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Confluenza nella unitaria dottrina storica internazionalista dei grandi apporti delle lotte rivoluzionarie nei paesi moderni Rapporti alla riunione di Marsiglia dell’11-13 luglio 1964 La Questione Militare - Fase dell’organizzazione del proletariato in partito La rivoluzione del 1848 in Germania (Il Programma Comunista, 1964, nn.6-7-8) |
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Il tema di cui dobbiamo trattare completa quella parte della questione militare che si riferisce alla fase storica in cui il proletariato non ancora “classe per sè”, si muove e combatte prima di tutto per questo primordiale obiettivo. Questa fase storica si aprì con le rivoluzioni borghesi e si chiuse col 1848 e conobbe tre momenti essenziali: francese, inglese e tedesco.
Avendo già trattato dei primi due, ci interessiamo ora del terzo.
Col 1848 le tre componenti si fondono in un’unica risultante, e nascono il partito comunista internazionale e la sua dottrina rivoluzionaria. Da questo momento il proletariato può dirsi veramente “classe per sè”, in grado non solo di influire sulla evoluzione storica dell’intera umanità, ma di determinarla.
Prima però di giungere alla formulazione chiara del suo programma storico, il proletariato aveva espresso già il suo comunismo in due grandi tentativi: in Francia col partito di Babeuf e in Inghilterra col Cartismo. Queste forme embrionali del partito, come vedemmo a suo tempo, furono il prodotto di lotte sanguinose a cui il proletariato partecipò a fianco della borghesia. II processo di distacco e di contrapposizione ad essa, e di raggiungimento di posizioni autonome per la propria emancipazione sociale, si svolse e maturò sul terreno delle contraddizioni della società borghese.
La sensibilità e la capacità di lotta del proletariato non si svilupparono ovunque sullo stesso terreno immediato. Vedemmo che in Francia le cause immediate delle battaglie armate del proletariato furono piuttosto di natura politica, mentre in Inghilterra esse furono piuttosto economiche. In Germania il doloroso processo di sviluppo e il suo stesso compimento si attuarono in rapporto dialettico con i motivi ideologici e con il travaglio del pensiero.
La critica della società, della proprietà, dello Stato non era che la critica del proletariato, non derivava che dalle sofferenze di questa classe. Marx lo aveva ben capito ed espresso fin da quando nel 1842 collaborava alla Gazzetta Renana: «I filosofi non spuntano dal terreno come i funghi. Essi sono il prodotto del loro tempo (...) Lo stesso spirito che fa costruire le ferrovie genera le idee nella mente del filosofo (...) ed arriva di necessità il momento in cui essa [la filosofia] entra in azione e reazione col mondo». E nel 1843 così sintetizzava lo scopo rivoluzionario degli “Annali franco-tedeschi”: «Sviluppo della coscienza critica dell’epoca, autospiegazione per mezzo della filosofia critica delle lotte e delle aspirazioni del tempo». È la pressante esigenza della formazione di una chiara “coscienza di classe” che addita a Marx la via da seguire: «attraverso una critica senza riguardi di tutto ciò che esiste; senza riguardi nel senso che la critica non ha paura dei propri risultati e tanto meno del conflitto con gli attuali poteri costituiti».
Ma la critica filosofica non basta a cambiare la realtà. Per Marx, «l’arma della critica non è in grado di sostituire la critica delle armi; la potenza materiale deve essere rovesciata dalla forza materiale; ma anche la teoria diventa forza materiale non appena si impadronisce delle masse». La parola “masse” non inganni. Il concetto di classe e la sua funzione storica saranno ben presto messi a punto, e chiaro apparirà il significato di “coscienza di classe”, che è quanto dire coscienza del Partito, ovvero della posizione di combattimento della classe proletaria quale unica condizione per definirsi classe rivoluzionaria.
La situazione generale storica in cui il proletariato tedesco e, con esso, il proletariato mondiale di allora e dei tempi futuri, raggiungerà la piena coscienza di classe è di quelle in cui si addensano le più forti contraddizioni. Man mano che si va verso il 1848 la situazione diventa sempre più critica non solo in Germania, ma nell’Europa in genere. La rivoluzione borghese bussa alle porte della Germania, in condizioni che sono tuttavia molto diverse da quelle delle precedenti rivoluzioni borghesi di Francia e d’Inghilterra, è non potrà non assumere caratteri diversi da esse. Quale classe sociale dovrà sopportare il peso maggiore ed esserne la protagonista? La borghesia tedesca è o no rivoluzionaria al punto di mostrarsi all’altezza della situazione? Avrà la capacità di portarla “fino in fondo”?
Altro importante interrogativo: la rivoluzione borghese è il massimo traguardo posto dalla storia, o è possibile imboccare subito dopo anche la rivoluzione proletaria e comunista? Se la borghesia è politicamente arretrata, inetta e vile – come infatti lo era – può e deve il proletariato addossarsi anche i suoi compiti, e puntare poi verso l’emancipazione sociale di sé stesso e dell’umanità?
A questi interrogativi Marx aveva risposto pure negli Annali, dove aveva pubblicato la “Introduzione alla critica alla filosofia del diritto di Hegel”: «In Germania non si può spezzare nessuna forma di asservimento senza spezzarle tutte. La base della Germania non può essere rovesciata senza una rivoluzione radicale poichè l’emancipazione della Germania è l’emancipazione dell’uomo. La testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore il proletariato. La filosofia [il programma] non si può realizzare che con l’abolizione del proletariato, e il proletariato non può essere eliminato che con la realizzazione della filosofia»
Pure in un linguaggio di intonazione ancora filosofica, Marx già intende perfettamente il futuro corso storico: la battaglia da affrontare a più o meno breve scadenza non potrà essere affidata alla sola borghesia, pena l’arenarsi di ogni emancipazione, anche dal feudalesimo. La storia, con il trionfo della controrivoluzione, confermerà le previsioni di Marx come confermerà quelle di Lenin circa l’inevitabile sconfitta della rivoluzione proletaria in Russia ove non fosse stata seguita dalla rivoluzione europea. Come si vede il marxismo è scienza della rivoluzione come scienza della controrivoluzione.
Nello svolto storico del 1848, l’esistenza in Germania e in Europa sia del feudalesimo, sia del capitalismo rivoluzionario e controrivoluzionario, spiega a sufficienza come la lotta che si profila all’orizzonte non possa avere limiti nazionali e come ogni tipo di violenza armata divenga necessaria e utile. La concentrazione in Germania di tutte le contraddizioni della società di allora fa sì che ogni sbocco vi diventi possibile. Ecco perchè l’ “arretratezza” della Germania, da apparente paradosso, si risolve nella più favorevole condizione per lo sviluppo teorico e politico del proletariato e per la formulazione più realistica della sua strategia rivoluzionaria, valida non solo per la Germania di allora ma per tutti i paesi che si troveranno nelle stesse condizioni. La tesi dunque che il proletariato ha tanto più attitudine alla teoria, cioè a capire il programma comunista e ad agire per realizzarlo, quanto meno esso ha “beneficiato” degli apporti intellettuali della borghesia, è tesi marxista, che troverà conferma in Russia con Lenin e Trotski.
Nell’esame della questione militare della società feudale abbiamo visto che la forza viva che aveva dato luogo a questa nuova società sulle rovine di quella schiavista risiedeva nei germani. Ma il frutto degli sforzi di questi popoli giovani, cioè le nazionalità moderne e la loro organizzazione sociale borghese, si ebbero nei paesi da essi conquistati, anziché in Germania. Qui si trapiantò quella struttura medioevale che fu il Sacro Romano Impero Germanico, le cui caratteristiche materiali e ideali, anziché favorire il processo storico, lo contrastarono. L’imperatore, in quanto tale, era contro i feudatari e i principi, ma come signore feudale appoggiava la nobiltà terriera e, contrariamente alla monarchia in Francia e Inghilterra dal 14º secolo in poi, adopererà il suo potere politico, la violenza organizzata dell’apparato statale, in senso decentralizzatore, sciupandola all’esterno in un espansionismo colonizzatore di tipo feudale. Di qui la tendenza all’aumento dell’autorità dei principi nei confronti del potere imperiale e la tendenza verso forme stabili di divisione territoriale. Queste forze centrifughe, che in altri paesi, nella misura in cui erano battute, finivano per dare un carattere assoluto alla monarchia, in Germania facevano sì che l’imperatore continuasse ad essere eleggibile come i primi re franchi. Ciò aveva per conseguenza che la nazione tedesca non si confondesse con una casa reale, come avviene altrove, e non s’avviasse ad assumere i caratteri unitari della nazione moderna. La scelta dell’imperatore avveniva ad opera dei principi, singoli o riuniti in gruppi, e quando, come nel 15º secolo, l’imperatore minacciò la loro potenza, essi cambiarono la dinastia.
Quando il livello generale raggiunto dalle forze produttive fu abbastanza alto, la Germania era attraversata da tutte le strade del commercio europeo, e le prospettive di formazione di un mercato interno e quindi di una unità nazionale erano favorevoli. Ma sia la sconfitta della rivoluzione borghese manifestatasi dapprima come movimento religioso (Riforma), sia lo spostamento dell’asse del commercio sulle rive dell’Atlantico, condannarono la Germania a un ulteriore processo di decomposizione. All’Olanda fu facile staccarsi e prendere per sè la foce del Reno, dove giungevano le vie del commercio mondiale. Così pure lo Schleswig-Holstein si separò aggregandosi alla Danimarca, e la Svizzera si costituì in nazione autonoma. La Riforma essendo mancata anche al suo intento dichiarato, provocò una divisione religiosa che rafforzava quella materiale e politica. La Germania si avviava a divenire una sorta di Cina europea: nessuno al suo interno poteva più opporsi all’ingerenza straniera; i francesi potevano comprare con l’oro i principi come già reclutavano i mercenari tedeschi. Il punto culminante fu raggiunto con la Guerra dei Trent’anni (1618-48) dopo la quale l’Impero non è più che un nome. L’economia è in rovina e la popolazione decimata, e la sovranità che ancora resta ai principi e allo stesso imperatore è “garantita” dal trattato di Vestfalia.
Ogni guerra successiva assumerà l’aspetto di guerra civile, perché l’imperatore troverà sempre nel campo nemico qualcuno dei principi tedeschi alleati con lo straniero. Ormai la frattura religiosa diverrà una istituzione politica, con un Nord protestante e un Sud cattolico. Le rivalità tra Russia ed Austria completeranno la rovina della nazione tedesca: le loro guerre permetteranno alla Russia, massima potenza feudale del tempo, di venirvi a dettare legge e produrre un’asfissiante stagnazione nella quale gli unici segni di vita della borghesia tedesca saranno dati all’insegna “delle virtù più infami”.
La speranza di una “rigenerazione” della Germania non può ormai avvenire che dalla violenza rivoluzionaria della Francia del 1789. Al vergognoso ruolo controrivoluzionario svolto da tutte le potenze piccole e grandi del Reich tedesco per soffocare la rivoluzione borghese in Francia, seguirà l’azione punitiva delle guerre napoleoniche.
