International Communist Party Sulla questione sindacale


Basi di azione del partito nel campo delle lotte economiche proletarie
 
(da Il Partito Comunista nn. 30-33, 38-39, 44-46 dal febbraio 1977 al giugno 1978)


  
 
 
 


L’ARCO STORICO 1926-1945

Il 1926 rappresenta per la classe operaia mondiale un anno cruciale che conclude la sconfitta del movimento rivoluzionario del I dopoguerra: in quest’anno si tiene a Mosca il VI Esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista nel quale la Sinistra Italiana e l’Opposizione Russa diretta da Trotski danno l’ultima battaglia alle forze controrivoluzionarie dello stalinismo ormai imperante in Russia e padrone dell’Internazionale. Si tiene nello stesso anno il Congresso di Lione del Partito Comunista d’Italia nel quale la Sinistra sarà artificiosamente messa in minoranza dalla corrente ordinovista e centrista assoldata a Stalin.

Due terribili sconfitte del proletariato mondiale segnano inoltre quest’anno: il massacro del proletariato cinese a Shanghai da parte delle forze nazionaliste del Kuomintang e la sconfitta dello sciopero generale in Inghilterra. Ambedue queste sconfitte sono il frutto della politica "nazionalista" dello stalinismo che ha sacrificato agli interessi statali della Russia e alle sue necessità diplomatiche le possibilità rivoluzionarie dei proletariato mondiale. Dal 1926 in poi l’Internazionale Comunista diventa una agenzia degli interessi dello Stato russo e dello politica controrivoluzionaria dello stalinismo.

Il partito comunista rivoluzionario non esiste più e le forze che si erano battute contro il prevalere dell’opportunismo staliniano nell’Internazionale o si mantengono su posizioni coerentemente marxiste cercando di trarre il bilancio della sconfitta disastrosa, ma riducendosi sempre più dal punto di vista organizzativo come la Sinistra Italiana, oppure abbandonano il terreno stesso del marxismo ricadendo da una parte nell’anarco-sindacalismo, dall’altra, come la corrente di Trotski, in una prassi veramente opportunista tesa a risalire la corrente sfavorevole con tutti i mezzi e con tutti gli espedienti e, di conseguenza, autodistruggendosi come forze rivoluzionarie.

Le vicende dell’interguerra sono note. Se nel 1928, su ordine di Mosca, si ha una improvvisata recrudescenza della lotta contro l’opportunismo dei partiti socialisti e socialdemocratici, i quali vengono equiparati al fascismo (teoria del "socialfascismo"), nel 1933 siamo al "Patto di unità d’azione" fra il Partito Comunista d’Italia ed il P.S.I. in funzione antifascista e la stessa alleanza fra il nuovo opportunismo staliniano ed il vecchio socialdemocratico viene attuata in tutti i paesi d’Europa: in Spagna nel 1936, così in Francia sotto il nome di "Fronte popolare".

Ma alleanza fra vecchio e nuovo opportunismo significa necessariamente alleanza con la propria rispettiva borghesia e con i suoi interessi in tutti i paesi. In realtà, dal 1933 in poi, tutti i partiti cosiddetti "operai" concorrono ad istillare nel proletariato l’idea che la difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro deve essere subordinata alla difesa degli interessi nazionali, all’alleanza tra tutte le classi della popolazione "per non far avanzare il fascismo".

Di più, a seconda degli interessi contingenti dello Stato russo, i partiti staliniani indicono la campagna di "alleanza popolare" con lo stesso fascismo, come fu nel 1935 in Italia. Si preparano i fronti della Seconda Guerra mondiale e vi si schiera il proletariato portandolo a dimenticare anche i suoi più elementari interessi in nome della difesa dei "superiori interessi" del "popolo", della "nazione", della "patria".

Questo tradimento dei partiti della III Internazionale permise al capitalismo di superare agevolmente la crisi mondiale, 1929-1933. Negli Stati Uniti, come in tutti gli Stati europei tutte le "forze politiche" si schierarono sulla necessità di non indebolire "l’economia nazionale" e perciò non solo non diressero in senso rivoluzionario le azioni di difesa del pane e del lavoro che il proletariato spontaneamente intraprendeva, ma si schierarono apertamente contro.

Questo permise allo Stato capitalistico di intraprendere le misure "assistenziali" e di corruzione della classe operaia che il New Deal americano aveva ripreso dal fascismo, ma che ebbero il loro corrispettivo in tutti gli Stati d’Europa. Il proletariato veniva gradualmente abituato a considerarsi non più una classe con interessi opposti alle altre classi della società ed organicamente legato alla scala internazionale, ma come una "componente" della nazione, del popolo, ai cui interessi "generali" doveva sacrificare i propri bisogni. Da una parte e dall’altra dei futuri fronti di guerra fu agitata la stessa identica bandiera: solidarietà nazionale delle classi, difesa nazionale, concetto di popolo al posto di concetto di classe.

Era la bandiera, come abbiamo dimostrato, innalzata dal fascismo e dai suoi pseudo sindacati contro i sindacati rossi e di classe tradizionali. È dunque chiaro che, mentre nei paesi a regime di dittatura aperta (Italia e Germania) nessuna opera veniva intrapresa per contrapporsi validamente ai sindacati statali di regime e per far risorgere i sindacati di classe, ma si indirizzavano le energie proletarie alla lotta popolare contro il fascismo sulla tesi che esso non difendeva bene gli interessi di tutta la nazione, nei paesi in cui permaneva la dittatura mascherata in forme democratiche si affermò in seno al proletariato la tradizione di un sindacalismo disposto a sacrificare ogni cosa alla difesa delle istituzioni e del regime, disposto a sabotare qualsiasi sciopero in quanto indebolisce l’economia nazionale, disposto a firmare, come in Svizzera, paci eterne fra lavoro e capitale sulla base degli interessi nazionali comuni a tutte le classi. In Spagna, in Francia, in Inghilterra, in Svizzera, ed anche in Italia il processo di formazione di questo nuovo sindacalismo che giustamente il partito ha chiamato "tricolore", è particolarmente visibile.

La differenza fra il sindacalismo fascista e il sindacalismo tricolore non sta dunque nella rispettiva politica: tutte e due subordinano la difesa degli interessi economici immediati dei lavoratori alle esigenze della patria e dell’economia nazionale. La differenza fondamentale è nella forma organizzativa per cui in alcuni paesi capitalistici, nei più forti ed in quelli in cui la lotta di classe non ha raggiunto limiti critici, così come è stato possibile allo Stato capitalistico mantenere le forme democratiche, è stato possibile mantenere organismi sindacali formalmente "liberi", formalmente ad adesione volontaria dei lavoratori anche se sostanzialmente legati alle sorti del regime capitalistico e della sua conservazione.

Questa differenza formale non è priva di significato essendo il risultato di vicende storiche per cui lo Stato capitalistico ha potuto vincere il proletariato senza dover ricorrere alla suprema prova di forza che si ha quando lo Stato è costretto a presentarsi di fronte alle masse apertamente ed a mano armata come l’espressione degli interessi delle classi dominanti, tentando di battere le lotte proletarie con la diretta violenza ed incapsulando di necessità il proletariato in organismi a carattere forzato e coercitivo, cioé sindacati obbligatori apertamente dipendenti dallo Stato e facenti parte del suo apparato.
 


FASCISMO E DEMOCRAZIA

Il partito ha sempre sostenuto che la forma del dominio dittatoriale del capitalismo espressa in forma parlamentare e democratica non solo non è la più favorevole allo scatenarsi della lotta di classe, per cui vada difesa e mantenuta in piedi ad ogni costo come propagandano gli opportunisti, ma è la più sfavorevole in quanto indica che il proletariato non riesce ad ingaggiare nessuna azione pericolosa per il nemico di classe e che la borghesia riesce a bloccarlo senza avere bisogno di giungere allo scontro supremo sul piano della violenza aperta.

L’opera dei partiti e delle ideologie opportuniste, la corruzione delle elemosine che la borghesia fa piovere sul proletariato, la debolezza del partito rivoluzionario di classe fanno sì che lo Stato capitalistico possa dominare mantenendo la mascheratura democratica senza essere costretto a smascherarsi nel tentativo di schiacciare il proletariato con la violenza aperta. Di conseguenza nel 1921 e 1922, il Partito Comunista d’Italia, ben lontano dal piangere sulla violenza fascista e statale, vide in essa la dimostrazione che il capitalismo non aveva altri mezzi per mantenere il potere e proclamò al proletariato che non solo non bisognava cedere, ma era necessario raccogliere la sfida dell’avversario scendendo sul suo stesso terreno, quello della violenza armata per la distruzione dello Stato borghese e l’instaurazione della dittatura proletaria. Anche quando la sfida fu perduta per il proletariato il partito giudicò positiva l’esperienza che esso aveva potuta acquistare nel corso della lunga lotta ed il suo compito principale fu nel mantenere al proletariato questa esperienza preziosa e nell’impedire che risorgessero nel seno della classe le illusioni democratoidi, pacifiste e popolaresche che poi prevalsero di nuovo sotto il nome maledetto di "antifascismo".

Lo stesso problema si pone per quanto riguarda gli organismi sindacali. Il fatto che lo Stato capitalistico sia riuscito a sottomettere gli organismi operai alla difesa dei propri interessi, di fatto e tramite mille legami, ma che abbia potuto ottenere questo risultato mantenendone l’organizzazione formalmente libera e volontaria è fatto negativo e di grandissima importanza. Indica che la borghesia è riuscita a corrompere il proletariato e che non ha avuto bisogno di distruggere i suoi organismi di classe, ma che essi si sono "volontariamente" sottomessi alle esigenze dello Stato e del Capitale, per il tramite dei propri capi opportunisti, per il tramite dell’influenza delle categorie operaie privilegiate; indica che la classe proletaria non ha avuto la forza di impedire che le sue stesse strutture organizzate cadessero nelle mani dei nemico di classe e che il proletariato organizzato ha accettato la sottomissione dei suoi interessi economici ai "superiori interessi" della nazione.

Questo risultato, essenziale per la propria conservazione, il capitalismo è riuscito ad ottenerlo all’indomani della sconfitta della grande ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra, ma non perché avesse scoperte nuove e sconosciute ricette per la sua sopravvivenza, come generazioni intere di antimarxisti hanno finto di ritenere, ma perché i rapporti di forza alla scala mondiale erano divenuti a lui favorevoli sia per la demoralizzazione subentrata nella classe dopo le grandi sconfitte, sia soprattutto per la distruzione del partito rivoluzionario di classe, conseguente alla vittoria stalinista in Russia e per il passaggio armi e bagagli dei partiti della III Internazionale nel campo opportunista.

Questi partiti, dopo aver fatto causa comune con i vecchi partiti socialdemocratici in tutti i paesi, hanno lavorato costantemente al loro fianco con tutti i mezzi per smantellare nelle masse oppresse qualsiasi speranza di liberazione, per ribadire nella mente dei proletari l’idea di un legame necessario e da salvaguardare fra i loro interessi e quelli della loro economia, della loro nazione, della loro patria. È l’effetto congiunto di queste vicende negative che hanno permesso allo Stato capitalistico di far piovere sulla classe operaia dei vari paesi le sue misure "riformistiche ed assistenziali", di garantire tramite esse un minimo di sopravvivenza alle masse proletarie e dei paesi industriali e di concretare in esse l’illusione, duramente e sanguinosamente pagata dallo schiacciamento delle popolazioni coloniali e sottosviluppate, che si potessero difendere gli interessi economici di classe sottomettendoli agli interessi generali della nazione e dello Stato.

Oggi, di fronte ai primi inizi della crisi capitalistica mondiale questa illusione salta in pezzi, ma i proletari d’Europa si trovano di fronte alla crisi privati dei loro organismi economici di classe, passati in cinquanta anni al nemico e nella necessità di riconquistarli o di ricostituirli, se non vogliono che le loro condizioni materiali di esistenza vengano schiacciate dalla pressione capitalistica.

La classe operaia europea e mondiale in questo sforzo che deve intraprendere ha al suo attivo solo, da una parte, la spinta delle sue condizioni materiali, che diverrà sempre più potente, dall’altra il coerente indirizzo dei partito rivoluzionario di classe. Ha contro di sé tutte le forze della borghesia e dell’opportunismo, compresa in prima fila quella che si esprime nei mille gruppuscoli pseudorivoluzionari che infestano il panorama attuale e che minacciano di deviare le prime spinte di nuclei anche ristretti del proletariato dalla giusta direzione in cui devono andare gli sforzi degli operai: ricostituzione degli organismi economici di classe, rinascita dei sindacati di classe sulla base della difesa ad oltranza e senza quartiere delle condizioni di vita e di lavoro.
   


INDIRIZZO E PROSPETTIVE CARATTERISTICI DEL PARTITO DI CLASSE

Se parlare di marxismo e di teoria rivoluzionaria ha un senso esso consiste nel fatto che l’uso della teoria permette al partito di leggere le vicende ed il percorso storico che la classe ha compiuto riuscendo così a trarne esperienze e lezioni che non può trarre ciascun operaio singolarmente preso né ciascuna generazione proletaria e che pure sono vitali per stabilire i termini in cui la classe operaia dovrà ingaggiare le sue future battaglie.

La primordiale caratteristica che distingue il partito di classe da tutti gli altri è dunque la capacità di spiegare la situazione in cui la classe operaia si trova oggi come un risultato delle sue vicende e delle vicissitudini di ieri. Il partito di classe altro non è che quell’organismo che sa dimostrare coerentemente ai proletari che la rivoluzione è il risultato di un processo di vicende materiali ed indicare proprio nella situazione negativa di oggi i sintomi e le vie della ripresa di domani.

È per questo che insistiamo nel presentare il trapasso mondiale dai sindacati di classe del primo dopoguerra ai sindacati "tricolore" di oggi come effetto delle vicende reali e dei rapporti di forza fra le classi, rapporti che nell’ultimo mezzo secolo sono stati costantemente a sfavore della classe operaia mondiale. Rapporti di forza che la crisi incipiente del capitalismo ribalterà facendo esplodere le contraddizioni incontrollabili del modo di produzione e permettendo alla classe proletaria di tentare di nuovo il suo "assalto al cielo".

Così, di fronte alla situazione che vedeva il capitalismo mondiale superare impunemente e senza gravi conseguenze crisi di enorme portata come quella del 1929-33 e quella della Seconda Guerra mondiale, e percorrere ancora un quarto di secolo di "sviluppo pacifico", tutti i rivoluzionari da operetta si misero a "rappezzare" ed a "rammodernare" la dottrina marxista, secondo loro non più adeguata ad esprimere la realtà di un presunto "neocapitalismo" che Marx non avrebbe potuto conoscere. Miriadi di pretesi rivoluzionari parlarono di "capacità ormai acquisita dal capitalismo di superare le crisi, di non avere più crisi ecc".

Di fronte alla situazione, che vedeva la classe operaia europea immobilizzata nella subordinazione agli interessi delle rispettive patrie e nazioni e partecipante agli utili della propria borghesia, ogni pseudo rivoluzionario si sentì in dovere di teorizzare la "ormai avvenuta integrazione della classe operaia nel sistema", di andare a ricercare le "modificazioni strutturali avvenute nella classe operaia" e di attribuire il ruolo di protagonista della rivoluzione, strappato all’ormai "integrato" proletariato, ai ceti spuri e meschini dello studentame o nel migliore dei casi ai generosi, ma votati alla sconfitta, moti democratici e nazionali del cosiddetto "terzo mondo".

Così, di fronte alla constatazione che le lotte sindacali dei lavoratori si svolgevano ormai, almeno nei paesi capitalisticamente sviluppati, nelle forme e nei limiti consentiti dalla "legalità borghese" e dagli interessi economici capitalistici, ogni e qualsiasi parolaio della rivoluzione si sentì di dichiarare che "la lotta per il salario è ormai congeniale ed addirittura favorevole allo sviluppo capitalistico", che "nessun senso ha più lo sciopero economico e l’organizzazione economica", che il proletariato doveva ormai, lasciando perdere la battaglia per la difesa del pane quotidiano divenuta "assorbibile" dal capitalismo, trapassare a quella per le "idealità rivoluzionarie" che, naturalmente, ognuno poi indicava a suo modo prendendo volta a volta a modello il personaggio più in voga sulla piazza o la "novità" più recente delle università borghesi.

Basta questa attitudine veramente opportunista e disfattista a definire che gli attuali gruppuscoli cosiddetti rivoluzionari altro non esprimono che la disperazione ed il disorientamento tipico della piccola borghesia di fronte alla strapotenza della controrivoluzione. La loro posizione politica è definibile in blocco e senza appello: è la posizione di chi quando le cose cominciano ad andar male getta il fucile e se la squaglia con la scusa di aver scoperto un fronte di combattimento più efficace.

