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Termini dell’attività sindacale del partito
(Il Partito Comunista, n.202, 1992)
Riguardo ai sindacati, il Partito esprime posizioni che hanno carattere di principio e che concernono la necessità della presenza di vaste organizzazioni a carattere economico aperte a tutti i salariati.
Tramite la sua frazione organizzata all’interno, il Partito tenta di acquisire in esse una influenza determinante e, nella fase rivoluzionaria, la loro stessa direzione. In tal modo si viene a creare il collegamento fra il Partito e la classe (cinghia di trasmissione), attraverso il quale si esplica la funzione di guida del movimento rivoluzionario che gli è propria.
La conquista di tale influenza sulle organizzazioni proletarie intermedie si realizza attraverso la dimostrazione che la sua linea è la più coerente e conseguente nella difesa delle condizioni della classe lavoratrice, di fronte alla linea e alla direzione espressa dagli altri movimenti politici pure organizzati al loro interno (riformisti, anarchici, sindacalisti, etc.) contro i quali si svolge una lotta politica. Ciò dovrà apparire ben evidente a tutti i proletari alla prova dei fatti.
Parliamo delle organizzazioni a carattere puramente economico, i sindacati, dei quali il Partito, estraneo ai continui sbandamenti di altri, ha sempre ribadito la funzione insostituibile. Di diversi organismi intermedi, a carattere político, tipo consigli o soviet, è prevedibile la necessità nella fase prossima alla conquista del potere.
Fin qui ciò che riguarda i principi. Altra questione è la valutazione dei sindacati attuali, il nostro atteggiamento nei loro confronti, la tattica che il Partito adotta nelle diverse circostanze.
In questo l’azione del Partito è legata alla interpretazione dei fatti e allo studio delle situazioni diverse, che non è immune da approssimazione e richiede progressive precisazioni e rettifiche.
Prima di tutto sono da considerare le diversità da paese a paese riguardo della storia della formazione delle organizzazioni proletarie, le loro caratteristiche organizzative, il loro modo di procedere e la politica che le ha ispirate di fronte alle battaglie condotte e alle sconfitte subite dal proletariato. Ad esempio il sindacalismo “unionista” anglosassone ha caratteristiche ben diverse dal sindacalismo di industria in Italia e Francia.
Le valutazioni del Partito e la tattica nei confronti dei sindacati attuali non saranno quindi probabilmente identiche in tutti i paesi e circostanze.
L’indicazione del Partito a non organizzarsi più nella CGIL e per la ricostruzione del sindacato di classe “fuori e contro il sindacato di regime”, non è un principio generale di azione del Partito, ma il risultato di una valutazione della situazione maturatasi in Italia e che comunque rimane suscettibile di essere precisata meglio se non rettificata in relazione allo svolgersi degli avvenimenti.
Prima di tutto è necessaria una distinzione.
Giustamente Lenin frusta gli estremisti che procedono alla formazione di sindacati “rivoluzionari”, abbandonando le masse organizzate nei sindacati alla influenza dei dirigenti social-democratici controrivoluzionari, agenti della borghesia. I comunisti debbono lavorare fin nei sindacati più reazionari, con la prospettiva di assumerne, in circostanze favorevoli, la direzione, cacciando i vecchi dirigenti, e ribaltare la politica che li guida.
Ma è necessario distinguere fra “sindacati reazionari” e “sindacati di regime”. I primi sono sindacati operai diretti da «sciovinisti e opportunisti, spesso direttamente o indirettamente legati alla borghesia e alla polizia», come dice Lenin. Tali dirigenti si adoperano in azioni sabotatrici delle lotte operaie e soprattutto intervengono per deviarle dallo svolgimento in senso classista e rivoluzionario. Conservano tali sindacati tuttavia il carattere operaio, sono utili e utilizzati per la lotta di classe, ed è possibile l’organizzazione al loro interno dei lavoratori comunisti e l’agitazione delle loro parole d’ordine. Sono suscettibili di essere conquistati, in circostanze favorevoli, alla azione di classe e alla direzione del Partito.
Tale è la caratteristica della CGL in Italia prima del fascismo. Distrutta questa organizzazione dalle bande fasciste e dalla polizia di Stato, la borghesia non lascia un vuoto: costituisce il sindacato “fascista”, sindacato di regime, emanazione dello Stato. Questo è un sindacato coatto, la cui struttura emana dall’alto ed è inaccessibile ad alcuna penetrazione della direttiva classista. I suoi principi inalienabili sono la collaborazione sociale, secondo i principi del corporativismo fascista, e quindi, già per statuto, ne è impedito l’accesso ai comunisti. Nonostante che in taluni casi dimostri di schierarsi a difesa delle rivendicazioni operaie, questa organizzazione non è più un vero sindacato e il Partito indica di non organizzarsi all’interno di esso.