Abbiamo altre volte detto come Napoleone possa essere chiamato “il padre della rivoluzione borghese tedesca”. Le sue guerre infatti, non certo per gli scopi che si prefiggevano, ma per i risultati materiali che conseguirono, furono oltremodo salutari per la nazione tedesca. Il loro carattere imperialistico e distruttivo fece nascere per reazione dialettica il sentimento nazionale e l’ardore guerriero dei patrioti, e portò alla guerra di liberazione del 1813. Distruggendo molti staterelli del sud e dell’ovest e aggregandoli agli Stati più grandi, Napoleone compì un’opera rivoluzionaria che sarebbe stata anche più decisiva se avesse fatto altrettanto con i principi del nord prima ancora di fondere i paesi nella Confederazione del Reno (questa nasce nel luglio 1806, e nell’agosto muore l’Impero). Non lo fece perché lo scopo delle sue guerre non era favorire il processo rivoluzionario ma battere la rivale borghese Inghilterra nella lotta per il dominio dei mercati.
Certo, Napoleone si rendeva ben conto che nessuna vittoria militare si sarebbe mai consolidata se, all’inizio specialmente, non avesse sfruttato l’eredità della rivoluzione, ma lo sviluppo reale della storia mostra proprio nel suo esempio che la rivoluzione borghese non può superare i limiti nazionali e quindi promuovere una guerra rivoluzionaria con chiari caratteri aggressivi. Internazionale è solo la controrivoluzione borghese diretta contro l’internazionalismo rivoluzionario proletario. Più Napoleone introduceva le riforme borghesi nei territori conquistati, più veniva a cadere la legittimità storica della sua presenza e, dal momento in cui si alleò con il despota russo, Alessandro I°, perse ogni diritto ad essere considerato “il liberatore dei popoli”, mentre, alla rottura dell’alleanza con lo Zar, dovrà subire l’urto dell’ultima coalizione borghese-feudale dell’Inghilterra e della Russia e, incredibile ma vero, vedrà le truppe russe e prussiane lottare sotto la bandiera della libertà dalla sua dittatura militare.
La Germania, questa colonia europea, combatte così la prima guerra antimperialista. Ma quale carattere contraddittorio ha questa guerra di liberazione! La violenza popolare armata ha potuto rovesciare il despota imperialista, ma il feudale monarca prussiano Federico Guglielmo III può, insieme al suo protettore russo rimangiarsi ogni promessa di libertà, di unità e di indipendenza della Germania, e di costituzione. Così, dopo Waterloo (1815) si abbatte sull’Europa un periodo che se non sempre nè dovunque può essere di restaurazione sociale (l’aratro napoleonico aveva scavato troppo a fondo; non si poteva tornare più indietro!), è però dominato da una desolante reazione politica che non permette più alla borghesia di alzare la testa e di organizzarsi politicamente. Altra lezione della storia è dunque che la borghesia tedesca va debitrice a una dominazione straniera di quel tanto di emancipazione sociale che aveva conquistato, ed è poi costretta a combattere il proprio liberatore sociale mettendosi al servizio dei propri oppressori, gli unici a beneficiare della vittoria.
Di tutte le promesse fatte per l’unità tedesca non rimase che la beffa di quella Confederazione Germanica, composta ancora di 36 Stati legati da una Dieta in cui sedevano i delegati dei vari Principi, che resterà uno strumento della reazione in mano alla Prussia e ancor più all’Austria. L’unico tentativo di resistenza della borghesia in questo periodo è la creazione della Burschenschaft, un’associazione patriottica di studenti. Nel quindicennio che va dal 1815 al 1830 in Germania si deve ricostruire ciò che è stato distrutto dalle guerre del quindicennio precedente: l’apparato economico è quindi di debole struttura, l’industria è ancora la più arretrata di Europa, con poche zone di relativa concentrazione nella Slesia, nella Sassonia e soprattutto in Renania, dove nasce Marx e dove è stato già introdotto il codice napoleonico.
La rivoluzione borghese in Europa, che dal Congresso di Vienna aveva segnato il passo, riprende col 1830 un nuovo se pur temporaneo slancio. Il periodo di pace seguito alle guerre napoleoniche ha ridato impulso all’economia, e al segnale della rivoluzione politica della borghesia francese. Nel luglio 1830 tutte le forze sociali borghesi degli altri paesi si mettono in movimento, dove più e dove meno.
Le ripercussioni in Germania si esauriscono in poche e deboli agitazioni a nord, e in qualcuna più forte a sud, ma in complesso il movimento riesce poco pericoloso e i suoi risultati sono scarsi se non insignificanti. Senza grande sforzo sia il dispotismo prussiano sia quello asburgico, servito questo ultimo dall’“onnipotente” Metternich, fanno rientrare il movimento politico borghese.
Tuttavia, loro malgrado, alcuni governi tedeschi, presi nella morsa delle necessità finanziarie e costretti a difendersi dalla concorrenza estera, prepareranno dal 1834 quella misura economica rivoluzionaria dell’Unione Doganale (Zollverein) che, insieme alla costruzione delle ferrovie, stimolerà la produzione industriale e intensificherà lo scambio mercantile, assestando così un duro colpo ai tradizionali preconcetti particolaristici. Da questa crescente fusione di interessi borghesi si sviluppa la forza della borghesia, che trova sempre più assurda la divisione del paese in 36 Stati; e la conseguenza sarà il suo passaggio alla opposizione politica liberale. Questo cambiamento può essere datato al 1840; è allora che ha inizio un vero e proprio movimento politico della borghesia in Germania.
Insieme al movimento rivoluzionario economico e politico della borghesia in Europa si sviluppa il suo pensiero rivoluzionario. Al culmine di questo moto generale europeo avverrà la triplice frattura di classe in Inghilterra, in Francia e in Germania. La svolta storica che matura in questi anni, e che apparirà alla luce del sole nel ’48, è quella che vede la classe operaia staccarsi definitivamente dalla borghesia e contrapporsi ad essa da una posizione autonoma di classe. Ma se tale movimento politico proletario è importante, più importante ancora è la fusione tra movimento operaio e socialismo ad opera del marxismo.
Non ci soffermeremo a descrivere la complicata composizione sociale della Germania prequarantottesca, base della sua organizzazione politica. La nobiltà fondiaria vi era numerosa e, a parte che non controllava più i principi, le erano rimasti gli altri privilegi medievali, l’esenzione dalle imposte e la giurisdizione sui sudditi. La borghesia, benché dal 1815 avesse visto aumentare la sua ricchezza e la sua importanza politica, era ancora economicamente e politicamente, arretrata: il suo movimento politico, abbiamo già detto, data dal 1840. La piccola borghesia è molto numerosa; di qui la sua grande importanza politica nelle future lotte. La sua posizione intermedia tra borghesia e proletariato ne determina il carattere oscillante.
La classe operaia non può non risentire della arretratezza della borghesia. Ciò nondimeno, si forma in mezzo ad essa una vigorosa corrente le cui idee circa l’emancipazione del proletariato sono molto più chiare e in armonia coi fatti presenti e con le necessità storiche. Il movimento attivo del proletariato data dal 1844, cioè dalle insurrezioni degli operai industriali della Slesia e della Boemia. I contadini costituiscono la grande maggioranza della popolazione e comprendono pochi agrari con operai agricoli al loro servizio e molti piccoli proprietari indipendenti la cui proprietà è però soltanto nominale, in quanto ancora gravata da molte servitù. La rivoluzione in Francia aveva dato ai contadini la libertà della persona e quella della proprietà: frutto delle guerre napoleoniche per la Germania era stata solo la libertà personale. Una rivoluzione borghese in Germania era quindi attesa dai contadini per ottenere anche la libertà della proprietà. Malgrado questa loro importante aspirazione, i contadini, a causa della loro dispersione, non riuscirono però a suscitare un movimento indipendente e, come la storia di ogni paese dimostra, avevano bisogno della spinta della popolazione urbana, più concentrata e facile a organizzarsi.
A questa struttura di classe si aggiunga la divisione politica del paese e si ha il quadro complessivo della situazione: interessi diversi e spesso contrastanti; nessun centro come Londra o Parigi le cui decisioni possano, col loro peso, evitare la lotta per una stessa questione in ogni provincia; inevitabilità che il conflitto di classe si risolva in un pulviscolo di combattimenti sconnessi, sanguinosi e sterili; difficoltà quindi di risolvere il problema militare.
L’Austria, utilizzando la burocrazia civile e militare, era governata da Metternich sulla base di due principi; quello tradizionale delle monarchie assolute di appoggiarsi allo stesso tempo sulla nobiltà e sulla borghesia, e quello di tener soggette le varie nazioni del composito impero opponendo le une alle altre. Un cordone sanitario di censori isolava il paese dall’influenza straniera, perché lo “spirito maligno” del tempo non lo invadesse. Tutto sembrava tranquillo, e per trent’anni (dal 1815) regnò il bastone.
Ma anche qui l’aumento delle forze produttive si era fatto inesorabilmente strada e con esso il malcontento generale, se non una vera e propria opposizione: quindi anche l’Austria andava verso un mutamento profondo.
La Prussia era più aperta alle correnti di pensiero provenienti dall’ovest e, dopo l’ingresso nello Zollverein, la sua borghesia aveva acquistato tanta forza da reclamare apertamente da Federico Guglielmo IV la realizzazione delle promesse fatte dal padre e regolarmente tradite. È appunto il rifiuto del nuovo monarca di mantenerle che la spinge a radicalizzarsi e ad iniziare la sua battaglia nella Gazzetta Renana del 1842. Quando poi la monarchia, a corto di quattrini, è costretta nel febbraio 1847 a concedere una Dieta Unita per ottenere prestiti dalla borghesia, questa ha il coraggio di negarglieli perché l’Assemblea non è per nulla “rappresentativa”, in quanto, fra i delegati delle otto Diete provinciali che la compongono, dominano gli elementi della nobiltà terriera. Al rifiuto della borghesia la monarchia reagisce sciogliendo anche la Dieta Unita. La lotta è ormai inevitabile, e, poiché manca un partito repubblicano, l’alternativa è: monarchia costituzionale o socialismo.
Le pur blande costituzioni strappate dopo i moti del 1830-31 sono state soppresse e, non potendo più utilizzare i parlamenti provinciali, le borghesie locali si mettono nelle mani della borghesia di Prussia. Concludendo con Engels, «la Germania all’inizio del ’48 si trovava alla vigilia di una rivoluzione, e questa rivoluzione sarebbe certamente scoppiata, anche se la rivoluzione francese non ne avesse affrettato l’innesco».