Il partito di classe si distinse da tutto questo coro di disertori per aver riaffermato, fin dall’aprirsi dei ciclo sfavorevole nel 1926, e per aver posto a base di tutta la sua azione la tesi:

«Vi sono situazioni oggettivamente sfavorevoli alla rivoluzione, e lontane da esse come rapporti delle forze (pur potendone essere meno lontane di altre nel tempo, perché la evoluzione storica presenta - è marxismo - diversissime velocità) in cui il voler essere a tutti i costi partiti di masse e di maggioranza, il volere avere a tutti i costi preminente influenza politica, non si può raggiungere che rinunciando ai principi ed ai metodi comunisti e facendo una politica socialdemocratica e piccolo borghese. Si deve altamente dire che, in certe situazioni passate, presenti e avvenire il proletariato è stato, è e sarà necessariamente nella sua maggioranza su una posizione non rivoluzionaria, di inerzia e di collaborazione col nemico a seconda dei casi; e che intanto, malgrado tutto, il proletariato rimane ovunque e sempre la classe potenzialmente rivoluzionaria e depositaria della riscossa della rivoluzione, in quanto nel suo seno il partito comunista, senza mai rinunziare a tutte le possibilità di coerente affermazione e manifestazione, sa non ingaggiarsi nelle vie che appaiono più facili agli effetti di una popolarità immediata, ma che devierebbero il partito dal suo compito e toglierebbero al proletariato il punto di appoggio indispensabile della sua ripresa» (Tesi di Lione, 1926).
La stessa posizione veniva riaffermata nelle Tesi Caratteristiche del 1952:
«Il partito non lancerà alcuna nuova dottrina, riaffermando la piena validità delle tesi del marxismo rivoluzionario, ampiamente confermate dai fatti e più volte calpestate e tradite dall’opportunismo per coprire la ritirata e la sconfitta (...) Appunto perché il proletariato è l’ultima classe che sarà sfruttata e che quindi non succederà a nessuna nello sfruttamento di altre classi, la dottrina è stata costruita sul nascere della classe e non può essere mutata né riformata. Lo sviluppo del capitalismo dalla sua nascita ad oggi ha confermato e conferma i teoremi del marxismo, quali sono enunciati nei testi, ed ogni pretesa "innovazione" o "insegnamento" di questi ultimi trent’anni conferma solo che il capitalismo vive ancora e che deve essere abbattuto. Il centro quindi dell’attuale posizione dottrinaria del movimento è questo: nessuna revisione dei principi originari della rivoluzione proletaria (...)
«Nessun movimento può trionfare nella storia senza la continuità teorica che è l’esperienza delle lotte passate. Ne consegue che il partito vieta la libertà personale di elaborazione e di elucubrazione di nuovi schemi e spiegazioni del mondo sociale contemporaneo; vieta la libertà individuale di analisi, di critica e di prospettiva anche per il più preparato intellettuale degli aderenti e difende la saldezza di una teoria che non è effetto di cieca fede, ma è il contenuto della scienza di classe proletaria, costruito con materiale di secoli, non dal pensiero di uomini, ma dalla forza di fatti materiali, riflessi nella coscienza storica di una classe rivoluzionaria e cristallizzati nel suo partito. I fatti materiali non hanno che confermato la dottrina del marxismo rivoluzionario».

  


INVARIANZA DELLA PROSPETTIVA MARXISTA NEL CAMPO SINDACALE

È sul fondamento della assoluta fedeltà alla teoria della rivoluzione proletaria, impedendone qualsiasi aggiornamento e revisione, sul fondamento della assoluta fedeltà alla prospettiva strategica e tattica ristabilita nel primo dopoguerra dalla rivoluzione d’Ottobre e dalla III Internazionale, che il partito di classe ha potuto leggere in maniera coerente gli avvenimenti del ciclo storico successivo al 1926 e, senza farsi fuorviare da nessuna spinta a rivedere ed a correggere le basi di azione del movimento proletario rivoluzionario, seguirne le vicende sfavorevoli traendo anche da queste gli insegnamenti e le esperienze utili a rafforzare l’indirizzo rivoluzionario di sempre.

Seguire l’andamento reale della battaglia e dei rapporti di forza fra le classi, spiegarne le vicissitudini, gli alti e bassi, gli errori e le sconfitte senza mai lasciarsi andare al "dubbio revisionista", cioé all’istinto di "revisionare" le basi della prospettiva rivoluzionaria tracciata in un secolo di battaglie e considerata immutabile: questo contraddistingue il partito di classe, ma anche la sua capacità unica di comprendere i fatti e di accumulare, tramite i fatti, esperienze preziose per il miglioramento dell’esercito proletario nelle battaglie future.

E lanciamo ancora una volta a tutti i nostri avversari questa sfida ed agli operai che ci seguono questo criterio inequivocabile di giudizio: quale dei movimenti che, dal 1926, si sono succeduti sulla scena, bene o male, con piccole o grandi forze, con piccoli o grandi nomi, pretendendo alla direzione rivoluzionaria del proletariato non si è lasciato attrarre dall’apportare qualche piccolo ritocco alla scienza ed alla prospettiva marxista, lasciando intendere che il mondo attuale non si lascia spiegare sui canoni semplici e lineari della dottrina di Marx e che essa andrebbe corroborata con i "contributi ultimi" delle più moderne "ricerche"? Chi non si è macchiato, in questi cinquanta anni, con la ammissione disfattista che, essendo stati battuti, forse era opportuno andare a "rivedere" le basi stesse della nostra prospettiva di movimento? Chi non si è allineato al coro della propaganda borghese che avrebbe voluto, dopo avere messo in ginocchio il proletariato mondiale, conquistare anche la suprema vittoria, convincendolo non di essere stato sconfitto e di subire dei rapporti di forza sfavorevoli, ma di avere sbagliato lo stesso piano di azione? Tutti sono stati da quella parte.

E questo vuol dire aver abbandonato l’ultima trincea che alle forze della rivoluzione spettava di difendere, perdute tutte le altre possibilità: la prospettiva della ripresa del moto rivoluzionario nei termini classici previsti dalla dottrina marxista.

Per questo il partito, risorto nel secondo dopoguerra, non ebbe da esporre "nuove posizioni" nel campo del suo comportamento rispetto alle lotte economiche proletarie ed alle organizzazioni economiche, né da dettare nuove norme. Il problema dei rapporti fra il partito e la classe proletaria, fra lotta rivoluzionaria di classe e lotte economiche immediate, fra organismo politico rivoluzionario ed organizzazioni economiche di difesa, fra partito comunista rivoluzionario ed altri partiti e tendenze aventi radici in seno alle masse proletarie, è da ritenersi completamente e definitivamente risolto dalla tradizione marxista in un arco di 70 anni di lotte e di esperienze mondiali, partendo dal Manifesto del 1848 per arrivare alle tesi del secondo Congresso della III Internazionale del 1920, alle Tesi di Roma del 1922 del Partito Comunista d’Italia ed a quelle di Lione del 1926.

Colui che non trovi in questi testi la risposta a quale deve essere il comportamento del partito in campo sindacale nel 1977, non abbia la presunzione di stilare nuove tesi. Si rimetta in piena modestia a leggere ed a studiare quella prospettiva nella precisa convinzione che, se essa dovesse rivelarsi insufficiente o incompleta, salta l’intero marxismo.

Quindi fin dal 1945 la "Piattaforma Politica del Partito" enunciò, nei termini classici, il compito dei comunisti nei confronti del movimento sindacale:

«In prima linea tra i compiti politici del partito è il lavoro nella organizzazione economica sindacale dei lavoratori per il suo sviluppo e potenziamento. Deve essere combattuto il criterio, ormai comune alla politica sindacale sia fascista che democratica, di attrarre il sindacato operaio tra gli organismi statali, sotto le varie forme del suo disciplinamento con impalcature giuridiche. Il partito aspira alla ricostruzione della Confederazione sindacale unitaria, autonoma dalla direzione di uffici di Stato, agente coi metodi della lotta di classe e dell’azione diretta contro il padronato, dalle singole rivendicazioni locali e di categoria a quelle generali di classe.
«Nel sindacato operaio entrano lavoratori appartenenti singolarmente ai diversi partiti o a nessun partito; i comunisti non propongono né provocano la scissione dei sindacati per il fatto che i loro organismi direttivi siano conquistati e tenuti da altri partiti, ma proclamano nel modo più aperto che la funzione sindacale si completa e si integra solo quando alla dirigenza degli organismi economici sta il partito politico di classe del proletariato. Ogni diversa influenza sulle organizzazioni sindacali proletarie non solo toglie ad esse il fondamentale carattere di organi rivoluzionari dimostrato da tutta la storia della lotta di classe, ma le rende sterili agli stessi fini dei miglioramenti economici immediati e strumenti passivi degli interessi del padronato.
«La soluzione data in Italia alla formazione della centrale sindacale con un compromesso non già fra tre partiti proletari di massa, che non esistono, ma fra tre gruppi di gerarchie di cricche extraproletarie pretendenti alla successione del regime fascista, va combattuta incitando i lavoratori a rovesciare tale opportunistica impalcatura di controrivoluzionari di professione. Il movimento sindacale italiano deve ritornare alle sue tradizioni di aperto e stretto fiancheggiamento del partito proletario di classe, facendo leva sul risorgere vitale dei suoi organismi locali, le gloriose Camere del Lavoro, che tanto nei grandi centri industriali quanto nelle zone rurali proletarie furono protagoniste di grandi lotte apertamente politiche e rivoluzionarie».
Nel 1951 e 1952 il problema sindacale fu ripreso dal partito in diversi suoi testi, tesi a ribadire la classica prospettiva del primo dopoguerra anche in questo campo, restituendola rafforzata e non modificata proprio dall’esame di «quanto vi è di mutato nel campo sindacale dopo le guerre e i totalitarismi».

Il più importante di questi testi è "Partito rivoluzionario ed azione economica". Diviso in punti che costituiscono delle vere e proprie tesi, il testo ricorda che al secondo Congresso mondiale del 1920 furono dibattute due grandi questioni di tattica: azione parlamentare ed azione sindacale.

«Ora i rappresentanti della corrente antielezionista si schierarono contro la cosiddetta sinistra che propugnava la scissione e la rinunzia a conquistare i sindacati diretti da opportunisti».
È questa una fondamentale deviazione di principio con cui si esce dal campo marxista. È, come abbiamo visto altrove, la visione piccolo borghese ed anarchica contrapposta alla visione marxista del processo rivoluzionario. Il testo infatti continua:
 «(...) Queste correnti in fondo ponevano nel sindacato e non nel partito il centro dell’azione rivoluzionaria e lo volevano puro da influenze borghesi (Tribunisti olandesi, KAPD tedesco, Sindacalisti americani, scozzesi ecc.).
 «2 - La sinistra da allora combatte aspramente quei movimenti analoghi a quello torinese dell’Ordine Nuovo che facevano consistere il compito rivoluzionario nello svuotare i sindacati a vantaggio del movimento dei consigli di fabbrica, intendendoli come trama degli organi economici e statali della rivoluzione proletaria iniziata in pieno capitalismo, confondendo gravemente fra i momenti e gli strumenti del processo rivoluzionario. Stanno su ben diverso piano la questione parlamentare e sindacale. È pacifico che il parlamento è l’organo dello Stato borghese in cui si pretende siano rappresentale tutte le classi della società e tutti i marxisti rivoluzionari convengono che su di esso non si possa fondare altro potere che quello della borghesia (...)
 «4 - I sindacati, da chiunque diretti, essendo associazioni economiche di professione, raccolgono sempre elementi di una medesima classe. È ben possibile che gli organizzati proletari eleggano rappresentanti di tendenze non solo moderate ma addirittura borghesi, e che la direzione del sindacato cada sotto l’influenza capitalista. Resta tuttavia il fatto che i sindacati sono composti esclusivamente di lavoratori e quindi non sarà mai possibile dire di essi quello che si dice del parlamento, ossia che sono suscettibili solo di una direzione borghese.
 «5 - In Italia, prima della formazione del partito comunista, i socialisti escludevano di lavorare nei sindacati bianchi dei cattolici e in quelli gialli dei repubblicani. I comunisti poi, in presenza della grande Confederazione diretta prevalentemente da riformisti e dell’Unione sindacale diretta da anarchici, senza alcuna esitazione e unanimi stabilirono di non fondare nuovi sindacati e lavorare per conquistare dall’interno quelli ora detti, tendendo anzi alla loro unificazione.
«Nel campo internazionale, il partito italiano unanime sostenne non solo il lavoro in tutti i sindacati nazionali socialdemocratici, ma anche l’esistenza della Internazionale Sindacale Rossa (Profintern), la quale riteneva ente non conquistabile la Centrale di Amsterdam perché collegata alla borghese Società delle Nazioni attraverso l’Ufficio Internazionale del Lavoro. La Sinistra italiana si oppose violentemente alla proposta di liquidare il Profintern per costituire una Internazionale sindacale unica, sostenendo sempre il principio dell’unità e della conquista interna per i sindacati e le confederazioni nazionali».
Descritte le fasi storiche dell’evoluzione dei sindacati e quella più recente in corso anche attualmente, il testo conclude:
 «8 - Al di sopra del problema contingente in questo o quel paese di partecipare al lavoro in dati tipi di sindacato ovvero di tenersene fuori da parte del partito comunista rivoluzionario, gli elementi della questione fin qui riassunta conducono alla conclusione che in ogni prospettiva di ogni movimento rivoluzionario generale non possono non essere presenti questi fondamentali fattori:
1. un ampio e numeroso proletariato di puri salariati;
2. un grande movimento di associazioni a contenuto economico che comprenda una imponente parte del proletariato;
3. un forte partito di classe, rivoluzionario, nel quale militi una minoranza dei lavoratori, ma al quale lo svolgimento della lotta abbia consentito di contrapporre validamente ed estesamente la propria influenza nel movimento sindacale a quella della classe e del potere borghese.
 «I fattori che hanno condotto a stabilire la necessità di ciascuna e di tutte queste tre condizioni dalla utile combinazione delle quali dipenderà l’esito della lotta sono stati dati:
- dalla giusta impostazione della teoria del materialismo storico che collega il primitivo bisogno economico del singolo alla dinamica delle grandi rivoluzioni sociali;
- dalla giusta prospettiva della rivoluzione proletaria in rapporto ai problemi dell’economia e della politica e dello Stato;
- dagli insegnamenti della storia di tutti i movimenti associativi della classe operaia così nel loro grandeggiare e nelle loro vittorie che nei corrompimenti e nelle disfatte.
 «Le linee generali della svolta prospettiva non escludono che si possano avere le congiunture più svariate nel modificarsi, dissolversi ricostituirsi di associazioni a tipo sindacale, di tutte quelle associazioni che ci si presentano nei vari paesi, sia collegate alle organizzazioni tradizionali che dichiaravano fondarsi sul metodo della lotta di classe, sia più o meno collegate ai più diversi metodi e indirizzi sociali anche conservatori».
Dunque dall’analisi delle modificazioni intervenute in questi cinquant’anni nella prassi e nella struttura degli organismi sindacali il partito non fu mai condotto a negare la classica prospettiva del moto rivoluzionario: la necessità assoluta che il proletariato si organizzi in un "grande movimento di associazioni a contenuto economico" e che all’interno di esso il partito abbia potuto contrapporre la propria influenza a quella della classe e del potere borghese.
  
 


LA FUNZIONE DELLO STATO NELL’EPOCA IMPERIALISTICA

Che cosa vi è di mutato nella dinamica sindacale dell’epoca imperialistica?

La nostra riconferma della classica prospettiva marxista nel campo dei movimenti degli organismi economici proletari si basa non su una identificazione meccanica della situazione attuale con quella in cui sorsero i grandi sindacati operai, né con quella successiva alla Prima Guerra mondiale.

Al contrario, non ci troviamo oggi né nella prima né nella seconda di queste situazioni: ai sindacati di classe dell’epoca di "sviluppo pacifico dei capitalismo" sono subentrati i sindacati "tricolore", cioé ligi alla difesa della nazione ed in molti paesi veri e propri sindacati di Stato; l’una e l’altra forma non esprimono che gradi diversi di un’unica evoluzione storica necessaria alla sopravvivenza del regime capitalistico nella sua epoca imperiale.

Questa evoluzione, che sommariamente indichiamo come processo di sottomissione del sindacato operaio allo Stato, ha la più grande influenza sulla futura ripresa dei movimento rivoluzionario di classe che, però, si ripresenterà nei termini classici che abbiamo indicato e che risultano ancor più nettamente delineati da questo processo storico: rete degli organismi economici di classe, battaglia del partito di classe per sottrarli a qualsiasi altro indirizzo politico e per sottometterli al proprio, battaglia che corrisponde (ecco la novità!) anche al mantenimento ed al potenziamento della efficienza degli organismi operai economici sul piano della pura e semplice difesa degli interessi immediati dei lavoratori.

L’epoca imperialistica del capitalismo si distingue per la concentrazione estrema della produzione e del capitale finanziario, ma anche per una intensificata ingerenza dello Stato in tutti gli aspetti della vita economica e sociale. Lo Stato non solo si manifesta sempre più come il "comitato di amministrazione" della classe dominante, il suo apparato di dominio, la concentrazione della sua forza armata contro il proletariato, ma diviene anche il garante dell’economia capitalistica, sempre più ubbidiente alle necessità del funzionamento di essa, e sobbarcandosi in prima persona il compito della gestione dei meccanismo produttivo capitalistico.

Questa accentuazione della funzione dello Stato si riflette necessariamente anche sugli organismi proletari determinando il fatto che essi vengono lasciati liberi di svilupparsi solo se non si legano ad una prospettiva rivoluzionaria e vengono messi sotto controllo nella loro stessa azione rivendicativa ed economica. La classe borghese non ha dimenticato la lezione del 1917-1926, quando i sindacati operai, nonostante fossero diretti da opportunisti e riformisti dichiarati, erano stati sul punto di scatenare la lotta rivoluzionaria tra le classi e di essere conquistati all’indirizzo del partito di classe.

