluzionario. Infatti il principale
fine del congresso socialista fu quello di legare le masse operaie e contadine
agli istituti dello Stato borghese. Dal congresso di Milano non uscì nulla
di nuovo per la classe lavoratrice, nessuna direttiva precisa di lotta,
ma solo un ulteriore invito ad attendere, a sopportare con rassegnazione.
Nonostante che i massimalisti avessero riportato un ampio successo, come
del resto era previsto, la destra socialista non se ne dispiacque molto,
in quanto riscontrò con grande soddisfazione che Serrati ed i suoi compagni
erano discesi del tutto dalle ragioni del dogma e dell’utopia, piegando
la loro intolleranza arida di sentenze e di scomuniche in un saggio ed
illuminato apprezzamento di situazioni contingenti, di possibilità
e di opportunità. D’altra parte Serrati stesso aveva richiesto che la
minoranza avesse dei rappresentanti nella direzione, in quanto ciò sarebbe
stato una "garanzia di giudizio".
IL P.S.I. E L’INTERNAZIONALE
Al congresso socialista di Milano intervennero come invitati anche dei
rappresentanti dei partiti comunisti esteri ed i delegati del comitato
esecutivo comunista, il polacco Valewski e Clara Zetkin.
Il discorso di quest’ultima era molto atteso per il prestigio della
sua figura. Essa esordisce analizzando l’azione svolta dal P.S.I. dal
congresso di Livorno in poi e sottolinea come non sia stato fatto un
passo in avanti verso il comunismo, bensì due passi indietro verso la
borghesia, la quale guarda con compiacimento i segni di ammansimento
che il P.S.I. ha dato e continua a fornire nella speranza che tutto il
partito si dissolva nel riformismo, in modo da dare garanzie sicure contro
il possibile riemergere dell’antica volontà di lotta nelle masse socialiste.
La Zetkin nel suo discorso valuta negativamente il congresso socialista
di Milano in quanto avrebbe dovuto essere uno sprone per il proletariato
italiano soggetto alla violenta offensiva capitalista affinché si agguerrisca,
mentre in realtà i dirigenti socialisti non pensano affatto all’agguerrimento
della classe operaia e contadina, ma parlano solo di collaborazionismo,
di adattamento alla tattica borghese. E del resto anche gli avversari della
collaborazione si fanno avanti con idee riformiste, delle quali il collaborazionismo
è la logica conseguenza.
Il collaborazionismo infatti non è altro che una foglia di fico
della spudorata dittatura della borghesia, non costituisce un segno di
forza dei proletariato, ma una prova della sua impotenza. La Zetkin,
dopo avere ribadito che la classe proletaria difenderà propri interessi
solo quando avrà tutto il potere nelle sue mani, sottolinea le
nefaste conseguenze del collaborazionismo, infatti esso non è un’incognita
politica. L’esempio che hanno offerto paesi come l’Inghilterra, la
Francia, la Germania e la Russia con il governo Kerensky è una riprova
inconfutabile dei risultati deleteri a cui porta la collaborazione.
Clara Zetkin conclude il suo discorso riproponendo l’Ultimatum, che
già più volte era stato rivolto al P.S.I. dall’Internazionale Comunista,
cioè espellere dal partito l’ala collaborazionista o essere fuori dalla
Terza Internazionale. La mancata espulsione dal partito della destra socialista
ebbe come automatica conseguenza l’impossibilità per il P.S.I. di appartenere
all’Internazionale Comunista, secondo quanto prescriveva il settimo dei
21 punti stabiliti per l’ammissione.
Il comportamento tenuto dal Comitato Esecutivo della Terza Internazionale
verso il P.S.I., dal congresso di Livorno in poi, fu più volte oggetto
di critiche da parte del Partito Comunista d’Italia. Al congresso
di Livorno, di fronte alle tesi di principio stabilite dall’Internazionale
Comunista, la maggioranza del P.S.I. aveva dichiarato di condividerle,
ma, quando fu posta dinanzi all’adempimento delle condizioni in cui il
secondo congresso della III Internazionale aveva tradotto le posizioni
teoriche, accettò i 21 punti meno uno, il 7° che avrebbe dovuto immediatamente
mettere in pratica, espellendo i riformisti dal partito.
Le 21 condizioni di ammissione volevano essere soprattutto "un baluardo
contro il centrismo" e Zinovief stesso, segretario dell’Internazionale,
aveva affermato che «come non è facile per un cammello passare per la
cruna di un ago, così non sarebbe stato facile per i centristi sgusciare
fra le 21 condizioni». Con il rifiuto del punto 7, cioè di espellere
i riformisti, la maggioranza del P.S.I. dimostrava di accettare solo a
parole il comunismo, ma poi in pratica non faceva neppure il primo passo
indispensabile nella direzione segnata dalla Terza Internazionale.
La mancata espulsione dei riformisti lasciò insoluta la questione della
appartenenza o meno del P.S.I. all’Internazionale Comunista. Da parte
del P.C.d’Italia fu fatto ripetutamente notare, a pochi mesi di distanza
dal congresso di Livorno, che tutte le frazioni presenti nel P.S.I.
erano al di fuori del terreno comunista, quindi controrivoluzionaria,
sia per dottrina che per azione; anche la corrente massimalista unitaria,
la quale dirigeva il partito ed era responsabile del suo indirizzo.
Dei 21 punti stabiliti per l’ammissione alla Terza Internazionale,
il P.S.I. non ne aveva respinto uno soltanto, ma li aveva contrastati tutti
quanti. Non parlava più di abbattimento violento del potere capitalistico
e di Dittatura Proletaria, bensì valorizzava il parlamentarismo borghese,
additando al proletariato la scheda elettorale come mezzo unico per la
sua emancipazione. Non solo il P.S.I. rinnegava la violenza offensiva e
rivoluzionaria, ma la negava perfino come mezzo di difesa delle masse operaie
di fronte al fascismo, con il quale si era premurato di venire a patti
con un ignobile atto di pacificazione, riservando allo Stato la
funzione di arbitro nei conflitti di classe.
Oltre a ciò il P.S.I. era fedele alleato dei capi social-traditori
confederali, che seguivano le direttive dell’Internazionale gialla di
Amsterdam e portavano avanti sistematicamente un’azione denigratoria
contro i comunisti, ricorrendo ad ogni mezzo.
Contro tale rinnegamento delle posizioni teoriche e tattiche della III
Internazionale la stessa corrente massimalista non aveva fatto una riga
di critica e neppure formulato un programma ed una azione opposti. Non
aveva fatto nulla per ristabilire i valori delle posizioni comuniste pur
essendo la più forte all’interno del partito. Da tutto ciò è evidente
che l’intero P.S.I. si trovava fuori del comunismo.
Il pericolo a cui, secondo il P.C.d’Italia, la III Internazionale
andava incontro con i suoi ripetuti appelli ed ultimatum rivolti al P.S.I.
affinché allontanasse dalle sue file Turati e compagni, era di scambiarla
per una scissione di vari mesi posteriore a quella che si era verificata
al congresso di Livorno. A distanza di tempo l’accettazione da parte
del P.S.I. del punto 7 (cioè l’espulsione dei riformisti) non era
più garanzia di adesione completa a tutti i 21 punti. Dal congresso
di Livorno in poi gli elementi di distanziamento del P.S.I. dal comunismo
erano rilevanti sia sul piano teorico che tattico. D’altra parte, per
i comunisti, il rifiuto di espellere a Livorno i riformisti dal partito
socialista celava l’opposizione a tutte le posizioni programmatiche della
III Internazionale, per cui si arrivò alla scissione, alla fondazione
del P.C.d’Italia e alla costituzione della sezione italiana della Internazionale
Comunista. Per il P.C.d’Italia quindi la questione dell’appartenenza
del P.S.I. all’Internazionale non si sarebbe dovuta protrarre per vari
mesi dopo il congresso socialista di Livorno, allorché la destra riformista
non fu espulsa dal P.S.I.
Rimandando la questione l’I.C. si espose al grave rischio di poter
vedere gli intransigenti socialdemocratici italiani, i socialpacifisti
firmatari dell’ignobile patto con la guardia bianca, gli apologisti dell’azione
parlamentare e della sovranità dello Stato borghese, rispondere positivamente
a quanto il punto 7 delle condizioni di ammissione prescriveva (espellendo
Turati e compagni) ed avere pertanto le carte in regola per appartenere
alla III Internazionale mentre venivano rinnegati tutti gli altri 20 punti,
cioè in una parola i principi teorici e tattici del comunismo. Il pericolo
a cui l’Internazionale Comunista si espose avrebbe avuto gravi conseguenze
per il P.C.d’Italia, il quale si sarebbe trovato minacciato nella sua
compattezza dottrinaria, nel suo lavoro di preparazione e di propaganda
rivoluzionaria.
Per i comunisti l’ennesimo ultimatum rivolto al P.S.I. dai rappresentanti
dell’esecutivo della III Internazionale in occasione del congresso socialista
di Milano, affinché venissero espulsi i riformisti era dettato da una
mera illusione di poter curare un ammalato, del quale già i comunisti
avevano diagnosticato da tempo la malattia e la fine, infatti proprio su
questo a Livorno si arrivò a quella scissione che permetteva di salvare
la parte sana, non affetta da cancrena.
Di fronte all’iniziativa, portata avanti nel congresso socialista
di Milano da Clara Zetkin e dal polacco Valewski, il P.C.d’I. non si
oppose per disciplina, ma i due rappresentanti dell’esecutivo dell’I.C.
poterono di persona rendersi conto chiaramente come la diagnosi fatta dai
comunisti italiani sul P.S.I. rispondesse alla realtà e ad un’esatta
conoscenza di questo partito. La Zetkin stessa, spinta dalla evidenza dei
fatti, nel discorso tenuto al Congresso socialista di Milano non poté
fare a meno di affermare: «Mi domando se per avventura non abbia fatto
una bestialità a venire qui fra voi».
Come ormai fosse consolidato e netto il giudizio negativo del P.C.d’I.
nei confronti dell’intero P.S.I. emerge anche dalla risposta data dallo
stesso Partito Comunista in relazione all’accusa di parte socialista
che il discorso tenuto al congresso di Milano dal compagno Valewski fosse
stato scritto da Bordiga, in quanto presupponeva una conoscenza molto precisa
del P.S.I. Il Partito Comunista chiarì la questione sottolineando che
se il discorso di Valewski fosse stato veramente scritto da Bordiga sarebbero
bastate poche parole del tipo: «Andate a farvi fregare tutti quanti».
All’indomani del congresso socialista di Milano, da cui non era uscito
nulla di nuovo per la classe lavoratrice, nessuna precisa direttiva di
lotta, i comunisti misero in evidenza che il P.S.I. era ormai un organo
in putrefazione, per cui il proletariato italiano per una azione di difesa
e di attacco nei confronti della reazione borghese doveva passare su questo
cadavere.
Il P.C.d’I. colse l’occasione per rivolgere un appello a tutti i
lavoratori socialisti che si sentivano legati alla causa dell’emancipazione
rivoluzionaria della loro classe ed ai metodi stabiliti dalla III Internazionale.
In questo appello le masse socialiste venivano invitate a compiere il gesto
decisivo di dividere le proprie responsabilità da quelle dei manutengoli
della borghesia. Ciò è possibile solo abbandonando il P.S.I. al suo destino
e rafforzando le file del P.C.d’I., nonché dell’I.C.
IL FRONTE UNICO PROLETARIO CONTRO
IL DISFATTISMO CONFEDERALE
Al disfattismo dei capi socialisti, riemerso chiaramente nel congresso
di Milano, fa eco nel campo sindacale quello dei dirigenti confederali.
Questi di fronte all’offensiva padronale mirante a ridurre i salari
operai, anziché mobilitare la classe lavoratrice con precisi obiettivi
di lotta, propongono, come mezzo per risolvere le vertenze salariali in
corso, un’inchiesta sulle condizioni delle industrie italiane.
Nell’attesa di conoscere le conclusioni a cui perverrà la commissione
d’inchiesta, i dirigenti della C.G.L. si impegnano a fare sospendere
le azioni di lotta intraprese da alcune categorie e aggiungono che accetteranno
una riduzione dei salari solo qualora risulti che anche il reddito dei
capitalisti sia realmente diminuito. La trovata dell’inchiesta sulle
industrie ebbe sostenitori anche nelle organizzazioni sindacali bianche
e perfino fasciste. La commissione d’inchiesta avrebbe dovuto essere
formata da otto rappresentanti degli industriali, da otto funzionari dello
Stato con funzione di arbitri e da otto delegati sindacali, dei quali solo
una parte appartenenti alla Confederazione Generale del Lavoro.
Da parte comunista fu subito messo in luce che l’inchiesta sulle condizioni
dell’industria era niente altro che una grande truffa a danno della
classe proletaria, prima di tutto perché si credeva che i risultati
di una inchiesta potessero essere in grado di indurre i padroni a mantenere
un determinato livello dei salari. E poi quale garanzia poteva dare alle
masse operaie una tale commissione? Nessuna! Infatti la condizione delle
aziende è controllabile solo da parte degli industriali e dissimulabile
con mille artifici, inoltre, come era facilmente prevedibile, i fiduciari
degli imprenditori si sarebbero messi subito d’accordo con i rappresentanti
dello Stato venali e corrotti, mentre i delegati sindacali avrebbero cominciato
immediatamente a becchettarsi fra di loro per ragioni di concorrenza mandarinesca.
Oltre a criticare lo strumento della commissione d’inchiesta, in quanto
chiaramente nelle mani dei padroni, da parte comunista fu sottolineato
che era inconcepibile accettare una riduzione dei salari in relazione
alle diminuzioni del profitto capitalista. Essere disposti a ciò significa
subordinare la lotta del proletariato per la sua esistenza all’entità
del guadagno degli sfruttatori, all’integrità dell’ordinamento economico
vigente, mettere da parte il principio che il lavoro deve essere retribuito
in relazione alla necessità degli operai, vuole dire che le masse devono
subire l’affamamento mentre il costo della vita aumenta, solo perché
diminuiscono i dividendi dei padroni a causa della crisi che travaglia
il sistema capitalista e rende le speculazioni meno fruttuose. Le posizioni
assunte dai mandarini della C.G.L. sono in netto contrasto con il fine
che già si proponevano le primordiali organizzazioni economiche del proletariato,
cioè la resistenza contro i datori di lavoro. Quello che è l’ABC del
movimento sindacale dai dirigenti sindacali viene rinnegato in quanto si
scopre che è un principio pericoloso per le aziende capitaliste. Anziché
resistere con la forza sindacale, di cui la classe proletaria dispone,
si ritiene opportuno sospendere le vertenze salariali scaturite dalla realtà
delle cose e pervenire ad una regolamentazione del conflitto, accettando
criteri che significano l’imbottigliamento di ogni movimento degli sfruttati
contro gli sfruttatori.
Contro la proposta di una inchiesta sulle condizioni delle industrie
e le sue deleterie conseguenze per la classe operaia italiana, i comunisti
ribadiscono l’intangibilità dei salari, anche se le aziende capitalistiche
sono in deficit. Inoltre, ai risultati della commissione d’inchiesta,
oppongono
la mobilitazione della classe operaia e il ricorso all’arma dello sciopero
generale nazionale. Gli accordi salariali infatti possono essere imposti
agli industriali solo da un proletariato agguerrito, sceso compatto sul
terreno della lotta aperta contro i capitalisti.
A questo obiettivo mirava la proposta comunista del Fronte Unico
Proletario. Su tale questione, il P.C.d’I., per evitare equivoci,
dovette fare delle precise puntualizzazioni.
Il comunismo rivoluzionario si basa sull’unità della lotta di emancipazione
di tutti gli sfruttati e al tempo stesso sull’organizzazione ben definita
in partito politico dell’avanguardia della classe operaia. Esso proclama
la necessità di unificare le lotte dei lavoratori in modo da dare a queste
un obiettivo e un metodo comune. Perciò per l’unità degli sfruttati,
al di sopra delle singole categorie professionali, delle situazioni locali,
delle frontiere nazionali o di razza.
L’organizzazione sindacale è il primo stadio della coscienza e della
pratica associativa degli operai, che li pone contro i padroni ed in quanto
raccoglie i lavoratori per la comune condizione di sfruttamento economico
e ne unifica le lotte, per questo deve essere unica. I comunisti sono
pertanto contrari alla scissione nelle organizzazioni economiche del proletariato,
mentre lavorano per la loro unificazione. L’unità sindacale è un
coefficiente favorevole alla diffusione dell’ideologia e dell’organizzazione
rivoluzionaria delle masse lavoratrici, quindi il Partito Comunista fa
del sindacato unico della classe operaia il suo miglior reclutamento e
la miglior campagna contro i metodi di lotta che da altre parti vengono
prospettati al proletariato. L’esistenza di un unico organismo sindacale
proletario permette ai comunisti di svolgere con maggior rapidità e successo
il lavoro di orientamento delle classi sfruttate verso il programma rivoluzionario.
Mentre i comunisti lavorano per l’unificazione degli organismi sindacali
del proletariato, essi sostengono altrettanto energicamente, prima di raggiungere
questa unità organizzativa, la necessità di un’azione d’insieme
di tutti i lavoratori per la comune difesa di fronte all’offensiva dei
padroni. Additando alle masse che unico è il postulato ed unica deve
essere la tattica per fronteggiare la riduzione dei salari, la disoccupazione
e tutte le altre manifestazioni dell’attacco antiproletario, si rende
più agevole il compito di dimostrare al proletariato che deve avere un
programma unico di offensiva rivoluzionaria contro il sistema capitalistico.
Dal fronte unico del proletariato sindacalmente organizzato contro
l’offensiva della borghesia sorgerà il Fronte Unico Proletario sulla
base del programma comunista dimostrandosi insufficiente ogni altro programma.
Unità sindacale e Fronte Unico Proletario sono tappe che la classe sfruttata
deve percorrere per il suo allenamento a lottare sulla via rivoluzionaria
segnata dall’avanguardia comunista. Il Partito Comunista vede in essi
un mezzo per far trionfare il suo programma, ben differente da tutti gli
altri che vengono prospettati al proletariato.
È errato ritenere la formula dell’unificazione sindacale e del
fronte unico come un blocco di partiti proletari o di comitati sorti da
un compromesso tra varie posizioni politiche. Ciò da parte dei comunisti
significherebbe concedere una tregua ai socialdemocratici mostrandosi con
un metodo di azione che fa smarrire al proletariato la chiara visione del
percorso rivoluzionario. È inconcepibile per i comunisti, in una piccola
o grande circostanza, fare omaggio a qualche organismo, atteggiamento o
finalità, che, secondo l’ultrafilistea frase, "si ponga al di sopra
dei partiti".
Unità sindacale o Fronte Unico Proletario sono il logico e consequenziale
sviluppo, non una forma coperta di pentimento, dell’opera svolta dai
comunisti al fine di rafforzare l’arma fondamentale della lotta rivoluzionaria,
cioè il partito di classe.
L’APERTO SABOTAGGIO DEI VERTICI
CONFEDERALI
Mentre i dirigenti confederali respingevano le proposte comuniste del
Fronte Unico Proletario per sbandierare la trovata delle Commissioni d’inchiesta
sulle condizioni delle industrie italiane, che avrebbe dovuto permettere
alla C.G.L. di riorganizzare nel frattempo le proprie forze, varie categorie
di lavoratori si trovavano già in lotta aperta contro la classe padronale.
I metallurgici della Venezia Giulia, della Lombardia, della Liguria, napoletani,
livornesi, gli operai chimici e tessili, avevano effettuato scioperi ed
erano orientati per una azione di lotta generale. Da parte dei mandarini
della C.G.L. si cercò subito di spezzare questo fronte proletario, evitando
l’affasciamento delle vertenze salariali in corso, in modo che ogni categoria
si trovasse isolata e quindi inevitabilmente costretta ad accettare le
imposizioni dei padroni. Il frazionamento delle lotte fu giustificato con
la "tattica delle ondate", geniale scoperta dei vertici sindacali.
Questi, adducendo il pretesto che il nemico di classe era troppo forte
per essere affrontato in uno scontro frontale, sostenevano la mobilitazione
in più riprese delle masse operaie, in modo da avere sempre "di riserva"
forze nuove e fresche da immettere sul fronte della lotta.
A fare le spese di queste posizioni disfattiste furono ben presto gli
operai metallurgici lombardi, sui quali erano giustamente puntati gli occhi
di tutti i metallurgici italiani. Infatti la scesa in campo di queste poderose
forze dell’esercito proletario avrebbe voluto dire l’allargamento immediato
della lotta della categoria su tutto il territorio nazionale. Agli operai
metallurgici della Lombardia si sarebbero presto uniti i loro compagni
della Liguria e della Venezia Giulia, formando un primo scaglione di
quel Fronte Unico Proletario sostenuto dai comunisti. Varie categorie
di lavoratori vedevano inoltre nella lotta dei metallurgici lombardi una
ripresa della forza rivoluzionaria dell’intera classe operaia. Ma
era proprio questo che i funzionari sindacali riformisti ed i padroni volevano
evitare. Buozzi per la FIOM e Iarachi per gli industriali si trovarono
ben presto d’accordo. I concordati salariali vigenti furono prorogati
fino al 31 dicembre, in quanto i mandarini sindacali speravano che entro
tale data la trovata delle Commissioni d’inchiesta potesse dare dei risultati.
Il compagno Repossi fu invitato a partecipare alle trattative per la
risoluzione della vertenza metallurgica riguardante la Lombardia, ma il
suo rifiuto fu netto. Da parte comunista a proposito dell’accordo raggiunto
fu sottolineato che di fronte alla volontà di lotta della intera categoria
non dovevano essere accettati patti che non rappresentassero una vera vittoria
degli operai. Fu aggiunto inoltre che la proroga stabilita per la risoluzione
della questione salariale avrebbe costituito più un pericolo che non un
vantaggio per i lavoratori metallurgici lombardi, mentre favoriva gli industriali,
i quali, di fronte all’azione decisa degli operai, non avevano veduto
altra soluzione che rimandare la vertenza salariale ad altra situazione.
L’inverno e la sfiducia, determinata negli operai dal disfattismo dei
dirigenti confederali, sarebbero stati buoni alleati dei padroni, per i
quali la lotta, fra alcuni mesi, si sarebbe presentata più facile.
Le conseguenze dannose del concordato metallurgico per la Lombardia
furono messe in evidenza dai comunisti; questo accordo infatti doveva avere
gravi ripercussioni su tutta la futura azione del proletariato italiano,
esso non rappresentava solo la fine di una vertenza regionale, ma era un’altra
battuta d’arresto nella lotta di classe sferrata dai metallurgici italiani
con unità di azione. E dopo i metallurgici lombardi a fare le spese dell’azione
deleteria svolta dai capi confederali furono gli operai chimici, che videro
i loro salari ridotti del 10%.