Le prime forme del movimento operaio tedesco sono riconoscibili in quelle organizzazioni che nascono all’estero tra operai e garzoni artigiani, i quali, o a causa della disoccupazione e della fame o perché espulsi dalla reazione imperante in Germania, sono costretti ad emigrare. La più importante fra queste associazioni è la Lega dei Proscritti, sorta a Parigi nel 1834. Per le sue tendenze democratico-repubblicane e per la sua forma cospiratoria, questa organizzazione può considerarsi simile alla francese Società dei Diritti dell’Uomo. Ma presto le tendenze proletarie si accentuano e si separano da quelle piccole borghesi. Nel 1836 l’ala più radicale, capeggiata da Schuster, si scinde e fonda la Lega dei Giusti.
Questa già organizzativamente si differenzia dalla precedente: non più gerarchia di tipo militare e dittatura di un capo cui si deve obbedire ciecamente, come richiesto dalle finalità cospiratorie, ma direzione democratica. Questo non è solo un passo avanti sul piano dell’organizzazione ma sta a significare che lo stesso modo di concepire la lotta rivoluzionaria va cambiando: alla cospirazione si antepone la propaganda per suscitare movimenti di più vasta portata.
La Lega dei Giusti si appoggiava alla consorella francese, la Società delle Stagioni, capeggiata dal Barbès e dal Blanqui, e da questa fu coinvolta nella insurrezione parigina del 12 Maggio 1839. Parte dei suoi membri, con a capo il Weitling, si trasferì allora in Svizzera; parte si spostò a Londra con Schapper, e assunse carattere più internazionale perché, oltre a tedeschi e svizzeri, vi aderivano inglesi, olandesi, cechi, polacchi e russi; parte rimase a Parigi, affidata ad Hess e a Ewerbeck, seguace del comunista francese Cabet.
Come sull’onda della rivoluzione borghese si andava inserendo l’azione rivoluzionaria del proletariato, così sull’onda della rivoluzione intellettuale borghese (riflesso di quella economico-politica) si andava sviluppando il pensiero rivoluzionario del proletariato, per dar luogo alla sua dottrina rivoluzionaria e al suo programma storico ad opera di Marx e di Engels. In Germania tale processo intellettuale trovavasi a un livello più alto che altrove e prendeva le mosse dalla critica di Hegel da parte dei suoi allievi.
Ma l’attacco si rivolse non alla politica (concezione dello Stato, suoi rapporti con la Società etc.), «terreno ancora troppo spinoso» dice Mehring, bensì alla religione. Il più radicale dei giovani hegeliani, Feuerbach, dimostrò che senza distaccarsi dalla filosofia hegeliana non ci si poteva neppure distaccare dalla teologia. Ma questa rottura completa con l’idealismo filosofico non era ancora il materialismo di Marx, perché si riduceva soltanto a una scienza naturale e non anche una scienza sociale. Ora, dirà Marx, «la critica del cielo deve trasformarsi in critica della terra», e a questa critica egli non giungerà attraverso una erudizione libresca: «Per la scienza non c’è una comoda via (dirà nella prefazione francese del Capitale) e hanno probabilità di arrivare alle sue cime luminose soltanto coloro che non temono di stancarsi a salire i suoi ripidi sentieri».
Solo le sofferenze del proletariato e il dramma storico che si stava per aprire potevano creare in lui quella formidabile volontà e quella passione che gli agiteranno il cuore e il cervello, e che gli faranno approfondire gli studi economici e quelli storici «l’amor che muove il sole e le altre stelle». Senza il terreno ardente della lotta di classe, senza l’esigenza di risolvere le grandi contraddizioni, abbattendo tutti gli ostacoli e operando rivoluzionarie trasformazioni sociali, la passione rivoluzionaria di Marx resterebbe del tutto inspiegabile. Studio e partecipazione alle lotte reali si alternano in lui in dialettico svolgimento. Ogni esperienza pratica è stimolo allo studio; ogni conquista nella teoria è sprone per saggiarla sul terreno solido delle lotte pratiche.
Il soggiorno berlinese gli aveva mostrato una faccia della società tedesca: quella piccolo-borghese piagnucolante e impotente. In Renania affronta istruttive lotte pratiche sulla Gazzette Renana e comprende subito fino a che punto è rivoluzionaria la borghesia tedesca e quanto è retriva la monarchia prussiana, ostinata nei suoi metodi dispotici. Dalla soffocante aria della Germania Marx passa a respirare quella più libera della Parigi borghese, capitale della rivoluzione europea. È qui che per tutto il 1844 si abbevera alle fonti della rivoluzione francese e prende contatto con le associazioni socialiste di L. Blanc, Flocon e Ledru-Rollin, e con quelle comuniste di Cabet. Qui si avvicina ai proletari e garzoni tedeschi della Lega dei Giusti, rimasta a Parigi dopo la sconfitta del 1839.
Delle concezioni di questi partiti della classe operaia Marx fa uno studio comparativo criticando i lati buoni e cattivi di ciascuno.
È a Parigi che incontra sul cammino rivoluzionario del suo pensiero Federico Engels, che a sua volta, sospinto dalle stesse cause motrici (le lotte del proletariato) e dallo stesso interesse (la rivoluzione), aveva lasciato la Germania ed era passato in Inghilterra a vivere le esperienze del proletariato allora più numeroso e più ricco di storia della moderna industria capitalistica. È da questo momento che i due grandi rivoluzionari continuano a lavorare assieme per la stessa causa a cui erano giunti percorrendo strade diverse.
A Manchester, nel 1843, Engels aveva compreso l’importanza dei fatti economici: «base della formazione dei partiti, delle lotte dei partiti, e con ciò di tutta la storia economica». Marx – continua Engels – era «giunto alle stesse conclusioni, le aveva già realizzate negli Annali franco-tedeschi... Allorché nell’estate del 1844 là lo incontrai a Parigi ci accorgemmo della nostra più completa concordanza in tutti i punti teorici, e da quel momento data il nostro comune lavoro». Dunque, ormai, non c’è dubbio per loro che il problema sociale sia essenzialmente pratico. Altrettanto dicasi della necessità della rivoluzione e del suo doppio carattere: «ogni rivoluzione abbatte il vecchio potere, ed in ciò è una rivoluzione politica, Ogni rivoluzione elimina l’antica società, ed in ciò è una rivoluzione sociale».
Dunque, «il comunismo non può realizzarsi senza rivoluzione».
Occorre notare che Marx ed Engels non hanno dato finora che una adesione ideale al comunismo. Prima che essa possa divenire politica, occorre epurare quanto ancora di «grossolano» c’è nel comunismo, far luce sulla confusione di idee e di sentimenti più o meno «fraternalistici».
L’adesione politica senza riserve poteva avvenire ad una condizione: che da parte proletaria avvenisse l’adesione ideale alle loro concezioni. L’incontro tra movimento politico proletario e socialismo scientifico non poteva realizzarsi in modo unilaterale: solo se il proletariato, nei suoi elementi più genuini, mostrava di capire la loro dottrina e di preferirla alle visioni del socialismo utopistico degli idoli più popolari, si sarebbe potuta saggiare la forza di penetrazione della dottrina stessa come segno del suo profondo realismo e della sua giusta comprensione del corso storico.
In altri termini, gli operai dovevano operare una scelta definitiva sulla base del loro più sano istinto di classe, proprio per trasformare quell’istinto in coscienza teorica, in coscienza di classe.
A dire il vero, la adesione formale al movimento politico proletario, per Marx ed Engels, non manca solo per queste essenziali ragioni. Essi hanno ancora da percorrere un ulteriore tratto per giungere alla chiara e «definitiva» comprensione della realtà sociale e storica. Ciò avverrà nell’esilio di Bruxelles, dal 1845 al 1848, dove Marx riparerà come reo di aver fatto l’apologia della grande rivolta dei tessitori della Slesia sul “Vorwarts”: «Il sollevamento slesiano del 1844 comincia là dove finiscono le rivolte operaie inglesi e francesi; con la coscienza della natura del proletariato, il sollevamento stesso, l’azione, riveste questo carattere superiore. Non solo le macchine, queste nemiche dell’operaio, ma i libri contabili, i titoli di proprietà furono distrutti, e mentre gli altri movimenti non si erano levati che contro nemici visibili, i padroni della industria, questo movimento si è diretto anche contro i banchieri, cioè il nemico nascosto. Nessun sollevamento operaio inglese è stato finora condotto con un tale coraggio, una tale riflessione e una tale tenacia».
A Bruxelles Marx è raggiunto da Engels, che resta con lui tra la primavera del ’45 e l’estate del ’46. Proveniva, da Elberfeld, dove il governo prussiano aveva interdetto le sue riunioni con gli entusiastici simpatizzanti di cui era riuscito a circondarsi. «Quando ci incontrammo a Bruxelles, nella primavera del 1845, Marx aveva già dai principi enunciato, elaborato la sua teoria materialistica della storia nei tratti principali, e noi ci adoperammo a sviluppare nelle più diverse direzioni le opinioni recentemente acquisite nella nostra coscienza» (Prefazione di Engels a “Rivelazioni sul processo dei comunisti a Colonia”).
Nell’estate Engels e Marx vanno in Inghilterra, e qui Marx conosce i membri più influenti della Lega dei Giusti come Schapper, Moll ecc. e il direttore del “Northern Star”, J. Harney, del movimento cartista.
Ancora una volta ricevono l’invito ad aderire alla Lega; ma, ancora una volta, «naturalmente» rifiutano. Ad essi urgeva «elaborare in collaborazione il contrasto della nostra concezione con la filosofia ideologica tedesca, cioè di fare effettivamente i conti con la nostra precedente coscienza filosofica. Il progetto venne attuato in forma di critica della filosofia posthegeliana». (Prefazione alla “Critica dell’economia politica”). Nacque così quella “Ideologia Tedesca” che, per le solite difficoltà editoriali, venne abbandonata alla metaforica «critica roditrice dei topi» ma ebbe per i nostri maestri una funzione altamente chiarificatrice delle idee, e dei fatti che le idee producono.
Qui è detto a tutte lettere che «Non è la critica, ma la rivoluzione la forza motrice della storia, come della religione, della filosofia e delle altre teorie». Qui il comunismo trova la sua definizione, del tutto opposta alla maniera utopistica della ricetta da estrarre di tasca: «Il comunismo non è per noi un sistema che debba essere istituito, un ideale secondo il quale la realtà dovrebbe indirizzarsi. Noi chiamiamo comunismo il movimento reale che opera per l’eliminazione della situazione presente». Il comunismo quindi si inserisce nel processo storico in atto. Si tratta ora di favorire e accelerare questo processo con l’azione rivoluzionaria nella giusta direzione e nel tempo opportuno: cose che possono essere individuate sulla base della teoria del materialismo storico.
Si può dire che la “questione militare” stia tutta qui. Nella definizione ora data del comunismo è infatti chiaro che la appropriazione di tutte le forze produttive da parte del proletariato, e il loro successivo trasferimento all’umanità intera, possono realizzarsi solo attraverso la “espropriazione degli espropriatori”, la rivoluzione violenta.