La CGIL (la “I” aggiunta sta per “italiana”), ricostruita nel secondo dopoguerra venne dichiarata dal Partito «erede del sindacalismo fascista» e «cucita sul modello Mussolini». Anch’essa infatti fu emanazione diretta del regime e si affermò soffocando tentativi di organizzazione operaia nel senso rosso di classe.
Tuttavia vi erano necessità legate all’imbonimento democratico e alla mistificazione antifascista che facevano sì che tale sindacato raccogliesse formalmente la tradizione della ex CGL, nella quale la maggioranza dei lavoratori si identificava. Le masse lavoratrici italiane consideravano la CGIL il loro rosso cambattivo sindacato. Ciò consentì al Partito di organizzarsi all’interno, agitando i principi della lotta di classe anticapitalistica, indicando ai lavoratori la necessità del “ritorno” del sindacato alla politica di classe e tentando pure la conquista di strutture di base come le Camere del lavoro, organismi territoriali, o le Commissioni interne, organismi di fabbrica.
Già da allora comunque si prospettava una seconda eventualità: la ricostruzione ex novo del Sindacato di classe. Impossibile allora prevedere quali delle due eventualità avrebbe storicamente prevalso.
Nel corso successivo, dal dopoguerra ad oggi, si è potuto constatare nella CGIL il progressivo abbandono di qualsiasi richiamo anche formale non solo alla politica, ma anche soprattutto al modo di organizzarsi e di strutturarsi del sindacato di classe.
Vi è stata l’unificazione con CISL e UIL, sindacati di origine scissionista e di emanazione padronale e l’introduzione della delega al padronato per la riscossione dei contributi al sindacato, della quale il Partito indicò il rifiuto, ponendosi i nostri militanti già in parte al di fuori dell’apparato del sindacato confederale, essendo per molti di noi impedita l’iscrizione.
La crisi economica di metà anni ’70 accelerava questo processo. Assieme alla varata “politica dei sacrifici”, le maglie della organizzazione della CGIL divenivano sempre più strette e impenetrabili ad alcuna influenza di classe, tanto che sempre più frequentemente episodi di lotta in contrasto con la politica collaborazionista erano costretti ad appoggiarsi sulla organizzazione dei lavoratori all’esterno del sindacato confederale, che invece si adoperava con tutti i mezzi al sabotaggio di tali lotte. La CGIL diveniva sempre più chiusa e inaccessibile, fin nelle organizzazioni di base e di fabbrica. Oggi neanche più vengono sottoposte all’approvazione delle assemblee dei lavoratori le piattaforme rivendicative e gli accordi pattuiti con il padronato. Tutte le decisioni si svolgono in una sfera a cui i lavoratori non possono accedere.
Il sindacato confederale, che oggi è arrivato perfino a ratificare le leggi antisciopero, è divenuto una organizzazione separata e contrapposta alla massa lavoratrice, un corpo di funzionari pagati per far passare qualsiasi attacco portato dal capitale e bloccare ogni reazione operaia. Al suo apparato non possono accedere i lavoratori se non quella minima parte di essi che, normalmente per acquisire vantaggi personali, si vendono, sposando quella politica.
In tali condizioni è impraticabile, e illusorio per la classe, il lavoro dei comunisti all’interno di tali organizzazioni volto allo scopo di cacciare i dirigenti “venduti e corrotti” e riconquistarle a una politica di classe. Da tempo non esistono sedi all’interno del sindacato in cui il Partito può condurre la sua battaglia. Tutti gli accessi sono a noi sbarrati, pur se avessimo la tessera in tasca e anche se raccogliessimo l’adesione di molti lavoratori.
Certamente partecipiamo con le nostre posizioni alle manifestazioni, agli scioperi e alle poche assemblee operaie che ancora il sindacato indice, ma questo non significa “lavorare nel’sindacato”.
D’altronde si è potuto constatare dalla fine degli anni settanta che qualsiasi tentativo dei lavoratori a muoversi in senso opposto alla politica collaborazionista si è manifestato attraverso organizzazioni esterne e contrapposte al sindacato confederale. I COBAS esprimono questa tendenza. Mentre le opposizioni interne alla CGIL si rivelano come tentativi di copertura messi in atto per recuperare e tradire il malcontento.
Lenin parla di “sindacati reazionari”, cioè organizzazioni appartenenti alla classe lavoratrice pur se dirette da capi corrotti e venduti. In questi è possibile, indispensabile, il lavoro dei comunisti diretto a sconfessare l’azione della dirigenza e a riconquistarli, in situazioni favorevoli, alla politica di classe e alla guida del Partito. Oggi in Italia siamo di fronte invece a sindacati “di regime”, che se non sono ancora dichiarati sindacati “di Stato” come in regime fascista, sono però ormai intimamente integrati nell’apparato istituzionale del potere capitalista e non appartengono più alla classe lavoratrice. Sono strutture chiuse e impenetrabili, come qualsiasi altra istituzione del regime, in cui troviamo lavoratori “iscritti” ma non organizzati. Strumenti inutilizzabili dalla classe.