Le tesi dell’Internazionale notavano già questa situazione ed indicavano che,

 «nell’epoca imperialistica la lotta economica si trasforma in lotta politica rivoluzionaria molto più rapidamente che nella precedente di sviluppo pacifico del capitalismo».
Nell’epoca imperialistica il capitalismo non può più permettere il libero svolgersi della lotta economica, né della organizzazione operaia, perché ha sperimentato storicamente che il manifestarsi di generalizzate lotte economiche in presenza di un ciclo critico dell’economia capitalistica può pericolosamente debordare nella lotta politica, nell’assalto al potere politico: cioé che la lotta dei proletari sul terreno economico è, per le condizioni in cui si svolge, suscettibile di essere influenzata molto più facilmente dall’indirizzo del partito rivoluzionario.

Scampato al pericolo rivoluzionario nel 1919-26, lo Stato capitalistico non permetterà più nessun libero svolgimento dei conflitti sociali, perché sa bene che questo "libero svolgimento" può produrre effetti disastrosi per la conservazione del regime.

Esso non abolisce l’organizzazione operaia economica, ma si sforza con ogni mezzo di controllarla e di sottoporne l’azione a limiti ben precisi, di legarla a sé ed alle sue sorti con mille legami e di farne una sua appendice fino al punto, nei momenti critici della lotta di classe, di trasformarla apertamente in un ingranaggio della macchina statale. Questo risultato di poter controllare il movimento operaio economico nei momenti inevitabili del dissesto produttivo e della crisi economica è essenziale per la sopravvivenza del regime capitalistico, perché è l’unico elemento che può impedire il passaggio dalla crisi economica alla crisi sociale e politica.
   
 


L’EPOCA DELLE CRISI DEL CAPITALISMO E L’APPARIRE DEL SINDACATO DI STATO

Il capitalismo nell’epoca imperialistica tenta, per l’inasprirsi delle sue interne contraddizioni, di controllare alla scala sociale l’anarchico sviluppo dei processo economico e produttivo, da cui derivano le crescenti tensioni sociali. Per questo lo Stato avverte la necessità del diretto controllo sui sindacati operai, il che è prova di estrema debolezza e vulnerabilità del capitalismo nella fase imperialistica. Controllo che può assumere diverse forme, di cui la più adeguata e perfetta è quella dell’inserimento del sindacato operaio nelle strutture statali, per il cui mezzo lo Stato cerca di rendere compatibili i livelli salariali con il profitto, il costo del lavoro con la resa economica e tollerabili per il sistema capitalistico gli ineliminabili contrasti fra i bisogni dei salariati e quelli delle aziende; in breve di regolamentare i rapporti tra operai e padroni nel quadro della conservazione del regime. Cosicché il sindacato da libero diviene coatto, da organo della classe si trasforma in organo dello Stato borghese, dalla difesa dei proletari passa alla difesa dell’economia nazionale.

In effetti l’epoca imperialistica è caratterizzata da questa necessità: o il movimento operaio si sottomette agli interessi della nazione o diventa obiettivamente e materialmente rivoluzionario. Un sindacalismo di classe è possibile solo in quanto si rivolge contro le basi stesse di sopravvivenza del regime, o meglio, le colpisce inevitabilmente. La spiegazione di questo si trova già nelle Tesi dell’Internazionale Comunista: l’impossibilità del capitalismo a riorganizzare l’economia dopo la guerra se non schiacciando il movimento operaio. Deduzione opposta: estremo valore di ogni movimento economico di classe - che il capitalismo non può più tollerare. È aperta l’epoca della rivoluzione proletaria.

Il capitalismo internazionale non sarebbe potuto uscire dalla sua crisi e non avrebbe potuto riorganizzare la sua economia senza schiacciare le lotte economiche e sociali del proletariato perché non poteva permettersi di mantenere le condizioni economiche del proletariato al livello precedente alla guerra. Di conseguenza le lotte economiche proletarie tendevano ad assumere un aspetto obiettivamente rivoluzionario, cioè erano suscettibili di essere indirizzate dal partito. La lotta difensiva del proletariato non poteva mantenere il conflitto tra proletari e capitalisti sul terreno economico, perché urtava le stesse basi del regime e di conseguenza tendeva a divenire lotta contro lo Stato.

I sindacati di classe o avrebbero dovuto restringere la difesa delle condizioni di vita nell’ambito delle necessità borghesi, o avrebbero dovuto divenire sindacati rossi diretti all’attacco rivoluzionario. Nell’epoca imperialistica si modificano perciò le stesse basi dell’azione sindacale che, in periodi critici, può trascendere rapidamente a lotta insurrezionale, ovvero al sacrificio totale delle condizioni operaie.

Ma questo significa anche che un sindacato diretto da qualsiasi partito che non sia quello rivoluzionario di classe non può in questi periodi critici condurre in maniera conseguente la lotta economica, cosa che, invece, era possibile nell’epoca di sviluppo pacifico del capitale. In quell’epoca le lotte economiche del proletariato potevano anche contrapporsi alla lotta rivoluzionaria, come lo possono attualmente in epoche non critiche. Nell’epoca imperialistica il collegamento è più stretto.

Da questo discende il valore e l’importanza immensa che assumono i moti elementari del proletariato tesi a difendere il pane ed il lavoro. Ma il fatto che essi trapassino facilmente sul terreno politico non porta il partito a negarne il valore essenziale, al contrario ne sottolinea la necessità. È proprio questa situazione che schiera il partito di classe sul terreno della difesa proletaria, mentre schiererà contro questa elementare esigenza degli operai tutti i partiti della borghesia e tutte le sue forze statali. Tutte le forze della conservazione sociale si allineano ad impedire la manifestazione libera ed aperta della lotta economica, a mantenere l’impastoiamento legale che la caratterizza oggi. Solo le forze del partito sostengono il libero slancio delle lotte operaie.

Il capitalismo non permetterà più il pacifico risorgere di liberi sindacati né la loro attività, come nella sua epoca precedente. È finito il tempo in cui poteva permettere la libera organizzazione degli operai e i suoi partiti tentare la concorrenza con la rivoluzione sul piano sindacale. La tenterà ancora, naturalmente, ma tenterà al tempo stesso di distruggere il movimento sindacale.

È essenziale valutare su questa base l’atteggiamento delle diverse forze politiche che dicono di richiamarsi al proletariato ed alla rivoluzione.

Se il riformismo ha venduto i liberi sindacati di classe allo Stato capitalistico, perché l’unica altra strada era quella della rivoluzione, la stessa evoluzione hanno subito anche i movimenti kapedisti ed anarco-sindacalisti diventando, seppure in nome della rivoluzione e della conquista del potere, nemici giurati dell’organizzazione economica proletaria. La tesi della "distruzione dei sindacati", che nel 1921 era un errore infantile, è diventata oggi una posizione disfattista e controrivoluzionaria. Solo il partito assume la posizione di attendersi il suo stesso rafforzamento dalla rinascita della lotta sindacale e dei sindacati di classe. È questo il suo indirizzo distintivo.

Questo schieramento di forze rende più difficile il ricostituirsi della rete associativa-economica del proletariato e la sottopone a mille possibili insidie, ma rende anche preziosa ed insostituibile l’opera di netto indirizzo del partito e l’azione anche delle piccole forze proletarie che si mettono sul terreno sindacale.

Fu sulla base della sua enorme espansione alla scala mondiale che il capitalismo poté consentire il libero sviluppo al movimento operaio economico, addirittura favorendolo e cercando soltanto di limitarne il collegamento con il partito rivoluzionario. La sua teoria fu allora quella della "neutralità dei sindacati", come della "neutralità dello Stato nei conflitti economici".

Questa situazione finì con la Prima Guerra mondiale quando i sindacati operai furono condotti direttamente al servizio della patria in guerra. Ma, dopo di essa, la lotta economica proletaria riprese e trovò il suo naturale veicolo negli organismi sindacali esistenti. Fu ingaggiata una battaglia storica, perduta per la rivoluzione, che aveva per posta o la immissione degli organismi sindacali nell’ambito statale o la loro trasformazione in organi della rivoluzione esaltando al massimo la lotta economica. Il modo di produzione capitalistico poté riassettarsi solo dopo aver vinto questa battaglia ed avere sottoposto gli organismi operai allo stretto controllo, diretto o indiretto, dello Stato.

Da allora si stabilizza una situazione per cui il riformismo sociale si mette sotto l’egida dello Stato, si aspetta da esso le sue realizzazioni e non si affida più all’azione ed alla lotta delle masse proletarie. Il suo metodo diventa quello di garantire la legalità del movimento operaio, ricevendo in cambio dallo Stato (ed anche a spese dei singoli capitalisti) i mezzi materiali per tacitare le rivendicazioni operaie. Nell’epoca di slancio della produzione capitalistica questo è possibile da ottenere, e si creano così le premesse per cui nell’epoca di crisi tutto l’apparato organizzativo proletario si trovi sotto il controllo statale e puntato contro le anche minime rivendicazioni operaie.

L’appello del partito alla difesa delle condizioni di vita e di lavoro ed alla organizzazione dei lavoratori sul terreno di classe poggia su questa base storica reale: ogni sforzo in questa direzione è uno sforzo in direzione della rivoluzione ed i lavoratori compiono l’atto di base del loro schieramento sul terreno della rivoluzione organizzandosi per difendere le loro condizioni di vita.

L’evoluzione del sindacato che abbiamo descritta ci conduce alla conclusione, già stabilita dall’Internazionale e ripresa da Trotski in "I sindacati nell’epoca imperialistica": non è più possibile nella fase imperialistica del capitalismo l’esistenza di un sindacalismo "libero", cioé di organismi sindacali i quali, pur non essendo diretti da un indirizzo rivoluzionario, pur essendo nelle mani di partiti riformisti o piccolo borghesi, possano condurre la lotta sul terreno economico in maniera conseguente. Nell’epoca imperialistica la lotta economica si trasforma più rapidamente che per il passato in lotta politica, poiché il suo stesso manifestarsi e la sua generalizzazione urta contro le basi stesse del regime capitalistico. Di conseguenza qualsiasi organismo sindacale viene messo immediatamente di fronte al problema dello Stato: o accetta di limitare la lotta proletaria nella "legalità", e con ciò stesso di restringerla e di soffocarla a vantaggio della conservazione, o trascende i limiti della legalità borghese e trapassa sul terreno rivoluzionario, il che significa allo stesso tempo estendere, potenziare e generalizzare la battaglia che il proletariato conduce in difesa delle proprie condizioni economiche.

Questa situazione fa sì che tutti i partiti e tutti gli indirizzi politici votati alla conservazione del regime siano allo stesso tempo nemici del manifestarsi ampio e conseguente della lotta economica proletaria e che solo il partito rivoluzionario di classe ne sia il sostenitore più accanito. La funzione sindacale si completa e si integra solo quando alla testa degli organismi sindacali c’è il partito politico di classe, dice la "Piattaforma Politica" del 1945, ed in effetti non esiste altra strada.

La deduzione da trarne non è certo che allora il sindacato non è più necessario e che la lotta sindacale non può più esistere. È un’altra ed opposta: i proletari torneranno alla lotta per la difesa delle loro condizioni economiche ed in essa ricostituiranno gli organismi adatti a questa difesa, i sindacati di classe; questi organismi, per definizione aperti a tutti i proletari, per definizione organizzanti la massa dei proletariato su basi non di coscienza ma di necessità materiali, si troveranno posti dalla situazione stessa di fronte all’alternativa: o soggiacere di nuovo all’influenza ed al controllo dello Stato, il che equivale all’influenza ed al controllo dei partiti opportunisti, borghesi e piccolo borghesi, o viceversa spostare la loro azione sul terreno dell’illegalità sottomettendosi all’unico indirizzo politico veramente illegale, quello del partito politico di classe.

Nella nostra visione dunque l’esistenza dei sindacati di classe, nell’epoca imperialistica ha un’importanza ancora maggiore di quanta poteva averne in epoche passate: se nel passato fu possibile mantenere la difesa degli obbiettivi immediati della lotta proletaria opposti alle massime conquiste rivoluzionarie, e farne un diversivo contro di esse, questo è più difficile nell’epoca imperialistica, quando il trapasso del sindacato di classe, del sindacato rosso, all’influenza e alla direzione del partito è più immediato e deve avvenire sotto pena che gli organismi economici proletari perdano i loro stessi connotati di classe, cioé abdichino alla stessa funzione elementare per cui sono sorti.

All’interno degli organismi economici che la classe sarà costretta ad esprimere nel suo ritorno alla battaglia si combatterà la lotta fra coloro che vorranno mantenere l’azione nei limiti della legalità borghese, e con ciò stesso spegnerla e soffocarla, e l’indirizzo del partito che, spingendo al potenziamento e alla generalizzazione della lotta proletaria, consentirà il portarsi di questi organismi sul terreno rivoluzionario.
   
 


LA DINAMICA DEL SINDACALISMO TRICOLORE

Ciò che è importante agli effetti dei suoi riflessi sullo svolgimento della lotta di classe è la comprensione del fatto che il sindacato entrato nell’orbita di controllo dello Stato borghese non cessa per questo di difendere gli interessi economici di categorie e strati di proletari: la sua funzione consiste nel subordinarne la difesa alla conservazione del regime e dell’economia capitalistica, non nel negarla in assoluto.

Dal punto di vista pratico il sindacato diviene il "gestore" delle "briciole" che il sistema capitalistico può far cadere nei periodi di boom produttivo su strati più o meno vasti della classe operaia, diviene il tramite della corruzione borghese della classe operaia, lo strumento adatto per creare e foraggiare le aristocrazie del lavoro.

In pratica la politica tricolore nei periodi di slancio della produzione capitalistica consiste nel distribuire alla classe operaia ciò che il Capitale può concedere, in maniera tale da spegnere nei proletari ogni istinto di classe e da dividerli il più possibile, da creare privilegi e garanzie per settori del proletariato, ecc.

Si verifica cioé un processo per cui la politica sindacale prende in mano le rivendicazioni economiche proletarie per svolgerle su un piano non di classe, anzi di smembramento della classe. La politica dei sindacati svizzeri, firmata una pace addirittura formale con il Capitale, si è fondata non certo sulla negazione di ogni rivendicazione economica, ma sulla creazione di una frattura profonda fra l’aristocrazia proletaria degli operai svizzeri e la massa degli operai immigrati; una parte del proletariato svizzero ha potuto cioé conquistare dei privilegi economici a patto di una pace dichiarata con il padronato, cioé della rinunzia allo sciopero ed ai metodi dell’azione diretta e sulla pelle di un’altra parte del proletariato.

I sindacati italiani si sono comportati nello stesso modo: passato il periodo in cui la ricostruzione postbellica poneva il problema dei sacrifici e basta, essi impostarono una politica di divisione della classe sulla base di privilegi concessi ad alcuni reparti e negati ad altri. Tutti ricordiamo che gli stessi bonzi che ora parlano di "perequazione" salariale, furono fino al 1970 sostenitori accaniti degli aumenti percentuali, che favorivano le categorie e le qualifiche più alte, delle vertenze di azienda e di settore, del salario legato alla produttività che favoriva i lavoratori della grandi aziende a scapito degli altri, dell’istituzione dei cottimi, dei premi di produzione ed in genere di tutto ciò che poteva dividere un operaio dall’altro. Essi sono stati alla testa di scioperi ed agitazioni per miglioramenti economici con l’unica preoccupazione che questi rimanessero nell’ambito della legalità e della "democratica convivenza", spezzando tutti quei metodi di lotta che potevano suscitare nei proletari un istinto di classe e favorendo la formazione e la codificazione di una prassi secondo cui lo sciopero è una semplice dimostrazione simbolica, preludio e base della pacifica contrattazione fra le "controparti".

È essenziale questo per comprendere la situazione attuale in cui i vertici controrivoluzionari mantengono la capacità di legare alla loro politica la grande massa dei proletari. Dipende dal fatto che i proletari, o almeno vasti strati di essi, hanno trovato nel sindacato un’effettiva difesa dei loro interessi corporativi, cioé di singoli, di reparti, di gruppi, di aziende, di categorie, pagando naturalmente tutto questo con la rinuncia a muoversi su di un piano di classe. Oggi i proletari si trovano sorpresi di fronte alla realtà che la crisi capitalistica mette a nudo: che i loro dirigenti non hanno mai difeso i loro interessi come classe, ma hanno difeso l’economia capitalistica, che le loro organizzazioni sono diventate degli uffici di amministrazione e sono inadatte a qualsiasi lotta frontale e decisa.

Il fatto è che esse lo erano anche prima, ma la loro realtà veniva nascosta dagli effettivi benefici che piovevano su parte del proletariato grazie allo slancio produttivo. Ora che la crisi economica nega questi benefici o li riduce al minimo l’organismo sindacale si presenta improvvisamente per quello che è: una cinghia di trasmissione degli interessi capitalistici nel seno della classe operaia.