Fatti i conti con la loro precedente coscienza teorica, a Marx e ad Engels non restava che passare all’azione pratica organizzando le forze politiche sulla base della nuova dottrina rivoluzionaria. Essi fondarono a Bruxelles un circolo comunista a cui aderirno profughi tedeschi, di cui molti resteranno sempre fedeli alla causa e svolgeranno una grande attività nella futura rivoluzione in Germania: ricordiamo solo i nomi di W. Wolff, Weydemeyer e Stephan Born. Marx ed Engels fecero di questo club un centro di corrispondenza internazionale per irradiare la loro dottrina: tramite la “Northern Star” influenzeranno il movimento proletario in Inghilterra; tramite la “Réforme” agiranno su quello francese, tramite la “Deutsche Brusseller Zeitung” su quello di Germania.
Il loro fine era creare un movimento di vasta portata al di sopra delle nazionalità; uno dei mezzi scelti per raggiungerlo fu la polemica interna allo stesso movimento proletario, socialista e comunista. Si dovettero necessariamente colpire le figure più in vista, i profeti, gli idoli, di cui pur si riconoscevano i meriti, il valore personale e tutte le qualità di genuini combattenti per la causa proletaria. Si cominciò con Weitling e il suo mistico comunismo, si passò al suo affine Kriege; indi fu la volta di K. Grün e del suo Vero socialismo,, di H. Wagener e del suo socialismo feudal-cristiano-germanico, che tendeva a spingere gli operai contro la borghesia per tenere in piedi l’ordine esistente e la monarchia. Occorse infine aggredire Proudhon, il maggior idolo dottrinario del socialismo, e lo si fece con la «Miseria della filosofia».
Dopo oltre un anno di intensa attività svolta dal circolo di Bruxelles i frutti non si fecero attendere: segno che anche una piccola organizzazione può far molto – specie in una situazione favorevole – quando agisca con spirito di iniziativa e intransigente coerenza di idee.
Da un po’ di tempo Marx ed Engels seguivano con attenzione la Lega dei Giusti di Londra e gli sviluppi della sua fisiologica crisi interna: «Noi pubblicammo una serie di saggi, in parte stampati, in parte litografati, nei quali veniva sottoposta a una spietata critica quella mistura di socialismo o comunismo franco-inglese e di filosofia tedesca, che costituiva la segreta dottrina della “Lega”, sostituendovi la visione scientifica della società borghese come unico fondamento teorico, esposta in forma popolare, non già come elaborazione di qualche altro sistema utopistico ma come consapevole partecipazione a un processo storico di trasformazione che si svolge sotto i nostri occhi» (Marx).
Nel febbraio del ’47 la Lega incaricava J. Moll di andare a Bruxelles per chiedere a Marx e ad Engels di aderire alla Lega stessa, dopo di averli informati che la maggioranza proletaria più rivoluzionaria aveva riconosciuto tutte le deficienze dell’organizzazione e che un congresso da tenere il I° giugno a Londra doveva ricostituirla su basi del tutto nuove. «La folgore del pensiero aveva penetrato l’ingenuo terreno popolare», dice Mehring. Ed Engels ricorda: «Ciò che finora avevamo criticato, era adesso abbandonato come difettoso dagli stessi rappresentanti della Lega. Noi stessi eravamo invitati a contribuire alla sua riorganizzazione. Potevamo declinare l’invito? No certamente. Vi entrammo quindi entrambi».
Al Congresso di giugno parteciparono Engels in rappresentanza della comunità tedesca di Parigi (ove si era da poco recato) e W. Wolff come delegato di Bruxelles. In esso si decise il cambiamento del nome della Lega in “Proletari di tutti i paesi, unitevi!”, e si definì lo scopo dell’organizzazione «nell’abbattimento della borghesia, nel dominio del proletariato, nella liquidazione della vecchia società borghese fondata sui contrasti di classe, e nella fondazione di una nuova società senza classi e senza proprietà privata». Lo scopo così formulato figurerà nel 1° articolo del programma che la Lega si dette poi al 2° Congresso, ai primi di dicembre a Londra, insieme allo statuto. Presentato da Marx e da Engels, esso venne approvato all’ unanimità dopo dieci giorni di animati dibattiti: fu un grande trionfo dei fondatori del socialismo scientifico, o comunismo rivoluzionario. L’era dei profeti è finita: il proletariato ha riconosciuto e accettato Marx ed Engels come i suoi unici e indiscussi capi. Ad essi il proletariato della Lega dei Comunisti affida la compilazione di quel documento che, da semplice “professione di fede”, si eleverà a solenne Manifesto e rappresenterà la sintesi del programma storico della classe operaia e del suo partito rivoluzionario per tutto l’arco storico destinato a chiudersi con la rivoluzione mondiale e il trionfo definitivo del comunismo sulla Terra.
Abbiamo ritenuto doveroso intrattenerci sul processo di sviluppo della teoria rivoluzionaria del proletariato ad opera di Marx e di Engels perché per noi, per dirla con Lenin, non c’è azione rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria. La questione militare, nella concezione marxista, considera quindi fondamentale la chiarezza della visione teorica, e un “fatto militare” la stessa conquista della teoria comunista. Quello dei nostri maestri non è stato lavoro accademico per la scienza e la cultura in generale: è stato opera di combattenti, è stato esso stesso una dura e tormentosa battaglia da vincere. Abbiamo visto come anche la lotta economica per il salario dei proletari inglesi fosse vista da Engels sullo stesso piano della lotta politica dei rivoluzionari francesi. Altrettanto deve dirsi della lotta sul piano teorico che Marx affronta in nome del proletariato tedesco e mondiale, e che costò a lui l’esilio, la miseria, e la fame.
Lo stretto legame tra lavoro teorico e lotta armata lo si vede del resto nel fatto che esso è sforzo di profonda analisi e critica dei metodi di lotta rivoluzionaria delle varie classi e dei loro organismi combattenti: è insomma scienza ed arte militare rivoluzionaria. Grazie ad essa infatti l’azione cospiratoria e di tipo blanquista verrà definitivamente abbandonata dal proletariato; grazie ad essa tutta la rivoluzione europea e quella tedesca in particolare verrà da Marx e da Engels spinta in avanti nel biennio ‘48-49. Il fallimento della rivoluzione ad opera della controrivoluzione non cancellerà giammai l’opera di politica e di azione militare che il partito proletario e comunista, a mezzo di Marx, di Engels e di altri pochi valorosi pionieri, svolse durante il corso degli avvenimenti drammatici di quel biennio. Il fallimento stesso della rivoluzione, sempre temuto e previsto, non è che una conferma della validità della teoria e della azione di questo “stato maggiore” del proletariato. La sua eredità sarà messa a profitto da Lenin durante la grande lotta ingaggiata e portata vittoriosamente a termine in Russia dal partito bolscevico.
Le cause profonde sono di origine economica: è giunta l’ora in cui lo sviluppo delle forze produttive richiede radicali trasformazioni delle strutture politiche in quasi tutti i paesi dell’Europa che va fino ai confini russi.
A precipitare la crisi rivoluzionaria intervengono sia la crisi agricola del ’45 e ‘46, sia la crisi del commercio e dell’industria iniziata nel ‘45 scoppiata in pieno nell’autunno del ’47 in Inghilterra. Il mercato mondiale già abbastanza sviluppato spiega il rapido propagarsi del malessere in ogni paese. Per la Germania abbiamo già visto quali fatti politici fossero maturati alla vigilia del ’48. Per la Francia basta ricordare le reazioni popolari alla politica estera conservatrice del governo di Luigi Filippo, specie dopo la crisi dell’entente cordiale con l’Inghilterra (1840) e il riallacciamento dei rapporti con le potenze della Santa Alleanza. Dice Marx che da quella politica seguì «una serie di umiliazioni del sentimento nazionale francese» a risollevare il quale verranno appunto le notizie di insurrezioni all’estero.
Un esempio della politica controrivoluzionaria della borghesia francese è il suo appoggio al reazionario Sonderbund, la lega dei cantoni cattolici svizzeri in lotta contro la lega dei cantoni radicali e protestanti per la conservazione della loro medievale autonomia: condotta tanto più vergognosa in quanto la Francia intervenne accanto a quell’Austria contro cui un tempo gli svizzeri avevano combattuto le prime battaglie per l’indipendenza. La vittoria dei liberali svizzeri (novembre ’47) e la sanguinosa rivolta del popolo di Palermo (15 gennaio 1848) si ripercossero a Parigi, e, dice Marx, agirono «come una scossa elettrica sulla massa popolare paralizzata, risvegliandone i grandi ricordi e le passioni rivoluzionarie». In Italia pure la rivoluzione che covava sotto la cenere si era ridestata un po’ dovunque, in particolare con la rivolta di Palermo per il distacco e l’indipendenza assoluta dal regno di Napoli.
Concludendo, il torrente rivoluzionario si è ingrossato dappertutto in Europa e minaccia paurosamente gli argini della controrivoluzione. Dopo le prime lesioni si apre la grande falla in Francia, e di qui il moto dilaga in tutti i paesi. Le grandi tappe della rivoluzione saranno Parigi, Vienna, Berlino. Le stesse tappe segneranno il cammino della controrivoluzione.
Gli aspetti sociali della rivoluzione intersecano quelli nazionali, i problemi interni con quelli della politica estera. Rivoluzione e guerra sono all’ordine del giorno dovunque e si influenzano a vicenda. Non tutti i moti di indipendenza si inseriscono nel giusto corso storico: il moto secessionista di Palermo, esasperazione di una giusta lotta contro l’assolutismo, è tuttavia antistorico, come lo sono pure i moti “nazionali” dei popoli slavi dell’impero austriaco, ecc.
Comprendere tutti questi complicati problemi storici e politici non era cosa facile. Ma il partito di Marx sapeva dove mettere la spada per sciogliere i nodi fondamentali; era il solo in grado di additare a classi e partiti la via giusta da seguire; soprattutto, sapeva agire secondo i fini immediati e mediati del proletariato, unica classe veramente rivoluzionaria.
L’insieme di tutte le crisi esistenti avevano reso «ancor più insopportabile il dominio esclusivo dell’aristocrazia finanziaria» (da “Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850” di Marx) cioè di quella frazione della borghesia che raggruppa nel suo seno banchieri, re della borsa, proprietari fondiari.
Contro di essa cominciò subito l’opposizione della borghesia industriale, con la agitazione dei banchetti politici per una riforma elettorale che le permettesse di conquistare la maggioranza nelle camere. La proibizione da parte del governo Guizot di uno di questi banchetti e di una manifestazione popolare provocò l’insurrezione. Il 24 febbraio Parigi era già tutta nelle mani degli insorti i quali, grazie al contegno passivo della Guardia Nazionale, riuscirono a disarmare l’esercito e a cacciarlo da Parigi.
«Il governo provvisorio, sorto dalle barricate di febbraio, rispecchiava necessariamente nella sua composizione i diversi partiti che si erano divisi la vittoria. Esso non poteva essere altro che un compromesso tra le diverse classi che insieme avevano abbattuto il trono di luglio, ma i cui interessi erano opposti e e ostili (…) Tale governo era insomma l’immagine di quella “fraternité” alla cui insegna si era fatta la rivoluzione e nella cui ebbrezza il proletariato si sdilinquiva e faceva cadere la sua bandiera rossa davanti a quella tricolore».