Da ciò deriva la constatazione della impossibilità del lavoro all’interno per renderlo influenzabile a una politica di classe e quindi la nostra formulazione della necessità di ricostituzione ex novo del sindacato di classe, fuori e contro il sindacato di regime.
È vero che, se pur nel malcontento diffuso, la maggioranza dei lavoratori continua a seguire le non-direttive di questi sindacati e non esprime ancora la necessità di abbandonarli per ricostituire il sindacato classista. Ma il Partito ha il compito di anticipare questa necessità.
E anche da prevedere che, di fronte a una forte pressione dei lavoratori, questi sindacati si trovino nella necessità di non sconfessare e formalmente mettersi alla testa di movimenti estesi di lotta, quando non fosse possibile trattenerli oppure isolare e reprimere la parte più combattiva. Il sindacato di regime in questi casi potrebbe svolgere la sua funzione assumendo la direzione del movimento e facendo proprie alcune sue rivendicazioni, ma solo per cercare di controllarlo, di circoscriverlo, deviarlo e farlo sconfiggere. L’alternativa di abbandonarlo a se stesso potrebbe portare alle conseguenze più temibili per il regime. Ciò è accaduto per esempio nel caso del magnifico sciopero contro i licenziamenti, proseguito ad oltranza per un mese dagli operai della Fiat nel 1980 ed infine pugnalato dalla CGIL.
Compito del Partito in queste occasioni sarebbe comunque quello di indicare la necessità della organizzazione autonoma dal sindacato di regime per la conduzione della lotta e come risultato fondamentale che da essa deve scaturire.
Ripetiamo che queste considerazioni sono relative alla situazione in Italia, dove il Partito ha avuto fino ad oggi maggiori occasioni di misurarsi nella attività sindacale, mentre riteniamo non sufficientemente approfondito lo studio della situazione in altri paesi, dove pure siamo presenti ma con forze esigue. Tale studio è determinante per la definizione di nostre formulazioni in materia di tattica sindacale. Esso dovrà ripercorrere la storia degli organismi sindacali fino ad oggi, definendo le forme e i modi nei quali si strutturano, come sono organizzati nelle fabbriche e ai livelli superiori, il legame con i partiti, la politica che li ispira e il grado di integrazione nell’apparato statale. Occorre conoscere le tendenze che si esprimono all’interno e l’azione di eventuali opposizioni alla politica dei gruppi dirigenti, l’effettiva possibilità che organizzazioni alla base possano rendersi suscettibili di una azione di classe.
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Un altro punto che ci interessa puntualizzare riguarda la definizione di ciò che si intende per “sindacato di classe”. Ciò di fronte a chi vorrebbe ricondurre il problema ad una pura questione di forme organizzative. Molti sostengono che sarebbe necessario ripartire dalla “democrazia di base” in quanto sarebbe stato l’abbandono della consultazione democratica dei lavoratori il motivo della degenerazione del sindacato. Ugualmente deprecano che si sia venuto a sostituire un corpo di funzionari ben pagati e sottratti al lavoro in fabbrica agli attivisti operai volontari.
È vero che il sindacato di regime, portatore di una politica antioperaia, si struttura in modo da non essere subordinato, ma al contrario imporre sistematicamente la sua volontà alla classe. Ma anche nel sindacato di classe la “democrazia di base” sarà un feticcio e dovrà essere subordinata alla necessità dell’azione tempestiva e unitaria di tutto il movimento, oltre che alla difesa della linea e l’azione di classe contro le spinte corporative e reazionarie che inevitabilmente si manifesteranno anche nella stessa base.
È vero che il sindacato di regime non può che fondarsi su un apparato di funzionari ben pagati e corrotti, ma anche il sindacato di classe, pur basandosi sull’attività volontaria, avrà necessità, in una organizzazione vasta e centralizzata, di dirigenti a tempo pieno e quindi stipendiati.
Un altro punto. Non è compito nostro, né di chiunque altro, andare a scoprire nuove forme organizzative, pensando che lì si trovi la chiave di risoluzione del problema della ricostituzione del sindacato di classe. E possibile che la classe esprima, in una fase di ripresa, forme organizzative diverse da quelle tradizionali, che non ci è dato prevedere oggi. Non sono dunque i COBAS oggetto del nostro interessamento in quanto manifestano forme originali di organizzazione operaia, ma in quanto esprimono la tendenza alla riorganizzazione contro la politica collaborazionista.
Ciò che anticipiamo è la necessità del ritorno a una politica e una azione di classe da parte di organizzazioni a carattere puramente economico di soli salariati, strutturate in modo centralizzato per assicurare l’unità di azione del movimento, basate su organizzazioni di fabbrica, ma anche necessariamente esterne, a carattere territoriale.
Su questi ultimi punti ritorneremo in un prossimo articolo.