Per la massa dei proletari questa è una sorpresa ed un trauma, genera inevitabilmente in un primo tempo sgomento e demoralizzazione nella classe, tanto più che la politica sindacale continua a mantenere anche oggi, e manterrà finché la situazione glielo permetterà, caratteristiche che possono apparire come difesa delle condizioni di certi strati e di certi gruppi della classe. Ecco perché è da ritenersi veramente disastrosa agli effetti della ripresa di classe la tendenza ad isolarsi tipica di alcuni gruppi proletari che già oggi sentono il bisogno di contrapporsi su basi di classe alla politica tricolore.

La liberazione delle masse proletarie dall’influenza di questa politica non sarà cosa né facile né breve, né tanto meno automatica. Esigerà un ulteriore inasprimento della crisi economica perché i proletari siano materialmente costretti a reagire, ma esige anche un’opera costante e paziente di dimostrazione e di esempio da parte degli operai più avanzati e combattivi i quali non devono mai accettare di lasciarsi isolare dalla massa dei loro compagni, ma devono servirsi di ogni occasione e di ogni possibilità anche minima per portare in mezzo ad essi il linguaggio di classe, l’appello alla resurrezione dei sindacati di classe.
 
   


ORGANISMI ECONOMICI E COSCIENZA DI CLASSE

La nostra lunga trattazione precedente ci ha condotto, attraverso l’analisi dell’esperienza storica di classe, alla conclusione seguente iscritta a tutte lettere nelle tesi del partito: il risorgere degli organismi economici di classe è fattore indispensabile della ripresa del processo rivoluzionario e costituisce il segno tangibile e reale che il proletariato, spinto dalle contraddizioni economiche capitalistiche, ha ripreso la sua battaglia. Di fronte a questi organismi, che le contraddizioni materiali irresistibilmente suscitano, deve stare un partito rivoluzionario dotato di fermo ed invariante programma, il quale abbia saputo mantenere la rotta rivoluzionaria anche nei tempi e nelle circostanze storiche più negative ed al quale le vicende della lotta montante del proletariato diano la possibilità di mettersi alla testa degli organismi proletari spontanei, di prevalervi su ogni altro indirizzo e tendenza politica, peggio se falsamente rivoluzionaria, e di fare di questi organismi la "cinghia di trasmissione" del proprio indirizzo.

Su questa tesi generale, nel corso della trattazione, ne abbiamo innestate altre non meno nostre da sempre: prima di tutto che il sorgere spontaneo di questi organismi di classe non è inteso dal partito in senso passivo, come se si trattasse di aspettarlo e basta o di auspicarlo a parole. Il partito favorisce, viceversa, dovunque è possibile, la nascita di questi organismi, indirizza i moti anche sporadici e limitati dei gruppi proletari verso questo scopo, ne appoggia e difende i tentativi, diviene, in determinate situazioni e sfavorevoli dal punto di vista della combattività proletaria, uno dei pochi o l’unico fattore di appoggio e di forza a quei pochi operai che si mettono sulla giusta strada, l’unico garante del perseverare di questi organismi sul loro naturale terreno di difesa delle condizioni materiali proletarie, in battaglia contro tutte le forze e le influenze che intenderebbero portarli fuori da esso.

Contraddice questo atteggiamento di battaglia del partito a fianco dei tentativi anche minimi dei proletari di ritornare sul terreno classista la fondamentale tesi marxista che le condizioni oggettive della rivoluzione non le crea la volontà di nessuno? Rispondiamo: il partito non ha la pretesa di creare le condizioni oggettive, che non dipendono né dalla sua azione né dalla sua volontà, ma suo compito è quello di interagire con gli sforzi anche minimi che i proletari intraprendono, di essere per essi un effettivo coefficiente di forza e di espansione su basi coerenti, mentre tutte le forze materiali ed ideologiche del nemico di classe tendono a demoralizzarli e a deviarli.

Il fatto che piccoli gruppi operai (veramente operai!) che si oppongono oggi alla "politica dei sacrifici" sorgano o meno non dipende dalla volontà del partito, ma dal peso della crisi economica mondiale; il fatto che essi si mantengano e prolifichino o degenerino non dipenderà in ultima analisi che da una serie di cause oggettive indipendenti dalla volontà di chiunque. Ma fra il loro sorgere ed il loro conservarsi o degenerare intercorre una battaglia, uno schieramento di forze in cui il partito non è semplice spettatore e freddo scrutinatore dei risultati, ma agente e difensore degli sforzi proletari con il suo preciso indirizzo di azione, nemico ed opposto a tutti gli indirizzi che vorrebbero soffocare queste energie.

Il fatto che gli organismi sindacali economici sorgano spontaneamente dalla lotta di classe e non siano una creazione del partito non ha mai significato, nella storia del movimento proletario, che i comunisti non siano stati i più attivi fra i fondatori e militi dei sindacati operai, i quali, molte volte, sono potuti sopravvivere soltanto per l’attività e la fatica dei militanti comunisti, agenti in prima linea come organizzatori del movimento operaio sindacale. Chi non vede che il partito con la sua parola, la sua chiara visione, le sue forze organizzate, i suoi uomini è anch’esso un fattore della situazione oggettiva e ad un certo punto, anzi, l’unico fattore che ne garantisca lo sbocco rivoluzionario?

La visione marxista del partito e della sua azione,

«rifugge dal fatalismo, passivo spettatore di fenomeni su cui non si sente di influire in modo diretto, come da ogni concezione volontaristica nel senso individuale, secondo cui le qualità di preparazione teoretica, forza di volontà, spirito di sacrificio, insomma uno speciale tipo di figura morale ed un requisito di "purezza" siano da chiedersi indistintamente ad ogni singolo militante dei partito, riducendo questo ad una èlite distinta e superiore al restante degli elementi sociali che compongono la classe operaia (...) L’errore fatalista e passivistico condurrebbe, se non a negare la funzione e l’utilità del partito, almeno ad adagiarlo senz’altro sulla classe proletaria intesa nel senso economico, statistico» (Tesi di Lione, 1926).


Altra tesi nostra, che abbiamo a lungo dimostrata, è che gli organismi operai spontanei non derivano la loro funzione ed il loro valore agli effetti della mobilitazione della classe da una coscienza generale o da un insieme di idee omogenee sull’andamento e sulle finalità della lotta, ma dalla lotta stessa che sono costretti ad intraprendere in difesa delle condizioni materiali dei proletari, indipendentemente e, a volte, contro le stesse idee in essi predominanti. Il loro valore risiede e risiederà sempre nella loro esistenza stessa, che esprime la volontà dei proletari di contrastare l’attacco capitalistico alle condizioni di vita, cioé una esistenza materiale del proletariato indipendentemente dalla coscienza delle cause, dei metodi e delle finalità che ad essa si attribuiscono. È la loro azione di difesa pratica delle condizioni materiali, non l’idea che essi hanno di questa azione, che giustifica la loro esistenza.
 
 


PROLETARIATO E COSCIENZA POLITICA

L’unico organo di classe che collettivamente possieda una visione chiara e completa del processo rivoluzionario e di conseguenza una volontà finalistica e che aggreghi i suoi membri sulla base della adesione e questa visione è il partito politico di classe, il partito comunista marxista; mentre l’organismo operaio sindacale, cui da sempre i proletari aderiscono legati da una sola ed elementare idea comune, quella della difesa del pane, è perciò il teatro in cui si scontrano i più diversi indirizzi e le più diverse posizioni politiche aventi influenza sulle masse dei proletari.

L’indirizzo di partito si è dunque fondato su questa constatazione perfettamente marxista: che mai gli organismi economici di classe, neanche nella loro massima estensione ed anche al grado massimo di violenza della lotta da essi condotta, possono esprimere la coscienza di classe o un’idea coerente ed unica del processo della lotta di classe. Giusta Lenin e tutta la nostra scuola, il proletariato organizzato sul piano sindacale non giunge ad affrontare in maniera rivoluzionaria il problema del potere statale, ma lo affronta in maniera "tradeunionistica", che non significa necessariamente pacifica, ma, come negli esempi storici d’Italia 1920, di Germania 1919, di Russia 1917, di Spagna e di Francia 1936, al fine di "compartecipare", cioé influenzare la classe operaia lo Stato borghese, magari imposto con la violenza delle armi, magari espresso nel fronteggiarsi armato di organismi proletari e di organismi borghesi, fra i quali però non viene vista la inconciliabilità.

La situazione del "doppio potere" in Russia avrebbe potuto durare in eterno per i Soviet (non certo per lo Stato borghese che preparava l’offensiva contro di loro) se il partito bolscevico non avesse per essi ed in loro nome conquistato il potere. In Germania 1919, eliminata l’insurrezione spartachista, i soviet si piegarono a diventare istituti, poi naturalmente eliminati, della repubblica borghese di Weimar. In Italia, dal 1918 al 1920, un vasto e profondo movimento rivendicativo generale e violento poté essere incanalato sulla strada maledetta delle elezioni e della pacificazione con il potere borghese; in Spagna e in Francia 1936 addirittura sulla via del "fronte popolare", cioé della pacificazione con il proprio Stato democratico, facendo delle masse proletarie, sindacalmente organizzate e perfino armate, la carne di cannone di una presunta guerra della democrazia contro il fascismo.

La classe proletaria nel suo insieme è dunque capace di esprimere un’azione ed una organizzazione della lotta difensiva a cui la costringono le sue condizioni economiche materiali; in questa lotta difensiva può giungere fino all’uso della violenza armata ed a minacciare lo Stato borghese; ma il passaggio da questa lotta di difesa dell’offensiva rivoluzionaria, all’attacco contro lo Stato capitalistico, è possibile solo per l’esistenza di un organo speciale e particolare della classe, cioé il partito politico che riesca a stabilire la sua influenza sugli organismi proletari.

La distinzione fondamentale che noi marxisti tracciamo fra organismi operai e partito politico, negando in assoluto ai primi la possibilità di possedere una coscienza completa del processo rivoluzionario e della loro stessa azione, non ha nulla a che fare con un qualche assioma metafisico che definirebbe l’operaio in quanto tale incapace di acquisire la coscienza politica attribuendone invece la facoltà ai cosiddetti intellettuali. Prima di tutto per noi la coscienza politica non è patrimonio di nessun individuo preso a sé, neanche se conosce a memoria tutto il marxismo, ma di un organo collettivo, il partito; in secondo luogo questo organo non è una assemblea di intellettuali e di "colti", di conoscitori e di esperti di marxismo, ma un organismo di azione e di combattimento predisposto ed allenato in tutte le sue manifestazioni all’attacco offensivo contro lo Stato borghese.

Non si tratta affatto per noi di negare la capacità di comprendere la globale visione di classe all’operaio perché è un operaio, e di attribuirla a "coloro che sanno". La nostra concezione è inversa a quella aberrante ed antimarxista del partito come "intellettuale collettivo" della classe.

Diremo, e lo abbiamo scritto nelle nostre tesi, che se una questione del genere si dovesse impostare, noi definiremmo l’intellettuale come un transfuga della propria classe, la piccola borghesia, il quale può essere utile al partito con la dovuta cautela ed a condizione che lasci a casa tutte le sue "belle capacità" e si limiti ad aderire umilmente all’insieme di posizioni che storicamente rappresentano il partito. E la stessa cosa il partito richiede all’operaio, cioé che nell’aderire al partito di classe abbandoni la propria etichetta di fabbrica, di categoria, di professione e di nazionalità per divenire soldato e milite di un indirizzo unico il quale rappresenta l’esperienza storica della classe nel suo insieme. Non è dunque ad una distinzione di carattere sociologico che facciamo risalire la possibilità o meno di possedere la coscienza globale della classe: non la possiedono gli operai per il fatto di essere operai e non la possiedono gli intellettuali per il fatto di "sapere": la possiede l’organo partito che organizza indifferentemente tutti coloro che accettano un insieme monolitico ed intangibile di posizioni e che si disciplinano ad agire sulla base di esse come un corpo unico rivolto alla conquista rivoluzionaria del potere politico e all’esercizio della dittatura.
   
 


ORGANI DIVERSI PER FUNZIONI DIVERSE

La questione è di altra natura. La classe proletaria per passare dalla lotta difensiva contro l’oppressione capitalistica alla lotta offensiva per la distruzione del regime di classe ha bisogno di un organo speciale che sia predisposto a questa funzione.

Quest’organo, da chiunque sia composto e qualunque sia la sua estensione, deve essere allenato ad una visione rivoluzionaria, cioé a considerare l’attuale assetto sociale come transitorio e distruttibile, e alla possibilità di un futuro assetto sociale a questo opposto, la società comunista futura. Deve essere allenato a considerare i mezzi e le fasi del trapasso nel campo politico, economico e sociale ed a vedere le lotte ed i risultati che la classe realizza nella sua battaglia quotidiana di difesa contro gli effetti della dominazione capitalistica come lotte e risultati parziali e transitori, come "conquiste", che solo l’abbattimento definitivo del regime può assicurare. Esso vede perciò la classe operaia e le sue lotte come preparazione e "scuola di guerra" ad una lotta più generale ed unica di tutta la classe per un unico scopo: non più la difesa delle condizioni materiali all’interno del regime presente, ma la distruzione di esso e la instaurazione della dittatura di classe del proletariato come mezzo del trapasso ad un nuovo modo di vivere e di produrre della specie umana.

Il partito riassume in sé la classe in senso generale, la vede come una unità al di là delle distinzioni contingenti di fabbrica, di categoria, di località o di nazione. Esso vede la classe ed il suo movimento come una unità nel tempo e considera la classe come un’entità storica il cui movimento è dotato di una continuità riassumibile nella coscienza di interessi generali e globali; è predisposto a trarre le esperienze delle lotte proletarie, a valutarne limiti e debolezze, vittorie e sconfitte ed a selezionare su questa base metodi e strumenti di azione sempre più adatti al fine che esso si propone: la distruzione dello Stato borghese, la dittatura rivoluzionaria.

Abbiamo lasciata per ultima l’affermazione che questa capacità di considerare la classe nella sua unità di tempo e di spazio, e perciò di trarre le esperienze dalla lotta di classe, è data al partito dal maneggio di un’arma formidabile che è il prodotto del moderno sviluppo del pensiero scientifico: la teoria marxista considerata come l’unica in grado di spiegare i fenomeni sociali e gli avvenimenti storici. L’abbiamo lasciata per ultima in quanto vogliamo affermare che questa necessità di considerare le mille battaglie ed i mille episodi della lotta proletaria come unici nel tempo e nello spazio fu propria di tutti i tentativi del proletariato di organizzarsi in partito politico, anche quando esso non aveva a disposizione il marxismo. Non avendo a disposizione la teoria adeguata si fecero errori ed approssimazioni e si presero cantonate formidabili, ma non si perse mai la nozione che il partito proletario è quell’organo capace di considerare la classe nel suo insieme e nella sua globalità: la Prima Internazionale non fu marxista, ma fu una Internazionale, cioé cercò di rappresentare l’elemento unificante di tutte le sparse membra del proletariato e delle sue battaglie di ogni giorno al di là dello spazio e del tempo.

La classe proletaria ha dunque bisogno, per riuscire a muoversi come un unico esercito, di un organo che sia capace di trarre dalle lotte che essa intraprende ed ha intrapreso gli elementi unificanti, il loro comune denominatore di classe, al di là degli alti e bassi, al di là delle situazioni contingenti, al di là delle avanzate e delle ritirate. E questa capacità significa non solo conoscenza del nemico, del comportamento delle altre classi, delle variazioni storiche che si determinano; non significa soltanto esperienza di come la classe si muove, dei fattori che potenziano o deprimono il suo movimento, dei mezzi usati dall’avversario e di quelli che la classe deve adottare per vincere; significa anche e contemporaneamente selezione di quegli elementi della classe la cui combattività supera gli obiettivi ed i motivi contingenti e si esalta nell’organizzazione del partito; significa anche ricerca e valorizzazione, nel più limitato e parziale movimento degli operai, di quegli elementi che sono suscettibili di costituire l’anello di congiunzione e la base di future battaglie più ampie.
 
   


L’AVVENTURISMO PICCOLO BORGHESE

Non discostiamo troppo dal nostro argomento se cerchiamo di svolgere un’altra distinzione, utile ad incrementare il sano disprezzo della classe operaia contro l’infinita miriade di gruppi e gruppetti che oggi osano richiamarsi alla rivoluzione, e lo possono fare soltanto perché la rivoluzione non c’é e la classe proletaria è disposta a che tutto si giochi sulla sua pelle apparentemente senza colpo ferire.

In mille nostri articoli abbiamo enunciato la tesi che non disprezziamo l’attaccamento che la classe operaia dimostra (purtroppo) verso i degeneri partiti opportunisti e rifiuta di attaccarsi al carro dei mille gruppuscoli studenteschi e debosciati. A nessuno sfugge del resto che in tutto il nostro lavoro noi trattiamo i partiti opportunisti come un nemico mortale, mentre irridiamo a questi gruppi senza capo né coda. Non chiamiamo "carnevale" le adunate oceaniche con cui il maledetto P.C. spagnolo schiera i proletari di Spagna sul fronte borghese, ma confermiamo il nostro sprezzante "Carnevale a Bologna".