Un commento sull’operato dei dirigenti della C.G.L. lo offre la stessa
classe padronale per bocca di Olivetti, segretario della Confindustria,
il quale con viva soddisfazione dichiara che a proposito delle vertenze
salariali in corso il quadro è tutt’altro che catastrofico, infatti
la vertenza dei chimici è stata risolta in tutta Italia, l’accordo metallurgico
per la Lombardia si è raggiunto e con esso almeno per ora è stata allontanata
la possibilità di una agitazione nazionale dell’intera categoria. È
evidente che il fine degli industriali, firmando l’accordo metallurgico
di Milano, era quello di togliere dalla lotta una parte fondamentale dell’esercito
proletario per essere poi liberi di muovere con maggiore foga contro la
parte rimanente.
Il valore del concordato metallurgico per la Lombardia viene esaltato
dai social-traditori confederali nel Congresso della C.G.L. tenutosi a
Verona. Buozzi e compagni affermano che questo accordo avrebbe rotto il
fronte degli industriali e costituito la base per piegare volta per volta
gli industriali delle altre regioni.
IL CONGRESSO DI VERONA
Al Congresso di Verona i social-riformisti pongono come fulcro della
loro tattica l’inchiesta sulle condizioni delle industrie italiane, ma
al tempo stesso, per cercare di evitare di essere smascherati come i sabotatori
e demolitori della organizzazione sindacale e del metodo della lotta di
classe, non rinunciano al solito frasario demagogico, per cui viene prospettato,
ma solo a parole, l’eventualità di portare avanti la lotta "per altro
tramite".
Il Congresso di Verona è aperto da una relazione di Bianchi, il quale
esalta l’operato della Confederazione «a difesa delle masse proletarie
contro l’offensiva capitalista» e presenta la proposta della Commissione
di inchiesta sulle condizioni delle industrie italiane come un mezzo
idoneo a scuotere vasti strati dell’opinione pubblica.
Ritorna anche nei riformisti confederali, come nei loro fratelli del
P.S.I., il motivo dell’opinione pubblica, considerata la grande leva
da manovrare in sostituzione della mobilitazione del proletariato su precisi
obiettivi di lotta, come invece sostenevano i comunisti. L’appello al
fronte unico rivolto dal Comitato Sindacale Comunista ed il ricorso all’arma
dello sciopero generale nazionale vengono definite "manovre demagogiche
ed arriviste" dai vari mandarini confederali che si avvicendano alla
tribuna.
Reina considera "una delinquenza" l’azione generale; Galli
(segretario della FIOT) ritiene lo sciopero nazionale di tutte le categorie
"un’azione disperata" e vede in esso un’arma che può essere impugnata
solo da "incoscienti e demagoghi"; Violante (segretario della FIOC) si
scaglia contro i comunisti che vorrebbero trascinare nella lotta 300.000
operai chimici e li definisce "delinquenti", aggiunge, da bravo social-patriota,
che i dirigenti della FIOC sono per "un’Italia ricca e grande" e minaccia
di espellere dalla federazione gli operai chimici della Venezia Giulia
se non cambieranno comportamento.
La posizione dei comunisti, ribadita dai compagni Tasca e Repossi, è
sintetizzata nella mozione presentata. In tale mozione si sottolinea come
la offensiva padronale in tutte le sue manifestazioni politiche ed economiche
costituisca l’esplicazione di un piano di schiacciamento delle organizzazioni
di classe proletarie, piano in cui la borghesia scorge l’unica via per
ricostituire il suo dominio e per scongiurare l’opposta soluzione rivoluzionaria,
a cui il proletariato è sempre più spinto dalla difesa dei suoi interessi
immediati e dalla stessa lotta per i problemi contingenti. Sostituire
le lotte sindacali e le forze delle organizzazioni economiche del proletariato
con l’arbitrato di una Commissione d’inchiesta ed accettare il principio
che in base alle condizioni delle aziende capitaliste si debba giustificare
una riduzione dei salari, equivale al disarmo del proletariato di fronte
all’offensiva borghese ed alla rinuncia, non solo di ogni metodo di lotta
di classe, ma anche delle stesse ragioni di essere delle organizzazioni
economiche dei lavoratori.
Nella mozione comunista vengono poi ribaditi i criteri di lotta da seguire
contro l’offensiva della borghesia: poiché la resistenza alle pretese
del padronato svolta localmente e per singole categorie non può dare alcun
affidamento di vittoria, il compito e il dovere delle organizzazioni sindacali
proletarie è di impegnare tutte le proprie forze per la difesa di una
serie di postulati, che rappresentano le conquiste ottenute dalle masse
operaie nel campo del lavoro, il cui mantenimento è condizione indispensabile
e la vita stessa delle organizzazioni. I postulati di lotta sono i medesimi
contenuti nell’appello rivolto già dal Comitato Sindacale Comunista
alla C.G.L., all’U.S.I. e al S.F.I. e cioè: otto ore di lavoro giornaliero,
intangibilità dei salari, salario pieno ai disoccupati, integrità del
diritto di organizzazione e suo riconoscimento, controllo delle organizzazioni
sindacali proletarie sulle assunzioni e sui licenziamenti; la difesa
di questi postulati di lotta è solo possibile con la realizzazione
del Fronte Unico Proletario, in modo da esplicare una azione di insieme
che si contrapponga all’attacco capitalista con l’attuazione dello
sciopero
generale nazionale di tutto il proletariato.
Da parte comunista fu sostenuta al Congresso di Verona l’adesione
della C.G.L. alla Internazionale Sindacale Rossa e la uscita immediata
dalla Internazionale gialla di Amsterdam, organizzazione controllata dalla
borghesia.
I social-riformisti confederali, che già più volte avevano ricevuto
l’ultimatum "o Mosca o Amsterdam", confermarono la loro adesione all’Internazionale
gialla, pur atteggiandosi nella pia illusione di svolgere nell’interno
di essa un’azione di opposizione. Così la C.G.L. si trovò esclusa dall’Internazionale
dei Sindacati Rossi, che era l’unica organizzazione sindacale internazionale
su posizioni di classe.
I risultati del Congresso di Verona furono salutati dalla stampa borghese
come un "ritorno al buon senso", "una prova di saggezza".
Di fronte all’offensiva padronale e fascista si estende la lotta proletaria.
Mentre il P.S.I. e la C.G.L. giustificavano l’atto di pacificazione
e l’inchiesta sulle condizioni delle industrie come mezzi per organizzare
le proprie forze, i fascisti continuano ad uccidere ed a devastare le sedi
delle organizzazioni proletarie al grido di "viva l’Italia", che è ormai
divenuto per essi un ottimo passaporto per l’incolumità di fronte ai
più efferati delitti.
Sentendosi incontrastati e protetti dallo Stato in occasione del Congresso
fascista di Roma convergono nella capitale da tutta Italia in circa 30.000,
inquadrati ed armati. Il fine di questa calata di lanzichenecchi non era
quello di partecipare al congresso fascista, infatti solo 500 delegati
vi presero parte, bensì di dimostrare che l’assalto portato da loro
a Roma poteva essere domani rivolto a qualunque città o regione italiana.
In seguito all’uccisione da parte dei fascisti di un ferroviere, tutti
i ferrovieri del dipartimento di Roma abbandonarono il lavoro e proclamarono
lo sciopero. Il Comitato di Difesa proletaria estese lo sciopero a tutta
la provincia di Roma per tutte le categorie di mestieri e di servizi pubblici.
Da parte dei fascisti furono rivolti degli ultimatum agli operai romani
affinché riprendessero il lavoro, ma lo sciopero continuò compatto. La
reazione delle guardie bianche è spietata, altri operai vengono uccisi,
tuttavia nessun cedimento da parte degli scioperanti i quali fanno sapere
che riprenderanno l’attività solo quando i fascisti abbandoneranno Roma.
Di fronte all’attacco dei fascisti si assiste al costituirsi spontaneo
di quel Fronte Unico Proletario che i comunisti già da tempo avevano sostenuto.
Per volontà e decisione combattiva si distinguono i ferrovieri. Mentre
da parte del Comitato Centrale dello S.F.I. si cerca di indurre i ferrovieri
romani a sospendere lo sciopero adducendo l’impegno preso dal governo
di fare ripartire i fascisti, i compagni comunisti si battono per lo sciopero
ad oltranza e la massa dei ferrovieri del compartimento di Roma segue le
direttive comuniste. Ai ferrovieri romani giunge ben presto la solidarietà
dei loro compagni di Ancona, di Napoli, di Reggio Calabria, i quali scendono
in sciopero.
Intanto la direzione delle ferrovie, su invito del governo Bonomi e
sotto la pressione della stampa borghese, minaccia di ritenere dimissionari
quei ferrovieri che avevano abbandonato il servizio. Per i ferrovieri avventizi
l’adesione allo sciopero è causa di licenziamento. L’azione di rappresaglia
del governo trova un sostegno nei dirigenti del S.F.I., i quali minacciano
di abbandonare gli scioperanti a se stessi.
Dopo quattro giorni di sciopero e di lotta l’assalto dei fascisti
è spezzato. L’agitazione dei ferrovieri però continua e si presenta
la possibilità che assuma un carattere generale. Ai ferrovieri napoletani,
che danno grande prova di volontà combattiva si uniscono quelli dei dipartimenti
di Salerno, di Catanzaro, di Avellino, di Benevento, attuando anche essi
lo sciopero.
Seguendo le direttive dei loro compagni comunisti chiedono ai dirigenti
del S.F.I. di proclamare uno sciopero nazionale dei ferrovieri come risposta
alle provocazioni del governo e dell’amministrazione ferroviaria. La
piattaforma di lotta comprende, oltre alla riassunzione immediata in servizio
dei licenziati, anche una serie di rivendicazioni (rispetto delle otto
ore di lavoro giornaliero, regolamento organico, miglioramento del trattamento
economico ai pensionati, sistemazione definitiva degli avventizi, istituzione
di commissioni locali, retribuzione delle competenze accessorie già accettate
dal governo, ma poi rimangiate per rappresaglia contro la volontà combattiva
dimostrata dai ferrovieri in occasione dei fatti di Roma.
Il comitato centrale del S.F.I., composto in prevalenza da anarchici
e socialisti, non accetta di proclamare uno sciopero generale della categoria,
tuttavia i ferrovieri campani proseguono compatti nell’azione intrapresa
e solo dopo dieci giorni di sciopero riprendono il lavoro allorché i loro
compagni licenziati sono stati riassunti in servizio.
Dopo i ferrovieri scendono in lotta gli operai metallurgici liguri per
i contratti di lavoro. Secondo Buozzi e compagni l’accordo metallurgico
per la Lombardia doveva costituire la base per piegare volta per volta
gli industriali delle varie regioni ed essere un precedente per risolvere
nella stessa maniera le vertenze salariali nelle altre zone. Di fronte
alla richiesta di estensione dell’accordo metallurgico di Milano gli
industriali liguri risposero negativamente adducendo il fatto che le aziende
meccaniche della Liguria presentavano caratteristiche diverse da quelle
lombarde per la prevalenza nel ramo delle costruzioni navali, che più
di ogni altro era colpito dalla crisi. Pertanto non accettarono neppure
la proroga fino al 31 dicembre del concordato vigente, come si era stabilito
per i metallurgici della Lombardia. Infatti rimandare ad una stessa data
due vertenze poteva rappresentare il rischio che l’agitazione degli
operai metallurgici si estendesse contemporaneamente in due importanti
regioni.
Di fronte al rifiuto da parte degli industriali della Liguria di accettare
il concordato dei loro colleghi lombardi, i dirigenti confederali, contro
la loro volontà, furono costretti a proclamare uno sciopero generale regionale
a sostegno degli operai metallurgici liguri, con l’esclusione però di
alcune categorie di lavoratori: i postelegrafonici, i panettieri, i gasisti,
gli elettrici, gli addetti alla distribuzione dell’acqua potabile, i
ferrovieri ed i lavoratori del mare.
A questo metodo di azione, che comportava un restringimento della lotta,
da parte comunista fu contrapposta la necessità di allargare lo sciopero
a tutte le categorie di lavoratori in modo da spezzare la tracotanza dei
capitalisti. Solo con l’ampliamento e con l’intensificazione della
lotta era possibile ottenere dei successi, pertanto i comunisti sostennero
che il comitato di agitazione doveva fare appello a tutte le forze operaie
non ancora schierate sul fronte di battaglia.
Comunque lo sciopero in Liguria proseguiva, mentre i capi confederali
si preoccupavano di contenerlo sul terreno della dimostrazione pacifica
e civile, in modo che "l’ordine pubblico" non venisse sconvolto da alcun
"torbido".
I dirigenti CGIL facevano grande affidamento sull’opinione pubblica
e cercavano di spingerla a prendere posizione a loro favore; le masse in
sciopero al contrario avrebbero voluto dare alla propria azione un carattere
più aspro e deciso, così come da parte comunista veniva sottolineato
che questa forma educata e civile di agitazione era dannosa per il proletariato,
in quanto c’era il pericolo di vedere esaurite le sue riserve di energia
combattiva durante le lunghe e sterili manovre di attesa. Per i comunisti
uno sciopero generale limitato ad una sola regione non poteva avere esito
favorevole se non attuato come un assalto formidabile, improvviso, rapido,
capace di terrorizzare il nemico e non blandirlo, come invece stava succedendo,
meritando il suo consenso per il modo in cui la lotta era stata frazionata.
Seguendo le direttive confederali lo sciopero minacciava di languire
e d’altra parte non si prospettava alcuna possibilità di cedimento degli
industriali. Di fronte ad una tale situazione Buozzi e compagni invocarono
l’intervento del governo, sul quale evidentemente riponevano maggior
fiducia che non sulle masse operaie in lotta. In un bollettino dello sciopero
si afferma: «poiché i mezzi conciliativi non hanno approdato a nulla
per la protervia degli industriali, il governo ha il preciso dovere di
adottare dei provvedimenti di imperio».
A Genova dopo vari giorni di sciopero fece la sua comparsa la prima
donna del massimalismo inconcludente, Serrati, il quale cercò con ogni
mezzo di evitare l’allargamento delle lotte e criticò l’idea di uno
sciopero generale nazionale, adducendo il pretesto che il proletariato
italiano non era abbastanza forte e preparato. Intanto le squadre fasciste
armate aiutarono la guardia regia a sgomberare le città dagli operai in
sciopero ed al grido "tu sei una guardia rossa" lo disperdevano con la
forza. Per spezzare il fronte proletario le guardie bianche si offrivano
esse stesse per far riprendere in alcuni settori l’attività soprattutto
nei servizi pubblici, in altre invitano i disoccupati a presentarsi nelle
loro sedi garantendo l’immediata assunzione al lavoro.
Nonostante non si verificasse nessun cedimento sul fronte dello sciopero
Buozzi e compagni a Roma si affrettano a firmare con gli industriali liguri
un accordo che non definiva per il momento le condizioni salariali per
gli operai metallurgici della Liguria.
Se a Genova gli industriali rifiutarono di accettare il concordato metallurgico
per la Lombardia, a Trieste non vollero neppure venire a trattative, eppure
avevano ricevuto dal governo centinaia di milioni in più rispetto ai loro
colleghi con il pretesto di far fronte alla tragica situazione del proletariato
della propria regione.
Gli operai metallurgici della Venezia Giulia con la loro ferrea volontà
di lotta mostrata in varie occasioni avevano creato le premesse per una
agitazione generale di tutta la categoria e contribuito in maniera rilevante
alla campagna di risveglio dell’intero proletariato italiano. Di fronte
all’atteggiamento inflessibile degli industriali, i lavoratori della
Venezia Giulia scesero compatti in movimento a sostegno della vertenza
metallurgica.
Su di essi si riversò spietata la reazione fascista. Bande di guardie
bianche effettuavano perquisizioni, sequestravano, si improvvisavano giudici
ed eseguivano sentenze capitali. Fiancheggiando la loro azione le autorità
governative intervenivano arrestando centinaia di operai con il pretesto
che avrebbero potuto commettere atti contrari alla legge. Di fronte ai
soprusi delle squadre fasciste, assoldate dagli industriali grazie ai finanziamenti
ottenuti dallo Stato, i dirigenti confederali parlavano di disarmare l’avversario
di classe con metodi pacifici e di smuovere l’opinione pubblica attraverso
lo spettacolo del martirio proletario in modo che questa spingesse il governo
ad intervenire.
Mentre il proletariato della Venezia Giulia resiste compatto nello sciopero
generale con decisa volontà di lotta, a Roma viene fissato l’accordo
per porre fine alla vertenza dei metallurgici. Viene accettato dai socialdemocratici
confederali una riduzione dei salari del 10%. Le condizioni dell’accordo
sono più sfavorevoli di quelle stabilite per gli operai metallurgici lombardi
e liguri, eppure Buozzi e compagni ritenevano la tattica "delle ondate"
in grado di dare buoni frutti per la causa proletaria.
La capitolazione dei confederali fa sì che ancora più dure siano le
imposizioni subite dagli operai metallurgici di altre regioni come la Toscana
e l’Emilia. Numerosi sono i licenziamenti, gli elementi più attivi nel
campo sindacale vengono allontanati dal posto di lavoro, gli industriali
trattano direttamente con gli operai sotto la minaccia dei licenziamenti.
Alla capitolazione dei metallurgici segue quella dei lanieri che vedono
ridurre i loro salari del 20%. La loro lotta fu sabotata dai dirigenti
della FIOT, i quali condussero la vertenza senza coinvolgere anche le altre
categorie aderenti alla Federazione Italiana Operai Tessili, come ad esempio
i cotonieri.
Alla prova dei fatti la tattica "delle ondate" sostenuta dai riformisti
si rivelò un pieno fallimento in quanto le vertenze salariali si risolvevano
sempre più su basi svantaggiose per gli operai. I risultati ottenuti davano
completa ragione alla tesi dei comunisti i quali avevano costantemente
ribadito che questa tattica si sarebbe risolta in una progressiva riduzione
della forza d’urto dell’esercito proletario, portato allo sbaraglio
con un sistema di lotte che faceva ricadere su tutta la classe operaia
le conseguenze di ogni concessione, cioè di ogni sconfitta parziale, e
rendeva più precaria la posizione di tutti i combattenti.
Mentre l’azione infame dei dirigenti confederali tendeva a sgretolare
la volontà di lotta del proletariato italiano, gli operai torinesi davano
tuttavia prova di possedere ancora energia combattiva. In seguito alle
dure condanne inflitte a nove operai per fatti avvenuti in relazione all’occupazione
delle fabbriche del settembre 1920, il proletariato torinese scese in sciopero
per 24 ore contro una sentenza dettata esclusivamente dall’odio di classe:
la magistratura infatti, arma al servizio dei padroni e strumento della
dittatura borghese, volle colpire gli accusati in quanto operai.
Se nelle città le squadre fasciste facevano la loro comparsa come braccio
destro degli industriali nelle vertenze salariali, nelle campagne avevano
ormai instaurato un vero e proprio clima di terrore. Contro i contadini
del milanese i fascisti furono autori di efferate spedizioni punitive.
Il piano dei fascisti era di muovere dalle campagne un’azione di accerchiamento
nei confronti di Milano, che si sarebbe dovuta concludere con l’assalto
alla città e con lo scioglimento dell’amministrazione comunale socialista.
Con il passaggio dell’offensiva fascista dalle campagne alla città la
classe operaia milanese si sarebbe trovata a lottare contemporaneamente
contro l’attacco degli industriali, mirante a ridurre i salari dei lavoratori
(il 31 dicembre scadeva la proroga del concordato metallurgico), e contro
l’offensiva fascista. Infliggere una duplice sconfitta al proletariato
milanese sarebbe stato per la borghesia una grande vittoria, data l’importanza
della città, e un simile successo l’avrebbe spinta a non porre alcun
limite alla sua azione repressiva contro il proletariato italiano.
Di fronte a questo pericolo i dirigenti del P.S.I. e della C.G.L. non
cercarono neppure di difendere le loro roccheforti. Continuarono invece
ad appellarsi allo Stato affinché intervenisse contro i fascisti e facesse
rispettare le leggi. Tale comportamento dei social-riformisti era simile
a quello di certa piccola e media borghesia nel cui ambito ormai si aggiravano.
Questa infatti sdegnata per vedere minacciato il suo quieto vivere e
venire meno le normali condizioni dell’ordine pubblico, chiedeva il ritorno
alla normalità, che fossero fatte rispettare le leggi dallo Stato, considerato
il difensore ed il tutore imparziale di tutti i cittadini. Per i comunisti
invece la soppressione delle legalità è un fatto strettamente connesso
con l’acuirsi dei contrasti di classe, per cui il proletariato non deve
attenuare questo stato di cose, ma aggravarlo, rendendo lo scontro di classe
più aspro e deciso. Da parte dei comunisti è inconcepibile che lo Stato
disarmi ed allontani i violenti, pertanto le masse proletarie devono armarsi
esse stesse, accettare la lotta sul terreno su cui viene portata e fare
affidamento unicamente sulla propria violenza per spezzare quella del nemico
di classe di cui il fascismo è figlio legittimo.
[Il Partito Comunista n. 38, ottobre 1977]
Il periodo qui preso in esame comprende i mesi di gennaio, febbraio
e marzo dell’anno 1922.
I filoni fondamentali in cui si articola tale rapporto sono tre:
1) Analisi della situazione italiana;
2) Le posizioni e l’azione pratica del Partito Comunista d’Italia;
3) La critica serrata condotta dal Partito Comunista nei confronti
del P.S.I. e della C.G.L. diretti dai social-riformisti.
Dai rapporti svolti nelle precedenti riunioni di Partito è emerso in
maniera evidente come il comunista fosse l’unico partito proletario a
muoversi su corrette posizioni di classe e capace di dare alle masse lavoratrici
precise direttive di lotta aperta contro la violenta reazione politica
ed economica della borghesia, la quale mirava a rinsaldare il proprio sistema
economico, sconvolto dalla crisi in atto, attraverso un’intensificazione
dello sfruttamento della classe operaia.
Di fronte alla dura offensiva borghese, che utilizza le guardie bianche
per costringere operai e contadini a subire le proprie imposizioni, i dirigenti
dei P.S.I. e della C.G.L. adottano una politica di rinuncia allo scontro
frontale, mirante ad indebolire la volontà combattiva delle masse.
I riformisti affermano che la stipula di un patto di pacificazione
con i fascisti possa riequilibrare la situazione e disarmare il fascismo
stesso, avviandone così il declino. In realtà questo infame atto ha il
solo effetto di disorientare e demoralizzare le masse lavoratrici; mentre
l’avversario di classe, fiducioso dell’appoggio dell’apparato statale
borghese, si sente libero e indisturbato nella realizzazione dei propri
piani. Così il padronato con una azione massiccia muove all’attacco
delle conquiste conseguite dai lavoratori, cercando di imporre una riduzione
dei salari e l’abrogazione dei contratti di lavoro. La mancanza di un
fronte compatto di resistenza fa sì che le varie categorie operaie si
sentano sole ed isolate nella lotta contro le soverchianti forze del capitale,
mentre dall’interno delle loro organizzazioni l’azione viene sabotata
dagli stessi dirigenti opportunisti.