I mesi che vanno fino a giugno chiariranno il significato di quella fratellanza, e la disfatta di giugno farà cadere ogni residua illusione su una società senza contrasti di classe.
Il carattere della rivoluzione di febbraio era e doveva restare essenzialmente politico: la società già borghese doveva rimanere tale. Si trattava solo di dare alla intera classe borghese quel potere politico che prima era nelle mani di una sua frazione. Ma non era indifferente che ciò avvenisse con o senza un cambiamento della forma dello Stato. Marx dimostra che la repubblica fu imposta dal proletariato. In suo nome Raspail «intimò al governo provvisorio di proclamare la repubblica e se questa intimazione del popolo non fosse stata eseguita entro due ore, egli sarebbe tornato alla testa di 200 mila uomini». Se questa repubblica fu «circondata da istituzioni sociali», lo si dovette anche alle minacce del proletariato: «una massa di 20 mila operai marciò sull’Hotel-de-Ville al grido: Organizzazione del lavoro! Costituzione di uno speciale ministero del lavoro!».
L’aver creduto però alla capacità miracolistica di queste istituzioni dimostrò pure la debolezza del proletariato. Anche questa illusione di poter «difendere il suo interesse accanto a quello borghese» cadrà col giugno, quando esso non combatterà accanto alla borghesia ma contro ad essa.
Nell’ottobre del ‘47, Metternich aveva già cominciato a perdere la calma: «La fase che oggi percorre l’Europa – scriveva – è la più pericolosa che il corpo sociale abbia dovuto affrontare negli ultimi sessant’anni».
Il 13 marzo, «il popolo di Vienna spezzò il potere del principe Metternich e lo costrinse a fuggire vergognosamente dal paese» (da Marx, “Rivoluzione e Controrivoluzione in Germania”). Tutte le forze con le quali si era cercato di incatenare la rivoluzione in ascesa erano spezzate in un solo giorno di combattimenti.
Dopo Parigi, tutti i popoli dell’impero austriaco. si erano messi in movimento per chiedere costituzioni separate, autonomia o indipendenza assoluta. Altrettanto dicasi delle varie classi: i contadini distruggevano il feudalesimo nelle campagne prima ancora che ciò avvenisse sulla carta. Delegazioni di ogni genere avanzavano richieste di eguaglianza di diritti civili e politici. Uno di tali comitati il 13 marzo si recò a presentare le sue richieste al Landtag riunito, in testa a un tumultuoso corteo. Il governo oppose resistenza armata e la dimostrazione si trasformò in insurrezione.
«Della rivoluzione di Vienna si può dire che fu fatta da una popolazione quasi unanime». Ciò perché la borghesia agì con una relativa «innocenza politica», derivante soprattutto dal fatto che non aveva ancora «visto gli operai agire come classe o levarsi in difesa dei loro propri interessi di classe» e perché vedeva che «gli operai erano d’accordo con lei su tutti i punti: costituzione, giuria, libertà di stampa ecc.”. Ma quest’idillio non potrà durare a lungo: «È destino di tutte le rivoluzioni che questa unione di classi differenti, che in una certa misura è sempre la condizione necessaria di ogni rivoluzione, non possa essere di lunga durata. Non appena la vittoria contro il comune nemico è conseguita, i vincitori si dividono in campi diversi e rivolgono le armi gli uni contro gli altri. È questo rapido e appassionato sviluppo degli antagonismi di classe che fa di una rivoluzione un agente così potente di progresso sociale e politico; è questo incessante affacciarsi di nuovi partiti che si succedono l’uno all’altro al potere che, durante queste commozioni violente, fa percorrere a una nazione in cinque anni maggior cammino di quanto essa non ne avrebbe percorso in un secolo di circostanze ordinarie».
Questo processo di decantazione lo si vede esaminando la struttura del potere subito dopo l’insurrezione. Esso risulta diviso fra tre forze: monarchia, borghesia, operai, più gli studenti (questi stanno tra borghesia e operai). La monarchia, avendo fatto le concessioni del momento, ha potuto salvare il salvabile e presto penserà a risalire i gradini discesi. La borghesia, benché abbia potuto costituire una sua forza armata, la Guardia Nazionale, e una specie di governo rivoluzionario, il Comitato di Sicurezza, può considerare la sua supremazia un fatto più teorico che pratico, perché un altro potere si è formato accanto al suo: quello degli operai e degli studenti che hanno creato la Legione Accademica, una vera e propria forza armata sulla quale la rivoluzione potrà contare per il suo ulteriore sviluppo.
Un po’ per la fretta di riprendere la produzione e un po’ per paura, la borghesia raffredda subito i suoi entusiasmi e anela a ristabilire la «normalità». La sua alleanza con le altre forze rivoluzionarie, dopo l’insurrezione, si spezza subito. Si deve solo alla condotta maldestra della corona se l’alleanza si ricompone ancora qualche volta. Deciso a riprendere tutto il potere l’imperatore provoca la rivolta prima il 16 maggio, dopo la pubblicazione di una beffarda costituzione aristocratica, poi il 26, imponendo lo scioglimento della Legione Accademica, «Questo colpo sarebbe forse riuscito se la sua applicazione fosse stata affidata solamente a una parte della Guardia Nazionale, ma il governo, che non aveva fiducia nemmeno in essa, fece entrare in azione l’esercito e immediatamente la Guardia Nazionale cambiò fronte, si unì alla Legione Accademica e così mandò a monte il piano del ministero».
Intanto l’imperatore e la corte avevano lasciato Vienna per riprendere a ritessere gli intrighi della camerilla controrivoluzionaria, i cui agenti principali erano fra la burocrazia civile e militare.
Anche a Berlino si manifesta, rivendicando tutte le libertà e i diritti borghesi. Gli operai, che chiedono anche garanzie sul lavoro non si lasciano ingannare dalle promesse di Federico Guglielmo IV, spingono avanti il moto, che nei giorni dal 13 al 16 produce notevole spargimento di sangue negli scontri con l’esercito. La notizia della insurrezione di Vienna provoca l’incendio. La borghesia. chiede al re il ritiro delle forze armate e l’organizzazione di una guardia civica armata che, nelle sue intenzioni, deve sostituire l’esercito regio nel tenere a bada gli inquieti operai.
Il ritiro delle truppe diviene la parola d’ordine con la quale si ingaggia la battaglia tra corona e popolo, in cui questo, nella notte dal 18 al 19 marzo, dopo 13 ore di accaniti combattimenti sulle barricate, riesce a imporre la sua volontà: i 14 mila soldati e i 36 cannoni vengono ritirati, Il peso maggiore della lotta, com’era del resto avvenuto a Vienna, lo sopporta il proletariato: 183 morti. Questi martiri il proletariato rivoluzionario vuole onorare condannando il re a scoprirsi il capo davanti ai loro cadaveri trasportati a spalle dai combattenti delle barricate sfilanti in corteo con le armi vittoriose ancora in pugno. «Si celebrava così contro gli Hohenzollern un processo cui nessuno Stuart e nessun Capeta è stato sottoposto dinanzi al patibolo, un processo la cui terribile violenza ci è stata per sempre conservata nei versi immortali di Freiligrath» (Mehring, “Storia della Socialdemocrazia Tedesca”). Il corteo funebre non era solo l’espiazione imposta a un sovrano colpevole: esso gli imponeva di approvare la nazione armata.
È poco, tutto ciò? Doveva il proletariato rovesciare il trono anche materialmente? «Muovere questo rimprovero è giusto o ingiusto quanto rimproverare gli assalitori della Bastiglia perché non hanno immediatamente proclamato la repubblica».
Il proletariato nel sangue versato il 18 marzo aveva lavato l’onta di decenni e innalzato una barriera storica dalla quale nessun potere al mondo sarebbe tornato indietro. Esso non poteva fare di più che aprire la strada alla borghesia, cioè alla classe che in quel momento storico era chiamata a prendere il potere e a fare i conti con l’assolutismo: nelle sue mani era la decisione di coronare o tradire l’ardita Impresa del 18 marzo.
Rispetto alla rivoluzione di Vienna, quella di Berlino non fu altrettanto “unanime” perché la borghesia era più matura politicamente e aveva presentito la rivoluzione di Parigi come il preludio della battaglia fra borghesi e proletari. Il raffreddamento della borghesia è quindi rapido, e presto si assiste al vergognoso spettacolo che il suo governo si accorda con la corona per varare Costituzione e legge elettorale e per escludere gli operai dalla Guardia Civica, che deve restare solo di borghesi armati.
Presto anche la rivoluzione contadina, propagatasi sotto la spinta della città a tutta la campagna, dove aveva distrutto gli ultimi residui del feudalesimo, deve rientrare. Un simile tradimento dei contadini (dicono Marx ed Engels) da parte del partito borghese tedesco, che in essi doveva avere i migliori alleati. «non fu mai commesso da nessun partito nella storia», e quali che siano i castighi che ad esso riserverà il futuro «esso li ha pienamente meritati con questo solo atto».
Già dal 5 marzo i liberali, prevalentemente del sud, si erano riuniti a Heidelberg per convocare a Francoforte una Costituente nazionale, cioè un parlamento per tutta la Germania. Questo divenne una realtà solo dopo la rivoluzione di Berlino perché la borghesia dei piccoli Stati si era affidata alla borghesia della Prussia, che dominava già nello Zollverein.
Il ruolo storico del nuovo organismo poteva essere veramente importante, ma il cattivo uso fattone dalla borghesia dimostra ancora una volta la sua incapacità ad assolvere ai suoi compiti rivoluzionari. Esso avrebbe dovuto dichiararsi «sola espressione legale della volontà sovrana del popolo tedesco e così avrebbe dato valore legale a ognuno dei suoi decreti». Ma prima di tutto avrebbe dovuto assicurare «una forza armata organizzata capace di spezzare ogni opposizione da parte dei governi. E tutto questo sarebbe stato facile, molto facile a farsi in quel primo periodo della rivoluzione».
Purtroppo l’Assemblea deluse tutti e finì per mettersi al servizio della controrivoluzione.
«I fatti successivi non posso non essere chiaramente compresi se non si prendono in considerazione quelle che si potrebbero chiamare le relazioni internazionali della rivoluzione tedesca. E queste relazioni internazionali erano altrettanto complicate quanto i problemi interni». Questa la ragione per cui anche noi siamo costretti a fare qualche accenno descrittivo ed anche critico.
La Confederazione tedesca comprendeva fra i suoi Stati minori la Boemia e la Polonia prussiana. I due ducati di Holstein e Schleswig erano rimasti politicamente legati alla corona danese, dalla quale, durante la rivoluzione (il 20 marzo) avevano chiesto il distacco per entrare nella Confederazione tedesca; ma la monarchia, tenendo buona la borghesia con qualche concessione democratica, aveva respinto la rivendicazione di questi due paesi tedeschi per nazionalità e necessari alla Germania per motivi commerciali e militari. Perfino certi “democratici” danesi appoggiavano il loro Stato nel perseguire un nazionalismo panscandinavo – sognante il ritorno alla grande monarchia danese, comprendente anche la Norvegia e la Svezia. La guerra fra Germania e Danimarca era quindi inevitabile.
