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Non difesa del mitico sindacato dei consigli ma lotta per la riorganizzazione proletaria di classe (da “Il Partito Comunista”, n.78 del 1981)
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Se potevano ancora sussistere dubbi sul carattere irreversibile del processo di integrazione delle centrali sindacali ufficiali nelle maglie dello Stato capitalistico, il dibattito che si è aperto nelle strutture organizzative di CGIL-CISL-UIL e nelle loro federazioni di categoria intorno alla rappresentatività dei sindacati nelle fabbriche e alla cosiddetta “democrazia sindacale” in fabbrica e, più in generale, sull’impostazione che il sindacato dovrà dare alle vertenze aziendali e di categoria nei prossimi anni, dovrebbe certo contribuire in modo determinante a dissiparli completamente.
Non si tratta certo di un dibattito accademico ma riflette l’esigenza dell’opportunismo sindacale, scosso dalla vicenda Fiat e pressato dal deteriorarsi costante e inarrestabile della crisi economica e sociale del capitalismo, di adeguare progressivamente le sue strutture rappresentative di fabbrica e territoriali al suo ruolo storico di difensore degli interessi dell’economia nazionale in seno al movimento operaio. L’acutezza della crisi impone alle imprese capitalistiche, e allo Stato che ne coordina gli interessi specifici in funzione nazionale, di ricorrere con sempre maggior determinazione agli strumenti classici dell’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro: espulsione degli “eccedenti” dal processo produttivo, riduzione del salario reale, intensificazione dei ritmi di lavoro.
Tutto questo si traduce in un pesante attacco alle condizioni di vita di tutta la classe operaia. Di conseguenza la politica collaborazionista dei sindacati è messa a dura prova e i bonzi devono approntare le loro strutture organizzative di fabbrica e i loro metodi di consultazione e decisione in modo che sia realizzata la massima centralizzazione possibile delle vertenze e delle controversie di fabbrica, che possono generare tensioni e situazioni potenzialmente suscettibili di sfuggire al loro controllo.
Al tempo stesso i bonzi devono poter contare sul loro apparato di fabbrica in modo di poter fare avallare dai rappresentanti operai di base tutte le iniziative e decisioni che d’ora innanzi saranno assunte in merito allo smantellamento di quelle “garanzie” normative e salariali – divenute incompatibili con l’aggravarsi della crisi – che regolano il rapporto di lavoro e che, negli anni di vacche grasse dei profitti capitalistici, potevano permettere una certa continuità del valore reale del salario, nonché delle necessità di accordare a livello aziendale e statale le misure per ottemperare al ricorso massiccio alla cassa integrazione e ai licenziamenti.
In questo senso la vertenza Fiat, che ha visto i vertici dei sindacati costretti ad avallare lo sciopero a oltranza per non perdere il controllo della situazione e poi a subire lo scontro con i lavoratori ancora in lotta per far passare l’accordo capestro, è stato il segnale d’allarme che ha posto il problema all’ordine del giorno. Difatti non si era ancora spenta l’eco degli insulti e delle legnate degli operai verso i bonzi, portatori della grande fregatura nelle assemblee della Fiat, che gli strali del bonzume si sono immediatamente levati in coro. «Non si può più permettere – è stato il ritornello delle sparate dei caporioni sindacali – che minoranze teppistiche ed esagitate», divenute poi «avanguardie staccate dagli altri lavoratori», una volta ritornata la normalità «si possano arrogare la prerogativa di decidere per tutti gli altri lavoratori». Tutti, capi, crumiri, lecchini e tirapiedi, la spina dorsale dei famosi 40 mila, tutti devono essere sentiti; anche il loro parere deve essere tenuto in considerazione. «Il sindacato non può ignorare questi strati di lavoratori».
Parimenti, anche se non veniva espresso apertamente, si è cominciato a mugugnare sulla struttura di base del sindacato. Non può più essere permesso che singoli delegati o C.d.F. possano assumere localmente iniziative di lotta in contraddizione con la politica ufficiale del sindacato. Immediatamente è allora apparso il richiamo al sindacalismo tedesco e anglosassone e alle forme di rappresentanza e di regolamentazione dell’attività sindacale che lo caratterizzano. Il disegno è chiaro: i C.d.F devono configurarsi sempre più come le strutture di base del sindacato, gli esecutori fedeli della politica delle centrali nazionali, senza tentennamenti e soprattutto senza cedimenti di fronte alle spinte spontanee della base operaia.