Come, nei confronti del dilagare indisturbato del terrore fascista,
i capi riformisti non vedono altra via se non rivolgere continui inviti
agli organi dello Stato borghese affinché siano ripristinati l’ordine
e la legalità, così, di fronte ai pesanti attacchi rivolti alle retribuzioni
salariali, non sanno fare altro che proporre una Commissione d’inchiesta
la quale stabilisca la reale situazione in cui si trovano le industrie
italiane. La proposta della commissione d’inchiesta lascia il tempo che
trova, ma intanto le vertenze contrattuali in corso si risolvono a favore
dei capitalisti, infatti gli operai metallurgici tessili e chimici subiscono
riduzioni di salario.
Mentre i riformisti operano una politica disfattista di capitolazione,
il Partito Comunista ed il suo Comitato Sindacale sostengono la necessità
di affasciare tutte le vertenze che riguardano il proletariato, in modo
che si formi un fronte compatto ed unico di lotta in grado di opporsi alla
violenta reazione borghese. A tale fine risponde la proposta comunista
di formare il fronte unico sindacale rivolta alle maggiori organizzazioni
economiche del proletariato ed avente alla base precisi postulati di lotta
riguardanti l’intera classe lavoratrice.
Come arma da impugnare per difendere le condizioni di vita e di lavoro
delle masse proletarie viene indicato lo sciopero generale nazionale.
FRONTE UNICO SINDACALE
La proposta comunista del Fronte Unico Proletario da contrapporre all’offensiva
capitalistica viene presentata dall’opportunismo del tempo come un ripiegamento
del Partito Comunista dalle posizioni fino ad allora sostenute, un’attenuazione
degli obiettivi rivoluzionari. Questo indirizzo "nuovo", per i social-riformisti
implicherebbe il riconoscimento che la scissione operata per costituire
un Partito Comunista indipendente sarebbe stato un errore. Quanto è ritenuto
da parte socialdemocratica una contraddizione, una rettifica di tiro verso
"destra", che sarebbe dovuta al riconoscimento di errori comunisti nei
metodi tenuti, è in realtà perfettamente coerente con le fondamentali
direttive del comunismo rivoluzionario ed è una novità solo per gli opportunisti.
Il III Congresso dell’Internazionale Comunista aveva dato come parola
d’ordine "andare verso le masse" e nello stesso tempo aveva ribadito
la necessità di avere dei saldi partiti comunisti, indipendenti, cristallizzati,
immuni dalla tabe socialdemocratica e da influenze opportuniste. Zinovief
stesso, rispondendo direttamente alle speculazioni dell’opportunismo,
aveva affermato:
«Noi siamo pronti anche a fare nuove scissioni, se fosse necessario,
lungi dal rimpiangere le antiche, perché queste hanno accresciuto la nostra
libertà di azione, permettendoci di sfidare le più difficili situazioni
senza mai smarrire la visione della meta rivoluzionaria, mille volte barattata
dagli opportunisti nei bassi servizi resi alla borghesia».
La distinzione più spietata e netta nel campo politico permette infatti
ai partiti comunisti di avere e mantenere la loro ferma e chiara fisionomia.
Anche Trotski sottolinea come il Partito Comunista, se non avesse effettuato
una rottura radicale e decisiva con i socialdemocratici, non sarebbe mai
diventato il partito della rivoluzione proletaria, ma non avrebbe nemmeno
potuto fare il primo passo sulla via della rivoluzione.
L’assoluta indipendenza dei partiti comunisti non è in contrasto
con la proposta del Fronte Unico Proletario, infatti l’unità nella lotta
della classe lavoratrice è sempre stata un caposaldo della dottrina marxista.
Il Fronte Unico Proletario, se realizzato sul terreno sindacale, rappresenta
un mezzo per la conquista delle masse al solo metodo politico che contiene
la via della loro emancipazione, cioè quello comunista. Esso non può
essere un’alleanza, né una fusione, né un blocco di partiti per cui
dalle varie parti venga sacrificata o sottaciuta una parte del proprio
programma per incontrarsi su una linea intermedia. Se così fosse il Fronte
Unico Proletario rappresenterebbe null’altro che un informe guazzabuglio
di diverse tendenze politiche, un comitato misto di rappresentanti di vari
organismi, in favore del quale il partito dovrebbe abdicare alla propria
indipendenza per barattarla con un certo grado di influenza su una massa
maggiore di quella che lo segue attualmente. La tattica del fronte unico,
come è concepita da parte comunista, non contiene affatto elementi di
rinuncia, ma risponde perfettamente alle due condizioni fondamentali e
parallele del processo rivoluzionario, cioè, da una parte, rafforzamento
del Partito di classe, che rappresenta lo stato maggiore della rivoluzione,
dall’altra, mobilitazione generale delle masse in lotta frontale contro
il sistema borghese e spinte, anche in modo istintivo, all’azione dalle
situazioni.
Il capitalismo in crisi, infatti, non può rimandare la catastrofe se
non intensifica il grado di sfruttamento dei lavoratori ricorrendo a mezzi
oppressivi economici e politici. Il proletariato va toccando così con
mano che è giunta l’ora di un’azione generale ed unitaria di tutti
gli sfruttati contro le vessazioni del capitalismo, che con le sue mire
insaziabili di sfruttamento economico, con le gesta bieche dei propri sicari
va a snidare e a destare anche l’ultimo lavoratore e gli rammenta che
accettare la sfida è un problema di morte o di vita. Il Fronte Unico Proletario
riguarda quindi tutte le masse lavoratrici, comuniste, socialdemocratiche,
socialiste, anarchiche, sindacaliste, senza partito ed anche facenti parte
di organizzazioni professionali di ispirazione cristiana o liberale, in
modo che si formi un fronte compatto di battaglia per fini comuni che riguardano
tutti gli sfruttati.
L’unità d’azione della classe lavoratrice determinerà anche l’unità
di coscienza e di fede politica. Secondo il metodo marxista è infatti
insostenibile che nella classe proletaria l’unità di dottrina politica
preceda l’unità di azione. Il Partito Comunista, quindi, non pone aprioristicamente,
per la formazione del Fronte Unico Proletario, l’accettazione da parte
delle masse lavoratrici dei capisaldi della dottrina marxista, bensì postulati
di lotta che riguardano gli interessi vitali ed immediati del proletariato,
la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro.
Da parte opportunista, a proposito degli obiettivi di lotta posti alla
base del fronte unico sindacale, viene sottolineato che il Partito Comunista
avrebbe spostato la sua attenzione e il suo sforzo dai fini rivoluzionari
su altri ben più attenuati, su modeste rivendicazioni contingenti, accontentandosi
che vengano mantenute le attuali condizioni di trattamento concesse al
proletariato. Ciò significherebbe, secondo i riformisti, passare da una
posizione "offensiva" ad una "difensiva".
La realtà è ben diversa ed in perfetto accordo con le più genuine
fonti della dottrina marxista e dell’esperienza rivoluzionaria. I comunisti
non hanno infatti mai sostenuto la tesi superficiale del rifiuto di lottare
per gli interessi immediati e contingenti della classe lavoratrice, adducendo
che solo per la finale soluzione rivoluzionaria meriterebbe scendere in
campo. Un concetto ormai consolidato, ribadito anche nel terzo congresso
dell’Internazionale, è che i Partiti Comunisti devono sempre porsi alla
testa dei movimenti del proletariato per le rivendicazioni economiche.
Il compito del Partito Comunista è quello di unificare e fare convergere
questi movimenti delle masse in una lotta generale. A ciò si giunge non
disprezzando e negando puerilmente certi impulsi dei lavoratori all’azione,
ma sollecitandoli e sviluppandoli nella logica realtà del loro processo,
armonizzandoli nella loro confluenza nella lotta generale rivoluzionaria.
Riguardo al preteso ripiegamento difensivo della posizione comunista,
contrapposta dagli opportunisti al tradizionale slancio offensivo dei marxisti
rivoluzionari, va sottolineato che la situazione di crisi in cui si trova
il capitalismo fa sì che anche una lotta economica puramente difensiva
del proletariato ponga il problema di un’azione rivoluzionaria e dell’abbattimento
violento del sistema borghese. Se in passato non era rivoluzionario chiedere
un aumento dei salari, lo è invece nella situazione attuale chiedere che
non vengano ribassati. La proposta di un’azione difensiva di tutto il
proletariato non significa affatto rinunciare alla lotta rivoluzionaria,
bensì innestare su problemi immediati un ritorno controffensivo delle
masse sulla via della rivoluzione. La difesa degli interessi contingenti
e delle vigenti condizioni proletarie non si può fare infatti che preparando
ed attuando l’offensiva in tutti i suoi sviluppi rivoluzionari.
Il Fronte Unico Proletario, proposto dal Partito già fin dall’agosto
dei 1921, non rappresenta quindi una attenuazione del programma comunista,
ma vuol dire lottare per tale programma nel senso di preparare una situazione
in cui l’azione offensiva di tutto il proletariato possa raccordarsi
con l’indirizzo rivoluzionario comunista. Il fronte unico non è l’espressione
della nostra "disperazione", come vogliono far credere gli opportunisti,
bensì il prodotto della spirale ascendente della rivoluzione.
FRONTE UNICO POLITICO
E GOVERNO OPERAIO
Mentre il Partito Comunista d’Italia sostiene la necessità di costituire
il Fronte unico sindacale, l’Internazionale Comunista tende a proiettare
anche sul terreno politico tale metodo proponendo il Fronte unico dei partiti
proletari. Questa tattica, ribadita anche nella riunione dei Comitato Esecutivo
allargato del Comintern riunitosi a Mosca nel febbraio del 1922, trovò
assai critico il Partito Comunista d’Italia, che tramite i suoi delegati
espose di fronte all’Esecutivo dell’Internazionale il proprio punto
di vista, anticipando tuttavia la propria disciplina alle decisioni che
saranno prese dell’Internazionale.
La posizione del P.C.d’I., espressa da Terracini e Repossi nella riunione
dell’Esecutivo Allargato dell’Internazionale, riscosse il consenso
dei delegati francesi e spagnoli, i quali si trovarono concordi con i compagni
italiani nel sostenere che ogni azione a favore della causa proletaria
e per gli interessi immediati delle masse lavoratrici dovesse essere condotta
al di fuori di ogni ravvicinamento con altri partiti, anche se definiti
proletari.
I delegati italiani, francesi e spagnoli, come dichiarato nella loro
opposizione al Fronte Unico Politico, così si dimostrarono contrari alla
partecipazione dell’Internazionale Comunista alle conferenze delle tre
Internazionali (Terza, Seconda e Internazionale Due e mezzo), proposte
dall’Internazionale di Vienna per stabilire un programma di azione comune
contro la reazione borghese. Da parte dei delegati italiani venne invece
proposto un incontro fra le organizzazioni sindacali di ogni sfumatura.
L’opposizione del P.C.d’I. al Fronte Unico Politico non è frutto
di purismo teorico o di intransigenza aprioristica, ma è la realtà stessa
che l’impone, se si vuole procedere sulla via che introduce alla rivoluzione.
La questione del Fronte Unico Politico fu dibattuta al secondo Congresso
del Partito Comunista svoltosi nel marzo a Roma. A tale congresso partecipò
Kolarof, rappresentante dell’Esecutivo del Comintern, il quale nel suo
discorso sottolineò che se il P.C.d’I. non avesse aderito al Fronte
Unico Politico si sarebbe trovato automaticamente tagliato fuori dalla
direzione della lotta; ed aggiunse che il suo metodo dell’unità sindacale
si riallacciava in certo qual modo alla concezione sindacalista, che negava
la funzione ed il ruolo determinante del Partito Comunista come organo
direttivo della lotta.
I motivi per cui il P.C.d’I. fu contrario al Fronte Unico Politico
sono contenuti nelle Tesi sulla tattica, presentate nel Congresso di Roma
da Terracini e Bordiga. Quest’ultimo sottolineò che, se si continuerà
ad esagerare nel metodo delle illimitate oscillazioni tattiche e delle
coincidenze contingenti fra le opposte parti politiche, verrà demolito
a poco a poco il risultato di sanguinose esperienze di lotta di classe,
per arrivare, non a geniali successi, ma allo svuotamento delle energie
rivoluzionarie del proletariato, correndo il rischio che ancora una volta
l’opportunismo celebri i suoi saturnali sulla sconfitta della rivoluzione,
le cui forze dipinge come incerte, esitanti ed avviate sulla via di Damasco.
Il Fronte Unico Politico, secondo i suoi sostenitori, agevolerebbe la
conquista delle masse alla causa comunista e darebbe al partito la possibilità
di avere la maggioranza del proletariato. È innegabile che il partito,
ai fini del successo rivoluzionario, debba avere la più grande influenza
possibile sulle masse proletarie, ma al tempo stesso deve guardarsi dal
pericolo e dalla illusoria speranza di ottenere per vie devianti da quella
corretta questa vasta influenza sulla classe. La nota espressione di Lenin
«dobbiamo avere la maggioranza del proletariato» non significa che i
partiti comunisti debbano spostare le proprie basi programmatiche, alterare
la loro inconfondibile fisionomia, perché così facendo è più facile
ottenere la maggioranza. Si ripeterebbe infatti l’errore commesso dal
partito cecoslovacco, il quale allargando le maglie del proprio programma
e dei suoi stessi principi, era arrivato ad avere 400.000 iscritti, ma
di fronte alle dure lotte sociali dimostrò un vergognoso passivismo.
Nelle tesi sulla tattica presentate al secondo Congresso del Partito
Comunista viene ribadita la stretta connessione esistente fra direttive
programmatiche e norme tattiche. Nella tesi 31 è detto che il partito
non può proporsi una tattica con criterio occasionale e temporaneo, calcolando
di poter eseguire in seguito una brusca conversione ed un cambiamento di
fronte, mutando in nemici gli alleati di ieri. Se non si vogliono compromettere
i legami con le masse ed il loro rafforzamento nel momento in cui sarà
più necessario che si manifesti, si dovrà seguire una continuità di
metodo strettamente coerente con la propaganda e con la preparazione ininterrotta
per la lotta finale. Le norme tattiche dunque non devono essere mai in
contraddizione con le esigenze ulteriori della lotta, secondo il programma
di cui il Partito Comunista è il solo assertore e per il quale nel momento
decisivo sarà anche l’unico partito a combattere. I limiti della tattica
li ha fissati la realtà stessa e non possono essere cancellati senza sacrificare
la prima condizione soggettiva della vittoria rivoluzionaria, cioè la
continuità del programma, dell’azione pratica e dell’organizzazione.
Il contenuto e l’indirizzo programmatico del partito, che, nella sua
milizia e in quella più vasta che inquadra sindacalmente e in altri campi,
non è una macchina bruta né un esercito passivo, possono essere influenzati
sfavorevolmente da una tattica errata, infatti essa reagisce sull’organismo
che la pratica, modificandolo, se discordante dalle basi programmatiche,
nella sua struttura, nella sua capacità e modo di agire ed alla lunga
negli stessi principi, per quanto accanitamente e sinceramente difesi.
Nelle Tesi sulla tattica presentate al secondo Congresso Comunista di Roma
vengono inoltre ribaditi i caratteri fondamentali del partito, che sono
la sua unità e omogeneità, l’assoluta indipendenza e l’attitudine
pratica di stretta opposizione allo Stato borghese ed agli altri partiti.
L’attività di opposizione politica del partito consiste nella costante
affermazione della tesi dell’insufficienza di ogni azione che miri alla
conquista democratica del potere e di ogni lotta politica che voglia mantenersi
sul terreno legale e pacifico; significa critica continua e divisione netta
di responsabilità dall’operato dei governi e dei partiti legali; vuole
dire inoltre formazione ed azione di organi di lotta che solo il partito
può costruire e rendere operanti, contro e fuori il meccanismo legalitario
dello Stato borghese. Ogni piano tattico in cui il Partito Comunista assumesse
iniziative od atteggiamenti tali da annullare od inficiare ai propri occhi
ed a quelli del proletariato i caratteri distintivi ed i confini delimitati
della propria indipendente esistenza, non solo sarebbe sterile, ma comprometterebbe
lo stesso contenuto programmatico e le condizioni indispensabili del processo
rivoluzionario.
L’assoluta indipendenza del Partito, concetto ribadito più volte
dall’Internazionale Comunista, non è però una categoria metafisica,
ma un fatto reale. Essa viene minacciata ed anche distrutta attraverso
l’adesione del partito ad iniziative di azione comune al fianco di altri
partiti, come nel Fronte Unico Politico, o ad alleanze parlamentari nel
caso del Governo Operaio. Tollerare alleanze con altri schieramenti politici
vorrebbe dire inoltre mettere in pericolo quel tanto di preparazione rivoluzionaria
raggiunta dal partito nella propria organizzazione e nell’inquadramento
di parte del proletariato. Ai fini del successo rivoluzionario è indispensabile
invece che il partito conservi sempre intatta la propria fisionomia, tutte
le sue posizioni di battaglia, senza fondersi e quindi confondersi, come
nel Fronte Unico Politico, con coloro che nel momento supremo devono per
forza di cose schierarsi dalla parte dell’avversario.
Non è che i comunisti rifiutino di stringere la mano ai capi socialdemocratici
per qualche sentimentalismo, infatti sono disposti a sedere allo stesso
tavolo con chiunque nella organizzazione sindacale. Sul terreno politico,
afferma Bordiga a nome dell’esecutivo del Partito Comunista d’Italia
«ci
rifiutiamo di stringere la mano ai Noske e agli Scheidemann, noi rifiutiamo
di stringere queste mani non perché siano bagnate del sangue della Luxemburg
e di Liebknecht, ma sappiamo che, se queste mani non fossero già state
strette da comunisti subito dopo la guerra, assai probabilmente in Germania
il movimento rivoluzionario del proletariato avrebbe già avuto il suo
sbocco vittorioso».
Accettare la tattica del Fronte Unico Politico significherebbe inoltre
mettere il Partito Comunista allo stesso livello dei partiti socialdemocratici,
pacifisti e legalitari, ottenebrando agli occhi della classe proletaria
la chiara visione dell’abisso che esiste "fra noi e gli altri".
Nel Fronte Unico Politico il partito non assolverebbe più al suo compito
insostituibile di preparazione rivoluzionaria, mentre si troverebbe costretto
ad accettare la corresponsabilità di azioni che possono essere dirette
da altri elementi politici prevalenti nella coalizione, la cui disciplina
si sia preventivamente riconosciuta, senza di che non vi può essere nessuna
coalizione.
Nel Fronte Unico dei partiti proletari si sarebbero determinati gli
stessi risultati riscontrati, con disastroso effetto, all’interno del
P.S.I. per la convivenza di opposte tendenze.
Come netta fu l’opposizione del Partito Comunista d’Italia verso
il Fronte Unico Politico così altrettanto decisa e ferma fu la posizione
contro il Governo Operaio, la cui realizzazione trovava sempre più sostenitori
all’interno dell’Internazionale. In una serie di articoli Radek era
giunto a proporre il Fronte Unico Proletario ai fini della formazione di
un Governo Operaio. Egli si riferiva alla situazione tedesca sulla quale
gravava il peso delle riparazioni di guerra dovute ai paesi dell’Intesa
vincitori del conflitto mondiale. Per realizzare il valore delle indennità
da pagare la classe lavoratrice della Germania era soggetta ad uno sfruttamento
senza limiti da parte della propria borghesia. Radek sottolinea come la
formazione di un Governo Operaio sia voluto dalle masse; inoltre, attraverso
tale soluzione, sarebbero stati i capitalisti tedeschi a dover pagare le
riparazioni di guerra dovute alle potenze dell’Intesa e non i lavoratori.
La costituzione di un Governo Operaio in Germania, determinando una situazione
di guerra civile, viene presentata come un passo avanti sulla via della
rivoluzione, in quanto il proletario tedesco si sarebbe reso conto che
non esisteva altra via di sbocco se non l’abbattimento violento del potere
borghese e l’instaurazione della propria dittatura.
Tale tattica proposta da Radek e sostenuta dal Partito Comunista Tedesco
presenta gravi insidie. È innegabile che le masse, per il loro limitato
grado di coscienza politica e sotto l’influsso nefasto dei capi socialdemocratici,
possano ritenere un’azione condotta attraverso l’apparato statale borghese
in grado di risolvere i loro impellenti problemi, e quindi desiderino un
governo il quale, ad esempio in Germania, decida che il peso del pagamento
delle riparazioni di guerra gravi sui capitalisti e non sulla classe lavoratrice.
Ciò però non è un elemento valido per spingere i partiti comunisti a
sposare questo atteggiamento ed assecondare tale spinta delle masse; infatti,
se è vero che il Partito Comunista deve sostenere ed appoggiare i movimenti
di tutti gli sfruttati in difesa dei loro interessi vitali, è anche altrettanto
vero che non può avvenire fuori di ogni limite, ossia rischiando di compromettere
la propria indipendenza, nonché la sua attitudine pratica di opposizione
netta allo Stato borghese ed agli altri partiti politici.
La tattica del Governo Operaio, invece, prevede l’utilizzazione dell’apparato
statale borghese e comporta un avvicinamento ed un’intesa con gli altri
partiti cosiddetti proletari, ma che in realtà non lo sono. Il carattere
proletario dei partiti non deriva dal fatto che essi reclutino i propri
aderenti nella classe lavoratrice, escludendo la loro posizione verso lo
Stato ed il suo apparato. Un partito che si chiude volontariamente nei
confini della legalità, ossia che non concepisce altra azione politica
che quella esplicabile nell’ambito delle istituzioni statali non può
essere un partito proletario, bensì borghese. Esso non fa che il gioco
della borghesia, la quale con ogni mezzo cerca di diffondere nella classe
lavoratrice la persuasione che per ottenere una soluzione dei suoi problemi
vitali non è necessario ricorrere all’uso di mezzi violenti e propone
al proletariato come armi di difesa l’impiego pacifico dell’apparato
democratico statale e l’utilizzo delle istituzioni legali.
Tesi fondamentale della dottrina marxista è che la via attraverso la
quale la classe operaia giungerà a fare trionfare la propria causa dovrà
passare per la distruzione della macchina statale borghese. Non basta che
di tale tesi da parte comunista ci si limiti a riconoscere la validità,
ma bisogna che i partiti comunisti, per la vittoria finale del proletariato,
anche nei periodi che precedono la fase suprema della lotta in cui tale
necessità diventerà tangibile ed indispensabile, devono farne il motivo
informatore della loro azione. L’accettazione da parte comunista di utilizzare
il meccanismo statale borghese nella situazione attuale sarebbe in contrasto
con i propri contenuti programmatici e comprometterebbe l’esito finale
del processo rivoluzionario.