Ma la storia metteva all’ordine del giorno la formazione dello Stato tedesco unitario e indivisibile, ed esigeva che oltre alle regioni sopra nominate ne facessero parte integrante gli altri Stati minori, la Prussia e l’Austria.
Quest’ultima naturalmente avrebbe dovuto liquidare il suo impero concedendo l’indipendenza totale all’Ungheria, alle regioni italiane del Lombardo-veneto, e a certe regioni slave, come richiedeva il vero e genuino interesse rivoluzionario della borghesia tedesca, contro le mire opposte della reazionaria corte di Vienna e di una minoranza di nobili.
Nei riguardi poi di una Ungheria libera, la Croazia non avrebbe dovuto accampare diritti a staccarsene, così come non avrebbe dovuto farlo la Boemia nei confronti dell’Austria tedesca. Là predominava l’elemento magiaro, qui quello germanico: i “liberali” slavi di queste regioni dovevano quindi sentire il dovere rivoluzionario di restare uniti ai gruppi nazionali più forti e vitali. Quale fu invece il loro atteggiamento in seguito alla rivoluzione? Quello di volersi unire a un gruppo nazionale – quello degli slavi (russi, polacchi, serbi e bulgari) – che era sì forte ma storicamente molto retrogrado. Con la loro agitazione per l’indipendenza i popoli slavi di questi paesi «tradivano quindi la causa della rivoluzione per l’ombra di una nazionalità che, nel migliore dei casi, avrebbe condiviso le sorti della nazionalità polacca sotto il dominio russo». Il panslavismo che aveva la patria in queste due regioni non era che una teoria antistorica al servizio della potenza più reazionaria del tempo: la Russia zarista.
Quale doveva essere poi il dovere rivoluzionario della borghesia tedesco-austriaca di Vienna? Quella di non appagarsi delle iniziali concessioni fatte dall’imperatore e di sbarrare la strada ai suoi eserciti inviati a soffocare le rivoluzioni italiana e ungherese. Non aver fatto questo le costerà di essere ricacciata indietro dalle posizioni conquistate in marzo e di essere battuta militarmente proprio dall’esercito imperiale alleato dei panslavisti.
Come si sarebbero potuti impedire tutti questi tradimenti? La risposta data dal partito più radicale, quello proletario e comunista di Marx, fu: con la guerra alla Russia! Questa soluzione era reclamata anche dalla necessità di resurrezione dei polacchi, che chiedevano il distacco dallo Stato prussiano. È vero che anche essi erano stati largamente germanizzati negli ultimi settant’anni e che la frontiera tedesca si era spostata più ad est, ma: «La delimitazione delle frontiere tra le diverse nazioni entrate in rivoluzione sarebbe diventata secondaria di fronte alla questione principale di stabilire una frontiera sicura contro il nemico comune; i polacchi, ricevendo vasti territori a oriente, sarebbero diventati più trattabili e più ragionevoli per l’occidente». In ogni caso, anche un piccolo sacrificio nazionale si sarebbe dovuto sopportare per risolvere il grosso problema dell’unità della nazione tedesca. Non avendo agito così nemmeno in questo settore, anzi avendo soffocato con le armi l’agitazione rivoluzionaria di quei polacchi per i quali fino allora «i tedeschi avevano manifestato tanto entusiasmo», significò per la borghesia tedesca scavarsi la fossa con le proprie mani.
Concludendo, la borghesia tedesco-prussiana, dove, come per lo Schleswig-Holstein, doveva dar prova di spirito nazionale e guerriero, si mostrò vile, e dove poteva e doveva transigere, come nella Polonia prussiana, fu aggressiva e nazionalista.
L’azione del Partito proletario per spingere avanti la rivoluzione
Allo scoppio della rivoluzione a Parigi, il comitato centrale della Lega dei Comunisti aveva rimesso i poteri al comitato direttivo di Bruxelles, e questo a sua volta a Marx. Ma egli già aveva deciso di raggiungere i profughi di Londra e di Bruxelles a Parigi, dove era stato invitato anche da Flocon. Espulso dal governo belga, riparò quindi in Francia.
Qui fra i diecimila profughi tedeschi si andava agitando il problema di una “marcia” sulla Germania per destarvi la rivoluzione, Marx la ritenne una folle avventura e, rischiando tutta la sua popolarità e sfidando tutti i “sinistri” che lo accusavano di viltà e tradimento, non esitò a condannarla. A capeggiare quell’ubriacatura era Herwegh, che si illudeva – come altri patrioti dopo la rivoluzione del luglio ’30 – che il governo francese avrebbe favorito la rivoluzione in Germania. Marx aveva invece capito perfettamente che il pacifista Lamartine avrebbe aiutato i tedeschi solo per farli uscire da Parigi e dalla Francia e allontanare un focolaio di infezione rivoluzionaria. Marx faceva ben rilevare i due grossi errori contenuti nell’idea della “marcia”: uno militare, per cui prevedeva una rapida sconfitta degli improvvisati combattenti, e uno politico, perché una simbolica forza esterna non avrebbe mai potuto suscitare i necessari movimenti di masse richiesti da una rivoluzione e avrebbe avuto anzi l’effetto opposto sugli strati della già vile borghesia.
Non fu ascoltato e il 1° aprile la legione di Herwegh, con musica e bandiera nero-rosso-oro in testa, partiva da Parigi. Il caso volle che nello stesso giorno anche i membri della Lega rimasti fedeli a Marx, per incarico di questi, lasciarono Parigi alla spicciolata per recarsi in Germania e formarvi il lievito del futuro movimento rivoluzionario. I fatti dimostrarono di lì a poco che Marx aveva previsto bene: appena varcato il Reno, la legione di Herwegh fu dispersa dalle truppe del re del Württemberg.
Dei suoi discepoli, invece, W. Wolff raggiunse Breslavia ancora in tempo per farsi eleggere all’Assemblea nazionale di Francoforte, dove sarà il portatore delle vedute marxiste; S. Born andò a Berlino e vi fondò l’associazione la Fratellanza operaia: Willich raggiunse Magonza; Marx ed Engels invece si stabilirono a Colonia, futuro centro di grandi lotte.
Già da Parigi la Lega dei Comunisti aveva lanciato in un appello le «rivendicazioni del partito comunista in Germania», articolate in 17 punti che rispecchiavano gli interessi del proletariato, dei contadini e della piccola borghesia. Tra essi figuravano la unità tedesca come repubblica unitaria e indivisibile, la nazione armata, e il passaggio allo Stato dei mezzi di trasporto e delle terre dei sovrani per praticarvi un’agricoltura in grande. Ma alcune di queste rivendicazioni, che pure erano indietro rispetto a quelle previste dal Manifesto, si dovevano rilevare anche troppo avanzate per la situazione in Germania.
La stessa Lega dei Comunisti perdette le ragioni della sua esistenza: era troppo debole come leva per organizzare le grandi masse, e come mezzo di propaganda poteva essere sostituito da strumenti più efficaci. Perciò, con atto dittatoriale, Marx, sfidando ogni esitazione, ne proclamò lo scioglimento.
Ma il partito proletario potrà far sentire la sua autorevole voce e combattere la sua battaglia attraverso un grande giornale, che sarà la Neue Rheinische Zeitung, la Nuova Gazzetta Renana. Sarà questa che dirigerà l’azione dei comunisti sparsi in Germania e permetterà lo sviluppo della classe operaia su chiare posizioni di lotta rivoluzionaria che, al di là della demagogica azione di certe sinistre operaie, miravano allo scopo principale del momento: spingere avanti la borghesia grande e piccola, fondare il suo potere sulla forza del popolo: «La borghesia non può fondare il suo Stato senza avere almeno provvisoriamente tutto il popolo come alleato, ossia senza agire più o meno democraticamente».
Perciò il giornale nasce, il 1° giugno ’48, come «organo della democrazia». Ma esso non deve servire i democratici; deve controllarli perché restino sul binario rivoluzionario che proprio e solo il partito proletario, attraverso la N.R.Z., è in grado di indicare. Esso non nasconde gli obiettivi finali del proletariato, e dice chiaro che il suo ideale non è la repubblica nero-rosso-oro, la quale, semmai, deve segnare l’inizio della opposizione proletaria vera e propria. Il pilastro fondamentale messo sempre in evidenza è quello della «rivoluzione permanente» contro la volontà del partito della grande borghesia che, subito dopo marzo, vuole considerare chiusa la rivoluzione appena all’inizio. E, quando la controrivoluzione si affaccia all’orizzonte europeo e tedesco, l’incitamento alla battaglia si fa ancora più pressante.
Abbiamo visto come a Febbraio, secondo Marx «il proletariato, imponendo la repubblica al governo provvisorio e, attraverso il governo provvisorio, a tutta la Francia, occupava d’un colpo il centro della scena come Partito indipendente, ma in pari tempo gettava una sfida a tutta la Francia borghese. Ciò che esso aveva conquistato era il terreno della lotta per la propria emancipazione rivoluzionaria, ma non era certamente questa emancipazione». Quest’ultima poteva essere solo il frutto di un vittorioso urto armato contro tutte le classi che il Febbraio aveva portato al potere. Alla grande battaglia storica si pervenne nel Giugno del ’48.
«La rivoluzione di Febbraio aveva cacciato l’esercito da Parigi. La Guardia Nazionale, cioè la borghesia nelle sue diverse gradazioni, era l’unica forza armata. Essa non si sentiva però abbastanza forte da misurarsi da sola col proletariato. Inoltre era stata costretta, benché dopo la più tenace resistenza e opponendo cento ostacoli diversi, ad aprire a poco a poco e in parte le sue file, e a lasciar entrare in esse dei proletari armati. Non rimaneva dunque che una via d’uscita: opporre una parte dei proletari all’altra.
«A questo scopo il governo provvisorio formò ventiquattro battaglioni di guardie mobili, ciascuno di mille uomini dai 15 ai 20 anni. Essi appartenevano per la maggior parte al sottoproletariato... Quando la Guardia mobile sfilò per Parigi, il proletariato l’accolse con degli evviva. In essa riconosceva i suoi combattenti d’avanguardia sulle barricate, e la considerava come la guardia proletaria in opposizione alla Guardia nazionale borghese. Il suo errore era perdonabile».
Esso fu compensato da un errore della borghesia.
«Accanto alla Guardia mobile il governo decise di raccogliere intorno a sé anche un esercito di operai industriali. Il ministro Marie arruolò nei cosiddetti laboratori nazionali centomila operai gettati sul lastrico dalla crisi e dalla rivoluzione... In essi il governo provvisorio credette di aver trovato un secondo esercito proletario contro gli operai stessi. Questa volta la borghesia si ingannava circa i lavoratori nazionali, come gli operai, si ingannavano circa la Guardia mobile. Essa aveva creato un esercito per la sommossa».