In questa nostra visione i gruppuscoli "sinistri" sono più spregevoli dello stesso P.C.I. e dei suoi confratelli, non più vicini a noi sul terreno della rivoluzione, ma mille miglia più lontani dalla nostra concezione della necessità del partito. Il P.C.I. è un partito, è il partito borghese in campo operaio, il partito che da cinquanta anni mantiene la classe operaia schierata sotto le bandiere della borghesia, ma è un partito.

Coloro invece i quali pretendono di scendere nell’arena della rivoluzione e lo fanno senza neanche darsi la pena di rappresentarsi la classe proletaria da un punto di vista unico e globale nel tempo e nello spazio, coloro che non avendo visto grandi scioperi proletari ed avendo visto quattro goliardate studentesche in Francia o in Italia presunsero di trovarsi di fronte ad una "nuova esperienza" che la faceva finita con il marxismo e cianciarono di "neocapitalismo", di "nuovo ruolo" dello studentame, di "nuova fase" della rivoluzione, ecc., non sono un partito, neppure borghese, sono escrescenze schizofreniche della piccola borghesia.

Coloro che si innamorarono del "socialismo cubano" e poi di quello "cinese" ed inneggiarono a Fidel Castro o a Mao perché erano "caratteristici" senza darsi la pena di tentare neanche una sistemazione generale del fenomeno cinese o cubano; coloro che pretendono di dedurre una "esperienza rivoluzionaria" dalle quattro manifestazioni semipacifiche dello studentame italiano e propongono di fare a meno di Marx e di Lenin, perché dopo essi c’é stato, putacaso, "l’esperienza del ’68 francese e dell’autunno caldo italiano"; questi non sono un partito, sono avventurieri politici. Essi rinnovano in maniera spudorata il vecchio adagio bernsteiniano "il fine è nulla il movimento è tutto", ma lo rinnovano alla maniera di Mussolini: niente storia, niente teoria, niente lezioni generali; l’azione è tutto, il successo è tutto.

E con questo miserabile bagaglio di elucubrazioni, di artifici, di verità che durano un giorno e che il giorno dopo non sono più vere pretenderebbero di rappresentare un "campo rivoluzionario" mentre negano nella sua essenza quello che della rivoluzione è l’organo fondamentale, il partito.

La classe operaia li rigetta e fa bene, anche se, purtroppo, nel marasma ci va a finire anche qualche operaio combattivo disgustato dall’opportunismo e dalle sue gesta: essa non ha bisogno di "carnevali", ha bisogno del suo organo politico rivoluzionario. E il partito è il solo che può dare alle attuali generazioni di operai combattenti la spiegazione generale di tutto il campo della lotta sociale a livello mondiale e come esperienza dedotta da un secolo e passa di battaglie proletarie, l’unico che, di conseguenza, sia in grado di impostate il piano della battaglia futura che il proletariato a livello mondiale dovrà intraprendere per distruggere il dominio internazionale del capitale ed instaurare la sua, altrettanto internazionale, dittatura di classe.
   
 


LE NOSTRE CLASSICHE TESI

Per i proletari la questione della scelta dei metodi di azione significa scelta degli strumenti che si ritengono più idonei per la difesa delle proprie condizioni o per ottenere miglioramenti economici. Da questo punto di vista vale la legge del minimo sforzo, cioè le masse tendono a scegliere quei metodi che conducono o sembrano condurre al massimo risultato con il minimo dispendio di energie. Per le masse non esiste perciò una scala di valori dei metodi di lotta e non ha alcun senso l’affermazione che, ad esempio, uno sciopero con picchetti magari armati sia qualitativamente superiore ad una manifestazione pacifica o ad una semplice petizione. Bisogna sempre ricordare che ciò che spinge le masse all’azione sono i bisogni materiali e non le idee, e perciò esse giudicano in base ai risultati e non in base a considerazioni estetiche o astratte.

Persino la spinta a prendere le armi e a porre la questione del potere non appare al proletariato qualitativamente diversa dallo sciopero economico: questa decisione viene presa per necessità quando tutti gli altri metodi si mostrano praticamente inadeguati.

In questo senso non esistono canoni formali validi per ogni situazione e per ogni categoria di lavoratori e, per poter dare in ogni situazione le giuste direttive pratiche, è necessario che il Partito, oltre a mantenere la rotta già tracciata, studi attentamente i casi concreti.

Il Partito Comunista invece, essendo un organo che racchiude in sé l’esperienza delle lotte passate e la capacità di prevedere il futuro sviluppo della lotta di classe, sa che la scelta dell’uno o dell’altro metodo di azione non è indifferente né ai fini del risultato immediato della lotta né al suo sbocco finale. La superiorità del nostro indirizzo sta nel fatto che noi sappiamo che il capitalismo non è in grado di assicurare condizioni di vita umane al proletariato e che la lotta in difesa del pane conduce allo scontro con l’apparato statale capitalistico perché solo con l’abbattimento di questo apparato si avrà la fine dello sfruttamento e dei privilegi di classe.

Per questo il Partito rappresenta la coscienza storica della classe, perché esso conosce la strada giusta per la sua emancipazione. Tutto il nostro patrimonio teorico consiste nella descrizione di questo cammino e dei mezzi per non smarrire la rotta che, con l’accumularsi delle esperienze, viene sempre più studiata e precisata.

Questo venne espresso chiaramente nel Manifesto del 1848:

     «Gli enunciati teorici dei comunisti non poggiano affatto sopra idee o principi, che questo o quello fra i rinnovatori dei mondo abbia escogitati e scoverti. Quegli enunciati sono soltanto la espressione generalizzata delle condizioni di fatto di una lotta di classi che realmente esiste, ossia di un movimento storico che si svolge sotto ai nostri occhi».
Perciò il Partito, che conosce il movimento reale e prevede gli sviluppi futuri, che sa che i movimenti delle masse sono dominati dalla necessità, non fa derivare le sue direttive pratiche di azione da considerazioni morali o astratte, ma da un attento esame delle situazioni. I comunisti non si distinguono perché sempre e comunque chiamano alla mobilitazione generale dei proletariato o alla insurrezione, ma perché dimostrano sempre agli operai che lo sbocco finale della lotta dovrà essere l’abbattimento del capitalismo.

Questo non è in contraddizione con il fatto che si appoggino azioni e rivendicazioni limitate anche ad una sola azienda, o che in date situazioni si dia l’ordine di ritirata. L’opera degli organi sindacali del Partito non consiste nel contrapporre le azioni generali alle azioni parziali o gli scopi finali alle rivendicazioni immediate, ma nel dimostrare come questi siano collegati, cioè come la lotta di una fabbrica o categoria riesca meglio se è condotta assieme alle altre fabbriche o categorie e come tutte le conquiste siano sempre effimere finché la classe operaia non avrà tolto i mezzi di produzione dalle mani dei capitalisti.

Nella scelta dei mezzi di azione il Partito indica alle masse quelli che stanno sul cammino che porta alla Rivoluzione, mentre tutte le altre formazioni politiche indicano alle masse metodi che le indeboliscono, le demoralizzano, le distolgono da questo cammino. Mentre tutti gli altri partiti o negano o cercano di utilizzare la lotta economica degli operai per i loro fini politici (es. per la conquista di una poltrona governativa), gli scopi finali del Partito Comunista, organo della classe operaia, coincidono con la difesa delle condizioni operaie. Perciò il Partito ha interesse che la lotta economica sia spinta al massimo grado, e nel corso di questa lotta si sforza di far prevalere sempre gli interessi generali della classe su quelli particolari, di dimostrare come tutte le conquiste sono effimere finché non sarà abolito il regime del lavoro salariato, e che solo con i metodi comunisti si può condurre efficacemente anche la lotta più limitata.

Al punto I delle Tesi di Roma (marzo 1922), si dice:

     «Il Partito Comunista, partito politico della classe proletaria, si presenta nella sua azione come una collettività operante con indirizzo unitario. I moventi iniziali per i quali gli elementi e i gruppi di questa collettività sono condotti a inquadrarsi in un organismo di azione unitaria sono gli interessi immediati di gruppi della classe lavoratrice suscitati dalle loro condizioni economiche. Carattere essenziale della funzione del Partito comunista è l’impiego delle energie così inquadrate per il conseguimento di obiettivi che, per essere comuni a tutta la classe lavoratrice e situati al termine di tutta la serie delle sue lotte, superano attraverso la integrazione di essi gli interessi dei singoli gruppi e i postulati immediati e contingenti che la classe lavoratrice si può porre».
Al punto 8 viene chiarito come il Partito si rafforza nel corso delle lotte operaie:
     «Presentando il massimo di continuità nel sostenere un programma e nella vita della gerarchia dirigente (al di sopra delle sostituzioni personali di capi infedeli e logorati) il partito presenta anche il massimo di efficace ed utile lavoro nel guadagnare il proletariato alla causa rivoluzionaria. Non si tratta qui semplicemente di un effetto di ordine didattico sulle masse e tanto meno della velleità di esibire un partito intrinsecamente puro e perfetto, ma proprio del massimo rendimento nel processo reale per cui, come meglio si vedrà innanzi, attraverso il sistematico lavoro di propaganda, di proselitismo e soprattutto di attiva partecipazione alle lotte sociali, si effettua lo spostamento dell’azione di un sempre maggior numero di lavoratori dal terreno degli interessi parziali e immediati a quello organico e unitario della lotta per la rivoluzione comunista, poiché solo quando una simile continuità esiste è possibile non solo vincere le esitanti diffidenze del proletariato verso il Partito, ma incanalare e inquadrare rapidamente e efficacemente le nuove energie acquisite nel pensiero come nell’azione comune, creando quella unità di movimento che è condizione rivoluzionaria indispensabile».
Il partito quindi
«trasporta una avanguardia del proletariato dal terreno dei moti spontanei parziali suscitati dagli interessi dei gruppi su quello dell’azione proletaria generale, ma non vi giunge con la negazione di quei moti elementari, bensì consegue la loro integrazione e il loro superamento attraverso la viva esperienza, con l’incitarne la effettuazione, col prendervi parte attiva, col seguirli attentamente in tutto il loro sviluppo» (punto 11).
Il Partito aveva allora influenza su una notevole parte del proletariato, e tuttavia non promosse mai azioni degli operai comunisti o influenzati dal partito, separate dalla restante massa dei proletariato.
     «Considerando suo massimo interesse l’evitare le scissioni dei sindacati e degli altri organi economici, fino a quando la dirigenza ne resterà nelle mani di altri partiti e correnti politiche, il partito comunista non disporrà che i suoi membri si regolino nel campo della esecuzione dei movimenti diretti da tali organismi in contrasto con le disposizioni di essi per quanto riguarda l’azione, pur svolgendo la più aperta critica dell’azione stessa e dell’opera dei capi» (punto 14).
Uno dei presupposti indispensabili dell’azione rivoluzionaria è che l’esercito proletario sia unito; perciò il partito si è sempre sforzato, allora come oggi, di salvaguardare l’unità proletaria, combattendo tutte le tendenze che, anche come reazione al tradimento dei bonzi sindacali, portano alla divisione e alla frammentazione di masse proletarie.

Il partito comunista non è l’unico partito che si richiama al proletariato; perciò in seno alle organizzazioni di classe degli operai il nostro indirizzo si dovrà sempre scontrare con indirizzi contrari che, fino alla vigilia della rivoluzione, saranno sempre prevalenti. Nella maggior parte dei casi dobbiamo perciò subire l’iniziativa degli avversari, non essendo in grado, non solo di dare direttive pratiche esclusive, ma nemmeno di contrapporre alle parole d’ordine dei bonzi sindacali parole d’ordine alternative: gli operai non ci seguirebbero o ci seguirebbero in minima parte, ne risulterebbe una demoralizzazione e si romperebbe il fronte di lotta. Nemmeno nel 1922 il partito era talmente forte da poter scegliere il terreno e il momento dell’azione; perciò nelle Tesi di Roma viene accuratamente studiato il problema dei comportamento degli organi sindacali del partito di fronte ad azioni proletarie condotte dai nostri avversari:

     «(...) I comunisti partecipano alle lotte anche negli organismi proletari economici diretti da socialisti, sindacalisti o anarchici, non si rifiuteranno di seguirne l’azione, se non quando l’insieme della massa per spontaneo movimento vi si ribellasse, ma dimostreranno come questa azione ad un dato punto del suo sviluppo viene resa impotente o utopistica a causa dell’errato metodo dei capi, mentre col metodo comunista si sarebbero conseguiti risultati migliori e utili ai fini del movimento generale rivoluzionario. Nella polemica i comunisti distingueranno sempre tra capi e masse, lasciando ai primi la responsabilità degli errori e delle colpe, e non tralasceranno di denunciare altrettanto vigorosamente l’opera di quei dirigenti che pur con sincero sentimento rivoluzionario propugnano una tattica pericolosa ed erronea» (punto 19).
     «Se è scopo essenziale per il partito comunista il guadagnare terreno in mezzo al proletariato accrescendo i suoi effettivi e la sua influenza a scapito dei partiti e correnti proletarie dissidenti, questo scopo deve essere raggiunto partecipando alla realtà della lotta proletaria su un terreno che può essere contemporaneamente di azione comune e di reciproco contrasto, a condizione di non compromettere mai la fisionomia programmatica ed organizzativa del partito» (punto 20).
     «Dall’esame della situazione si deve trarre un giudizio sulle forze del partito e sui rapporti tra queste e quelle dei movimenti avversari. Soprattutto bisogna preoccuparsi di giudicare l’ampiezza dello strato del proletariato che seguirebbe il partito quando questo intraprendesse un’azione e ingaggiasse una lotta. Si tratta di formarsi una esatta nozione degli influssi e delle spinte spontanee che la situazione economica determina in seno alle masse, e della possibilità di sviluppo di queste spinte per effetto delle iniziative del partito comunista e dell’atteggiamento degli altri partiti» (punto 27).
L’influenza dei partiti opportunisti nel proletariato è dovuta anche al fatto che essi agitano questioni che sono sentite dalle masse sfruttate perché corrispondono ai loro reali bisogni (es. la casa per gli operai); o meglio: questi partiti, per mantenere influenza nel proletariato, sono costretti a prendere in mano, a parole, alcune rivendicazioni corrispondenti ai bisogni dei lavoratori. Essi però lo fanno sempre in maniera distorta, subordinando il raggiungimento di questi obiettivi al mantenimento dell’ordine sociale, spargendo l’illusione che si possano raggiungere e mantenere senza abbattere il capitalismo e proponendo forme di azione inefficaci che portano a indebolire anziché a rafforzare la lotta. Perciò il partito deve in questi casi non negare le rivendicazioni in sé (in quanto gli altri partiti sono stati costretti ad agitarle), ma spingere a fondo il più possibile la lotta, dimostrando che solo i comunisti sanno condurla:
     «D’altra parte il partito comunista non trascurerà il fatto innegabile che i postulati su cui il blocco di sinistra impernia la sua agitazione attirano l’interesse delle masse e, nella loro formulazione, spesso corrispondono alle reali loro esigenze. Il partito comunista non sosterrà la tesi superficiale del rifiuto di tali concessioni, perché solo la finale e totale conquista rivoluzionaria meriti i sacrifici dei proletariato, in quanto non avrebbe nessun senso il proclamare questo con l’effetto che il proletariato passerebbe senz’altro al seguito dei democratici e socialdemocratici restando ad essi infeudato. Il partito comunista inviterà dunque i lavoratori ad accettare le concessioni della sinistra come una esperienza, sull’esito della quale esso porrà bene in chiaro con la sua propaganda tutte le sue previsioni pessimistiche, e la necessità che il proletariato, per non uscire rovinato da questa ipotesi, non metta come posta in gioco la sua dipendenza di organizzazione e di influenza politica. Il partito comunista solleciterà le masse ad esigere dai partiti della socialdemocrazia, che garantiscono della possibilità di realizzazione delle promesse della sinistra borghese, il mantenimento dei loro impegni, e con la sua critica di tali esperienze dimostrando come tutta la borghesia sia in effetti schierata su di un fronte unico e quei partiti che si dicono operai, ma sostengono la coalizione con parte di essa, non sono che i suoi complici e i suoi agenti» (punto 35).
     «Le rivendicazioni affacciate dai partiti di sinistra e specie dai socialdemocratici sono spesso di tal natura che è utile sollecitare il proletariato a muoversi direttamente per conseguirle; in quanto se la lotta fosse ingaggiata risalterebbe subito la insufficienza dei mezzi coi quali i socialdemocratici si propongono di arrivare a un programma di benefici per il proletariato. Il partito comunista agiterà allora, sottolineandoli e precisandoli, quegli stessi postulati, come bandiera di lotta di tutto il proletariato, spingendo questo avanti per forzare i partiti che ne parlano solo per opportunismo a ingaggiarsi e impegnarsi sulla via della conquista di essi. Sia che si tratti di richieste economiche, sia anche che esse rivestano carattere politico, il partito comunista le proporrà come obiettivi di una coalizione degli organismi sindacali (...) Il fronte unico sindacale così inteso offre la possibilità di azioni di insieme di tutta la classe lavoratrice dalle quali non potrà che uscire vittorioso il metodo comunista, il solo suscettibile di dare un contenuto al movimento unitario del proletariato, e libero da ogni corresponsabilità con l’opera dei partiti che esibiscono per opportunismo e con intenti controrivoluzionari il loro appoggio verbale alla causa dei proletariato» (punto 36).
     «Abbiamo considerato il caso in cui l’attenzione delle masse sia richiamata dai postulati che i partiti della sinistra borghese e della socialdemocrazia formulano come caposaldi da conquistare o da difendere, e in cui il partito comunista li propone a sua volta, con maggiore chiarezza ed energia, al tempo stesso che fa aperta critica della insufficienza dei mezzi da altri proposti per realizzarli. In altri casi però immediate e urgenti esigenze della classe lavoratrice, sia di carattere di conquista che di difesa, trovano indifferenti i partiti di sinistra e i partiti socialdemocratici. Non disponendo di forze sufficienti per chiamare direttamente le masse a quelle conquiste, a causa dell’influenza dei socialdemocratici su di esse, il partito comunista, evitando di offrire un’alleanza ai socialdemocratici, anzi proclamando che essi tradiscono persino gli interessi contingenti e immediati dei lavoratori, formulerà quei postulati di lotta proletaria invocando il fronte unico del proletariato, realizzato sul terreno sindacale, per la loro realizzazione. La effettuazione di questo troverà al loro posto i comunisti che militano nei sindacati, ma d’altra parte lascerà al partito la possibilità di intervenire quando la lotta prendesse un altro sviluppo, contro cui inevitabilmente si schiererebbero i socialdemocratici e talvolta i sindacalisti ed anarchici. Invece il rifiuto degli altri partiti proletari a effettuare il fronte unico sindacale per quei postulati sarà utilizzato dal partito comunista per abbattere la loro influenza, non solo con la critica e la propaganda che dimostrino come si tratti di una vera complicità con la borghesia, ma soprattutto col partecipare in prima linea a quelle azioni parziali del proletariato che la situazione non mancherà di suscitare sulla base di quei caposaldi per cui il partito aveva proposto il fronte unico sindacale di tutte le organizzazioni locali e di tutte le categorie, traendo da questo la dimostrazione concreta che i dirigenti socialdemocratici, opponendosi alla estensione delle azioni, ne preparano la sconfitta. Naturalmente il partito comunista non si limiterà a questa opera di rovesciamento sugli altri delle responsabilità di una tattica errata, ma con estrema sagacia e stretta disciplina studierà se non giunga il momento di passare sopra alle resistenze dei controrivoluzionari, quando nello svolgersi dell’azione si determini una situazione tale in seno alle masse che esse seguirebbero, contro ogni resistenza, un appello all’azione del partito comunista. Una simile iniziativa non può essere che centrale e mai è ammissibile che sia presa localmente da organismi del partito comunista o sindacati controllati dai comunisti» (punto 40).
     «Non sempre un movimento generale iniziato dal partito comunista per il tentativo di rovesciare il potere borghese potrà essere annunciato con questo aperto obiettivo. La parola d’ordine di ingaggiare la lotta potrà, salvo caso di eccezionale precipitare di situazioni rivoluzionarie che sommuovano il proletariato, riferirsi a caposaldi che non sono ancora la conquista del potere proletario, ma che in parte sono realizzabili solo attraverso questa suprema vittoria, benché le masse non li vedano che come esigenze immediate e vitali, e in parte limitata, in quanto siano realizzabili da parte di un governo che non sia ancora quello della dittatura proletaria, lasciano la possibilità di fermare l’azione a un certo punto che conservi intatto il grado di organizzazione e di combattività delle masse, quando appaia impossibile continuare la lotta fino alla fine senza compromettere, con l’esito, le condizioni di riprenderla efficacemente in situazioni ulteriori» (punto 42).
     «Neppure è da escludersi che il partito comunista trovi opportuno lanciare direttamente la parola d’ordine di una azione pur sapendo che non si tratta di giungere fino alla suprema conquista rivoluzionaria, ma solo di condurre una battaglia da cui l’avversario esca scosso nel suo prestigio e nella sua organizzazione e il proletariato materialmente e moralmente rafforzato. In tal caso il partito chiamerà le masse alla lotta formulando una serie di obiettivi che potranno essere quelli stessi da raggiungere o apparire più limitati di quelli che il partito si propone di realizzare nel caso che la lotta si svolga con successo. Tali obiettivi, soprattutto nel piano d’azione del partito, dovranno essere gradualmente collocati in modo che la conquista di ognuno di essi costituisca una posizione di possibile rafforzamento per una sosta verso lotte successive, evitando, per quanto più è possibile, la tattica disperata di lanciarsi nella lotta in condizioni tali che solo il trionfo supremo della rivoluzione costituisca la probabilità favorevole, mentre nel caso opposto vi è la certezza della disfatta e della dispersione delle forze proletarie per un periodo imprevedibile. Gli obiettivi parziali sono dunque indispensabili per conservare il sicuro controllo dell’azione, e la loro formulazione non è in contrasto con la critica del loro stesso contenuto economico e sociale in quanto le masse potrebbero accoglierli non come occasioni di lotta che sono un mezzo e un avviamento alla vittoria finale, ma come finalità di valore intrinseco sulle quali si possa soffermarsi dopo averle conquistate. Naturalmente è sempre un delicato e tremendo problema il fissare questi scopi e termini dell’azione, è nella esercitazione della sua esperienza e nella selezione dei suoi capi che il partito si tempra a questa suprema responsabilità» (punto 43).
Infine le tesi così concludono:
     «Tutta la tattica del partito comunista non è dettata da preconcetti teorici o da preoccupazioni etiche ed estetiche, ma solo dalla reale proporzione dei mezzi al fine ed alla realtà del processo storico, in quella sintesi dialettica di dottrina e di azione che è il patrimonio di un movimento destinato ad essere il protagonista del più vasto rinnovamento sociale, il condottiero della più grande guerra rivoluzionaria».
Dalle Tesi risulta chiaro che il partito, nel campo delle lotte proletarie non ha mai assunto un atteggiamento scissionista, anche se queste erano (come nella maggior parte dei casi) dirette da altri partiti e anche se la formulazione delle rivendicazioni e la scelta dei mezzi non corrispondeva alle nostre finalità.

Significa forse questo che il partito subisce le direttive degli opportunisti? No! Come è ben spiegato nelle tesi, la disciplina nell’azione, il marciare compatto di tutta la classe operaia, con i comunisti in prima fila, si accompagna alla più feroce critica dei capi sindacali e del modo con cui essi conducono l’azione.

Alla base di questo atteggiamento, che ad un idealista o ad un religioso apparirebbe contraddittorio, sta la considerazione per noi ovvia che, come è detto nelle Tesi, gli opportunisti proclamano delle agitazioni sulla base dei reali bisogni delle masse al solo scopo di mantenere la loro influenza in esse e non intendono affatto mettere in pratica nemmeno le parole d’ordine da essi formulate. Da questo noi deduciamo che sono i bonzi a subire la pressione delle masse proletarie e che il miglior modo di dimostrare che sono dei traditori è quello di spingere a fondo le lotte da essi stessi proclamate, con formulazioni che travisano o nascondono le reali esigenze proletarie.

Un’altra considerazione della massima importanza è che, mentre tutti gli altri partiti tendono a dividere la classe, anteponendo sempre i loro interessi particolari di chiesa o di bottega, il partito comunista ha interesse a far sì che la classe operaia marci sempre e in ogni circostanza unita, perché questa è una delle condizioni indispensabili affinché la lotta rivoluzionaria riesca vittoriosa. Nel 1921 i comunisti si separarono dai riformisti e fondarono il Partito Comunista d’Italia; ma gli operai diretti dai comunisti non si separarono affatto dalla massa del proletariato; ciò fu fatto invece in Germania dal KPD e fu un errore fatale che portò alla sconfitta della rivoluzione e alla distruzione del partito.

Perciò il partito mira in ogni caso a salvaguardare questa unità: anche se momentaneamente le masse proletarie vengono portate sulla strada del riformismo, dell’azione legalitaria, ecc., devono marciare unite: in questo modo esse imparano e si addestrano per quando finalmente imboccheranno la rotta giusta. Deve essere compenetrata in ogni operaio l’idea che ci si muove come un sol uomo.

Gli opportunisti invece fanno di tutto perché dalle azioni che essi stessi sono costretti a proclamare derivi una demoralizzazione e per gli operai una sfiducia nelle proprie forze e cercano in tutti i modi di far dimenticare loro la necessità di marciare uniti. Perciò non sarebbe affatto favorevole per il futuro sviluppo della lotta di classe che, magari come reazione in buona fede al tradimento dei bonzi sindacali, si manifestasse nel proletariato una tendenza al frazionismo, al prolificare di gruppi e gruppetti chiusi e separati, anche se combattivi o addirittura "rivoluzionari".

I comunisti quindi non rompono mai una azione di lotta proletaria, ma spingono a fondo la lotta, denunciano le motivazioni fasulle che i bonzi vi appiccicano sopra e cercano ove sia possibile di andare oltre le direttive da essi impartite.

Notiamo che nelle Tesi viene presa in considerazione la possibilità che i comunisti si rifiutino di seguire una azione indetta da dirigenti sindacali socialisti o anarchici, unicamente nel caso in cui «l’insieme della massa per spontaneo movimento vi si ribellasse». In altre parole i lavoratori comunisti non si separano mai nell’azione dalla massa del proletariato. Ciò non è in contraddizione con il fatto che si denunci al proletariato la inadeguatezza o la pericolosità di determinati metodi di azione o la illusorietà di determinate rivendicazioni.
 
 


POSIZIONE ASSUNTA DAL PARTITO DI FRONTE ALLA OCCUPAZIONE DELLE FABBRICHE NEL 1920

Nel 1920, in diverse regioni italiane (Piemonte, Liguria, Campania) gli operai iniziarono a occupare gli stabilimenti, prendendone di fatto possesso e preparandosi a difenderli con le armi. Il partito (allora Frazione Astensionista all’interno del PSI) ravvisò in questa azione molti pericoli; primo fra tutti quello della dispersione delle forze e della illusione che si potesse sconfiggere la borghesia senza colpire al cuore il suo Stato centrale. Tuttavia, pur mettendo in guardia il proletariato contro questi errori, che poi purtroppo si mostrarono fatali, il partito non negò l’azione, ma ne mise anzi in risalto il suo significato positivo: il proletariato, in una situazione di recessione economica, si rendeva conto che solo strappando i mezzi di produzione dalle mani dei capitalisti avrebbe potuto difendere le proprie condizioni materiali, e perciò si poneva la questione del potere. Il partito cioè non assunse una posizione dottrinaria; gli operai comunisti furono in prima fila anche nella occupazione delle fabbriche. Riportiamo a questo proposito l’articolo "Prendere la fabbrica o prendere il potere?", apparso su "Il Soviet" del 22 febbraio 1920:

     «Nelle agitazioni operaie degli ultimi giorni in Liguria si è verificato un fenomeno che da un poco di tempo si ripete con qualche frequenza e che merita di essere osservato come sintomo di uno speciale stato di spirito delle masse lavoratrici. Gli operai, anziché abbandonare il lavoro, si sono, per così dire, impadroniti degli stabilimenti, ed hanno cercato di farli funzionare per proprio conto, o meglio senza la presenza dei dirigenti principali. Questo vuol dire, prima di tutto, che gli operai si accorgono che lo sciopero è un’arma che non risponde più tanto, specialmente in certe condizioni. Lo sciopero economico attraverso il danno immediato dell’operaio stesso esercita la sua utile azione difensiva per il lavoratore a causa del danno che la cessazione del lavoro arreca all’industriale, per il fatto di diminuire il prodotto del lavoro che a lui appartiene. Ciò in condizioni normali dell’economia capitalistica, quando la concorrenza con relativo ribasso dei prezzi obbliga ad un continuo accrescimento della produzione stessa. Oggi i pescicani delle industrie, specie di quella metallurgica, escono da un periodo eccezionale durante il quale hanno realizzato guadagni enormi col minimo fastidio. Durante la guerra lo Stato forniva loro materie prime e carbone ed era contemporaneamente l’unico e sicuro compratore; lo Stato stesso, con la militarizzazione degli stabilimenti, provvedeva alla rigorosa disciplina delle masse operaie. Quali condizioni più favorevoli per un comodo esercizio? Questa gente ora non è più disposta ad affrontare tutte le difficoltà provenienti dalla scarsezza del carbone e delle materie prime, dall’instabilità dei mercato, dalle irrequietezze delle masse operaie; specialmente non è disposta a contentarsi di guadagni modesti nelle proporzioni che realizzava ordinariamente prima della guerra, e forse anzi in proporzioni minori. Essa quindi non si occupa degli scioperi, anzi se ne compiace, pur protestando a parole contro l’incontentabilità eccessiva e le pretese assurde degli operai. Ciò questi ultimi hanno compreso, e con la loro azione di impossessarsi della fabbrica e continuare a lavorare anziché scioperare vogliono significare che non è che non vogliono lavorare, ma che non vogliono lavorare come dicono i padroni, Essi non vogliono più lavorare per conto loro, non vogliono più essere sfruttati, vogliono lavorare per proprio conto ossia nell’interesse solo delle maestranze.
     «Questo stato d’animo, che si va facendo sempre più preciso, deve essere tenuto in massimo conto; soltanto non vorremmo che fosse fuorviato da false valutazioni. Si è detto che, dove esistevano i consigli di fabbrica, questi hanno funzionato assumendo la direzione degli opifici e facendo proseguire il lavoro. Noi non vorremmo che dovesse entrare nelle masse operaie la convinzione che sviluppando l’istituzione dei consigli sia possibile senz’altro impadronirsi delle fabbriche ed eliminare i capitalisti. Questa sarebbe la più dannosa delle illusioni. La fabbrica sarà conquistata dalla classe lavoratrice – e non solo dalla rispettiva maestranza, che sarebbe troppo lieve cosa e non comunista – soltanto dopo che la classe lavoratrice tutta si sarà impadronita del potere politico. Senza questa conquista, a dissipare ogni illusione ci penseranno le guardie regie, i carabinieri, ecc., cioè il meccanismo di oppressione e di forza di cui dispone la borghesia, il suo apparecchio politico di potere.
     «Questi vani e continui conati della massa lavoratrice che si vanno quotidianamente esaurendo in piccoli sforzi debbono essere incanalati, fusi, organizzati in un grande, unico, complessivo sforzo che miri direttamente a colpire al cuore la borghesia nemica. Questa funzione può solo e deve esercitare un partito comunista, il quale non ha e non deve avere altro compito, in questa ora, che quello di rivolgere tutte le sue attività a rendere sempre più coscienti le masse lavoratrici della necessità di questa grande azione politica, che è la sola via maestra per la quale assai più direttamente giungeranno al possesso di quella fabbrica che invano, procedendo diversamente, si sforzeranno di conquistare».

  


LO SCIOPERO DEL LUGLIO 1922 PROCLAMATO DALL’ALLEANZA DEL LAVORO

L’Alleanza del Lavoro era una coalizione di organismi sindacali, la cui costituzione venne promossa dagli organi sindacali dei partito. La sua direzione era in mano riformista e tuttavia l’essere arrivati ad una coalizione del genere fu un successo della tattica comunista. Non potendo più sostenere la pressione delle masse proletarie, la direzione riformista dell’Alleanza fu costretta a decidere lo sciopero generale nel luglio 1922. Lo fece però in modo tale che l’azione fallisse o fosse il più debole possibile: la decisione fu quasi improvvisa, senza preparazione e venne dopo che fino al giorno innanzi si era sostenuto la inopportunità dello sciopero; l’inizio dello sciopero non venne fatto coincidere con nessun fatto particolare che ravvivasse la combattività proletaria; la data dello sciopero, che doveva rimanere segreta, venne rivelata da un giornale riformista permettendo all’apparato statale di approntare le sue misure. Inoltre non fu preparata nessuna rete di collegamento per trasmettere gli ordini al proletariato organizzato.

Ci trovavamo ancora una volta a dover combattere in un terreno scelto dagli avversari più forti di noi e in condizioni sfavorevoli. Il partito non solo non diede la parola del sabotaggio ma mise a disposizione dell’Alleanza del Lavoro la sua rete sindacale, l’unica efficiente, per trasmettere l’ordine di sciopero e fu attraverso la nostra rete sindacale che lo sciopero – non proclamato da noi – fu condotto. Quando dopo due giorni l’azione rientrò per il tradimento dei riformisti e degli anarchici, anche gli organi sindacali del partito diedero l’ordine di ritirata in modo che anche la fine dell’azione avvenisse a ranghi serrati e non si trasformasse in una completa disfatta.

Potevamo forse agire diversamente? È fin troppo ovvio che se, dopo aver agitato di fronte alle masse la parola d’ordine dello sciopero generale, ci fossimo tirati indietro perché giudicavamo il momento non propizio, il partito si sarebbe irrimediabilmente compromesso agli occhi del proletariato; dovevamo perciò gettarci con tutte le nostre forze nell’azione, pur prevedendo che questa non sarebbe riuscita. Riformisti ed anarchici sabotarono invece lo sciopero, ma persero definitivamente la loro influenza sul proletariato italiano.
   
 


LO SCIOPERO ALLA O.M. DI BRESCIA

Questo sciopero era stato proclamato dai sindacati fascisti per rivendicazioni economiche. Il partito non diede l’ordine del sabotaggio, gli operai comunisti parteciparono allo sciopero e riuscirono a prenderne in mano la direzione.