Se un giorno le masse lavoratrici, ancora illuse dal miraggio riformista
dei partiti socialdemocratici e non in grado di vedere quegli obiettivi
rivoluzionari più lontani, di cui ha coscienza il Partito Comunista, si
trovassero di fronte alla constatazione che ogni tentativo di riscossa
è inutile se non si viene a cozzare contro la macchina statale borghese,
ma nelle precedenti fasi fosse rimasta gravemente compromessa l’organizzazione
del partito di classe e dei movimenti che lo fiancheggiano (come l’organizzazione
sindacale e militare), ne conseguirebbe che il proletariato si troverebbe
sprovvisto delle armi stesse della sua lotta, cioè del contributo indispensabile
di quella minoranza che ha una chiara e salda visione dei compiti da affrontare
e per averla posseduta da lungo tempo si è data tutta un’organizzazione
ed un allenamento necessario per la vittoria finale della rivoluzione.
Non è pensabile infatti che, quando le menzogne socialdemocratiche
cadano
di fronte all’evidenza dei fatti, si determini automaticamente nelle
masse la volontà di sostenere la lotta contro l’apparato statale borghese,
con i mezzi della guerra rivoluzionaria, per affermare la propria dittatura
di classe, unica soluzione capace di soffocare l’avversario. L’inesperienza
del proletariato ad usare queste armi risolutive tornerebbe a tutto vantaggio
della borghesia. Solo possedendo un saldo punto di riferimento e di sostegno
l’immancabile delusione determinata nella classe proletaria dallo svanire
delle illusioni socialdemocratiche sarà seguita da una conversione sui
metodi di lotta rivoluzionaria. Questo polo di riferimento sarà rappresentato
dal Partito Comunista, stato maggiore della rivoluzione, il quale abbia
impostato tutta un’opera di preparazione sul terreno della lotta antilegalitaria.
Con la tattica del Governo Operaio, che comporta l’accettazione dei
sistema istituzionale borghese, come potrebbe il Partito Comunista essere
un domani punto di riferimento delle masse per portare avanti la lotta
rivoluzionaria contro lo Stato capitalista? Nel Governo Operaio il Partito
Comunista dovrebbe rinunciare alla propria assoluta indipendenza per allearsi
con i partiti socialdemocratici, in combinazioni parlamentari e ministeriali.
Ma il compito svolto dalla socialdemocrazia nella storia non costituisce
un’incognita, infatti ormai consolidato è il ruolo controrivoluzionario
ed anti-proletario dei partiti socialdemocratici, e proprio questo vieta
di gettare ponti o tendere la mano verso coloro che sono nemici sperimentati.
La situazione determinatasi in Germania lo conferma inequivocabilmente,
infatti il governo socialdemocratico ha instaurato un clima terroristico
nei confronti dei proletariato tedesco. Decine di migliaia di operai sono
stati martoriati, condannati, uccisi ed ogni tentativo di difesa della
classe lavoratrice è stato soffocato nel sangue. «Stringere un’alleanza
con i partiti socialdemocratici dunque a che scopo? Per fare ciò che essi
sanno, possono e vogliono fare, oppure per chiedere loro ciò che non sanno,
non possono e non vogliono fare?».
La tattica del Governo Operaio viene sostenuta da Kolarof, rappresentante
dell’Esecutivo del Comintern, al secondo Congresso Comunista di Roma,
e dal delegato del Partito Comunista Tedesco. Quest’ultimo difese a spada
tratta la realizzazione del Governo Operaio, definito anti-borghese, in
quanto esso avrebbe permesso al proletariato di estendere il proprio potere
pur nell’ambito del sistema di produzione capitalista e della struttura
sociale borghese. Il Governo Operaio viene presentato come un mezzo di
transizione, di trapasso verso l’attacco rivoluzionario al potere.
Bordiga nella sua replica sottolineò che non può esistere Governo
Operaio che non sia costituito sulle basi della vittoria rivoluzionaria
del proletariato. Inoltre tale tattica si oppone a tutti i principi fondamentali
dei comunismo. Il Governo Operaio infatti compromette l’indipendenza
reale dei partiti comunisti; è in contrasto con la dottrina marxista che
esclude soluzioni intermedie tra la dittatura borghese e quella proletaria
ed indica nell’abbattimento violento del potere borghese l’unica via
di uscita dalla situazione in cui si trova il proletariato; inoltre si
pone contro le basi stesse del parlamentarismo rivoluzionario, strumento
di eversione degli istituti rappresentativi borghesi, e misconosce la concezione
marxista dello Stato.
Va aggiunto anche che è inspiegabile come, nel Governo Operaio, ritenuto
uno strumento rivoluzionario, la socialdemocrazia non assolverebbe più
al suo compito di conservazione del sistema borghese, ma diverrebbe un
suo possibile fermento dissolutore.
Nessun elemento dunque può indurre ad attribuire una benché minima
efficienza rivoluzionaria ad un Governo Operaio che si realizzi nell’ambito
delle istituzioni democratiche, le quali costituiscono nient’altro che
l’inganno liberalesco della borghesia.
Il Governo Operaio, in seno all’Internazionale Comunista, arriverà
addirittura ad essere sinonimo di Dittatura Proletaria e costituirà parola
d’ordine del Comintern stesso. I motivi dell’opposizione del Partito
Comunista d’Italia alla tattica del Fronte Unico Politico e del Governo
Operaio, proposta dall’Internazionale, sono sviluppati da Bordiga nel
Congresso di Roma. Questi terminò la sua replica affermando che
«il Partito Comunista sarà sempre al fianco del più umile gruppo
degli sfruttati che chiede un pezzo di pane e lo difende dall’insaziabile
ingordigia padronale, ma la sua azione di difesa della classe proletaria
non sarà mai condotta avanti nell’ambito del meccanismo istituzionale
borghese, bensì contro di esso e chiunque si ponga sullo stesso terreno».
Tale infatti l’insegnamento della dottrina marxista, i cui principi
devono essere seguiti con continuità, sia che la via della redenzione
proletaria conduca i militanti comunisti al sacrificio come alla vittoria,
sia che li collochi nella falange dei trionfatori che nell’ultimo manipolo
di combattenti per il comunismo.
[Il Partito Comunista n. 39, novembre 1977]
LE POSIZIONI COLLABORAZIONISTE
DEI RIFORMISTI
Mentre il Partito Comunista d’Italia invita tutti i lavoratori a formare
il Fronte Unico Proletario in risposta alla violenta offensiva politica
ed economica della borghesia, i riformisti della C.G.L. e del P.S.I., temendo
lo slancio delle masse, antepongono all’azione diretta di tutti gli sfruttati
la tribuna parlamentare, le anticamere dei ministeri, che sono il loro
terreno preferito. Il Consiglio Direttivo della Confederazione Generale
del Lavoro ribadisce a chiare note i propri intendimenti collaborazionisti,
mentre i massimalisti, intransigenti solo a parole, non oppongono a tali
direttive un loro programma, confermando la sterilità delle loro posizioni.
Buozzi dichiara apertamente che bisogna essere disposti alla collaborazione
e dare vita ad un governo "migliore"; il quale contenga i postulati più
immediati della classe proletaria e dia garanzia del ripristino delle libertà
elementari.
La posizione collaborazionista dei dirigenti confederali significa che
il proletariato dovrebbe stringersi intorno alla borghesia per aiutarla
a rinsaldare l’economia capitalista sconvolta dalla crisi. Viene così
rifiutata ed esclusa ogni iniziativa di lotta anche per la tendenza a concedere
da parte dei lavoratori al capitalismo tutte le rinunce di cui ha bisogno
nel suo tentativo di ricostruzione. Agli opportunisti della C.G.L. si associano
i riformisti del P.S.I., i quali si dicono disposti ad appoggiare qualunque
governo dia affidamento contro il fascismo.
In realtà la loro collaborazione non mira a combattere il fascismo,
ma a collaborare con esso, che rappresenta la forza repressiva usata dalla
borghesia per ottenere l’assenso del proletariato nel tentativo di rinsaldare
il proprio sistema economico minacciato dalla crisi. Tramite il fascismo
infatti il capitalismo si propone di conseguire un duplice scopo, cioè
allontanare le masse lavoratrici da ogni attacco rivoluzionario e costringerle
ad accettare le imposizioni del padronato. Tale piano è assecondato dalla
complicità dei dirigenti riformisti, che la borghesia stessa ora vuole
al governo per averli corresponsabili nella azione repressiva contro chiunque
guidi il proletariato sul terreno della lotta di classe. Significative
a tale proposito sono le assicurazioni date da Baldesi a Mussolini, che
finge di temere un’ipotetica azione antifascista. La risposta è «noi
non la vogliamo, né la faremo». Scheidemann e Noske non distrussero infatti
le guardie bianche, le arruolarono per uccidere Spartaco, ma Spartaco rinasce
sempre dal suo stesso sangue.
Alla luce dei fatti risulta evidente che le affermazioni di intransigenza,
ribadite nel Congresso Socialista di Milano e nel Consiglio Nazionale tenuto
nel gennaio a Roma, non sono in realtà nient’altro che la foglia di
fico per la fornicazione del P.S.I. con la borghesia. La marcia verso destra
del partito è cosa incontestabile e ciò avviene con la complicità di
Serrati e compagni, i quali rappresentano l’ala maggioritaria e sono
i primi responsabili della politica svolta dal P.S.I. Questi capiscuola
dell’opportunismo intransigente, con la loro aureola massimalista, svolgono
il ruolo di agevolare le manovre al Turati ed ai suoi seguaci, miranti
a fare entrare le masse socialiste, gradatamente ed in modo organico, nell’orbita
dello Stato borghese. Tale conversione è condotta dall’opportunismo
con gradualità: si assicura di giungere alla collaborazione con l’appoggio
di ampi strati proletari. I rimbrotti e le minacce di Serrati, che non
si concretizzano in nulla, non sono altro se non una parte della commedia
indispensabile per il successo dei primi attori, cioè i riformisti, i
quali vogliono celebrare il loro matrimonio ministeriale con la borghesia.
Che il P.S.I. sia un organismo in decomposizione lo conferma in occasione
della caduta del ministero Bonomi, assumendo atteggiamenti possibilistici
e dichiarandosi disposto ad appoggiare con l’astensione un governo migliore,
che dia sufficienti garanzie di voler restaurare la pace all’interno
e di orientare la propria politica internazionale nel senso della ricostruzione
economica dell’Europa.
I tre punti fondamentali (politica di libertà diretta a ristabilire
l’ordine e la legalità; riconoscimento dei diritti della classe lavoratrice;
politica di accordi internazionali miranti alla ricostruzione economica
dell’Europa) posti dal P.S.I. come contropartita per il suo appoggio
indiretto ad un nuovo Governo presentano evidenti contraddizioni con la
dottrina marxista e con l’esperienza delle lotte proletarie.
A proposito del primo punto, il ristabilimento dell’ordine all’interno,
è da sottolineare che ad un governo borghese, "migliore" o "peggiore"
che sia, non può domandarsi se non l’ordine della società capitalista,
di quella società minacciata dalla crisi economica e dall’assalto della
classe lavoratrice finora soggetta. L’ordine borghese non consente, né
può consentire, specialmente nei momenti più acuti della lotta e del
pericolo, la libertà del proletariato, nemico tradizionale della borghesia.
Chiedere il ripristino della legalità significa poi rinnegare ogni azione
rivoluzionaria, che tende a spezzare la legge e l’ordine borghese.
Il secondo punto contenuto nelle richieste del P.S.I. per appoggiare
il nuovo governo, cioè il riconoscimento del diritti della classe lavoratrice,
è inconciliabile con gli insegnamenti deducibili dallo sviluppo della
lotta di classe. Infatti il proletariato può far valere i propri diritti
solo con la propria forza e non demandando ad un ministro borghese tale
compito.
Quanto alla ricostruzione economica dell’Europa essa viene
concepita dal P.S.I. come un riassestamento ed una riorganizzazione della
società borghese e non si pensa neppure ad una ricostruzione su nuove
basi poste dalla vittoria del proletariato.
Con la promessa di astensione dal voto nei confronti di un "governo
migliore" il P.S.I. è già sul terreno della collaborazione, che cerca
di camuffare con la formula "attenuata intransigenza". L’astensione è
il primo passo, quindi si passerà al voto favorevole, per arrivare poi
alla partecipazione ad un governo borghese. I riformisti, socialisti e
confederali ritengono di poter utilizzare la crisi di governo in senso
favorevole al proletariato sostenendo la candidatura di De Nicola o di
Nitti, considerati non reazionari come Giolitti, Bonomi o Orlando. Valorizzando
l’azione parlamentare l’opportunismo vuole far credere che le rivendicazioni
del proletariato possano essere conseguite non attraverso la pressione
dei lavoratori sul terreno dell’azione diretta, ma tramite meccanismi
dello Stato democratico, includendole nel programma di un ministero borghese.
Le insidie contenute nelle manovre parlamentari dei social-riformisti
(i quali nello slancio collaborazionista non esitano ad avvicinarsi ai
popolari per intessere accordi di governo) furono messe in evidenza dal
compagno Gennari nel discorso pronunciato in Parlamento per esporre la
posizione del Partito Comunista d’Italia in riferimento alla crisi di
governo ed alle possibili soluzioni. Gennari sottolineò come tutti i ministeri
borghesi si equivalgono, infatti tutti i governi della borghesia, migliori
o peggiori, con o senza l’appoggio dei socialdemocratici, sono sempre
strenui difensori dello sfruttamento borghese e si pongono come compito
fondamentale la deviazione ed il soffocamento dello spirito rivoluzionario
del proletariato. Le masse lavoratrici il diritto alla vita non possono
attenderlo più dalla politica di De Nicola che da quella di Giolitti,
ma solo nella misura in cui sapranno imporre la propria forza all’avversario
di classe. Ogni ministero infatti fa e farà la sua politica sulla base
dei rapporti di forza tra il fascismo-borghesia ed il fronte di resistenza
proletaria, sabotato dai consumati ruffiani socialdemocratici schierati
a fianco dei carnefici del proletariato.
L’ALLEANZA DEL LAVORO
Lo S.F.I., spinto dalla situazione delle vertenze in corso riguardanti
la categoria dei ferrovieri, propone alle maggiori organizzazioni sindacali
del proletariato (l’U.S.I., la C.G.L., l’Unione Italiana del Lavoro,
la Federazione Nazionale dei Lavoratori dei Porti) di accordarsi su un
programma comune da portare avanti contro l’offensiva politica ed economica
della borghesia. Tale fronte viene denominato Alleanza del Lavoro e si
stabilisce di indire a Genova un convegno allo scopo di tracciarne le direttive
di azione ed eleggere un Comitato Nazionale Unitario. Per un’intesa preliminare
fu decisa una riunione fra il P.S.I., l’Unione Anarchica e il Partito
Repubblicano, in modo che questi partiti esercitassero la loro influenza
sui propri militanti aderenti alle suddette organizzazioni sindacali. Il
Partito Comunista d’Italia ritenne di non dovere intervenire a tale riunione
preparatoria in quanto la presenza dei partiti politici, con l’incompatibilità
dei rispettivi programmi, avrebbe compromesso la riuscita dell’iniziativa.
Il Comitato Sindacale Comunista chiese, tuttavia, che le minoranze sindacali
comuniste presenti nelle suddette organizzazioni economiche avessero, in
proporzione alla loro consistenza, dei rappresentanti nel Convegno di Genova,
in modo che questi potessero portare la voce delle forti correnti proletarie
che erano su posizioni comuniste. La richiesta venne respinta, per cui
dal Comitato Nazionale dell’Alleanza del Lavoro sono esclusi i comunisti,
mentre vi predominano i riformisti. Come obiettivo l’Alleanza del Lavoro
si propone la restaurazione delle pubbliche libertà, del diritto comune
e la difesa delle conquiste di carattere generale conseguite dalla classe
lavoratrice, sia sul terreno economico sia dal lato morale. Per il raggiungimento
di tali fini non è escluso alcun mezzo di lotta sindacale, compreso lo
sciopero generale. Nonostante l’esclusione dal Comitato Nazionale delle
minoranze sindacali comuniste, il Partito Comunista ed il suo Comitato
Sindacale invitano tutti i propri militanti ed i lavoratori che ne seguono
le direttive a riconoscere il Comitato che dirige l’Alleanza del Lavoro
ed a seguire con disciplina le disposizioni che diramerà.
Ciò non esclude che vengano sottolineati i limiti programmatici e di
azione dell’Alleanza dei Lavoro, per cui, al suo costituirsi, appare
un’imperfetta realizzazione del fronte unico sindacale proposto già
dall’agosto 1921 dal Partito Comunista. Al fine che l’Alleanza del
Lavoro divenga una forza reale ed operante in difesa dei lavoratori contro
la reazione borghese, da parte comunista vengono indicati i capisaldi di
cui deve essere materiato il Fronte Unico Sindacale.
Il primo caposaldo è l’impegno effettivo al reciproco sostegno in
un’azione comune di tutti i sindacati in difesa di qualunque di esso
venga colpito dall’offensiva capitalista. Ciò non significa la semplice
solidarietà in favore di una organizzazione sindacale in lotta con le
forze soverchianti dei capitalismo, bensì la mobilitazione di tutto il
fronte sindacale contro il nemico comune.
In secondo luogo occorre stabilire i postulati da difendere con un’azione
unitaria. Questi non possono essere che gli interessi vitali del proletariato.
Quando certi postulati risultano minacciati, assaliti e distrutti per una
categoria di lavoratori tutto il proletariato è colpito. Infatti anche
ogni conquista particolare a cui viene attentato ha un valore generale
che interessa tutti i lavoratori. Con lo schieramento compatto del fronte
sindacale deve essere impedito che pure una sola categorie sia costretta
dall’offensiva capitalistica a subire le rinunce a posizioni già raggiunte.
Risulta pertanto insufficiente la formula approvata nei Convegni dell’Alleanza
del Lavoro che parla di "difesa delle conquiste di ordine generale dei
lavoratori". Il secondo caposaldo indicato da parte comunista è dunque
«la salvaguardia dei postulati che rappresentano il diritto all’esistenza
del proletariato e delle sue organizzazioni, difesa della causa dei disoccupati
e mantenimento di tutti i patti di lavoro vigenti e dei livelli dei salari».
In terzo luogo vanno stabiliti i mezzi di lotta sindacale che le masse
lavoratrici devono adottare per difendersi. Questi non possono consistere
che nell’azione diretta contro la classe padronale e lo sciopero generale
nazionale è l’arma più efficace. Pertanto il terzo caposaldo da porre
alla base del fronte unico sindacale deve essere «l’azione diretta delle
masse e sciopero generale nazionale come mezzo di lotta a cui bisogna tendere
con una decisa preparazione». Nelle formule approvate nel Convegno di
Roma dell’Alleanza del Lavoro, in cui si parla dell’impiego di tutti
i mezzi di lotta sindacale, non escluso lo sciopero generale, non sono
contenute direttive precise di preparazione e di azione, ma tutto è lasciato
nel vago.
La genericità di metodi di lotta racchiude il pericolo che l’attenzione
delle masse lavoratrici sia rivolta verso una speranza contenente solo
elementi di delusione, di ulteriore smarrimento e di demoralizzazione per
le masse operaie, e cioè che da un’azione dello Stato borghese, ottenuta
con la partecipazione delle forze proletarie al gioco parlamentare, in
collaborazione con i partiti della borghesia, si possa attendere la realizzazione
di quelle rivendicazioni indispensabili per le classi lavoratrici, nonché
la limitazione dei soprusi del padronato e del fascismo.
Questa insidia deve essere fugata. Infatti tutti i governi borghesi,
qualunque sia la loro posizione parlamentare, non possono avere nei loro
programmi quei postulati che significano il suicidio per la borghesia.
Anzi, il peggiore trattamento al proletariato verrebbe proprio da quel
governo che potesse calcolare di avere infeudato alla propria politica
la classe lavoratrice attraverso la collaborazione dei suoi dirigenti nel
campo parlamentare. Solo con una pressione ed un’azione diretta le masse
possono imporre all’avversario il rispetto dei propri diritti e delle
proprie organizzazioni.
L’Alleanza del Lavoro, non materiata dei contenuti e dei metodi di
lotta indicati dai comunisti, è un accordo fra capi, non un’unione dei
lavoratori; risulta una vaga intesa formale, che ciascuno può interpretare
a modo suo, adoperando i mezzi di azione preferiti, per cui i riformisti
ricorrono alle loro manovre parlamentari e gli anarchici, magari, al lancio
di bombe. In tale caso non vi sarebbe unità di azione del proletariato,
per cui l’Alleanza del Lavoro sarebbe null’altro che una caricatura
del Fronte Unico Sindacale proposto dai comunisti.
Il Partito Comunista, già al momento della costituzione della Alleanza
del Lavoro, sottolineò il pericolo che a tale organismo i riformisti volessero
dare un valore riduttivo, facendone un mezzo per portare avanti le loro
mire collaborazioniste in vista della formazione di un nuovo governo. Non
è casuale infatti che proprio nel periodo delle crisi ministeriali si
costituisca l’Alleanza del Lavoro. Il Partito Comunista nel suoi comunicati
mette in guardia i propri militanti e tutti i lavoratori, sottolineando
il rischio che l’Alleanza del Lavoro degeneri in senso opportunista e
collaborazionista servendo come elemento della concorrenza parlamentare
fra i vari gruppi interessati alla formazione del nuovo governo. L’unità
sindacale del proletariato verrebbe così risolta a fini ingannevoli, l’azione
di classe si trasformerebbe nella collaborazione con la borghesia.
In Battaglie Sindacali, organo della C.G.L., la salvaguardia
delle otto ore giornaliere di lavoro viene presentata come un elemento
capace di determinare nei lavoratori il fronte unico automatico in quanto
profondamente sentita da tutti, ma non si parla della difesa dei salari
e dei contratti di lavoro vigenti. Anche il P.S.I. nella piattaforma per
l’appoggio ad un nuovo governo, nella parte riguardante le rivendicazioni
economiche, sottolinea la intangibilità delle otto ore, ma non c’è
accenno alla difesa dei salari. In realtà la salvaguardia delle otto ore
non ha valore se viene abbandonata quella dei salari. Infatti, se non si
difendono questi ultimi dai tentativi di riduzione del padronato è inevitabile
che gli operai per vivere accettino di lavorare di più. Tale ulteriore
offerta di mano d’opera determinerà un inasprimento maggiore dei patti
di lavoro e favorirà l’aumento della disoccupazione, su cui specula
il capitalismo. Così verrà assecondato il piano di ricostruzione economica
della borghesia, che si basa sullo svilimento del prezzo della forza lavoro.
I riformisti della C.G.L. e del P.S.I. non insistono sulla difesa del
salario perché questa non può essere fatta con un’azione parlamentare
o conseguita con procedimenti governativi, ma si impone di lottare con
le armi dell’azione diretta ed arrivare alla fusione di tutte le vertenze
nello sciopero generale nazionale. Ma è proprio la mobilitazione delle
masse che gli opportunisti temono, infatti preferiscono muoversi sul terreno
parlamentare e legalitario.