L’unico scopo ottenuto dalla borghesia fu l’equivoco tra i laboratori popolari propugnati da L. Blanc e quella specie di Workhouses inglesi all’aria aperta organizzate dal governo, equivoco sfruttato per disorientare il proletariato nelle lotte che di lì a poco dovevano cominciare, per esempio nelle giornate del 17 marzo e del 16 aprile, quando il governo vi colse «il pretesto al richiamo dell’esercito a Parigi».
Il primo attacco della borghesia al proletariato avvenne dopo l’elezione della Assemblea nazionale costituente (4 Maggio).
«L’Assemblea ruppe subito con le illusioni sociali della rivoluzione di Febbraio; essa proclamò chiaro e tondo la repubblica borghese, niente altro che la repubblica borghese; escluse immediatamente dalla commissione esecutiva da lei nominata i rappresentanti del proletariato, Louis Blanc e Albert».
A questo attacco ai proletari sul piano politico la borghesia fece presto seguire quello decisivo sul piano militare, «Si doveva batterli nella strada; si doveva mostrar loro che erano sconfitti, non appena si battevano non con la borghesia, ma contro la borghesia». Questa «doveva respingere le rivendicazioni del proletariato con le armi alla mano».
Essa prese di mira i laboratori nazionali come «vero centro dell’attacco» e questo perché «non per il loro contenuto, ma per il loro nome, i laboratori nazionali erano l’incarnazione della protesta del proletariato contro l’industria borghese, il credito borghese, la repubblica borghese». Così il governo «ordinava la espulsione dai laboratori nazionali di tutti gli operai non sposati, e il loro arruolamento nell’esercito. Agli operai non rimase altra alternativa: o morir di fame o scendere in campo. Essi risposero il 22 giugno con la terribile insurrezione in cui venne combattuta la prima grande battaglia tra le due classi in cui è divisa la società moderna. Fu una lotta per la conservazione o per la distruzione dell’ordine borghese. Il velo che avvolgeva la repubblica fu lacerato».
Marx commenta così la disfatta di Giugno sulla N.R.Z. del 29 giugno 1848: «Nessuna delle numerose rivoluzioni della borghesia francese a partire dal 1789 era stata un attentato contro l’ordine, perché tutte avevano lasciato sussistere il dominio della classe, la schiavitù degli operai, l’ordine borghese, benché spesso fosse cambiata la forma politica di questo dominio e di questa schiavitù. Giugno ha intaccato quest’ordine!».
Marx avvertì il colpo della disfatta di Giugno a Parigi, ne comprese il significato in tutta la sua portata per le sorti della rivoluzione in Germania. E proprio per questo la sua azione si fece più intensa e accanita su tutti i fronti, e non solo attraverso quell’organo rivoluzionario che era la N.R.Z. La sua «redazione si riduceva alla dittatura di Marx. Un grande quotidiano, che deve essere pronto a un’ora determinata non può mantenere con nessun altro regime una posizione conseguente. Nel nostro caso però – dice ancora Engels – la dittatura di Marx, oltre tutto, era una cosa ovvia, fuori discussione, riconosciuta volentieri da tutti. E furono in primo luogo la lucidità della sua visione e il suo atteggiamento sicuro a fare del nostro il più famoso giornale tedesco degli anni della rivoluzione».
La battaglia per quel più immediato obiettivo che era la «conquista della democrazia» in Germania si servì anche di tre Associazioni sorte a Colonia verso la metà d’Aprile ‘48: l’Associazione democratica, l’Associazione operaia e l’interclassista Associazione dei datori di lavoro e degli operai, le quali, prima di poter marciare unitariamente secondo l’indirizzo impresso da Marx, gli costarono aspre lotte contro il massimalismo di Gottschalk che, con posizioni demagogiche e infantili, avrebbe portato ad isolare il proletariato dal grosso dell’esercito di cui doveva rappresentare l’«estrema punta della ala sinistra... giacché infatti la Bastiglia non è ancora presa e l’assolutismo non è ancora battuto».
È il problema della tattica che Marx vede chiaramente in quella situazione storica: la sola politica rivoluzionaria era frustare a sangue la borghesia per costringerla ad assolvere i compiti che la storia le assegnava e che essa mostrava di rifiutare, e quindi fare assegnamento sul «popolo armato» che per Marx significava essenzialmente «proletariato armato». Occorreva quindi dimostrare che la burocrazia civile e militare era rimasta al suo posto dopo Marzo e che, con il suo aiuto e con quello dell’esercito, il re di Prussia e l’imperatore d’Austria avrebbero potuto prendersi la rivincita e ripristinare il vecchio ordine. Occorreva indicare che il quadro in cui la rivoluzione poteva proseguire aveva dimensioni internazionali, perché il più importante compito borghese, che era l’unificazione della nazione tedesca, urtava necessariamente contro la Russia feudale.
Se poi la guerra rivoluzionaria avesse coinvolto anche l’Inghilterra, allora il processo rivoluzionario non solo avrebbe liberato la Germania e gli altri popoli oppressi (Italia, Ungheria e Polonia) ma avrebbe potuto dar modo ai cartisti inglesi di abbattere gli oppressori imperialisti nazionali, e al proletariato francese di prendersi la rivincita del Giugno: in poche parole, si sarebbe potuto saldare il movimento di liberazione nazionale in lotta contro l’alleanza imperialistico-feudale alla lotta proletaria dei paesi più avanzati.
Così, Marx, vedeva possibile l’avviarsi di quel processo e di quella strategia rivoluzionaria che dovevano diventare i soli possibili nella fase imperialistica del capitalismo iniziatasi con il secolo attuale. Bisognava trascinare a viva forza la borghesia in azioni militari rivoluzionarie, perché queste, con la loro logica e le loro necessità, avrebbero imposto all’interno una direzione sempre più energica e decisa, quindi sempre più spinta verso forme esclusive e dittatoriali di potere.
Ecco perché Marx non insiste più sulla formula per organizzare lo Stato tedesco uscito dalla rivoluzione di Marzo. Anziché esaurirsi in inutili discussioni sulla «migliore forma da dare allo Stato», occorreva operare in modo rivoluzionario perché questo operare avrebbe, con le sue necessità, imposto la forma di Stato più adatta, che poi, per Marx, aveva il significato non di punto d’arrivo ma di nuovo punto di partenza per spingere la lotta fra le classi in direzione del duello finale fra borghesia e proletariato. «La forma migliore di Stato è quella nella quale gli antagonismi sociali non sono mitigati, non sono compressi con la forza, cioè superficialmente e artificialmente. La miglior forma dello Stato è quella in cui questi antagonismi si scontrano liberamente nella lotta, e attraverso ad essa trovano la loro soluzione».
Le istituzioni parlamentari e governative borghesi di Berlino, Francoforte e Vienna, sorte in seguito alla rivoluzione di Marzo, si trovavano, secondo Marx, di fronte ad un tragico «dilemma, tra un suicidio per eroismo e un suicidio per vigliaccheria»: se il processo rivoluzionario fosse stato spinto avanti, esse sarebbero sparite per cedere il posto ad altre più avanzate; se invece quel processo si fosse arrestato, sarebbero perite ugualmente, ma per mano di forze controrivoluzionarie.
La borghesia tedesca preferì il «suicidio per vigliaccheria»!
Il primo atto decisivo della controrivoluzione europea si era verificato in Giugno a Parigi. Ma già dall’Aprile «il torrente rivoluzionario era stato arginato... In Francia, la piccola borghesia e la frazione repubblicana della borghesia si erano unite con la borghesia monarchica contro i proletari; in Germania e in Italia, la borghesia vittoriosa si era affrettata a cercare l’appoggio della nobiltà feudale, della burocrazia statale e dell’esercito, contro la massa del popolo (...) in Inghilterra una dimostrazione popolare intempestiva e male preparata (10 Aprile) si risolse in una sconfitta completa e decisiva del partito popolare [cartista]. In Francia due movimenti simili (16 Aprile e 15 Maggio) vennero ugualmente sconfitti. In Italia il re Bomba restaurò il suo potere d’un sol colpo il 15 Maggio».
Anche in Ungheria il movimento aveva preso forme legali, e in Austria il ripristino dell’alleanza tra borghesia e popolo nella giornata del 15 Maggio era stato dovuto più che altro alla fretta della Corona di riprendere tutto il potere nelle mani. Ma due eventi militari delle due massime potenze della Germania si erano prodotti per volere dei monarchi e con la vergognosa compiacenza dei borghesi al governo:
1) Già nel mese di Aprile, sei settimane dopo la rivoluzione di Berlino, l’esercito prussiano era riuscito a schiacciare il movimento polacco. «Il partito dominante borghese, poiché prevedeva che una guerra nazionale contro la Russia, esigendo la direzione di uomini più attivi ed energici, avrebbe portato alla sua caduta, con un entusiasmo ipocrita per l’estensione della nazionalità tedesca dichiarò che la Polonia prussiana, centro dell’agitazione rivoluzionaria polacca, doveva essere parte integrante del futuro Impero tedesco. Le promesse fatte ai polacchi nei primi giorni di agitazione vennero vergognosamente tradite (...) Questo immenso, incalcolabile servizio venne reso all’autocrate russo dai ministri-mercanti liberali Camphausen e Hansemann. Si deve aggiungere che questa campagna polacca fu il primo mezzo per riorganizzare e rinfrancare quello stesso esercito prussiano, che in seguito rovesciò il partito liberale e schiacciò il movimento che i signori Camphausen e Hansemann avevano messo in piedi con tanta pena. “Là dove hanno peccato ivi sono puniti”. Fu questo il destino di tutti gli uomini venuti a galla nel 1848 e nel 1849, da Ledru-Rollin a Changarnier, dai Camphausen fino Haynau» (Marx ed Engels, 5 marzo 1852).
2) In Giugno, l’esercito austriaco, formato da truppe slave e comandato dal generale Windischgrätz, soffocarono il moto dei «democratici» slavi di lingua ceca con un terribile bombardamento di Praga, dopo di che l’esercito austriaco con Radetzky può prendersi la rivincita in Italia contro l’eroica rivoluzione milanese (le cinque giornate, 18-23 Marzo) sconfiggendo l’esercito lombardo-piemontese a Custoza il 25 Luglio. E così «l’esercito tornò ad essere il potere decisivo nello Stato; e l’esercito apparteneva non alla borghesia, ma al vecchio partito burocratico feudale in Germania». La borghesia, ripristinando l’onore dell’esercito regolare che la rivoluzione aveva sconfitto, aveva preparato la sua miseranda fine.