Di conseguenza devono escludere dal loro seno quei delegati che non si disciplinano al collaborazionismo e che tendono ad anteporre gli interessi immediati dei lavoratori alle esigenze produttive aziendali, divenendo così strutture impermeabili alla vera lotta di classe, così come sono oggi i sindacati nazionali. Devono inoltre essere quanto più possibile rappresentativi di tutte le categorie operaie con particolare riferimento a quei settori di aristocrazia operaia, i tecnici, gli impiegati, i cosiddetti quadri intermedi, che meglio interpretano queste esigenze in seno al processo produttivo di fabbrica.
Analogamente devono essere introdotti criteri di valutazione e forme di consultazione democratica che permettano l’espressione di tutte queste categorie e che vincolino tutti i lavoratori al rispetto delle decisioni di maggioranza. Di qui la proposta del referendum di fabbrica o di categoria, avanzata esplicitamente da molti settori del sindacato, della UIL in particolare, e in forma più sfumata da altri secondo l’ormai consolidato gioco delle parti che prevede l’attestazione di tutte le centrali sindacali su posizioni comuni, dopo un periodo di polemiche demagogiche, più o meno influenzate dai partiti che controllano le varie confederazioni.
Tradotto nel linguaggio di classe: la sottomissione di una decisione di lotta al responso di un meccanismo di consultazione democratica, che prevede il voto segreto nel chiuso dell’urna di fabbrica o sul proprio posto di lavoro, significa la castrazione della volontà di lotta dei lavoratori, l’uccisione sul nascere di ogni spinta spontanea di lotta. Viene infatti così distrutto il rapporto tra le avanguardie di lotta e il resto dei lavoratori e in generale, tra la parte più avanzata, i settori più combattivi degli operai di fabbrica e i restanti lavoratori, che sta alla base di ogni scontro di classe. Gli strati più combattivi sono in generale quelli peggio pagati, pressati dai ritmi di lavoro più intensi e più sottoposti alla disciplina da caserma delle fabbriche e che dunque più sentono il peso dello sfruttamento capitalistico sia sul posto di lavoro sia nella società.
Ѐ È a questi proletari più sfruttati, e quindi potenzialmente più combattivi, che un sindacato che pretenda di agire su basi classiste rivolge la sua attenzione. Da essi scaturisce la determinazione e la volontà necessarie per portare avanti le lotte in difesa delle proprie condizioni di vita. Dal loro seno emergono, nelle fasi di tensione e di scontro di classe, quelle schiere di proletari più coscienti e battaglieri che costituiscono poi il nerbo, l’ossatura portante, la direzione delle lotte. Nel divenire dello scontro, nelle fasi alterne che lo caratterizzano, questi proletari acquisiscono le capacità di decisione e di influenza sugli altri operai e dunque di agire per coordinare, frenare o accelerare lo scontro con il padronato, a seconda delle circostanze e delle situazioni, sulla base delle valutazioni che essi avranno imparato a fare della volontà di lotta dei lavoratori, della forza di resistenza dei padroni, della necessità di ricorrere a forme di lotta piuttosto che ad altre.
Inoltre è nel corso della lotta, nel vivo degli avvenimenti che, sotto l’effetto della positiva sensazione di forza che in essi produce la compattezza del movimento, i proletari imparano ad acquisire e perfezionare la propria coscienza di classe, che poi significa coscienza di saper sacrificare i propri interessi individuali in funzione di quelli di tutti i lavoratori, di vedersi e considerarsi come soldati di un esercito impegnato nella battaglia, teso verso la vittoria finale, decisi alla lotta anche quando il proprio tornaconto personale potrebbe suggerire la resa.
Il problema di influenzare, spingere alla lotta, convincere ad aderire allo scontro gli strati di lavoratori tradizionalmente più restii e arretrati, le aristocrazie del lavoro, gli strati impiegatizi e specializzati meglio retribuiti è certo una questione reale. Ma si risolve appunto svolgendo un’azione di pressione e di convincimento che scaturisce, da un lato nel coinvolgimento anche di questi lavoratori negli aspetti rivendicativi della lotta, dall’altro in quelle azioni tese a costringere i più restii, i crumiri, i leccapiedi del padrone per lo meno a non nuocere all’efficacia degli scioperi e delle agitazioni, con i picchettaggi, i cortei, le intimidazioni, ecc.