Che i riformisti confederali vogliono servirsi dell’Alleanza del Lavoro
allo scopo di agevolare e valorizzare le manovre compiute dal gruppo socialista
nei corridoi di Montecitorio, sabotando l’unità d’azione delle masse
operaie, lo dimostra chiaramente il comportamento tenuto in occasione dell’agitazione
dei lavoratori del mare. Da questi fu chiesto, al Consiglio Direttivo della
C.G.L., la solidarietà di tutto il proletariato organizzato nella Confederazione.
La risposta fu che non si può parlare di intervento confederale ogni volta
che è in lotta una categoria, inoltre non si può intendere la solidarietà
della C.G.L. ai lavoratori del mare o ad altra categoria come impegno ad
effettuare uno sciopero generale. Mentre Buozzi, Baldesi e D’Aragona
rifiutano di estendere l’agitazione dei lavoratori del mare ad un movimento
più ampio del proletariato italiano e di costituire un fronte unito fra
le stesse categorie inquadrate nella C.G.L., ecco che contemporaneamente
partecipano alla riunione ed ai convegni per la costituzione dell’Alleanza
del Lavoro, la quale avrebbe dovuto essere un organismo di lotta e di azione
comune delle masse lavoratrici.
Con il passare del tempo i limiti dell’Alleanza del Lavoro appaiono
sempre più chiari; balza evidente infatti la volontà dei riformisti,
che sono la maggioranza degli organi direttivi, di risolvere in maniera
puramente burocratica e formale il problema dell’unità sindacale. Con
la costituzione dell’Alleanza del Lavoro i mandarini confederali vogliono
togliersi di dosso le responsabilità nei confronti delle masse lavoratrici
di non avere opposto all’offensiva padronale e fascista un fronte unito
di lotta. Così che un giorno possano dire: «Abbiamo fatto l’unità
sindacale, l’Alleanza del Lavoro, ma non è servito a nulla».
Una conferma delle riserve sollevate da parte comunista sull’Alleanza
del Lavoro e del pericolo che tale organismo sia fatto degenerare in una
speculazione dell’opportunismo per le proprie manovre parlamentari le
offre
Il Mondo, giornale sostenitore di Nitti, che proprio i riformisti
vorrebbero a capo del nuovo governo. Il Mondo si compiace e considera
assai importante il fatto che gli assertori del riformismo, come D’Aragona
e Baldesi, affianchino gli anarco-sindacalisti nell’Alleanza del Lavoro.
Secondo il giornale nittiano i dirigenti della C.G.L., con l’elasticità
della loro tattica, che accanto all’azione parlamentare non esclude il
ricorso alla piazza (ma solo a parole), si propongono di valorizzare l’influenza
del movimento operaio nella politica nazionale fino ad avere una parte
rilevante nella formazione del nuovo governo ed al tempo stesso con la
non esclusione dello sciopero generale riescono a mantenersi il seguito
delle masse abituate alle enunciazioni nette.
Le gravi insidie per il proletariato presenti nella tattica confederale
sono ripetutamente messe in risalto dal Partito Comunista e dal suo Comitato
Sindacale. Inoltre ripetuti appelli sono rivolti a tutti i lavoratori affinché
sostengano i capisaldi indicati dai comunisti come base per il fronte unico
sindacale, in modo che l’Alleanza del Lavoro non costituisca un coefficiente
delle manovre dei social-riformisti tendenti a rimettere nelle mani della
collaborazione ogni criterio di lotta di classe.
Ciò significherebbe immettere il proletariato nella via del disarmo,
abbagliandolo con l’illusione che un Ministero borghese, su posizioni
ritenute più avanzate, possa affrontare e risolvere i problemi vitali
della classe lavoratrice. I risultati sarebbero tragici per il proletariato
in quanto consoli, Bonomi o De Nicola, Giolitti o Nitti, la macchina dello
Stato borghese non ha che piombo, manette e tribunali per i lavoratori
insorti in difesa dei loro diritti, mentre lo stesso trattamento non è
riservato ai fascisti. L’armamento repressivo dello Stato borghese resterà
e verrà applicato con il consenso degli stenterelli sindacali e dei manutengoli
socialdemocratici contro quei proletari che si schiereranno sul fronte
di lotta ad essi interdetto dagli stessi loro rappresentanti, divenuti
le colonne di sostegno della borghesia.
[Il Partito Comunista n. 43, marzo 1978]
ILLUSIONI BLOCCARDE
Nella riunione del Comitato Esecutivo allargato della Terza Internazionale
tenuta a Mosca nel febbraio-marzo 1922 fu deciso di accogliere l’invito
rivolto dalla Internazionale di Vienna e di aderire alla Conferenza delle
tre Internazionali con l’obiettivo di gettare le basi del Fronte Unico
Proletario e stabilire delle direttive comuni di lotta contro l’offensiva
del capitalismo internazionale. I rappresentanti del Partito Comunista
d’Italia, seguiti dai delegati francesi e spagnoli, dichiararono la loro
opposizione a tale iniziativa, in quanto i maggiori esponenti delle Internazionali
di Londra e di Vienna avevano dato e continuavano a fornire evidenti prove
di svolgere una politica contraria alla difesa degli interessi vitali del
proletariato e di essere i veri sabotatori del fronte unico delle masse
lavoratrici. Nonostante la posizione critica sul valore della Conferenza,
i delegati italiani confermarono la loro piena disciplina alle risoluzioni
rese dall’Esecutivo dell’Internazionale Comunista.
La Conferenza delle tre Internazionali si aprì a Berlino nei primi
giorni del mese di aprile, proprio mentre a Genova le maggiori potenze
capitalistiche, sotto il pretesto della ricostruzione economica dell’Europa,
cercavano la maschera migliore per camuffare i loro delitti passati e per
concertare un nuovo saccheggio ai danni della classe proletaria e della
Russia dei Soviet. Dalla Conferenza di Berlino sarebbe dovuta uscire una
risposta unitaria del proletariato internazionale ai disegni dei paesi
capitalistici, i cui rappresentanti a Genova stavano preparando una nuova
pace da briganti, sulle orme del vergognoso trattato di Versailles.
Di fronte alla proposta di convocare nel mese di aprile un congresso
operaio mondiale come contraltare alla Conferenza di Genova, i delegati
della Seconda Internazionale oppongono un netto rifiuto, adducendo false
motivazioni di ordine pratico. Minacciano di abbandonare la conferenza
allorché i rappresentanti della Terza Internazionale insistono affinché
venga inclusa nella dichiarazione ufficiale la richiesta di annullamento
del famigerato trattato di Versailles. L’obiettivo della Seconda Internazionale,
formata da partiti riformisti direttamente legati ai rispettivi governi
borghesi, è quello di non disturbare i lavori dei rappresentanti delle
potenze capitalistiche riunite a Genova, infatti un congresso operaio internazionale
contemporaneo alla conferenza di Genova costituirebbe un intervento proletario
negli affari della diplomazia capitalistica.
Nella mozione ufficiale votata a Berlino dai delegati delle tre Internazionali,
come risposta immediata della classe lavoratrice contro l’offensiva borghese,
vengono proposte delle manifestazioni unitarie da effettuarsi il 20 aprile,
mentre è in pieno svolgimento la conferenza di Genova, o il Primo maggio,
qualora non fosse possibile per ragioni tecniche o di organizzazione indirle
per il 20 aprile. Tali manifestazioni dovranno avere alla base i seguenti
punti: giornata lavorativa di otto ore, lotta alla disoccupazione, azione
comune del proletariato contro l’offensiva capitalista, aiuto e difesa
della Russia dei Soviet, formazione in ogni paese del Fronte Unico Proletario.
Per quanto riguarda la convocazione del Congresso Operaio Mondiale viene
stabilito che un comitato di nove membri si assuma il compito di organizzarlo
al più presto possibile. Per arrivare alla definizione di un programma
di azione comune e per fare avanzare la realizzazione del Fronte Unico
Proletario internazionale, i delegati russi della Terza Internazionale,
Radek e Bucharin, sono costretti ad accettare che nella mozione ufficiale
conclusiva votata a Berlino venisse concesso ai socialrivoluzionari incriminati
in Russia di avere i difensori che vogliono, inoltre sia esclusa la pena
di morte e data la possibilità ai rappresentanti dell’Internazionale
di Londra e di Vienna di assistere al dibattimento processuale. I delegati
russi devono accettare anche che sia riaperta la questione dell’abbattimento
del governo georgiano. Lenin stesso ritiene eccessive queste concessioni
fatte alla borghesia internazionale, tanto più che non c’è stata una
adeguata contropartita, e mette in guardia dal ripetere simili errori.
Lo svolgimento degli avvenimenti successivi alla Conferenza di Berlino
mostra chiaramente come le perplessità avanzate dai delegati del Partito
Comunista d’Italia a Mosca sulla adesione della Terza Internazionale
alla Conferenza di Berlino derivino da valutazioni oggettive. In Olanda,
in Germania ed in altri paesi i socialdemocratici della Seconda Internazionale
non solo non fanno nulla per organizzare le manifestazioni stabilite, ma
anzi con ogni mezzo cercano di sabotarle. Il fine è sempre lo stesso,
cioè l’Internazionale di Londra vuole che la classe operaia resti ferma
e muta, mentre a Genova le potenze borghesi cercano di realizzare i loro
piani. Poiché gli interessi degli Stati capitalistici cozzano in tale
modo fra di loro che neppure la volontà di furto e di sfruttamento comune
del mondo riesce a mettere d’accordo i duci della borghesia internazionale,
per cui la Conferenza di Genova si protrae oltre il previsto, i rappresentanti
della Seconda Internazionale, sempre per non disturbare i disegni dei rispettivi
governi borghesi sostenuti dai loro partiti, cercano di sabotare con ogni
mezzo le riunioni della commissione dei nove, in modo che si allontani
ancora di più nel tempo la possibilità di convocare il Congresso Operaio
Mondiale.
I socialtraditori di Londra arrivano a presentare il Fronte Unico Proletario
come una mascheratura machiavellica della politica estera russa avente
per fine, attraverso la convocazione di un congresso operaio internazionale,
di aggiogare il proletariato mondiale al carro della Russia dei Soviet.
Di fronte a tale accusa i rappresentanti del Partito Comunista Russo si
dichiarano disposti a cancellare dal testo della dichiarazione ufficiale
ogni riferimento riguardante l’aiuto e la difesa della Russia da parte
di tutta la classe lavoratrice.
L’azione sabotatrice della socialdemocrazia non conosce limiti, infatti
nella prima riunione dei comitato dei nove, tenutasi varie settimane dopo
la conferenza di Berlino a causa dell’ostruzionismo dei rappresentanti
della Seconda Internazionale, come premessa indispensabile per arrivare
alla convocazione del Congresso Operaio Mondiale viene presentata dai delegati
dell’Internazionale di Londra la rinuncia da parte dei comunisti ad ogni
critica nei confronti dei capi socialdemocratici e dei dirigenti sindacali
riformisti. Oltre a ciò il governo dei Soviet dovrebbe rinunciare a reprimere
le insurrezioni dei menscevichi in Georgia. Il rispetto della prima clausola
significherebbe per i comunisti la loro completa sottomissione al predominio
dei capi socialriformisti, nonché la rinuncia totale a quegli ideali per
i quali migliaia e migliaia di lavoratori sono caduti in Russia, in Germania
e milioni di proletari lottano in tutto il mondo.
Dare poi libertà ai menscevichi di organizzare rivolte in Georgia equivarrebbe
alla abdicazione del governo sovietico a favore dell’imperialismo francese,
che si presenta difensore dei menscevichi. L’interesse per la situazione
determinatasi in Georgia in seguito all’instaurazione del potere proletario
deriva dal fatto che la Seconda Internazionale è paladina delle mire dei
paesi capitalistici, i quali vedevano nella possibilità di formare uno
"Stato bianco" aperta la via allo sfruttamento dei pozzi di petrolio di
Bakù.
L’Internazionale di Londra nella sua azione di sabotaggio del Fronte
Unico Proletario riceve l’appoggio dell’Internazionale Due e mezzo,
i cui rappresentanti con una infame campagna di menzogne accusano i comunisti
di non volere più il Congresso Operaio Mondiale, in quanto esso costituirebbe
un ostacolo al compromesso che il governo sovietico sarebbe in via di firmare
a Genova con le potenze dell’Intesa. Con tali accuse i dirigenti dell’Internazionale
Due e mezzo si pongono sullo stesso piano dei riformisti dichiarati e non
è un caso che sia stato firmato a Bruxelles un accordo tra il P.S. francese,
appartenente all’Internazionale di Vienna, il Labour Party inglese e
il Partito Operaio Belga, questi ultimi due aderenti alla Seconda Internazionale,
allo scopo di convocare all’Aia un congresso mondiale dei partiti riformisti
e semi-riformisti.
Di fronte alle posizioni prese dalle Internazionali di Vienna e di Londra
non resta ai rappresentanti dell’Internazionale Comunista che abbandonare
la commissione dei nove la quale da strumento per la realizzazione del
Fronte Unico Proletario sta divenendo palestra per le mire dei riformisti
dichiarati e camuffati. L’Esecutivo dell’Internazionale Comunista in
un appello rivolto a tutti i lavoratori, dopo avere constatato che era
fallito per la resistenza dei capi socialdemocratici il tentativo di organizzare
dall’alto in basso il Fronte Unico Proletario, invita la classe lavoratrice
a prendere nelle sue stesse mani la causa del Congresso Operaio Mondiale
costringendo le rispettive organizzazioni a pronunciarsi per l’immediata
convocazione di tale congresso.
IL PERICOLO CENTRISTA
Alla Conferenza di Berlino partecipano anche i rappresentanti del P.S.I.,
nonostante che questo non aderisca ad alcuna delle tre Internazionali.
In tale occasione i socialisti italiani non esitano ad indossare la veste
di rivoluzionari, fedeli al costume proprio dell’opportunismo che ama
presentarsi all’estero come rivoluzionario, mentre nel proprio paese
agisce da socialtraditore. L’anfibio Serrati a Berlino si atteggia a
uomo di estrema sinistra e nel suo rumoroso discorso lancia parole di fuoco
contro i delegati della Seconda Internazionale. Il caposcuola dell’opportunismo
intransigente da vergognoso demagogo sostiene che è da tempo nei suoi
obiettivi costituire il Fronte Unico Proletario mondiale, anzi se ne ascrive
la paternità ed aggiunge che il suo partito si assumerebbe l’incarico
di convocare al più presto in Italia il congresso operaio internazionale
per stabilire un piano di azione comune per tutti i paesi. Nella dichiarazione
presentata alla Conferenza di Berlino da Serrati e compagni sono contenute
affermazioni ed obiettivi di lotta che mirano a far apparire il P.S.I.
come fulcro della rivoluzione.
Ritornati da Berlino i delegati socialisti italiani sottolineano che
troppo poco si era riusciti ad imporre ai rinnegati della Seconda Internazionale,
appena delle manifestazioni per il 20 aprile, nonché delle rivendicazioni
ben modeste, insomma robe degna dei Thomas e dei Vandervelde. Serrati non
esita ad accusare di opportunismo Radek e Bucharin per le concessioni fatte
e la stessa colpa riserva a Cicerin, capo della delegazione russa alla
Conferenza di Genova, per il fatto di aver stretto la mano al re d’Italia.
L’ultrasinistrismo parolaio di Serrati e compagni alla prova dei fatti
è però latitante, cioè confermava una verità oramai consolidata, ossia
il doppio gioco del P.S.I., che da una parte recitava la commedia del rivoluzionarismo
e dall’altra nella pratica faceva una politica che non aveva nulla da
invidiare a quella dei partiti più controrivoluzionari. La premessa di
Serrati per realizzare il Fronte Unico Proletario non è diversa da quella
avanzata dai dirigenti dell’Internazionale di Londra, infatti il direttore
dell’Avanti! scrive che per essere uniti bisogna che i comunisti
rinuncino a dire male dei bonzi e dei mandarini, mutino il loro linguaggio
violento ed attenuino i propri metodi di lotta contro i socialisti. Quale
unità proletaria vada cercando il P.S.I. balza evidente dalla fusione
dei socialisti autonomi genovesi con il P.S.I., che accolse nelle sue file
socialpatrioti, collaborazionisti, massoni interventisti i quali nel 1915
avevano abbandonato l’ideale socialista per sostenere e difendere la
guerra imperialista, esaltatori del generale Cadorna, fucilatori degli
operai torinesi in rivolta contro la guerra. Il P.S.I. accetta gli autonomi
genovesi con tutto il loro passato, di cui nulla hanno rinnegato e si fonde
con chi ha tradito la classe operaia per gli interessi del capitalismo.
In base alle deliberazioni della Conferenza di Berlino, sottoscritte
anche dai delegati del P.S.I. benché ritenute ben poca cosa, il Partito
Comunista d’Italia ed il suo Comitato Sindacale rivolgono ripetuti inviti
all’Alleanza del Lavoro, in cui predominano i socialisti, affinché prepari
ed organizzi le manifestazioni del 20 aprile con gli obiettivi di lotta
e le rivendicazioni stabilite a Berlino riguardanti gli interessi immediati
e vitali dell’intera classe lavoratrice.
L’invito rivolto da parte comunista all’Alleanza del Lavoro deriva
dal fatto che questa rappresenta organismo idoneo per l’esecuzione immediata
dei deliberati di Berlino in quanto, anche se in forma embrionale ed imperfetta,
realizza l’unità del movimento sindacale e costituisce un primo passo
sulla via dell’affermazione del Fronte Unico Proletario. Il Comitato
Direttivo dell’Alleanza del Lavoro non risponde neppure a tale invito,
così pure i dirigenti del P.S.I. si mostrano latitanti nonostante gli
impegni presi a Berlino. Il comportamento degli opportunisti italiani non
è diverso, alla prova dei fatti, da quello dei socialdemocratici tedeschi,
che già all’indomani dell’impegno assunto nella Conferenza di Berlino
rifiutano di prendere parte all’organizzazione delle manifestazioni.
Eppure Serrati non aveva esitato a dare il titolo di rinnegati ai rappresentanti
della Seconda Internazionale.
[Il Partito Comunista n. 44, aprile 1978]
RISPOSTA IMBELLE DEL RIFORMISMO
AGLI ASSALTI FASCISTI
In relazione alla ricorrenza del 1° Maggio l’Internazionale Sindacale
Rossa lancia un appello ai lavoratori di tutti i paesi affinché tale circostanza
rappresenti la risposta proletaria all’offensiva capitalistica e costituisca
il segnale del risveglio della classe lavoratrice internazionale, decisa
a contrattaccare di fronte alla reazione borghese. Come strumento immediato
di lotta viene indicata l’astensione dal lavoro per l’intera giornata.
La ricorrenza del 1° Maggio fa registrare in tutta Italia una partecipazione
numerosa dei lavoratori ai comizi, sui quali si riversa la violenza della
forza pubblica e dei fascisti. A Torino le autorità proibiscono di tenere
manifestazioni all’aperto, per cui come luogo di riunione viene scelto
il palazzo dell’Associazione Generale degli Operai. Carabinieri guardie
regie, plotoni di cavalleria e squadre di fascisti sbarrano le vie di accesso,
nonostante ciò i lavoratori accorrono numerosi.
Il bilancio del 1° Maggio è pesante per la classe proletaria: operai
uccisi, centinaia di feriti, arresti in massa, incendi e devastazioni di
sedi di organizzazioni proletarie, agguati, imboscate contro i lavoratori.
Eppure in un comunicato del governo viene detto che la giornata è trascorsa
tranquilla in tutto il regno.
Il Comitato Sindacale Comunista in seguito ai fatti accaduti il 1°
Maggio provocati dalla reazione del governo e della guardia bianca invita
l’Alleanza del Lavoro a proclamare uno sciopero generale nazionale quale
adeguata risposta alle violenze subite dalle masse proletarie e come unico
mezzo per imporre alla classe dominante il riconoscimento ed il rispetto
dei diritti conquistati dai lavoratori. Di fronte alla proposta comunista
ed alla pressione di ampi strati della classe operaia favorevoli allo sciopero
generale nazionale il Comitato Centrale dell’Alleanza del Lavoro emette
un comunicato in cui è detto che le "comprensibili impazienze" dei lavoratori
non debbono minimamente influire sulla ponderatezza dei dirigenti i quali
si stanno accingendo con mezzi appropriati ad affrontare "l’inderogabile
problema della libertà" e daranno prova di saper assolvere il proprio
mandato. Come risposta immediata della classe lavoratrice "ai profanatori
dei diritti comuni agli uomini civili" i dirigenti dell’Alleanza del
Lavoro non propongono altro se non che "sul capo dei violentatori e degli
oltraggiatori della manifestazione sacra del lavoro cada l’indignazione
e il disprezzo del proletariato". Il comunicato dell’Alleanza del Lavoro,
con le sue frasi piatte e banali, mostra chiaramente il ruolo passivo di
tale organismo che irretisce l’azione della classe operaia disposta a
procedere sulla via della controffensiva di fronte alle provocazioni subite.
Con la fine della Conferenza di Genova si registra in tutta Italia una
violenta ripresa dell’offensiva armata fascista, infatti la parola d’ordine
della canaglia tricolore durante la Conferenza di Genova era stata di "rimanere
fermi con le armi al piede", allo scopo di dare l’impressione ai delegati
stranieri che la reazione fascista sia una invenzione dei comunisti.
La violenza delle guardie bianche si accompagna all’offensiva padronale
sul piano economico. Infatti la borghesia, per superare la crisi che travaglia
il sistema capitalista e per sopravvivere come classe dominante, non ha
altra via che schiacciare il proletariato distruggendo i suoi organi di
difesa e gettandolo nella miseria, in modo che ridotto nell’impotenza
e nella disperazione esso stesso metta le mani nelle catene che lo devono
legare e si lasci aggiogare definitivamente al carro del padrone. La violenza
fascista e l’offensiva padronale hanno dunque lo stesso obbiettivo ed
il loro ripresentarsi in forma ancora più dura attesta l’esistenza di
un preciso piano concertato. Non è casuale infatti che nelle campagne
le squadracce fasciste, instaurando un clima di terrore, costringano i
contadini a subire le pesanti imposizioni degli agrari.
In occasione della ricorrenza del 24 maggio bande fasciste ben armate
ed inquadrate invadono Roma ed aggirandosi liberamente nel quartieri più
popolari della città provocano il proletariato romano. La reazione della
classe lavoratrice della capitale è immediata e viene proclamato uno sciopero
generale di una giornata. Ben più feroce è l’offensiva fascista nell’Emilia
e soprattutto a Bologna, Questa zona costituisce una roccaforte proletaria
e per piegare la volontà di lotta dei braccianti bolognesi gli agrari
li riducono alla fame, importando manodopera dalle province di Modena e
di Ferrara in balia delle guardie bianche. Gli agrari però non riescono
a fiaccare il forte proletariato bolognese, per cui si arriva ad organizzare
un vero e proprio assalto armato alla città ed alle campagne con l’obiettivo
di stroncare definitivamente ogni volontà di resistenza e di riscossa.
Case del popolo, camere del lavoro, cooperative, circoli operai sono distrutti,
lavoratori picchiati a sangue ed uccisi, la città ridotta alla mercé
dei fascisti.