Seguivano forse i nostri compagni in quel momento le direttive dei sindacalisti fascisti? Niente affatto: le rivendicazioni alla base dello sciopero erano sentite dalla maggioranza degli operai ed essi avrebbero seguito chiunque le avesse enunciate e avesse dimostrato sufficiente forza per sostenerle. I sindacati fascisti si trovarono costretti alla proclamazione dello sciopero per conservare la loro influenza e per evitare che lo facesse "qualcun altro". Noi però sapevamo che non sarebbero arrivati fino in fondo e che ad un dato momento avrebbero svicolato tradendo le loro stesse affermazioni. Fummo perciò ad un certo punto in grado di prendere in mano la direzione dello sciopero; ma se non avessimo accompagnato gli operai nell’azione sin dall’inizio, non avremmo neppure potuto tentare di farlo.

Non si trattava quindi di aderire alle direttive dei sindacalisti fascisti (che per noi era un falso problema dato che in realtà lo sciopero era per così dire "proclamato" dai bisogni dei lavoratori), ma di stare a fianco degli operai quando questi si muovevano; e ciò non era in contraddizione con la direttiva che il partito dava di sabotaggio dei sindacati fascisti. Il miglior modo di sabotare i sindacati fascisti era anzi quello di dimostrare agli operai la loro demagogia, e questo si poteva fare solo gettandosi nell’azione.

Nelle nostre Tesi di Lione (1926) viene denunciato l’atteggiamento della centrale del partito, in mano al gruppo ordinovista, che non seppe sfruttare la combattività operaia e deluse le aspettative dei proletariato lanciandosi nella sterile opposizione aventiniana.

     «Un altro grave errore è stato commesso nello sciopero metallurgico del marzo 1925. La Centrale non comprese come la delusione proletaria nei riguardi dell’Aventino lasciava prevedere un impulso generale alle azioni classiste sotto forma di un’ondata di scioperi, mentre se lo avesse fatto, si sarebbe potuto, come si trascinò la FIOM ad intervenire nello sciopero iniziato dai fascisti, spingerla decisamente oltre, fino allo sciopero nazionale, attraverso la costituzione di un comitato di agitazione metallurgico poggiato sulle organizzazioni locali dispostissime allo sciopero in tutto il paese.
     «L’indirizzo sindacale della Centrale non corrispose chiaramente alla parola della unità sindacale nella confederazione, anche malgrado il disfacimento organizzativo di questa. Le direttive sindacali del partito risentirono di errori ordinovisti a proposito dell’azione nelle fabbriche, nelle quali non solo si crearono o si proposero organismi molteplici e contraddittori, ma spesse volte si dettero parole che svalutavano il sindacato e la concezione della sua necessità come organo di lotta proletaria.
     «Fu conseguenza di questo errore il disgraziato concordato della FIAT, come il non chiaro indirizzo nelle elezioni di fabbrica, in cui non si impostò giustamente, ossia sul terreno del sindacato, il criterio di scelta tra la tattica delle liste classiste e quella della lista di partito».
 
 


LA SITUAZIONE ATTUALE

Se in questo lavoro abbiamo cominciato col citare i testi classici di partito, non è certo per "cavarcela in modo facile", di fronte a un problema pratico, con delle semplici citazioni o affermazioni di carattere generale, né per cercare "pezze d’appoggio" all’indirizzo pratico del piccolo partito attuale.

Si tratta invece dello sforzo che il Partito deve sempre fare di non debordare dalla linea già tracciata dalla Sinistra Comunista e della ricerca nelle grandi ed esaltanti lotte passate degli insegnamenti utili per proseguire sulla strada giusta anche nella misera realtà di oggi.

Venendo appunto dalle gloriose lotte del passato alle scarse e debolissime lotte attuali, la situazione è cambiata sia in senso quantitativo che qualitativo.

La CGIL del 1921 era un sindacato di classe diretto da agenti della borghesia. Gli operai nel primo dopoguerra vi affluivano in massa, costringendo i dirigenti della confederazione – non meno traditori di quelli attuali – alla proclamazione di grandi scioperi. Il Partito, organizzato all’interno con la Frazione Comunista, ne tentava la conquista "pacifica", utilizzando i meccanismi organizzativi interni (che erano di carattere schiettamente operaio) e proclamava la necessità della disciplina agli organi direttivi i quali un giorno sarebbero potuti passare nelle nostre mani.

La CGIL attuale, nata nel secondo dopoguerra non da uno spontaneo movimento proletario ma per iniziativa dei partiti opportunisti e dello Stato borghese, non è, come abbiamo sempre detto, un sindacato di classe, ma un sindacato tricolore e perciò il partito ne ha sempre esclusa la conquista per via pacifica, attraverso le strutture interne. Se nella CGIL del 1921 si trattava soltanto di cacciare i capi traditori, qui si tratta di far saltare tutta la struttura, che è una struttura completamente antioperaia. Perciò il partito ha sempre proclamato la necessità della indisciplina nei confronti delle dirigenze sindacali e della struttura che esse hanno messo in piedi.

In numerosi lavori di partito abbiamo spiegato le ragioni per le quali ravvisammo però una differenza tra le organizzazioni apertamente padronali come CISL, UIL e sindacati autonomi e la CGIL, che raccolse sempre – sotto una insegna "rossa" e in nome di una tradizione ogni giorno usurpata e tradita – la parte più combattiva del proletariato italiano.

Gli operai italiani in questa sigla videro il sindacato rosso e nel nome di questa sigla si mostrarono disposti a lottare e in molti casi anche a farsi licenziare, bastonare, ammazzare.

Fu questo stato d’animo del proletariato italiano, segno che la tradizione rossa non si era ancora spenta, che – pur ribadendo sempre la necessità della rinascita del sindacato di classe – ci portò a non escludere la possibilità di una riconquista "a legnate" della CGIL ad una direzione classista. Questa riconquista, naturalmente non avrebbe potuto essere graduale, ma sarebbe stata possibile solo sull’onda di un potente movimento proletario. Per questo fummo sempre strenui difensori della tradizione rossa che gli operai, nonostante tutto, vedevano nella sigla CGIL e che i bonzi cercavano ogni giorno di strapparsi di dosso. Perciò agitammo la parola d’ordine contro la unificazione sindacale con CISL e UIL e cercammo di organizzare la opposizione dei proletari alla introduzione del metodo di iscrizione per delega, tutti passi che portavano alla perdita di quelle tenui caratteristiche di classe che la CGIL conservava e a un suo chiudersi sempre maggiore agli operai combattivi. Ponemmo anche un termine oltre il quale avremmo considerata ormai definitiva la trasformazione della CGIL in organo dello Stato, e quindi esaurita ogni possibilità di riconquista anche "a legnate", cioè quando fosse stata attuata l’unione organica con CISL e UIL.

Nel fatto che ogni tanto la CGIL sventolasse la bandiera rossa, al solo scopo di fregare gli operai, noi vedemmo sempre un elemento positivo: per fregare gli operai italiani bisognava appunto sventolare la bandiera rossa; ovvero: gli operai italiani si lasciavano ancora commuovere dalla bandiera rossa. Cercammo perciò di valorizzare questo elemento positivo, di metterlo in risalto, di fare in modo che questo focherello rimasto dopo il grande incendio rivoluzionario del 1920 non si spegnesse.

Tornando al tema in questione, bisogna però fare una distinzione fondamentale: una cosa è l’esame degli organismi sindacali esistenti e il conseguente indirizzo pratico del partito nei loro confronti; un’altra cosa è l’atteggiamento del partito di fronte alle lotte economiche del proletariato. Una cosa è rompere la disciplina interna del sindacato, un’altra cosa è rompere una azione.

Nel primo dopoguerra i nostri operai erano organizzati nella CGIL, ma non ci tirammo indietro di fronte allo sciopero della OM di Brescia, pur essendo ufficialmente proclamato dal sindacato fascista. Nel secondo dopoguerra abbiamo sempre proclamato la indisciplina nei confronti della CGIL, ma mai abbiamo sabotato uno sciopero.

Non è certo per mania di purezza o per punto d’impegno che abbiamo mantenuto questa posizione (considerazioni dei genere non avrebbero in questo caso alcun significato). Il fatto che la CGIL del secondo dopoguerra non fosse un sindacato di classe, non vuol dire che non vi siano state o non vi siano lotte di classe. Nessuno può eliminare la lotta di classe perché essa nasce dalle contraddizioni del capitalismo. Gli operai sono spinti a muoversi indipendentemente dall’esistenza o meno di organismi classisti e l’opera dei sindacati tricolore non consiste tanto nell’impedire le lotte quanto nel fare in modo che queste si mantengano nel quadro dell’ordine capitalistico e non mettano a repentaglio la sicurezza del regime.

Perciò siamo sempre stati a fianco degli operai e abbiamo partecipato alle loro lotte cercando di dimostrare loro la necessità di rompere la disciplina sindacale e la necessità della rinascita del sindacato di classe. Distinguiamo sempre i capi delle masse, anche quando queste si muovono su obiettivi non classisti.

Abbiamo sempre fatto anche un’altra distinzione: tra le motivazioni ufficiali di uno sciopero e lo sciopero in sé come azione di lotta. Le parole d’ordine, le rivendicazioni ufficiali vengono coniate dai bonzi allo scopo di sviare le energie operaie verso obiettivi fasulli e di nascondere le vere rivendicazioni di classe; così essi dicono che, ad esempio, i ferrovieri scendono in lotta "per la riforma dei trasporti", i braccianti "per la riforma dell’agricoltura", gli statali "per la riforma della pubblica amministrazione" e così via. Ma ogni volta che gli operai interrompono assieme il lavoro essi lo fanno come una azione di lotta contro la disciplina capitalistica del lavoro, indipendentemente dagli obiettivi che i bonzi vi appiccicano sopra.

È nostra classica tesi la separazione tra azione e coscienza. Abbiamo sempre detto che negli individui prima viene l’azione, poi la coscienza. Se un ferroviere partecipa ad uno sciopero, negli obiettivi del quale i bonzi hanno inserito la "rivendicazione" di una riforma dei trasporti che porterà ad un maggiore sfruttamento e ad una riduzione degli organici, ciò non vuol dire che egli è d’accordo su questo risultato. Egli partecipa allo sciopero prima di tutto perché lo sente come una azione di lotta e, per quanto riguarda gli obiettivi, o non li conosce neppure o è convinto che attraverso la riforma dei trasporti si possano difendere meglio le sue condizioni materiali.

Se i bonzi sindacali potessero, non proclamerebbero mai nessuno sciopero. Essi hanno proclamato per anni la necessità delle riforme, ma si sono guardati bene dal mobilitare la classe operaia in una lotta generalizzata su questo obiettivo da loro stessi coniato. Allo stesso modo, sproloquiano contro la violenza fascista, ma si guardano bene dal mobilitare sul serio la classe operaia contro le squadracce.

Le forze sociali non si possono manovrare come i pezzi di un gioco di scacchi e, una volta messe in movimento, non si possono più fermare. Per questo la mobilitazione della classe operaia, anche per obiettivi fasulli, costituisce di per sé un pericolo per l’ordine capitalistico. Ordine borghese significa prima di tutto disciplina ferrea nei posti di lavoro, clima da caserma nelle fabbriche. Uno sciopero è sempre una rottura di questa disciplina e così viene inteso istintivamente dalla massa dei lavoratori che, prima ancora di riflettere sugli "slogan" del momento, considera con gioia l’abbandono del posto dove quotidianamente viene sfruttata.

Gli operai che rimangono al lavoro, appariranno sempre, indipendentemente dalle motivazioni individuali, come dei crumiri, come gente che indebolisce l’azione di sciopero. L’operaio singolo che di fronte ad uno sciopero "per gli investimenti" dicesse ad esempio: "non sciopero per gli investimenti perché è un obiettivo illusorio", commetterebbe diversi errori: prima di tutto identificherebbe l’azione di lotta con gli obiettivi che i bonzi hanno voluto appiccicarci sopra; in secondo luogo classificherebbe tutti gli operai che partecipano allo sciopero come dei "riformisti", in terzo luogo ammetterebbe che c’è contraddizione tra il partecipare a quello sciopero e il lottare per la rivoluzione e adotterebbe nel muoversi non il criterio materialistico dell’esame della situazione e della valutazione delle forze, ma il criterio idealistico che vede lo scontro sociale come scontro di idee (l’idea della rivoluzione contro l’idea delle riforme).

Infine egli si precluderebbe la possibilità pratica di parlare ai suoi compagni di lavoro e di essere ascoltato. Ammettendo anche che pur rimanendo in fabbrica fosse in grado di far conoscere la propria posizione apparirebbe sempre ai suoi compagni come un crumiro che tenta di giustificarsi con motivazioni pseudorivoluzionarie. Il partecipare allo sciopero gli avrebbe invece consentito di parlare ai suoi compagni trovandoli maggiormente disposti ad ascoltarlo e di portare le giuste posizioni: "ammesso e non concesso che i capitalisti investano dove vogliamo noi è un’illusione pensare che questo tornerà a vantaggio nostro e dei disoccupati; perciò rivendichiamo aumento dei salari e riduzione della giornata lavorativa". Sempre partecipando all’azione egli avrebbe potuto, se se ne fosse presentata l’occasione, proporre la sua trasformazione in una vera lotta a oltranza, su obiettivi di classe; in ogni caso le posizioni da lui espresse avrebbero avuto maggior forza di persuasione.

È chiaro che, se non consideriamo come dei nemici gli operai che seguono passivamente l’indirizzo pratico riformista, nemmeno dobbiamo considerare tali quelli che, spesso per sana reazione emotiva, esprimono tendenze centrifughe del genere.

Nella lotta sindacale non si scontrano idee ma metodi d’azione e gli operai comunisti nelle organizzazioni proletarie devono non tanto dimostrare che le nostre idee sono migliori delle altre, quanto che i nostri metodi di azione sono più efficaci degli altri e portano a migliori risultati. Ciò non è in contrasto con la propaganda, che deve essere sempre fatta, ma bisogna ricordare che la miglior propaganda di partito si fa con l’esempio e con la dimostrazione.
 
   


L’ATTEGGIAMENTO DEL PARTITO DI FRONTE ALLO SNATURAMENTO DELLE LOTTE OPERAIE

Gli attentati vari verificatisi in questi ultimi tempi vengono magistralmente utilizzati dai duci sindacali per terrorizzare la classe operaia, demoralizzarla, diluirne le energie in manifestazioni popolaresche. La tesi che essi sostengono si può riassumere così: "Il paese è in crisi e mentre tutte le forze sane si adoperano responsabilmente per salvare la situazione, gruppi di terroristi soffiano sul fuoco, accentuano gli odii per portare il paese allo scontro frontale, al caos economico, alla rovina, e ciò porterà alla disoccupazione e alla miseria le classi lavoratrici".

Non è niente di nuovo; una volta accettata la tesi padronale che le condizioni di vita operaie si possono salvaguardare solo se gli affari delle imprese vanno bene, appare logico sforzarsi di impedire il tracollo dell’economia.

La tesi che insinuano i bonzi è quindi che ogni nemico della pace tra le classi, ogni fautore della lotta ad oltranza è un sabotatore dell’economia, un provocatore, un terrorista. Di conseguenza, chiunque si opponga alla linea "responsabile" dei bonzi sindacali è un provocatore, un nemico della classe operaia. I bonzi presentano sempre la questione come un contrasto tra fautori della violenza e del caos contro le masse amanti della pace e dell’onesto lavoro e giungono persino a richiedere individualmente agli iscritti l’abiura e la condanna della violenza.

Per noi comunisti la questione così posta non ha alcun senso; noi sappiamo che la violenza è insita nei rapporti di produzione capitalistici e che tutti i sostenitori della pace sociale non fanno altro che avallare la violenza delle classi privilegiate sul proletariato. Mentre gli opportunisti di tutte le risme diffondono l’illusione che il proletariato si possa difendere opponendo dimostrazioni pacifiche o facendo appello alla legalità borghese, noi sosteniamo, sulla base dell’esperienza storica, che solo la violenza rossa potrà abbattere il regime capitalistico.

Per noi però la violenza è un mezzo necessario e, come non hanno senso la "pace" o la "libertà" in quanto categorie astratte, così non ha senso nemmeno l’ergersi a difensori dell’"idea della violenza" contrapposta alle "idee pacifiste". Perciò noi non contrapponiamo all’azione degli operai che oggi si muovono sul terreno legalitario e pacifico metodi di azione violenti, ma li accompagniamo e cerchiamo di aprire loro gli occhi sostenendo sempre che un giorno la borghesia stessa li costringerà allo scontro aperto.

Da materialisti sappiamo che i lavoratori oggi si mantengono sul terreno pacifico non perché hanno scelto di essere pacifisti anziché rivoluzionari, ma perché hanno ancora delle riserve, conservano ancora delle illusioni, sperano che la macchina dell’economia capitalistica ritorni a funzionare, mantenendo loro quelle briciole di benessere che aveva concesso in passato.

Come mezzi di azione nelle lotte operaie, non è affatto detto che noi siamo sempre e comunque "per l’uso della violenza", anzi in qualche caso (es. manifestazione del Luglio 1917 a Pietroburgo) il partito impose, contro la volontà di numerosi operai, che non si usassero armi, ritenendo utile che fossero gli avversari a compiere il primo passo in questo senso, dimostrando chiaramente agli occhi delle masse la necessità di reagire sullo stesso terreno. Ovviamente ciò non è in contraddizione con organizzare l’inquadramento militare del partito, né con il fatto che si plauda a qualsiasi operaio che – anche individualmente – senta il bisogno di lisciare il pelo ad un bonzo o ad un padrone.