Nella strategia dell’opportunismo sindacale tutta la questione è invece completamente rovesciata. Con l’introduzione del referendum, tutti i lavoratori saranno chiamati alla formulazione di un parere individuale su decisioni di lotta che investono il campo degli interessi di classe: se interrompere o meno un’azione in corso, se iniziare o no una vertenza. In questo modo tutti i settori operai più arretrati sul piano di classe avranno automaticamente un’influenza negativa determinante, che andrà a sommarsi a quella ancor più negativa derivante dal fatto che ogni lavoratore è lasciato in balia di sé stesso nell’espressione del suo “parere personale”, che inevitabilmente finisce per essere condizionato dalla sua situazione particolare, facilmente influenzata dallo spirito del collaborazionismo aziendale, anziché dalla coscienza classista della necessità della lotta al di là dei problemi personali di ciascun lavoratore. In questo modo il parere del crumiro incallito è posto sullo stesso piano dell’operaio combattivo, mentre tutta la schiera degli indecisi, chiusi ognuno nel gretto orizzonte individuale, finisce per anteporre il proprio tornaconto personale ai reali interessi di classe in gioco. In effetti è la situazione ideale affinché possa passare, avallata dal pieno consenso democratico “della base”, la politica collaborazionista dell’opportunismo sindacale.
L’introduzione del referendum nel classico stile del collaborazionismo sindacalista equivale alla rinuncia definitiva alla lotta di classe, significa abbandonare le decisioni di lotta alla mercé di coloro che esprimono tradizionalmente la rinuncia e la rassegnazione. È naturale che il ricorso al referendum sia presentato nell’ambito del discorso più generale della rappresentanza sindacale nelle fabbriche. Suona ormai l’ora in cui è necessario prendere posizione con nitidezza; la situazione non consente più ambiguità; gli stessi strateghi della politica della borghesia, mentre da un lato plaudono al “sindacato forte” che dà loro garanzia di sicurezza, e difendono, come immediatamente dopo la tumultuosa conclusione della vertenza Fiat, l’operato dei bonzi contro le “minoranze teppistiche”, ossia contro i lavoratori che avevano appena sputato in faccia a chi proponeva loro il peggior accordo sindacale del dopoguerra, dall’altro pretendono a giusta ragione che il sindacato dedichi realmente, non solo a parole, anima e corpo della sua azione all’aumento della competitività dell’azienda, al controllo dell’assenteismo, alla “professionalità” di fabbrica legata all’organizzazione del lavoro, alla lotta contro gli “appiattimenti salariali”. Il sindacato di regime ha da tempo risposto positivamente a questo appello, ma è ormai ora che si impegni a fondo su questa direzione superando ogni indecisione od opposizione “di base”.
È naturale perciò che i bonzi tentino di attirare tra le loro file gli strati di lavoratori che, per la loro posizione aziendale, meglio interpretano questa tendenza e viceversa tentino di scacciare dai consigli di fabbrica gli operai schifati dalla loro politica collaborazionista e di portare fuori dalla fabbrica la sede naturale di ogni decisione in materia di conflitti sindacali, aiutati in questo disegno dallo stesso padronato (vedi ancora caso Fiat) che provvede a licenziare e allontanare gli operai più combattivi.
Qualcuno, tra la solita “sinistra sindacale” ha parlato di attacco al “sindacato dei consigli”, senza capire che i consigli di fabbrica di fatto non hanno mai goduto di alcun potere contrattuale, essendo sempre stata di pertinenza delle strutture territoriali e nazionali del sindacato le decisioni circa le vertenze aziendali e di categoria.
Fino ad ora tuttavia le condizioni generali potevano permettere che fossero tollerati nelle strutture di fabbrica del sindacato elementi che in un modo o nell’altro si contrapponevano alla sua politica collaborazionista. Ora la situazione non lo consente più. I C.d.F. devono diventare strutture di fabbrica del sindacato completamente refrattarie a ogni spinta spontanea della classe. Non si tratta perciò di difendere un mitico quanto inesistente sindacato dei consigli, ma di respingere con decisione ogni tentativo dei bonzi di castrare sul nascere le spinte spontanee della classe, ogni tentativo di diluire la genuina combattività degli strati operai più disponibili allo scontro nel mare indistinto della consultazione democratica attraverso il referendum.
L’esatto rapporto tra avanguardie operaie e strati più arretrati della classe non potrà che ricomporsi nella prospettiva della ricostruzione di organizzazioni proletarie immediate autenticamente classiste.In questo senso facciamo appello a tutti i lavoratori affinché fin da ora oppongano un netto rifiuto all’introduzione del referendum nelle fabbriche, disciplinandosi a una linea rivendicativa e di lotta autenticamene classista, non vincolata al responso di crumiri e lecchini, ma unicamente alla sentita solidarietà e convinzione dei proletari decisi a battersi seriamente in difesa delle loro condizioni di vita e di lavoro, fuori e contro la politica rinunciataria e collaborazionista delle centrali sindacali, per la ricostruzione di un vero sindacato di classe.