Tutto questo avviene mentre l’Alleanza del Lavoro non dà una parola
d’ordine, una direttiva di lotta ma si limita a deprecare la violenza
fascista ed invita le masse a rimanere disciplinate e a dare esempio di
"civismo". Da parte comunista è sottolineato come i tragici fatti di Bologna
non abbiano solo il valore di episodi locali, ma costituiscano la prima
tappa di un disegno offensivo generale, mirante ad estendere successivamente
in altre province e regioni il regime dei terrore. Mussolini stesso infatti,
annunciando il ritiro delle sue bande vittoriose dal campo di battaglia,
aggiunge minaccioso che la lotta sarebbe ripresa a tempo opportuno. Con
il successo di Bologna, il fascismo, che già dominava le province di Ferrara,
Modena e Rovigo, fa progredire la sua manovra di accerchiamento delle zone
settentrionali, in cui il proletariato dimostrava una maggiore volontà
combattiva. Solo con una mobilitazione generale della classe lavoratrice
si ostacolerebbe la realizzazione dei piani offensivi fascisti di portata
nazionale e si eviterebbe che i sanguinosi fatti di Bologna si verifichino
di nuovo in altre città o province.
L’ALLENZA DEL LAVORO RIFIUTA LA
MOBILITAZIONE OPERAIA
Parallelamente ed in stretta connessione con la dura reazione fascista
si svolge l’offensiva padronale contro le conquiste conseguite dal lavoratori
sul piano salariale e normativo. Gli industriali lombardi del settore metallurgico
disdicono i contratti di lavoro che erano stati prorogati e prospettano
una riduzione del salari, adducendo come motivazione lo stato di crisi
in cui versa l’economia nazionale. Come alternativa minacciano serrate
ed aumento della disoccupazione. Di fronte alla resistenza compatta dei
lavoratori metallurgici lombardi gli industriali avanzano la proposta di
rinunciare alla stipulazione di un contratto collettivo per dare la possibilità
ai vari imprenditori di sistemare la vertenza a seconda delle situazioni
ed arrivare ad intese particolari. La manovra degli industriali lombardi
mirante a spezzare il fronte di resistenza degli operai metallurgici non
ottiene i risultati sperati, in quanto è evidente che gli accordi parziali
restano lettera morta se non si ha la forza adeguata per difenderli. Anche
gli imprenditori della Venezia-Giulia disdicono i contratti dei lavoratori
metallurgici, procedono a licenziamenti su vasta scala, per poi magari
assumere manodopera nuova a salari inferiori. A Torino la direzione della
FIAT annuncia una riduzione dell’indennità caro-viveri suscitando la
reazione immediata delle maestranze, che in segno di protesta nei reparti
incrociano le braccia e rifiutano di proseguire il lavoro.
Da parte comunista viene sottolineato come l’attacco padronale nei
confronti del proletariato metallurgico dei maggiori centri industriali
costituisca la prima tappa di una nuova ondata dell’offensiva capitalista
contro le condizioni dei lavoratori. Una volta infatti avuta ragione della
categoria più combattiva, che era stata in parecchie occasioni all’avanguardia
della classe proletaria, sarebbe stato più facile per il padronato costringere
le altre categorie di lavoratori a subire le proprie imposizioni facendo
a pezzi concordati e patti colonici. Non è quindi un caso che il proletariato
metallurgico, il quale era stato il primo a conquistare le otto ore giornaliere
e migliori condizioni di vita nei luogo di lavoro, sia anche il primo a
subire il massiccio attacco della nuova offensiva padronale. La vertenza
degli operai metallurgici quindi non coinvolge solo gli interessi di questa
categoria, ma riveste un’importanza ben più ampia, in quanto ad essa
si legano le sorti di tutte le altre categorie di lavoratori sulle quali
un domani si riverserà l’offensiva degli imprenditori. Evidenti ragioni
tattiche consigliano gli industriali a non premere simultaneamente sull’intera
classe lavoratrice, ma ad affrontare il nemico categoria per categoria,
località per località.
In relazione al piano strategico del padronato e per il fatto che le
vertenze degli operai metallurgici lombardi, piemontesi e della Venezia
Giulia, sono identiche, da parte comunista viene proposto al Comitato Centrale
della FIOM di promuovere un’azione energica della categoria culminante
in uno sciopero nazionale per l’applicazione del contratto stipulato
nell’Ottobre 1920. E insostenibile infatti perdurare nella tattica del
"caso per caso", che si è rivelata chiaramente fallimentare e di cui gli
operai metallurgici della Liguria, della Lombardia, della Venezia Giulia
hanno già in passato sperimentato le nefaste conseguenze. Per il carattere
generale che ha la vertenza dei metallurgici riguardante la sorte dell’intero
proletariato italiano e per il fatto che anche altre categorie operaie
(edili, chimici, lavoratori della terra, lavoratori del legno, ceramisti)
sono in agitazione o si accingono ad entrarvi, da parte comunista si ribadisce
la necessità di una azione insieme di tutta la classe lavoratrice e viene
indicato nell’Alleanza del Lavoro l’organismo più idoneo a guidare
la controffensiva proletaria nella battaglia contro la reazione capitalista,
che mira a gettare i lavoratori in condizioni tali da non potersi risollevare
per lungo tempo.
Di fronte alle proposte comuniste i mandarini sindacali della FIOM negano
non solo la validità dell’affasciamento delle lotte delle varie categorie
operale, ma anche sono contrari a collegare fra di loro perfino le vertenze
dei metallurgici delle diverse regioni italiane. Buozzi e compagni ripropongono
la inconcludente tattica del "caso per caso", luogo per luogo, fabbrica
per fabbrica, ed accusano i comunisti di essere riesumatori di tesi sindacaliste.
La richiesta dell’intervento dell’Alleanza del Lavoro a sostegno degli
operai metallurgici viene presentata dal segretario della FIOM come inopportuna
in quanto tale organismo non sarebbe preparato ad assumersi la responsabilità
della vertenza metallurgica.
Intanto fra gli operai metallurgici della Lombardia si tiene un referendum
sull’azione di lotta da portare avanti e grazie alla propaganda comunista
la stragrande maggioranza delle maestranze vota contro ogni riduzione dei
salari ed a favore dello sciopero proclamato il primo giugno. Alla FIAT
le trattative sulla questione del caro viveri si svolgono piuttosto a rilento.
La tattica della direzione è di guadagnare tempo ed attendere un chiarimento
nella situazione determinatasi in Lombardia. Rompere le trattative infatti
avrebbe voluto dire favorire l’allargamento della lotta dei metallurgici,
dall’altra parte cedere significava indebolire la posizione degli industriali
metallurgici lombardi.
Mentre il proletariato metallurgico è in lotta in varie regioni d’Italia
e chiede l’intervento al suo fianco dell’Alleanza del Lavoro, ma non
in forma platonica o di vaga solidarietà, il Comitato Centrale dell’Alleanza
del Lavoro emette un comunicato in cui avverte «quanti vorrebbero affidata
a tale organismo la direzione effettiva del movimento salariale che esso
non può e non deve sostituirsi alle organizzazioni competenti e responsabili
nei movimenti interessanti particolari categorie di lavoratori». Viene
aggiunto inoltre che l’Alleanza del Lavoro «vigila ogni movimento ed
è pronta eventualmente ad intervenire se l’ulteriore svolgimento dovesse
assumere un aspetto di ordine generale». E evidente come la tattica del
caso per caso perseguita dai mandarini sindacali impedisce che le agitazioni
locali assumano quell’aspetto generale che solo interesserebbe i dirigenti
dell’Alleanza del Lavoro.
Nel consiglio nazionale della FIOM svoltosi a Genova nella seconda metà
di giugno, da parte comunista è ribadita la necessità urgente di un’azione
generale del proletariato italiano a sostegno dei lavoratori metallurgici,
in quanto questi combattono per una causa comune a tutta la classe operaia.
È vero che la lotta di una categoria alla scala nazionale rappresenta
un notevole passo avanti rispetto alle agitazioni condotte luogo per luogo
o fabbrica per fabbrica, ma può andare incontro ad insuccessi se manca
il sostegno di tutta la classe lavoratrice. L’esempio offerto dagli operai
metallurgici cecoslovacchi ed inglesi è significativo ed insegna a non
ripetere lo stesso errore. Da ciò la necessità di estendere la lotta
a tutte le categorie e di arrivare ad un’azione unitaria dell’intero
proletariato culminante nello sciopero generale nazionale. I mandarini
sindacali della FIOM accusano i comunisti di disfattismo e di essere irresponsabili
provocatori di scioperi.
Nonostante l’opposizione dei massimi dirigenti i delegati presenti
al consiglio nazionale della FIOM in grande maggioranza si pronunciano
per lo sciopero generale metallurgico, per cui Buozzi e compagni devono
acconsentire alla decisione presa nonostante la loro contrarietà. Lo sciopero
viene proclamato il 26 giugno e registra vaste adesioni in tutti i maggiori
centri metallurgici d’Italia.
Se gli operai metallurgici con la loro decisa volontà di lotta riescono
a contrastare l’azione traditrice dei dirigenti social-riformisti, altre
categorie ne pagano invece le pesanti conseguenze. Nelle campagne del milanese,
del mantovano, del cremasco, i contadini, benché pronti a combattere l’offensiva
degli agrari, sono costretti dai capi della Federazione dei Lavoratori
della Terra ad accettare le dure imposizioni dei padronato e restano beffati
con l’istituzione di Comitati Provinciali per la conciliazione delle
vertenze.
La classe lavoratrice si trova dunque fra due fuochi, da una parte l’offensiva
fascista-padronale, dall’altra l’azione caina dei social-traditori,
aventi entrambe lo stesso scopo, cioè lo smantellamento del proletariato
e la distruzione di ogni sua possibilità di riscossa. I social-pacifisti
ritengono ormai giunto il momento opportuno per costruire sulle rovine
delle Case del Popolo la loro fortuna ministeriale, cementandola con il
sangue dei proletari uccisi dai fascisti. Il loro campo di azione preferito
è la cloaca massima di Montecitorio dove attraverso la collaborazione
pensano di dare vita ad un governo capace di sconfiggere il fascismo e
di ripristinare le pubbliche libertà, nonché l’imperio della legge.
Ma il fascismo si vince ponendosi sullo stesso suo piano, accettando la
sfida, schierando agguerrite nel campo di battaglia le falangi dell’esercito
proletario. Infatti è mera illusione credere che le forze della reazione
si possano dominare da Roma e da chi ha in mano le redini del governo centrale.
Quanto al ripristino della libertà ciò sarà possibile per i lavoratori
solo quando avranno sconfitto il loro nemico di classe ed instaurata la
propria dittatura.
[Il Partito Comunista n. 50, ottobre 1978]
AZIONE DIRETTA CONTRO METODI
LEGALITARI
Gli organismi proletari debbono dare proprie indicazioni di azione,
non paralizzarsi per gli inganni della collaborazione borghese. Alla vigilia
dello sciopero generale l’appello dei comunisti è diretto agli operai
e ai contadini di tutta Italia perché non si lascino ingannare sulla possibilità
di una difesa legalitaria, il problema della difesa essendo un problema
di lotta e di combattimento.
«In questo grave momento il partito
grida ancora una volta la sua parola, che è disfattismo non diffondere
con chiara assunzione di responsabilità: Sciopero generale di tutte le
categorie contro l’offensiva borghese, contro il fascismo per riguadagnare
una situazione in cui la classe operaia abbia una piattaforma di potenza
da cui lanciare le forze migliori alle sempre più ardue battaglie».
L’appello continua:
«Chi indugia nell’attesa degli
intrighi di corte e delle manovre di crisi, chi ha dissimulata la necessità
della lotta diretta, chi ha illuso nella possibilità di un ritorno a rapporti
civili delle lotte sociali e ha negato la necessità dell’armamento dei
lavoratori per la propria difesa, quegli ha dato armi all’avversario.
Chi vorrebbe incanalare lo sforzo, formato sulle basi di granito della
lotta di classe, nelle vie traverse dei patteggiamenti della collaborazione?
«Lavoratori! È l’ora di una difesa
disperata. È l’ora delle responsabilità. È l’ora in cui tutte le
forze del lavoro devono saldamente stringersi per la difesa. Fra l’esercito
del lavoro salariato in campo e le forze della classe dominante deve scavarsi
un abisso. Dall’una parte e dall’altra!
«Evviva la riscossa degli operai e contadini
contro la reazione con la forza degli operai e dei contadini!
«Evviva lo sciopero generale nazionale!
Abbasso i traditori!».
Il primo agosto si riunisce il Comitato Centrale dell’Alleanza del Lavoro
il quale dichiara che davanti all’ormai chiara intenzione delle forze
reazionarie di tentare un assalto agli organi dello Stato, «non ritenendo
di avere sufficienti poteri per ordinare a dirigere l’azione difensiva
del proletariato», ha convocato d’urgenza le organizzazioni da esso
rappresentate per le opportune sollecite decisioni.
Seduta stante i rappresentanti delle organizzazioni nazionali hanno
proceduto alla nomina di un Comitato Segreto d’Azione con pieni poteri.
Il Comitato Segreto, appena nominato, si è radunato separatamente per
deliberare sul da farsi e proclama lo sciopero generale. Nel proclama dello
sciopero il Comitato si propone come scopo la difesa delle libertà politiche
e sindacali, e di spezzare l’assalto rivoluzionario difendendo in questo
modo le conquiste della democrazia e salvando la nazione dal baratro, in
cui sta per essere trascinata.
Il proclama: «Dallo sciopero generale deve uscire un solenne ammonimento
al Governo del Paese perché venga posto fine e per sempre ad ogni azione
violatrice delle civili libertà, che debbono trovar presidio e garanzie
nell’imperio della legge». Poi fa appello perché non vengano compiuti
atti di violenza e perché tutto venga eseguito secondo gli ordini delle
Organizzazioni.
Da parte sua il Partito Comunista chiama i lavoratori alla massima disciplina
agli organi dell’Alleanza del Lavoro e a non discutere ora, nel momento
dell’azione, l’impostazione data allo sciopero dai dirigenti della
lotta. La lotta deve portare il proletariato su posizioni di forza e quindi
non si deve rinunciare ad alcun colpo al nemico, ogni patteggiamento con
esso deve essere considerato una rottura del Fronte Unico Proletario.
I fascisti rispondono all’azione proletaria lanciando un manifesto
che dichiara: «Diamo 48 ore di tempo allo Stato perché dia prova della
sua autorità in confronto di tutti i suoi dipendenti e di coloro che attentano
all’esistenza della nazione. Trascorso questo termine il fascismo rivendicherà
piena libertà di azione, si sostituirà allo Stato che avrà ancora una
volta dimostrato la sua impotenza». Anche il governo lancia un appello
al paese risbandierando i soliti motivi di pace tra le classi, dell’amor
patrio verso i figli che si dilaniavano in una lotta fratricida e che si
conclude con tono meno lacrimoso con la minaccia a far rispettare con tutti
i mezzi la legge e la proprietà.
Ogni categoria sindacale lancia appelli ai propri iscritti perché lo
sciopero riesca compatto, perché si intervenga alle manifestazioni pubbliche,
perché nessuno tradisca.
Lo sciopero si realizza con l’astensione generale dei lavoratori,
adesione che viene falsamente sminuita dalla stampa borghese. Il Comitato
Esecutivo del Partito chiede alle organizzazioni periferiche di mandare
notizie dello svolgimento dei fatti, e constata che tutte le forze del
partito hanno assolto il proprio compito con mirabile compattezza.
Mentre l’azione proletaria cresce in potenza e in disciplina chiama
i compagni a osservare la disposizione di cessazione dello sciopero diramata
dall’Alleanza del Lavoro, annunziando un documento dove precisa la sua
posizione dinanzi al modo insufficiente e deplorevole dell’impostazione
e della preparazione dello sciopero che preludeva a una sua strumentalizzazione.
In effetti si era davanti ad un vero tradimento e il colpo alla schiena
era più temibile per quest’ultimatum fascista suggerito dal governo
stesso, consapevole che uno scontro armato con il proletariato non avrebbe
assicurato il successo né ai fascisti né ai governativi e che gli opportunisti
avrebbero capitolato.
A Milano e a Genova lo sciopero divenne vera e propria guerriglia. A
Milano il prefetto consente ai fascisti di condurre alcune vetture tranviarie
che verranno assaltate dagli scioperanti contro i quali poi interverranno
guardie regie e polizia. Anche a Genova guerriglia con tram e auto-blindate.
I fascisti tentarono di assaltare il porto, ma non riuscirono perché era
presidiato da 1.500 operai e forza pubblica.
In tutta Italia comunque poté scatenarsi la controffensiva opportunista
e borghese favorita dall’uso dei mezzi di trasporto per il concentramento
delle bande fasciste nei punti dove la resistenza degli operai era più
forte e vigorosa.
A Milano viene incendiato l’Avanti, nei rioni popolari si hanno
scontri violenti, vengono devastate cooperative e circoli operai, i tranvieri
sono fatti segno a continue violenze e si ritirano conducendo le vetture
in rimessa, quelle che circolano sono condotte da fascisti. Su Milano,
come su molte città pesa l’incubo di una tragedia. A Genova sono in
azione mitragliatrici e auto-blindate, per le strade si combatte di notte
e di giorno. Al porto nonostante l’ordine del segretario dell’Organizzazione
Portuaria la ripresa del lavoro fu parziale. Anche i tranvieri rimandarono
di un giorno la ripresa del lavoro.
Sotto il pretesto di non fomentare la reazione borghese i capi sindacali
sabotano e stroncano le azioni proletarie. Il Consiglio dei Ministri approva
provvedimenti necessari per il ritorno all’ordine pubblico, il governo
emette un programma in un manifesto: «Il Governo ha il supremo dovere
di difendere lo Stato, i suoi istituti, gli interessi generali e i diritti
individuali a qualunque costo, con qualunque mezzo inflessibilmente contro
chiunque vi attenti. Esso adotta i provvedimenti imposti dall’azione
per ristabilire il rispetto della legge, della vita, della proprietà.
Comprendano la realtà in un momento così denso di pericoli e minaccioso
di rovina le fazioni contendenti e rientrino nella disciplina».
Solo in campo, il Partito Comunista, che si era uniformato alla cessazione
dello sciopero, davanti al fatto che ancora in alcune città lo sciopero
continua scrupolosamente, come a Milano, Genova, Ancona, Parma, Gorizia,
Bari, Civitavecchia, ordina quella che deve essere in quella situazione
e in quel preciso momento storico una tattica permanente per il proletariato:
arma contro arma, violenza contro violenza.
La Centrale del Partito in un appello del 6 agosto garantisce il sostegno
nell’azione di guerriglia, procurando di dare alle masse gli elementi
di direzione e di tecnica dell’azione di cui si difetta e chiama alla
lotta gli altri organismi del proletariato che hanno influenza sulle masse
che devono convincersi che ogni visione pacifista e legalitaria è ormai
da abbandonare. Il Comitato Centrale del Partito chiede che sia convocato
immediatamente un convegno dei delegati di tutte le Alleanze del Lavoro
provinciali per esaminare la situazione e predisporre una nuova ondata
dell’azione proletaria.
Intanto viene proclamato lo stato d’assedio a Genova, Milano, Ancona.
Nella calma tornante dappertutto di cui parlano i bollettini del tribunale,
a Genova viene distrutta la sede del lavoro confederale e saccheggiata
la Camera del Lavoro e poi la sede confederale a Bologna. Sarebbe bastato
che i capi dell’Alleanza del Lavoro non avessero smobilitato lo sciopero
perché a 10 giorni di distanza la situazione fosse diversa. Ora i capi
dell’Alleanza tacciono, non spiegano con quali obiettivi hanno lanciato
lo sciopero e con quali intendano affrontare la realtà attuale, non dicono
dietro quali fatti e quali accordi si muovano le loro manovre.
È interessante fermarsi su come si è difesa la città di Torino e
sugli aspetti dell’attacco fascista alle istituzioni operaie. Gli industriali
capaci a riconoscere la forza dei loro avversari furono abili alleati dei
fascisti in quanto procedettero sistematicamente alla distruzione del sistema
dei nessi organici attraverso i quali, partendo dalle fabbriche e dai Consigli
di fabbrica, la grande massa aderiva alla minoranza rivoluzionaria e la
seguiva nelle sue direttive di lotta. Esecutori di questo piano furono
tutti i membri socialisti delle commissioni interne. Venuta meno questa
capacità organizzativa, il partito si preoccupa di ricostruire un sistema
nuovo di collegamento basato sui gruppi comunisti e sul contatto continuo
di essi con tutti gli elementi che scendevano in campo contro il fascismo.
In questo sforzo i comunisti torinesi furono al primo posto e anche dopo
lo sciopero continuarono a mantenere desto il fuoco della guerriglia e
a preparare la trasformazione di essa in guerra vera.
Ancora il 10 agosto alla Camera i comunisti affermavano la necessità
per il proletariato di armarsi. Repossi viene aggredito da un fascista
che tenta di sparargli. Parlando contro i socialisti rivendica la riuscita
dei movimento contro tutte le menzogne che ne erano state diffuse; rivendica
ai comunisti il ruolo di agitatori tra le masse; afferma che la propaganda
dei partito è l’artefice e la responsabile dello sciopero generale e
delle sue più ardite manifestazioni. Repossi poi dichiara che ora i comunisti
devono separare le loro responsabilità da quelle di chi ha avuto la direzione
dei movimento, da chi ne ha deliberata la cessazione prematura, perciò
i comunisti ora chiamano le masse a ritrovare le proprie forze, a ricongiungersi
nelle organizzazioni operaie per seguitare la lotta. Il Partito Comunista
si prefigge ora di inquadrare tutti i lavoratori che conservano in sé
lo spirito della lotta di classe e vogliono resistere con le armi in pugno
al tentativo di stroncare mortalmente le loro forze.
[Il Partito Comunista n. 51, novembre 1978]
I comunisti rivendicano il valore positivo dello sciopero che non è
fallito perché le forze governative e fasciste non hanno indietreggiato
di fronte all’azione operaia, ma perché fu proclamato senza un’estesa
e profonda preparazione politica e psicologica delle azioni operaie, crescenti
in potenza e in estensione e di cui lo sciopero generale avrebbe dovuto
costituire il punto culminante. Lo sciopero mancò anche di direttiva perché
si insinuava che non si dovesse preparare se non si era automaticamente
sicuri di arrivare alla soluzione, nello stesso tempo in cui si faceva
intendere essere uno strumento legalitario per tentare la collaborazione
governativa. Non si indicavano gli scopi immediati, lo sbocco cui tendere.
Solo i comunisti erano stati capaci di dare ai lavoratori la coscienza
dello sciopero, sciopero di avanzata su posizioni ulteriori di lotta, per
un inquadramento superiore, politico e militare, delle masse per il consolidamento
di una loro unità.