La manovra dei bonzi consiste nell’isolare dalla massa del proletariato quei gruppi di operai che sentono la necessità della lotta a oltranza, facendoli passare come dei provocatori, degli avventuristi, dei nemici della lotta sindacale.

Lo sciopero per l’ordine democratico o in appoggio al sindacato di polizia è certamente un fatto grave, è qualcosa di più che non il semplice sciopero per le riforme. A queste "rivendicazioni" i bonzi sono arrivati dopo un paziente lavoro di martellamento durato per anni in cui gioca l’illusione di poter continuare a vivere come prima, la paura del tracollo economico e della conseguente disoccupazione, gli attentati terroristici, un sapiente impiego della polizia che da vari anni non spara sugli operai. Certamente sarebbe stato molto difficile ai bonzi dimostrare che i poliziotti sono amici degli operai dopo l’eccidio di Avola.

Alla massa degli operai, la questione viene oggi presentata più o meno in questo modo: prima di tutto è il "loro" sindacato, quello che negli anni del "boom", dicono, ha fatto loro ottenere notevoli miglioramenti economici, che li chiama ad una azione ed essi rispondono disciplinatamente all’appello. In secondo luogo i bonzi insistono sui vantaggi che avrebbe per la classe operaia l’esistenza di una polizia "non più al servizio dei padroni", ma a fianco della classe operaia in difesa dell’ordine democratico, e quindi anche delle "conquiste" economiche di consistenti strati dei proletariato. Perciò gli operai vengono invitati a premere per vincere le "resistenze reazionarie" che si oppongono a questo risultato. È chiaro che questa posizione prende forza da una situazione materiale: prima di tutto l’esistenza di consistenti aristocrazie operaie che hanno molti vantaggi da difendere e poi l’uso attentissimo della polizia.

Così gli operai che assistono pressoché indifferenti ai licenziamenti, agli omicidi bianchi, agli avvelenamenti dei loro compagni, vengono mobilitati per piangere sul cadavere di un magistrato, di un poliziotto, di un giornalista.

Dal punto di vista dell’indirizzo pratico del partito però – al di là dello schifo che tutti sentiamo nel vedere la nostra classe trascinata nella merda fino al collo – le cose non cambiano affatto. Se gli operai abbandonano il lavoro per rivendicare che la polizia sia al servizio delle istituzioni democratiche anziché delle "forze reazionarie", o che i "lavoratori della polizia" abbiano il diritto di associazione sindacale, si tratta sempre per loro di una azione di lotta anche se l’obiettivo è antioperaio.

Che cosa devono fare gli operai comunisti in questi casi? Dobbiamo prendere atto che – salvo casi isolati e sporadici – parole d’ordine del genere non hanno suscitato nessuna reazione emotiva da parte degli operai i quali hanno seguito come pecore le direttive dei bonzi. Nemmeno i proletari che ricordano ancora il piombo e i pestaggi polizieschi hanno osato ribellarsi. Questo non vuol dire che il proletariato italiano ha completamente dimenticato i suoi caduti per mano della polizia. La maggioranza dei proletari segue passivamente gli ordini dei bonzi, senza entusiasmo, di malavoglia, perché prima di tutto non vede alternativa; nessuna voce degna di fiducia si leva contro di loro; poi perché i bonzi hanno fatto balenare la possibilità che la polizia possa divenire qualcosa di diverso di quello che è stata in passato e ciò viene considerato come un vantaggio reale. Inoltre gioca la paura di essere accusati di complicità con i terroristi; e lo spettro della disoccupazione. Infine, per disciplina, per abitudine a muoversi assieme che, fortunatamente, ancora non si è persa.

In questa situazione il compito nostro è quello di denunciare direttive così aberranti sia nel metodo che negli obiettivi, di ricordare agli operai chiamati a piangere sulla violenza esercitata contro magistrati e giornalisti super-pagati, la violenza che quotidianamente viene esercitata su di loro, i 2000 morti annuali sul lavoro, le decine di migliaia di invalidi, le periodiche stragi e bastonature compiute dalla polizia, la disoccupazione e la miseria che essi devono sopportare per arricchire i capitalisti.

Dobbiamo non tanto contrapporre la tesi della violenza di classe alla tesi del pacifismo, quanto ricercare i tasti più sensibili, per suscitare quel sano odio di classe che gli operai conservano sepolto in fondo al cuore, e indicare loro la strada pratica che devono percorrere, contrapponendo agli obiettivi dei bonzi le nostre rivendicazioni di classe e al loro metodo i nostri metodi. Se un operaio comunista diffonde un volantino del genere o parla in una assemblea sostenendo le stesse cose ciò non significa che ha aderito alle direttive dei bonzi, ma che approfitta dell’occasione per fare opera di agitazione e di propaganda tra i suoi compagni di lavoro, cosa che non potrebbe fare se rimanesse in fabbrica.

Il problema di dare ordini di azione opposti a quelli dei bonzi si può prendere in considerazione solo se noi abbiamo una influenza notevole, o se si manifesta tra gli operai una spontanea rivolta contro le loro direttive. In una parola, gli ordini si danno quando spostano delle forze, quando siamo sicuri che vengano eseguiti, in caso contrario faremmo tra l’altro la figura ridicola del generale senza soldati.

Evidentemente siamo ancora lontani da una situazione del genere. Tuttavia, ammettendo per ipotesi che in una fabbrica la metà degli operai fosse disposta a seguirci (o che noi prevediamo lo siano una volta innescata l’azione), non è detto che sia positivo (e dovrebbe essere attentamente valutato) che si verificasse una separazione nella azione tra gli operai da noi diretti e quelli che seguono i bonzi. Lo stesso alla scala generale vale per una fabbrica rispetto alle altre o per una categoria rispetto alle altre. A questo proposito, le direttive pratiche del partito nel primo dopoguerra sono un esempio significativo.

Queste considerazioni non ci portano certo a svalutare l’azione di piccoli gruppi di lavoratori che tendono a rompere la disciplina poliziesca dei bonzi sindacali, che hanno il coraggio anche in pochi di scatenare dei veri scioperi contro le loro direttive. Saremmo dei parolai se snobbassimo una azione anche di poche decine di lavoratori con il pretesto che "non è generale", "non ha prospettive" e quindi "è destinata al fallimento". Il compito nostro è proprio quello di fare in modo che quella azione si estenda, abbia delle prospettive, non si risolva in un completo fallimento. In questo abbiamo sempre dovuto sostenere una lotta feroce con i vari gruppuscoli extraparlamentari che influenzano questi gruppi operai e cercano di portarli all’isolamento separandoli dalla massa dei loro compagni di lavoro.

Nel primo dopoguerra, la massa del proletariato si muoveva in difesa delle proprie condizioni anche se era guidata dai riformisti. Oggi, la massa del proletariato si muove su un terreno che è contrario alle sue stesse condizioni di vita e di lavoro. Perciò il sorgere di piccoli gruppi di opposizione non è una tendenza centrifuga, ma rappresenta una sana reazione di un’infima minoranza del proletariato che sente, anche se in maniera confusa, la necessità di muoversi sul terreno di classe. Infatti abbiamo giustamente dato molta più importanza agli scioperi indetti dai CUB dei ferrovieri o dai comitati ospedalieri – vere azioni di classe – anche se di una minoranza dei lavoratori che non agli "scioperi generali" preavvisati e debitamente castrati indetti dalle centrali sindacali che, pur mobilitando 15 milioni di lavoratori, non sono delle vere lotte di classe nel senso nostro, ma azioni puramente dimostrative o popolaresche sia nel metodo sia negli obiettivi.

Ma se alla base del sorgere di questi gruppi c’è una sana reazione, noi sappiamo che, in una situazione debole come quella attuale, se non sono influenzati dal Partito essi hanno vita breve perché sono subito preda delle tendenze centrifughe portate dai vari gruppetti i quali fanno "dell’alternativa" una questione morale, sono sempre pronti a sproloquiare che il sindacato ormai "non esiste più", che tutti gli operai che seguono le sue direttive sono dei traditori, e non si pongono il problema di come strappare ai bonzi l’influenza su di loro, ma quello di essere "alternativi", di separarsi dalla massa che pecorescamente segue i dirigenti tradizionali.

La nostra funzione è proprio quella di fare in modo che queste spinte sane non si disperdano e non vengano soffocate. Perciò abbiamo cercato di intervenire quando i CUB di Roma diedero la parola del sabotaggio degli scioperi indetti dalle centrali, quando gli "ospedalieri di base" si comportavano alla stessa maniera e si rifiutavano di partecipare alle assemblee indette dalla CGIL. Denunciammo il pericolo che questo li portasse ad isolarsi dagli altri lavoratori, il che era ciò che i bonzi volevano. Il loro errore non fu quello di essersi lanciati in pochi in una azione di lotta, ma quello di pretendere di sabotare le azioni indette dai bonzi e di abbandonare nelle loro mani la grande maggioranza dei lavoratori.

È chiaro che se anche un piccolo gruppo di lavoratori si mostra veramente disposto a muoversi, noi non possiamo negarne l’azione con il pretesto di aspettare le masse, dobbiamo invece spingerli e indirizzarli nella maniera giusta, fare in modo che non si gettino allo sbaraglio in azioni disperate: abbiamo avuto anche delle piccole esperienze dirette a questo proposito tra i lavoratori della scuola sia durante il "blocco delle 20 ore", sia in beghe interne nei posti di lavoro dove i nostri compagni non hanno aspettato né l’iniziativa dei sindacati ufficiali né l’adesione della maggioranza dei lavoratori per condurre piccole azioni. In questi casi è vero che il piccolo gruppo si separerebbe dalla massa, ma da una massa che dorme, non da una massa che si muove. Azioni del genere, se riescono o se non si risolvono in uno sbaragliamento delle forze, porterebbero degli esempi significativi, delle dimostrazioni pratiche per la massa dei lavoratori. Del resto il conto delle forze va fatto in senso dinamico e non statico e non possiamo escludere che, in date situazioni, anche l’azione di un piccolo gruppo possa innescare una reazione a catena trasformandosi in un movimento generale.
   
 


COME RISPONDERE ALLA FALSA CONTRAPPOSIZIONE DELLE SIGLE SINDACALI

Mentre per le categorie più genuinamente operaie (metalmeccanici, edili, braccianti, chimici, ecc.) l’unità dei lavoratori nel posto di lavoro e nell’azione è un fatto per ora scontato, per altre categorie (ferrovieri, statali, scuola) questa unità è ancora lontana e a molti lavoratori appare addirittura inconcepibile che si debba marciare assieme. Ciò è dovuto alla tradizionale presenza dei sindacati autonomi, organizzazioni apertamente padronali che però influenzano una parte notevole dei lavoratori e che nel caso dei ferrovieri sono riusciti a raccogliere anche un notevole numero di operai combattivi schifati dal comportamento della CGIL.

Bonzi confederali e bonzi autonomi si fanno apparentemente la guerra e portano la divisione tra i lavoratori. Questo è il loro vero scopo e in questo dimostrano di essere complementari gli uni agli altri: l’atteggiamento dei bonzi confederali permette agli autonomi di presentarsi come integerrimi difensori della categoria; la polemica degli autonomi consente ai bonzi confederali di bollare come "autonomo" qualsiasi operaio che parli di rivendicazioni salariali. Naturalmente ambedue se ne fregano degli interessi dei lavoratori, come noi abbiamo sempre denunciato, e lo dimostrano non solo e non tanto con le piattaforme rivendicative quanto con i loro metodi di azione che gettano lo scompiglio e la demoralizzazione tra i lavoratori.

La divisione è divenuta un fatto tradizionale, tanto che sarebbe considerato un fatto eccezionale se gli iscritti agli autonomi e gli iscritti ai confederali scioperassero insieme. Si verifica ad esempio che i bonzi confederali proclamano uno sciopero, mentre gli autonomi invitano al sabotaggio. Successivamente sono gli autonomi che chiamano a scioperare e allora i confederali proclamano azioni preannunciandole almeno una settimana prima dichiarando apertamente che la loro prima preoccupazione è non danneggiare il servizio. Gli autonomi prendono spunto dai metodi della CGIL per decretare che "ormai lo sciopero tradizionale non serve più" e che bisogna ricercare altre forme di lotta più efficaci, e così appaiono più battaglieri proclamando azioni che sembrano più incisive e che più che altro richiedono l’adesione individuale dei lavoratori: es. sciopero dei soli macchinisti, a turno "per disorganizzare il traffico", o dei piloti sugli aerei, o dei soli comandanti sulle navi, o nella scuola il famoso "blocco degli scrutini", sempre a turno "per avere il minimo danno economico". Le grida isteriche dei bonzi con federali e dei giornalisti paraculi che presentano queste azioni come l’apocalisse contribuiscono ad inculcare in alcuni lavoratori l’idea che effettivamente questi metodi siano più efficaci. Nella misura in cui si realizzano praticamente (come tra i ferrovieri) e non sono invece delle semplici sbruffonate (come nella scuola), questi metodi di lotta sono invece deleteri: prima di tutto disabituano i lavoratori all’azione comune e li abituano alla divisione, poi sono più difficili da realizzare proprio in quanto si tratta di azioni individuali e spesso interessano solo una minima parte del personale, generalmente la parte che svolge mansioni specializzate. Infine, per tutto il rumore che si fa intorno ad azioni di questo genere, qualsiasi lavoratore che senta il bisogno di lottare sul serio viene classificato come autonomo e i bonzi confederali lo additano come tale alla massa dei suoi compagni.

In questa situazione di estremo disorientamento e divisione noi abbiamo cercato prima di tutto di far comprendere ai lavoratori la necessità di opporsi ad ambedue le botteghe, raggiungendo quella unità che è la prima condizione perché una azione riesca. Abbiamo sempre negato che le azioni promosse sia dai confederali sia degli autonomi fossero delle vere azioni di lotta, tanto per le piattaforme rivendicative quanto per i metodi. Abbiamo sempre difeso l’arma dello sciopero contro i confederali che la svalutavano usandola in maniera innocua e contro gli autonomi che proclamavano che ormai bisognava gettarla alle ortiche.

Non potevamo però sostenere in questo caso che "si deve partecipare a tutti gli scioperi" perché sarebbe apparsa ai lavoratori come una posizione assurda e non avrebbe portato a nessun risultato. Dovevamo invece prima di tutto dimostrare che il principale ostacolo per la riuscita delle lotte era la divisione tra i lavoratori e indicare una strada pratica per superare questa divisione. Perciò dove avevamo la possibilità di agire abbiamo sempre sostenuto che la decisione di partecipare o meno ad uno sciopero doveva essere presa da tutti i lavoratori iscritti o non iscritti ai vari sindacati, in assemblea, indipendentemente dalle direttive dei bonzi. Sempre in assemblea, tutti insieme, si dovevano enunciare le rivendicazioni che rispondevano ai nostri veri interessi e stabilire le modalità dell’azione. Così lo sciopero non sarebbe stata una semplice risposta pecoresca alla chiamata del bonzo ma una vera azione di lotta, sentita dai lavoratori che riaffermavano di fronte ai bonzi le loro rivendicazioni: in definitiva, un atto di indisciplina nei loro confronti. Naturalmente non ci siamo mai sognati di far credere ai lavoratori che fosse sufficiente che in un singolo posto di lavoro si esprimessero le vere rivendicazioni di classe per rovesciare la situazione, ma abbiamo sostenuto che ciò era necessario proprio per far pressione sui vertici sindacali e per dare un esempio agli altri lavoratori.

Così facendo ci esponevamo ad un rischio: che l’assemblea decidesse di non partecipare allo sciopero. Era un rischio che dovevamo accettare e che rappresentava in questo caso il male minore poiché gran parte dei lavoratori in una situazione del genere non avrebbe comunque partecipato allo sciopero. Se chiamavamo i lavoratori a decidere dovevamo ammettere anche che si decidesse contro la nostra volontà. Comunque le piccole esperienze che abbiamo avuto dimostrano che si tratta di un rischio più teorico che pratico. La stessa convocazione di assemblee ci ha sempre richiesto un notevole sforzo e non si sarebbe mai potuta fare senza una minima mobilitazione dei lavoratori; quindi questo costituiva già di per sé una azione. Poi i nostri compagni hanno sempre cercato di fare in modo che la decisione fosse sempre positiva mostrando ai lavoratori come il partecipare all’azione portasse a migliori risultati: possibilità di stringere collegamenti con altri lavoratori, di agitare le nostre vere rivendicazioni, far sentire la nostra voce, impossibilità per i bonzi di accusarci di crumiraggio, etc. etc.

A questo proposito, sempre nelle proporzioni ridotte in cui si svolge oggi la nostra azione, abbiamo avuto in qualche caso dei buoni risultati e tutte le volte che siamo riusciti ad arrivare ad assemblee la decisione non è mai stata quella del sabotaggio: in diverse occasioni abbiamo fatto ai bonzi il peggior dispetto, abbiamo fatto riuscire le azioni da essi proclamate trasformandole, per quanto potevamo, in vere lotte.