Il partito si domanda dopo quei giorni pregni di significato che cosa
aveva mostrato lo sciopero e il suo svolgimento connesso a quello della
crisi del paese. Questa riflessione non porta altro che a constatare che
la
collaborazione e l’azione di massa sono due vie inconciliabili. Quindi
il proletariato può fare le sue scelte alla luce di questa esperienza
pagata col sangue: o l’azione legalitaria attuabile solo col disarmo
e la disgregazione delle sue forze organizzate, e che si realizzerà con
l’alleanza fra social-democratici e fascisti, oppure l’azione delle
masse. Questa può e deve essere preparata solo condannando ogni illusione
democratica e ogni pacifismo, armando e organizzando la guerra di classe.
Lo sciopero di agosto aveva insegnato che le masse potevano contare
soltanto sul Partito Comunista rivoluzionario nelle lotte rivendicative
per l’esistenza quotidiana contro il padronato quando le condizioni storiche
rendono insolubile il conflitto economico tra operai e aziende sul piano
legalitario e pongono all’ordine del giorno lo scontro diretto e frontale
delle due classi.
Aveva inoltre rivelato l’inconsistenza delle cosiddette "sinistre",
gli anarchici, i sindacalisti senza programma, senza disciplina mai disposti
a seguire la compagine del partito. Aveva denunciato il partito socialista
che in quei giorni consumò tutte le sue peggiori carte mascherandosi col
suo operato con massimalisti e serratiani.
Un altro insegnamento fondamentale era che il sindacato è il terreno
della mobilitazione rivoluzionaria delle masse, però solo a condizione
che il partito vi esplichi la sua infaticabile attività per conquistarne
la direzione e non rinunci mai alla sua autonomia e indipendenza tattica
e organizzata. Se il partito non si fosse tenuto fermo su queste basi sarebbe
naufragato nella tattica frontista delle sinistre e avrebbe compromesso
la saldezza dell’organizzazione che gli permetteva ancora di poter esplicare
la funzione direttrice delle masse proletarie.
In un appello ai lavoratori del 15 agosto il partito conferma tutto
ciò e inoltre sottolinea:
«L’Alleanza del Lavoro così
come era costituita non rappresentava quella piattaforma d’azione generale
del proletariato che l’opera dei comunisti tendeva a formare. Le nostre
proposte per poggiarla estesamente sulle masse e sottrarla all’influenza
di pochi alti funzionari del movimento sindacale furono sistematicamente
respinte da tutti gli altri organismi proletari. Anziché rispondere all’incitamento
delle masse alimentato dalla nostra propaganda, l’Alleanza, dopo aver
sempre tergiversato innanzi alla parola sciopero nazionale, ha organizzato
con ordini segreti uno sciopero generale per una data che non aveva significato
alcuno, senza voler fare nessuna preparazione».
Il proletariato non può restare privo di direzione. D’altra parte non
pochi capi sindacali impegnati alla disciplina dell’Alleanza hanno in
modo indegno sabotato l’ordine di sciopero o negato la sua esistenza
nota agli stessi prefetti del regno. Ora che i responsabili di questo disfattismo
non parlano alle masse tradite il Partito Comunista assolve a un suo dovere
denunciando questi che non sono errori ma colpe gravissime. Dopo aver indicato
in tempo utile i pericoli e i metodi per evitarli.
Malgrado tutto questo la lotta non è stata inutile e il proletariato
ha saputo combattere. Il proletariato ha percorso un’altra tappa verso
la sua preparazione a quei metodi di lotta rivoluzionaria che sono imposti
dalla situazione odierna e che sono tanto diversi da quelli tradizionali.
Il partito socialista si decompone dimostrandosi non adatto ad essere
l’organo politico della classe operaia. Già si parla di togliere ai
sindacati ogni carattere rivoluzionario e di operare una fusione dell’organizzazione
rossa con altre organizzazioni, anche con quelle create con la violenza
dagli strumenti diretti del padronato.
Il Partito Comunista è per la più vasta base possibile della organizzazione
professionale perché è convinto che da questa condizione non può che
accelerarsi il sorgere dalle singole lotte economiche, dell’azione politica
e rivoluzionaria. Il sindacato deve restare aperto a tutti i lavoratori,
e libero da ogni influenza limitatrice. Il partito seguita a sostenere
con tutte le sue forze:
1) l’unità sindacale del proletariato italiano al di fuori
di ogni influenza padronale e statale;
2) l’Alleanza del Lavoro deve sopravvivere malgrado e contro
quelli che l’hanno snaturata. Essa deve poggiarsi localmente sulle masse
con elezione diretta dei rappresentanti nei comitati locali proporzionati
alle tendenze politiche e con un organo supremo eletto da un congresso
nazionale dell’Alleanza;
3) l’intesa di tutte le forze proletarie non deve avere per
obiettivo l’assurdo di un governo borghese che restituisca la libertà
e i diritti ma l’affermazione della forza indipendente delle masse;
4) i comunisti sostengono ancora la parola d’ordine generale
come impiego diretto di forza classista e non per cercare la difesa delle
masse nell’azione dello Stato.
La questione sindacale costituisce il punto centrale anche dei Comitati
Centrali fascisti, i quali si preoccupano di concretare al più presto
le relazioni e i rapporti con le corporazioni sindacali. Questa opera è
affiancata dai riformisti che, tacendo delle responsabilità dirette dello
sciopero, tirano fuori la "Costituzione del Carnaro" e dicono di orientarsi
in questo modo per disarmare il fascismo. I riformisti per bocca di Baldesi
affermano che è giusto ciò che affermano i fascisti e cioè che:
1) alla fine di agosto le rappresentanze nei Corpi Consultivi
vengano assegnate a seconda delle forze rappresentate;
2) che vengano rapidamente approvate la legge per la riforma
del Consiglio Superiore del Lavoro e quella per l’iscrizione dei sindacati.
Baldesi afferma: «Se nei corpi consultivi i rappresentanti confederali
vengono a trovarsi in minoranza niente paura, si vedrà quello che sanno
fare gli altri!». Questa che voleva sembrare una ritirata strategica
è un’altra gravissima rinuncia, perché nel Consiglio del Lavoro si
troveranno poi tutti d’accordo: popolari, fascisti e riformisti. Sempre
nell’intervento di Baldesi su Giustizia, alla domanda dell’atteggiamento
che il Partito Socialista e le organizzazioni operaie dovrebbero tenere
in questo momento risponde sostenendo:
1) è necessaria per tutte le organizzazioni l’autonomia da
ogni partito politico, «in questo momento più necessaria che mai!»;
2) in questo momento vi è una sola politica da fare: conservare
le conquiste già strappate, recuperare la libertà, cooperare all’impellente
necessità nazionale di ricostruzione economica del paese.
Questa politica avrebbe l’appoggio delle correnti non reazionarie,
dei ceti medi, degli intellettuali, ma per poterla effettuare sarebbe necessario
che la Confederazione si sciolga dal Partito, così potrebbe essere disarmato
il fascismo che non potrebbe più rivolgere l’accusa alla Confederazione
di violentare le masse lavoratrici. In sintesi rottura del Patto di alleanza
col Partito Socialista.
Il Partito Comunista incita gli operai rivoluzionari a battere il piano
infame che si nasconde dietro questa mossa, il cui scopo non sta nella
rottura del Patto di alleanza, ormai inesistente, ma nello strozzamento
dei gruppi comunisti e chiede subito la convocazione di un congresso nazionale
della Confederazione.
Purtroppo il movimento operaio rivoluzionario deve ricevere un altro
durissimo colpo, che costituisce di fatto la rottura del fronte unico:
il sindacato ferrovieri decide di uscire dall’Alleanza. Il piano è certamente
quello di spezzare le file operaie fino a fare crollare il baluardo intorno
al quale esse potrebbero ancora formarsi e riprendere la lotta. I comunisti
chiedono che sia convocato il congresso del S.F.I. perché la massa possa
giudicare, perché sia chiaro che sono i capi quelli che tradiscono, e
premono perché si convochino tutti i congressi di categoria per arrivare
ad un congresso nazionale e perché l’alleanza non venga spaccata in
quanto è e rimane la forma concreta del Fronte Unico Proletario.
Gli avvenimenti di agosto hanno accelerato lo smascheramento dei nemici
dei proletariato ma per la masse lavoratrici è difficile orientarsi. Così
i comunisti indicano i pericoli del momento:
1) i nemici della classe operaia, social-riformisti e fascisti,
tendono a coalizzarsi per trascinarla sotto il giogo della legalità;
2) la stessa coalizione tende a tagliare ogni legame tra masse
operaie e proletariato rivoluzionario. La lotta della reazione da ora innanzi
sarà rivolta a staccare le avanguardie rivoluzionarie dalla classe operaia;
questo obiettivo verrà perseguito nelle officine, nei campi e nelle miniere.
Davanti a questo pericolo immediato i comunisti ricorrono a tutte le
loro forze, il partito si rivolge ai lavoratori sostenendo di aver sempre
proclamato e desiderato che tutti i lavoratori si trovino uniti nei sindacati
quindi non è tanto preoccupante che si vada verso l’unificazione delle
forze organizzate quanto che questo avvenga a danno del proletariato rivoluzionario.
Contro questo pericolo è necessario che i comunisti si preparino a lottare
e a difendere queste posizioni:
1) intensificare la organizzazione dei gruppi d’officina cercando
di conquistare le commissioni interne;
2) svolgere eguale azione nei sindacati con la creazione dei
gruppi di operai rivoluzionari e servirsi della loro base per impedire
e smascherare alle masse il tradimento dei capi sindacali;
3) mantenere unita l’Alleanza del Lavoro la quale deve rappresentare
le effettive unità del proletariato.
Difatti dallo smarrimento prodotto da certe manovre poteva scaturire
il riconoscimento delle direttive comuniste.
NASCITA DEL SINDACALISMO FASCISTA
Il governo licenzia i ferrovieri, le paghe diminuiscono, è abrogata
l’erogazione dei sussidi ai disoccupati; le bande armate proseguono indisturbate
le loro nequizie. Per impedire che la lotta organizzata si ricostituisca,
la borghesia completa il suo piano offensivo con il tentativo di inquadrare
le corporazioni operaie.
I metodi adottati sostanzialmente sono due: attacco violento e assedio
per fame. Con il primo si spezza ovunque il ritmo della vita sindacale,
si colpiscono i capi, si distruggono le sedi, si terrorizza la massa, ma
esso non basterebbe ad evitare il risorgere delle leghe distrutte per cui
si ricorre alla formazione di nuove organizzazioni tenute in pugno dalle
forze borghesi attraverso la presa per fame.
La disoccupazione infierisce, la violenza abbatte il monopolio delle
organizzazioni rosse e la loro pressione sui datori di lavoro. Il sindacato
fascista riesce a imporsi agendo di concerto col padronato anzi ricevendo
da esso il mandato del reclutamento della mano d’opera, offrendo così
l’alternativa tra lavoro a vile prezzo e la fame.
In alcune zone, come nel Ferrarese, si è già al punto che tutto un
popolo geme sotto uno sfruttamento senza freno. Questi lavoratori anelano
l’ora della vendetta e non basteranno le rivoltellate squadriste a difendere
una simile oppressione da esplosioni di ira proletaria.
Il nodo della questione è che, per quanto sia grave la crisi, la costruzione
di un movimento generale delle masse dei salariati nei limiti della nazione,
ossia delle istituzioni, rimane obiettivo difficile a strappare. Prova
concreta che ancora i baluardi delle organizzazioni operaie non erano stati
distrutti è il Primo Convegno Nazionale dei Gruppi Ferrovieri Comunisti
che si tenne a settembre e che affrontò i seguenti temi: l’azione sindacale
dei ferrovieri comunisti, la ricostruzione del Fronte Unico Proletario,
la convocazione del congresso straordinario S.F.I., il collegamento con
la centrale sindacale rossa di Mosca.
Il congresso nelle giornate di lavoro formula un preciso ed esplicito
programma di ricostruzione e d’azione sindacale. I lavoratori esprimono
punti netti a proposito dei problemi economici e di lavoro dei ferrovieri
e sottolineano che certe conquiste saranno recuperate e altre ottenute
solo se la lotta sarà condotta sul terreno di classe con finalità politiche
e sindacali sempre più vaste e generali.
Nella seconda giornata viene prodotta una mozione in difesa dei colpiti
dall’azione politica ed amministrativa, perché è necessario dare la
sensazione che la solidarietà con i compagni colpiti da punizioni e con
quelli colpiti dal fascismo è superiore alla reazione. Viene presentata
una mozione dove si delibera che venga messa a disposizione del S.F.I.
l’attrezzatura dei gruppi comunisti perché venga mantenuta ovunque l’organizzazione
e il funzionamento delle sezioni del sindacato, anche a carattere riservato
ed illegale, secondo le esigenze che si potranno verificare, e si afferma
che soltanto dalla rinascita di tutte le energie sindacali, di nuove e
più definitive lotte, in una decisa riscossa che conduca il S.F.I. e la
classe lavoratrice alla riconquista di tutta la sua forza, si potrà ottenere
una vittoriosa affermazione dei propri diritti e che solo così si possono
revocare tutte quelle situazioni di licenziamenti e sospensioni che gettano
i lavoratori nella disperazione.
Decreta la costituzione di un fondo di resistenza con sussidi pro-licenziati
e sospesi senza distinzione fra iscritti e non iscritti; la raccolta, l’assegnazione
e il controllo dei sussidi dovranno essere effettuati da una apposita Commissione
Nazionale; stabilisce che anche le conseguenze giudiziarie dovranno essere
compensate con i fondi comuni di cui sopra; delibera inoltre che in attesa
del Congresso i ferrovieri comunisti aderiscano all’Internazionale Sindacale
di Mosca e decide di partecipare al prossimo Congresso dei sindacati rossi
che si terrà a Mosca in ottobre.
Intanto le aggressioni fasciste si susseguono. A Torino viene aggredita
la casa del compagno redattore di Ordine Nuovo, pochi giorni prima
c’era stata la perquisizione al giornale.
L’infaticabile opera del Partito non è vana, il Comitato Comunista
Ferrovieri si incontrò con il Comitato Comunista Sindacale per una riunione
comune della Sinistra Sindacale e viene inviata una lettera aperta delle
due organizzazioni al Comitato Sindacale Terzointernazionalista; al Comitato
Sindacale Massimalista; al Comitato della frazione sindacale dell’U.S.I,;
all’Ufficio Sindacale dell’Unione Anarchica, al Comitato Massimalista
Ferroviario.
Si dice nella lettera, datata 10 settembre 1922:
«Cari compagni, la situazione
del movimento sindacale ci spinge alla presente iniziativa, per il successo
della quale non dubitiamo del vostro efficace concorso (...)
«Equivoche formule collaborazionistiche
e borghesi vengono da più parti affacciate sotto il nome del sindacalismo
nazionale, di movimento operaio entro il campo degli interessi nazionali:
e questo piano non significa altro che il proposito di togliere ai sindacati
ogni efficacia rivoluzionaria e persino ogni effettiva capacità di lotta
contro il padronato nelle stesse contese economiche. Si tende per tal modo
al siluramento del Fronte Unico e dell’Alleanza del Lavoro, e a rendere
impossibile ogni schieramento delle forze proletarie sul terreno della
lotta diretta contro la reazione e contro il fascismo, con i quali stessi
si giungerà in ultima analisi a patteggiare, prima una resa vergognosa,
poi una effettiva alleanza.
«A tale scopo noi riteniamo che le varie
tendenze sovversive militanti nel campo sindacale, restando nettamente
distinte e serbando libertà d’azione non solo per quello che è il loro
programma politico, ma anche nelle loro particolari vedute su dati problemi
di tattica sindacale, possano e debbano stringere tra di loro una intesa
leale per la difesa di alcune posizioni comuni a quanti sono per la causa
della lotta emancipatrice del proletariato. Questi punti, su cui una intesa
dovrebbe effettuarsi, con l’impegno reciproco di coalizzarsi nella loro
affermazione in tutte le adunate proletarie e i congressi sindacati, sono
a nostro modo di vedere i seguenti:
«Le organizzazioni sindacali debbono essere
indipendenti da ogni influenza dello Stato borghese e dei partiti della
classe padronale e la loro bandiera deve essere la emancipazione dei lavoratori
dallo sfruttamento padronale.
«Il Fronte Unico Proletario per la difesa
contro l’offensiva padronale deve essere mantenuto e rinnovato nell’Alleanza
del Lavoro, stretta tra le organizzazioni tra cui sorse e resa tale nella
sua costituzione da rispecchiare le forze e la volontà delle masse.
«Noi quindi vi invitiamo ad un convegno
nel quale una comune dichiarazione da lanciare al proletariato italiano
suggellerebbe una simile intesa, e darebbe a tutte le forze classiste una
chiara piattaforma comune di propaganda e di agitazione suonando severa
rampogna ai pochi che tentennano e defezionano nell’ora del pericolo».
Anche i metallurgici Torinesi si apprestano ad una assemblea generale delle
sezioni metallurgiche per udire la relazione del Consiglio Direttivo. Malgrado
la situazione di paura e di stanchezza la sezione metallurgica è oggi
ancora la più forte, e tra i metallurgici è ancora forte la fiducia nell’organizzazione.
La Camera del Lavoro di Torino risponde alla lettera aperta inviata dalle
organizzazioni comuniste. Risponde con un manifesto-appello dove si difende
il carattere classista dei sindacati.
«Lavoratori, Lavoratrici!
«Sottoposta ad un intenso sfruttamento
nelle officine e nei campi, assalita violentemente con il ferro e con il
fuoco nelle piazze, nelle proprie sedi e perfino nelle private abitazioni;
oppressa dalla disoccupazione, dalla miseria e dalla fame; disorientata
dalla menzogna, dall’inganno e dal tradimento dei suoi capi. Questa la
situazione nella quale trovasi oggi la classe lavoratrice. Sperimentata
attraverso una serie di successive sconfitte l’inanità delle lotte isolate,
maturò nella coscienza proletaria la necessità del fronte unico e dell’azione
simultanea di tutte le forze operaie. Sorse l’Alleanza del Lavoro e sotto
l’incoercibile pressione degli avvenimenti e della volontà delle masse
si giunse allo sciopero generale nazionale. Scopo di questo movimento doveva
essere l’arresto dell’offensiva capitalistica, la possibilità della
riorganizzazione delle schiere proletarie per le future battaglie, l’affermarsi
di una più sicura coscienza e fiducia delle proprie forze tra le masse
lavoratrici.
«Questi scopi non furono raggiunti per
l’inettitudine e l’incapacità dei dirigenti riformisti, che un’azione
di così grande importanza per gli interessi del proletariato non seppero
preparare, dirigere e neanche far cessare. E nonostante la dimostrazione
della grande forza e capacità d’azione che tuttora esiste nella massa
lavoratrice, la mancata vittoria, ha diffuso tra le sue file la delusione
e lo scetticismo. Molti non portano più alla loro organizzazione quel
contributo di attività che dà vita all’organizzazione stessa, altri
si sono appartati sfiduciati e altri ancora per cause diverse non sempre
dipendenti dalla loro volontà si sono lasciati inquadrare nei sindacati
fascisti che rinnegano tutti i principi, le idealità, i metodi e le aspirazioni
della lotta di classe, del socialismo.
«Il sorgere del sindacalismo fascista
segna una nuova fase dell’offensiva padronale. Non solo si vuole oggi
stringere sempre di più le catene della schiavitù intorno alla classe
lavoratrice, ma si vuole togliere ad essa ogni speranza anche per il domani.
Si vuole privare il proletariato degli stessi strumenti della lotta di
classe. Ed il pericolo non sarebbe tanto grave se nel seno stesso del proletariato
non vi fossero degli uomini che godono della sua fiducia e lavorano per
l’attuazione di questo piano di tradimento.
«Dopo aver dichiarato "fallito" il Fronte
Unico Proletario, i dirigenti sindacali riformisti si apprestano, con opera
subdola e nascosta, a far causa comune con i sindacati patriottici e nazionali,
portano per tal via la classe lavoratrice ad una nuova e più grave schiavitù.
Una prima manifestazione ufficiale di tale stato di fatto si è avuta nel
tentativo di alcuni dirigenti del sindacato ferrovieri ora sventato. Questo
tentativo di snaturamento del carattere di classe delle organizzazioni
operaie e di rinnegamento delle tradizioni classiste del movimento proletario
italiano, in un momento in cui lo scetticismo domina fra i lavoratori,
appare veramente di una gravità eccezionale.
«Ma un’avanguardia cosciente ed illuminata
del movimento operaio, avvertendo il pericolo, lancia il grido di allarme
ed addita loro la via della salvezza Si tratta in sostanza di realizzare
il fronte unico operaio tra quanti restano fedeli ai principi della lotta
di classe. Noi facciamo nostra questa parola d’ordine e la diffondiamo
fra la massa, rilevandone tutta l’importanza ed utilità, spronando gli
scettici e i dubbiosi a stringersi sempre più compatti intorno alle loro
organizzazioni di classe. È nell’ora torbida del maggior pericolo e
dei più gravi sacrifici che si rivelano i migliori combattenti della causa
proletaria. Ed è in quest’ora grave per il movimento operaio italiano
che l’avanguardia comunista chiama a raccolta intorno a sé tutte le
forze operaie nel cui animo non è ancor spento il ricordo delle gloriose
lotte del passato e la speranza di un migliore avvenire per la classe degli
sfruttati. Oggi più che mai urge essere compatti contro la nuova pericolosa
minaccia che sorge nelle nostre stesse file. Salvare il sindacato rosso
oggi significa conservare la possibilità della riscossa e della vittoria
proletaria per domani. Non tradite la vostra causa, la causa della vostra
classe! La rossa bandiera della lotta di classe è stata e sarà sempre
in testa alle nostre organizzazioni.
«La C.E. della Camera del Lavoro. 14 settembre
1922».
Intanto, mentre continuano le polemiche sulle responsabilità del tradimento
e ne vengono fuori sempre più losche le azioni dei dirigenti, il fatto
politico sul quale si stanno concentrando le attese è il Congresso Socialista
in cui si dà per scontata la scissione. La data del Congresso viene fissata
per ottobre, poiché le diverse frazioni del partito hanno avuto più di
due mesi di tempo, dopo l’ultima crisi di governo e dopo lo sciopero
generale, per fissare il proprio atteggiamento teorico.
I più chiari sono stati i riformisti sia nel Convegno di Milano che
nel Manifesto lanciato alle masse operaie. Dal punto di vista teorico il
Manifesto non contiene niente di nuovo, ma la ripetizione delle critiche
che la socialdemocrazia va ripetendo alle concezioni marxiste. A ciò i
riformisti aggiungono che lo scatenarsi della reazione fascista è dovuto
all’azione dei massimalisti e dei comunisti. Per colpa loro e della loro
intransigenza gli operai e i contadini d’Italia non hanno potuto approfittare
dopo la guerra della propria situazione di forza per conquistarsi nell’ambito
della legalità dei vantaggi reali.
Il manifesto dei riformisti prelude al distacco dei massimalisti. È
più difficile per i lavoratori comprendere l’atteggiamento dei massimalisti.
Da parte loro non c’è chiarezza quando devono esporre le loro direttive.
Certo l’intenzione dei massimalisti non è quella di staccarsi dal partito
per combattere i riformisti: nel campo sindacale lasceranno via libera
ai riformisti, non solo, ma dopo i recenti avvenimenti del Comitato Sindacale
Comunista per un accordo delle Sinistre sindacali, si alleeranno con essi
contro i comunisti. Praticamente i massimalisti sostengono che nel momento
attuale non è possibile far nulla per mutare le condizioni in cui si trova
la classe operaia. In queste condizioni dunque è urgente liquidare nelle
file operaie l’equivoco del massimalismo.
Il movimento dei lavoratori soffre di un disagio profondo dovuto in
parte alla reazione, ma in gran parte alla liquidazione del falso rivoluzionarismo
del Partito Socialista sotto la bandiera del quale si erano raccolte le
masse durante l’ondata del 1919-1920. È attraverso questa liquidazione
che una parte delle masse è stata portata ad abbandonare il terreno dell’organizzazione
politica di classe.
I massimalisti non sono più nelle file degli operai e dei contadini,
ma in quelle dei funzionari; essi però si propongono di sfruttare il grande
prestigio dell’Internazionale Comunista per risollevare la loro credibilità.
Era necessario che le masse operaie capissero che non era sufficiente staccarsi
dai riformisti dopo aver appoggiato e condiviso i loro tradimenti, ma era
necessario avere un programma d’azione, essere dei combattenti per quel
programma e non dei parolai.
Una delle ragioni determinanti della decisione comunista di Livorno
era stata che la coscienza della decomposizione socialista rendeva urgente
la costruzione immediata di un organismo capace di affrontare e di superare
il generale scompaginamento delle organizzazioni rosse che erano nate per
il suo impulso e per la sua propaganda e che si erano sviluppate poggiandosi
sulle sue sezioni ed i suoi militanti.
In questo periodo di tempo che resta per la scomparsa definitiva del
Partito Socialista, la parola d’ordine dei comunisti è, come per il
passato, la lotta aperta contro tutte le frazioni, gruppi e correnti che
tra massimalisti e riformisti tentano di ereditare a proprio vantaggio
la tradizione di lotta del P.S.I. per piani reazionari.
La difesa delle forze rivoluzionarie italiane imponeva due azioni:
1) ricostruire e rafforzare il Fronte Unico con la sua forma
di Alleanza del Lavoro, il che veniva perseguito attraverso l’iniziativa
del Convegno delle frazioni sindacali di sinistra;
2) rinnovare il metodo della lotta proletaria che si esplicherà
nella lotta contro le due frazioni socialiste.
[Il Partito Comunista n. 52, dicembre 1978]
LE DIRETTIVE DELLA III INTERNAZIONALE
AL PROLETARIATO ITALIANO
Il XIX Congresso Socialista opera la separazione dei socialisti dai
riformisti. Serrati ha affermato che la separazione dai destri è stata
resa inevitabile non tanto dai motivi di incompatibilità quanto dalla
necessità di preparare al proletariato un efficace strumento per la lotta
a venire, e cioè un Partito saldo e omogeneo e capace di guidare le masse
sul cammino aspro e difficile della rivoluzione. Ma al di là di questo
pentimento tardivo la questione si poneva nella maniera già fissata a
Livorno e seguita da quella minoranza che uscita allora ha dato vita autonoma
e forza propria di classe all’organizzazione proletaria.
Il Partito Socialista rinnova la sua adesione alla Terza Internazionale
e dà mandato di fiducia alla Direzione con un manifesto al proletariato.
Restano al Partito i segni e le forme esteriori delle sue attività. Si
dichiarano appartenenti il Gruppo Parlamentare Socialista, i deputati che
hanno accettato e accettano il programma di Bologna e che hanno votato
la mozione massimalista (che riportò 32.106 voti uscenti dalla formazione
dei due gruppi massimalisti, con voti 25.399, e i Terzi Internazionalisti,
con voti 6.777. 19.119 i voti per la mozione unitaria. Totale 61.225 iscritti).
Al Congresso Socialista giunge anche il messaggio della III Internazionale
che dà ai socialisti delle direttive precise perché si assumano le proprie
responsabilità in senso rivoluzionario in un così grave momento.
«La scissione tra massimalisti
e riformisti in Italia è ormai un fatto compiuto! Ciò che l’I.C. chiedeva
da due anni or sono si è inevitabilmente avverato. La necessaria operazione
chirurgica ha tardato due anni. La malattia è stata trascurata e ciò
naturalmente ha procurato danni incalcolabili all’organismo del P.S.I.
Le perdite della classe operaia italiana per gli errori dei duci massimalisti
del 1920 sono enormi. La borghesia ha utilizzato gli errori dei socialisti
per consolidarsi e passare all’offensiva sfacciata e cinica contro la
classe operaia italiana.
«Che nel 1920 i capi massimalisti hanno
compiuto un errore terribile lo vede ogni onesto operaio massimalista.
Quando si dice che, nel 1922 la scissione è necessaria, ma nel 1920 la
scissione non era necessaria perché allora – si dice –
non
c’erano fatti concreti che testimoniavano il tradimento dei riformisti,
una simile dichiarazione è o un infantilismo o un tentativo deplorevole
di nascondere agli operai il senso reale degli avvenimenti. Non può dirsi
capo delle masse proletarie quegli che a stento sa trarre una conclusione
giusta con ritardo di alcuni anni; ma quegli invece che rilevando tosto
una corrente al suo primo nascere, sa per tempo avvertire gli operai dei
pericolo che li minaccia. I marxisti ci sono appunto per questo, perché
studiando il processo della lotta di classe, essi sappiano trarre delle
conclusioni da essa e lottare contro il pericolo subito appena nasce. Alla
fine del 1922 è in verità troppo facile vedere dove ci ha portato il
riformismo italiano, quando questi, armi e bagagli, è già passato alla
borghesia.
«Ciò era più difficile due o tre anni
fa. L’I.C. ha visto a tempo opportuno, ma alcuni capi massimalisti o
non hanno visto affatto o coscientemente hanno chiuso gli occhi sul tradimento
dei riformisti. Ma in qualunque modo sia, la situazione in cui si trova
la classe operaia in Italia è tale che gli uomini veramente devoti agli
interessi del proletariato non devono perdere troppo tempo per chiarire
la questione: chi aveva ragione e chi torto.
«Il compito più elementare e urgente
in Italia consiste in ciò: unire il più presto possibile tutte le forze
rivoluzionarie e creare in tal modo un blocco del proletariato contro il
blocco delle forze riformiste-fasciste e imperialiste.
«Compagni massimalisti! Davanti a voi
ci sono due vie: o voi tenterete di creare qualcosa di mezzo, un partito
centrista cosiddetto Indipendente – e allora dopo sei mesi o un
anno il vostro partito diventerebbe di nuovo preda dei riformisti e della
borghesia (un simile partito di mezzo indipendente, centrista nelle attuali
condizioni, nell’attuale processo della lotta di classe in Italia non
potrebbe condurre che un’esistenza miserabile per qualche anno e sarebbe
immancabilmente destinato ad una fine vergognosa) – o seguirete
un’altra via, con risolutezza e senza deviazioni: prenderete l’orientamento
per l’unione con il P.C.d’I.; vi metterete sulla via della lotta veramente
rivoluzionaria e con questo scopo prima di tutto ritornerete sotto la bandiera
dell’I.C. Scegliete, compagni.
«Il vostro congresso deve rendersi conto
dell’importanza della situazione e della scelta. Guardate! Nello stesso
tempo, quando voi massimalisti italiani sotto la pressione degli eventi
strappate finalmente la catena arrugginita che vi unisce con i traditori
riformisti, nel campo internazionale avviene l’unione della Internazionale
Due e Due e mezzo.
«I Centristi, gli indipendenti, come ha
già predetto l’I.C. tanto tempo fa, stanno capitolando davanti ai Noske,
Scheidemann, Renaudel. L’Internazionale Due e mezzo ha cessato di esistere.
Essa ha capitolato e aspetta la grazia della social-democrazia gialla.
E possibile, compagni che non si veda l’enorme importanza di un tale
evento nel campo del movimento operaio internazionale? E possibile che
anche ora non vediate che ci sono due sole vie: o la Seconda Internazionale,
l’Internazionale dei tradimenti, degli equivoci; o la Terza Internazionale,
Internazionale della lotta di classe e del marxismo. Altra via non v’è.
«La tattica del fronte unico propugnata
dalla I.C. si sta attuando con risultati immensi in tutti i paesi di avanzato
movimento operaio. La tattica del fronte unico otterrà anche in Italia
grandi successi se la vostra coscienza saprà rendersi conto dei problemi
che incombono. Se voi sarete decisi, non a parole, ma a fatti, a staccarvi
una volta per sempre dai riformisti e dagli opportunisti; se la scissione
avvenuta non sarà un semplice episodio; se voi vi renderete chiaro conto
di quanto siano inconciliabili il marxismo e il riformismo; se coraggiosamente
correggerete i vostri errori e andrete incontro al P.C.d’I., allora la
classe operaia sentirà subito che è cominciata un’era nuova, che si
inizierà la formazione di un possente blocco proletario. E allora, con
le forze riunite, noi in breve tempo sconfiggeremo radicalmente tutti i
Turati, i D’Aragona, i Modigliani e altri agenti della borghesia.
«O una putrefazione lenta, o la correzione
dei propri errori e il passaggio su altre vie. Bisogna scegliere.
«Da parte sua il C.E. dell’I.C. ha il
sincero desiderio di fare il possibile per facilitarvi il ritorno sotto
la bandiera dell’I.C. La situazione della classe operaia in Italia è
veramente tale che non possiamo permetterci il lusso di una polemica lunga
con quelli che forse in molti punti ancora errano, ma nelle questioni fondamentali
riconoscono i propri errori e sono pronti a correggerli. Il C.E. del Comintern
vi fa le seguenti proposte:
1) Eleggete una delegazione del vostro
congresso; mandatela alla fine di Ottobre a Mosca per il IV congresso mondiale
della I.C. A questa delegazione sarà data la piena possibilità di esporre
il vostro punto di vista davanti alla III Internazionale e sentire l’opinione
della I.C. su quelle questioni che sono di interesse più vitale per il
movimento operaio italiano;
2) Riconoscete la necessità di costruire
nel più breve tempo possibile un Comitato di azione unificato con il P.C.d’I.,
che è ora in Italia l’unico rappresentante dell’I.C. Questo Comitato
d’azione tenti di organizzare, malgrado le profonde divergenze ancora
esistenti, una lotta comune nei sindacati e nel campo politico, una lotta
comune contro la borghesia e i riformisti.
«Questo sarà il miglior mezzo per preparare
l’unità delle forze veramente rivoluzionarie in Italia.
«Ripetiamo, la vostra sorte è nelle vostre
mani. Nuovi errori, nuovi tentennamenti e irresolutezze sarebbero veramente
dei delitti contro la classe operaia in Italia il cui petto i briganti
del fascismo vogliono fare a brandelli e sulla cui testa gracchiano i corvi
neri dei riformismo.
«Ricordate, compagni massimalisti: la
decisione non può essere ritardata. La parola è a voi. Decidetevi!
«Evviva il proletariato rivoluzionario
dell’Italia.
«Il C.E. dell’Internazionale Comunista.
5 ottobre 1922»
Un primo passo verso il fronte unico del proletariato è l’accordo delle
sinistre raggiunto a Milano per la lotta nei sindacati contro le deviazioni
social-riformiste:
«...In base a tali criteri, sui
quali il Consiglio si trova concorde, viene approvata all’unanimità
la seguente Mozione:
«I rappresentanti del Comitato Sindacale
Comunista, del Comitato sindacale Socialista, del Comitato Comunista ferroviario,
della Frazione Sindacalista rivoluzionaria, riuniti a convegno il giorno
8 ottobre 1922,
«esaminata la situazione del movimento
sindacale italiano;
«convinti che nell’interesse e per la
salvezza del proletariato italiano sia indispensabile difendere con un’azione
risoluta e concorde i punti seguenti:
1) le organizzazioni sindacali dei lavoratori devono rimanere
indipendenti da ogni influenza e controllo dello Stato borghese e dei partiti
della classe padronale; loro programma e loro bandiera deve essere la lotta
per l’emancipazione dei lavoratori dallo sfruttamento capitalistico,
le loro file devono essere aperte ad ogni propaganda delle idealità rivoluzionarie
del proletariato;
2) il Fronte Unico Proletario per la difesa e la riscossa
contro le molteplici manifestazioni dell’offensiva borghese deve essere
mantenuto nella forma dell’Alleanza dei Lavoro, stretta tra tutti gli
organismi classisti del proletariato, ma organizzata in modo che essa sia
deliberante a voto maggioritario, ed assicuri la più fedele consultazione
e rappresentanza delle masse, localmente e nazionalmente, con la rappresentanza
proporzionale per ogni sindacato aderente delle frazioni che militano nel
seno del medesimo e anche come necessaria preparazione alla auspicata definitiva
fusione in una sola di tutte le organizzazioni di classe dei lavoratori
italiani;
«convinti che ogni manovra tendente, sotto
varie formulazioni, ad intaccare questi capisaldi, col voler raffrenare
l’azione sindacale entro i limiti delle istituzioni borghesi, escludere
la propaganda e l’azione dei partiti estremi nei sindacati, legalizzare
l’opera e l’attività di essi sullo stesso piano di quello delle corporazioni
dei ceti abbienti per una pretesa collaborazione ricostruttiva dell’economia,
ammainare il glorioso vessillo rosso emblema delle altissime tradizioni
delle classe italiana, corrispondere al tentativo reazionario di stroncare
la lotta di classe, rendere impossibile ogni resistenza dei salariati,
e avvilire a livello schiavistico il tenore di vita delle classi lavoratrici
per consentire alle classi sfruttatrici di consolidare le basi compromesse
del loro dominio;
«impegniamo tutte le forze aderenti agli
organismi convenuti, pur differenziandosi nel sostenere i particolari punti
di vista circa altri problemi di tecnica e politica sindacale, a coalizzarsi
per l’affermazione e la difesa dei capisaldi suddetti, in tutte le adunate
e convegni, congressi dei sindacati e convocazioni comuni ai vari sindacati,
contro proposte e atteggiamenti che tali capisaldi tendessero a ledere,
e a provocare con un attiva campagna delle adunate proletarie voti che
esigano dagli organi centrali dei sindacati nazionali la ripresa dei contatti
per la riorganizzazione immediata dell’Alleanza del Lavoro».
Il Partito Comunista si preoccupa in modo fondamentale ed esclusivo dell’azione
del proletariato contro l’offensiva reazionaria e chiede ai massimalisti
una maggiore chiarezza e che essi dicano apertamente di rinnegare il patto
di pacificazione. I massimalisti tacciono anche sul problema sindacale,
e non si sa che posizione assumano. Nel commentare il deliberato Confederale
di cessare il patto di alleanze con il P.S.I., essi mostrano di credere
che il Congresso rinunzierebbe a ciò. Silenzio anche sul Fronte Unico
e sull’Alleanza. Anzi, da parte loro si riparla di un fronte di partiti
politici, mentre si sa che il Partito Comunista è per il Fronte Unico
dei Sindacati.
Il Partito Comunista richiama i militanti di base del P.S.I., che devono
compiere uno sforzo maggiore per mettersi nella strada dei comunismo. Essi
devono premere sui loro dirigenti, che escano allo scoperto, che abbandonino
la tattica del nullismo.
LE TESI
DI ROMA E IL FRONTE UNICO SINDACALE
Gli avvenimenti che abbiamo illustrato mettono in evidenza alcuni principi
fondamentali sui quali si basa l’azione del Partito in rapporto al movimento
sindacale delle masse lavoratrici. La lezione dei primi anni di esistenza
dei Partito Comunista sono condensate nel "Progetto di programma di azione"
e svolte in aspetto di tesi nelle celebri "Tesi di Roma".
Nel progetto, dopo aver precisato che obiettivo del Partito Comunista
deve essere la dimostrazione alle masse dell’incapacità rivoluzionaria
del Partito Socialista come della sua incapacità di difendere anche i
concreti loro interessi immediati, ciò esige che non si cessi l’opposizione
a tutte le correnti del P.S.I. e che si dichiari impossibile fare opera
comunista rivoluzionaria nelle sue file, e che di fronte alla scissione
del P.S.I. e alla formazione di un partito indipendente, l’azione del
P.C. deve essere tale da impedire che questo partito venga accolto dal
proletariato italiano come un organismo di capacità rivoluzionaria.
Così viene messa a punto la questione dell’azione del Partito:
«La conquista delle masse allo
scopo di prepararle alla lotta per il potere proletario si deve realizzare
con un’azione complessa in tutti i campi della lotta e della vita proletaria
e con la partecipazione del Partito in prima linea, in tutte le lotte anche
parziali e contingenti suscitate dalle condizioni in cui il proletariato
vive. Nel corso della partecipazione del Partito a tali lotte deve essere
in ogni istante posta in rilievo la connessione stretta tra le parole che
il Partito lancia e gli atteggiamenti che assume, ed il conseguimento dei
suoi massimi fini programmatici. È necessario accompagnare tutta questa
opera nel ricchissimo campo dei problemi concreti con una critica incessante
ed una polemica diretta verso gli altri partiti che guidano parte delle
masse anche quando appare che questi possano condividere gli stessi obiettivi
per cui lotta il Partito Comunista.
«Gli elementi guadagnati all’opera del
Partito devono venire solidamente inquadrati nelle varie reti organizzative
di cui il partito dispone e delle quali tende ad ottenere l’incessante
estensione».
Al paragrafo 6 si danno norme pratiche d’azione. La partecipazione del
Partito Comunista alle lotte concrete del proletariato si effettua in primo
luogo con la partecipazione dei membri del Partito all’attività di quegli
organismi associativi delle classi lavoratrici nati per necessità e finalità
economiche come i sindacati, le cooperative, le leghe, le mutue, ecc.
Di massima e sistematicamente i comunisti lavorano in tutti quegli organismi
che sono aperti a tutti i lavoratori e non esigono dai loro aderenti, professione
di fede, religiosa o politica.
Il Partito Comunista tende all’unificazione
dei grandi organismi sindacali classisti e lavora per essa fino alla sua
costituzione.
Sempre al punto 7 leggiamo queste norme particolarmente attuali. Ogni
P.C. deve condurre un’intensa campagna nel senso della ricostruzione
dei sindacato di classe contro il sindacato tricolore. A questo scopo deve
cercare di concludere un’intesa con quelle correnti di sinistra del movimento
sindacale che vogliono tenerlo sulle linee di una lotta di classe rivoluzionaria
e inserire in questa azione la lotta per l’unificazione organizzativa
dei sindacati.
Questa unificazione deve essere perseguita il più ampiamente possibile
senza escludere nemmeno gli elementi di destra che sono inquadrati da riformisti
e sindacalisti, ma deve altresì avere i limiti di mantenere gli organi
sindacali immuni da ogni influenza diretta dello Stato e di partiti e sindacati
padronali.
Nella relazione sulla tattica al II Congresso, di Roma, del 1922 venne
analizzata e approfondita la questione dei rapporto del P.C. con la classe
operaia.
La Sinistra è stata accusata di praticare una tattica sindacalista
anche a proposito del suo modo di intendere il Fronte Unico, che secondo
i dirigenti dell’Internazionale doveva interessare non solo le organizzazioni
economiche e di massa del proletariato ma anche i partiti politici operai:
le Tesi di Roma affrontano
questa questione mettendo in evidenza il carattere politico della
tattica dei Partito:
«È sembrato ad alcuni nostri
compagni dell’Internazionale che la nostra tattica meriti il nome di
sindacalista perché prescinde dal fattore politico. Ciò non è esatto
(...) La verità è che noi stiamo costruendo nei sindacati il nostro solido
congegno per la lotta contro i riformisti. Questo congegno è strumento
prevalentemente politico nella lotta ingaggiata dal proletariato contro
lo sfruttamento capitalista. Il nostro Fronte Unico significa il fronte
di tutte le organizzazioni di lavoratori. Esso varca ogni limite di categoria
e di località. Esso si sforza di cancellare le tendenze corporative che
spesso vengono mascherate sotto un sindacalismo rivoluzionario. Questo
Fronte Unico per il quale noi lottiamo è un patto prevalentemente politico,
perché attraverso la lotta per ottenere la sua organizzazione, ricostituisce
e risviluppa l’inquadramento delle masse proletarie sotto la guida del
partito politico di classe».
Questo chiarimento non solo rigettava le accuse di attivismo sindacale,
in contrasto con l’accusa dell’atteggiamento dottrinario e settario
per cui i comunisti si ritirerebbero nella torre d’avorio, ma
condanna anche atteggiamenti ultrasinistri, che rifiutando di lavorare
nelle organizzazioni economiche operaie, non avevano altra risorsa che
approdare ai margini dell’opportunismo.
Questa rilettura è finalizzata ai nostri compiti, alla tensione del
Partito attuale, verso quegli obiettivi preliminari e storicamente attuali
di penetrazione del programma rivoluzionario e di costruzione di un fronte
di opposizione sindacale.
Ma le furibonde lotte del 1919-1926 insegnano anche che non basta la
conquista di una solida posizione teorica per immunizzare il Partito da
un suo sfaldamento. Ad un saldo possesso dei principi deve corrispondere
un’azione conseguente.
La sinistra non soltanto fu l’unica forza a lanciare la parola d’ordine
in Italia del Fronte Unico, ma fu anche la sola ad applicarlo con evidenti
successi e ciò fu possibile perché il Partito non si mischiò con altri,
non strinse alleanze ideologiche ed organizzative che avrebbero compromesso
l’esistenza del Partito di classe.
L’applicazione della tattica del Fronte Unico fatta dalla Sinistra
fu esemplare per dimostrare due cardini dell’azione comunista:
1) la necessaria partecipazione dei comunisti alle organizzazioni
economiche di classe, con conseguente formazione di gruppi comunisti all’interno
di esse;
2) l’assoluta fedeltà ai principi che non devono essere contrabbandati
per un ipotetico e illusorio successo immediato.
Con ciò la Sinistra non mise mai in discussione la conquista delle
masse, nel senso che il Partito debba abilitarsi a dirigere la lotta generale
del proletariato strappandolo per prima cosa all’influenza dei riformisti
e dei centristi.
La Sinistra fu anche la sola forza a non sopravvalutare il ruolo del
Partito indipendentemente dalle condizioni internazionali e per questo
fu sensibile e attenta più di ogni altra forza al reale andamento dell’economia
capitalistica in una situazione storica in cui ogni tentativo rivoluzionario
dopo la vittoria dell’Ottobre veniva battuto.
Per questo la massima preoccupazione della Sinistra consistette nel
conservare un Partito fedele al marxismo rivoluzionario, che operasse per
quello che le condizioni materiali consentivano alla classe operaia, rifuggendo
soprattutto da tentazioni operaiste o consiliari.