«All’inizio dell’autunno le relazioni tra i differenti partiti erano diventate così tese e critiche che una battaglia decisiva era inevitabile. Il primo scontro in questa guerra tra le masse democratiche e rivoluzionarie dell’esercito si produsse a Francoforte». Alla sua base c’è la guerra nazionale tedesca contro la Danimarca, la cui direzione era stata affidata alla Prussia e al suo esercito. Questo, che in Polonia aveva combattuto con estremo vigore, in questa guerra, «la sola popolare», si mosse svogliatamente e il 28 Agosto la Prussia firmò il vergognoso armistizio di Malmö per due ragioni: la Prussia voleva riservarsi l’esercito come mezzo di repressione interna e non come mezzo rivoluzionario, e non voleva mettersi contro l’Inghilterra e la Russia che proteggevano la Danimarca.
Qui il ruolo storico rivoluzionario dell’Assemblea di Francoforte poteva essere decisivo: perciò Marx attraverso la N.R.Z, incalzava: «La guerra che potrebbe scaturire dalle decisioni di Francoforte sarebbe la guerra dell’intera Germania contro la tradizione prussiana, la Russia e l’Inghilterra. Proprio una simile guerra sarebbe necessaria all’assopito movimento tedesco: una guerra contro le tre grandi potenze della controrivoluzione, una guerra che faccia assurgere la Prussia all’altezza della Germania, che renda indispensabile un’alleanza con la Polonia, che porti subito alla liberazione dell’Italia: una guerra che conduca a proclamare «la patria in pericolo» e che perciò stesso la salvi, facendo dipendere la vittoria della Germania dalla vittoria della democrazia».
Purtroppo, il «cretinismo parlamentare» che Marx aveva sempre sferzato creò l’irreparabile. Dopo la commedia della crisi del ministero confederale, poi ricostituito da Gagern, filo-prussiano e agli ordini degli Hohenzollern, l’Assemblea approvò l’armistizio il 16 Settembre ’48: anziché mettere la Prussia ai suoi ordini, si metteva al suo servizio! «Questo procedimento vergognoso sollevò l’indignazione del popolo. Si fecero le barricate, ma a Francoforte erano già state inviate truppe in quantità sufficiente, e dopo sei ore di battaglia l’insurrezione fu vinta.
«Movimenti simili ma di minore importanza, si produssero, in relazione con questo avvenimento, in altre parti della Germania (Baden, Colonia), ma vennero egualmente repressi». Tra questi avvenimenti minori ricordiamo il licenziamento di Hansemann a Berlino e la sua sostituzione con il generale Pfuel che si era distinto nella repressione dei Polacchi, e le agitazioni in Renania (il 17 Settembre, ad un comizio di 10 mila persone, parlarono Engels. W. Wolff e Schapper) che contestarono la sospensione per otto giorni della pubblicazione della N.R.Z.
Lo scontro di Francoforte «dette al partito controrivoluzionario un grande vantaggio, e cioè che il solo governo, il quale, almeno in apparenza, era uscito per intero da una elezione popolare, il governo del Reich residente a Francoforte, perdette agli occhi del popolo ogni autorità, allo stesso modo dell’Assemblea nazionale. Questo governo e questa Assemblea erano stati costretti a fare appello alle baionette dell’esercito contro la manifestazione della volontà popolare». La questione militare e della rivoluzione era tutta qui: anziché mettersi sotto la protezione del popolo armato, un governo che pur doveva la sua nascita e quelle armi, si metteva sotto la protezione dell’esercito reazionario.
«Ma lo ripetiamo: questi eserciti, rafforzati dai liberali come mezzo d’azione contro il partito più avanzato [cioè quello proletario], non appena ebbero recuperato in una certa misura la loro fiducia in se stessi e la loro disciplina, si rivolsero contro i liberali e ristabiliranno al potere gli uomini del vecchio sistema. Quando Radetzky, nel suo campo dietro l’Adige, ricevette i primi ordini dei «ministri responsabili» di Vienna, esclamò: «chi sono questi ministri? Essi non sono il governo dell’Austria! L’Austria è ora soltanto nel mio campo; io e il mio esercito, questa è l’Austria; e quando avremo battuto gli italiani, riconquisteremo all’imperatore il suo impero!». Il vecchio Radetzky aveva ragione; ma gli imbecilli ministri «responsabili» di Vienna non gli prestarono attenzione».
Abbiamo già visto che in Luglio Radetzky aveva vinto in Italia. L’imperatore, fuggito in seguito alla rivolta del 15 Maggio, può ora tornare a Vienna, adularvi la Guardia nazionale borghese, guadagnarla alla sua causa, e quindi passare all’offensiva provocando i lavoratori con un decreto «che sopprimeva il sussidio corrisposto fino allora dal governo agli operai disoccupati». Il trucco riuscì. Gli operai organizzarono una manifestazione. Le guardie nazionali borghesi si dichiararono per il decreto del loro ministro; vennero gettate contro gli «anarchici», e il 23 Agosto si scagliarono come tigri sugli operai disarmati e che non facevano resistenza, e ne massacrarono un buon numero.
«In questo modo vennero spezzate l’unità e la potenza delle forze armate rivoluzionarie; la lotta di classe tra i borghesi e i proletari era giunta anche a Vienna a uno scoppio sanguinoso e la camarilla controrivoluzionaria vedeva avvicinarsi il giorno in cui avrebbe potuto sferrare il suo grande colpo». Questo giorno doveva essere il 5 Ottobre.
L’Austria aveva già prima attaccato l’Ungheria ritirando le concessioni fatte in Marzo e, seguendo la vecchia politica di sfruttare le rivalità nazionali, aveva messo i croati comandati da Jelačić contro i magiari. Il 5 Ottobre poi dichiarava sciolta la Dieta ungherese, e in pari tempo ordinava alle truppe di stanza a Vienna di andare a rafforzare Jelačić, ora governatore d’Ungheria. Quest’ultimo atto fece insorgere il popolo che trascinò con sé sia la Legione accademica sia la Guardia nazionale nell’opporsi alla partenza delle truppe. Fu l’ultima rivolta vittoriosa, che vide nuovamente l’imperatore scappare, a Olmütz. Ma qui gli vennero in soccorso i deputati slavi della Costituente inscenando una campagna contro la rivoluzione che, secondo loro, doveva farla finita con tedeschi e magiari «invasori della terra slava».
«Windischgrätz, il vincitore di Praga, ora comandante dell’esercito concentrato intorno a Vienna, diventò di colpo ”l’eroe” della nazionalità slava. E il suo esercito riceveva rapidamente rinforzi da tutte le parti. Dalla Boemia, dalla Moravia, dalla Stiria, dall’Austria superiore e dall’Italia, reggimenti su reggimenti convergevano su Vienna, per unirsi alle truppe di Jelačić e alla ex guarnigione della capitale. Si trovarono così concentrati verso la fine di Ottobre più di 60 mila uomini, e presto essi cominciarono a circondare la città imperiale da tutte le parti sino a che, il 30 Ottobre furono tanto avanzati da poter osare l’attacco decisivo». Dall’altra parte della barricata, e cioè in Vienna, la situazione era caotica: «...La borghesia era caduta di nuovo in preda alla sua vecchia diffidenza per la classe operaia «anarchica». Gli operai, memori del trattamento che avevano ricevuto sei settimane prima da parte dei bottegai armati, e memori della politica instabile, tentennante, della borghesia in generale, non vollero affidarle la difesa della città e chiesero armi e un’organizzazione militare per se stessi».
Dunque da una parte c’era organizzazione e potenza, dall’altra disorganizzazione e contrasti di classe. «Non vi poteva essere dubbio circa l’esito di una lotta simile; e se vi era qualche dubbio, esso venne dissipato dagli avvenimenti del 30 e 31 Ottobre e del primo Novembre». Vienna fu bombardata crudelmente e «le barricate vennero spezzate una dopo l’altra dall’artiglieria imperiale». I metodi seguiti da Cavaignac a Parigi vennero imitati alla perfezione dai generali panslavisti Windischgrätz e Jelačić.
Ma quello contro cui Marx, Engels e tutti i rivoluzionari comunisti si batterono fieramente fu ancora peggio: il tradimento di Vienna da parte sia dei tedeschi che degli ungheresi. In fondo «i viennesi, con tutta la generosità di un popolo da poco libero, erano insorti per una causa la quale, benché fosse in ultima istanza la loro, in prima istanza e soprattutto era la causa degli ungheresi». Questi avrebbero potuto, se solo lo avessero voluto, «rinviare di sei mesi il concentramento di un esercito austriaco. In guerra, e particolarmente in una guerra rivoluzionaria, la rapidità dell’azione fino a che non si è ottenuto un vantaggio decisivo è la prima regola; e non esitiamo ad affermare, basandoci su considerazioni puramente militari, che Perczel [generale ungherese che aveva battuto ai primi d’ottobre Jelačić costringendolo a ritirarsi verso Vienna] non si sarebbe dovuto fermare fino a che non si fosse congiunto coi viennesi. È certo che la cosa non era priva di rischio, ma chi ha mai vinto una battaglia senza arrischiare qualcosa? E forse che il popolo di Vienna non arrischiava nulla, quando attirava su di sé – su una popolazione di 400 mila abitanti – le forze destinate a marciare alla conquista di dodici milioni di ungheresi?».
Quanto al popolo tedesco che doveva essere «il secondo alleato di Vienna», basti ricordare: «il parlamento di Francoforte e (...) il cosiddetto potere centrale trassero occasione dal movimento di Vienna per rendere palese ancora una volta la loro nullità assoluta». Insomma la N.R.Z. spronava tedeschi e ungheresi a difendere Vienna a Francoforte, a Berlino, ecc, ecc. E, quando venne la sconfitta, così parlava: «A Vienna è stato testé eseguito il secondo atto del dramma, il cui primo atto si era concluso a Parigi sotto il titolo: giornate di Giugno. A Parigi la guardia mobile; a Vienna, i croati: gli uni e gli altri dei lazzaroni, un cencioso proletariato comprato e armato contro il proletariato che lavora e che pensa. A Berlino assisteremo presto al terzo atto».
In un processo rivoluzionario, le forze politiche più avanzate sostituiscono quelle più moderate; il contrario avviene se il processo si inverte e se la controrivoluzione avanza, Appunto ciò era accaduto a Berlino dove al ministero borghese Camphausen era succeduto quello di Hansemann e a questo quello di Manteuffel sotto il quale, all’atteso momento buono, cioè dopo la caduta di Vienna, il re licenziò i ministri e trasferì l’«Assemblea, eletta allo scopo di trovare un accordo con la corona» a Brandeburgo, «piccola città di provincia completamente controllata dal governo» dove non seppe far altro che cominciare «la grande commedia della resistenza passiva e legale», anziché rispondere con la violenza alla violenza.
L’Assemblea prussiana aveva rifiutato l’offerta dell’intervento armato del proletariato organizzato nella Fratellanza Operaia diretta da Stephan Bern. Così, «quando giunse il momento decisivo, quando Wrangel, alla testa di 40 mila uomini, batteva alle porte di Berlino, invece di trovare, come egli e i suoi ufficiali si aspettavano, ogni strada coperta di barricate e ogni finestra trasformata in feritoia, trovò le porte aperte e le strade ingombre soltanto dei pacifici cittadini di Berlino».
Si sarebbe vinto se si fosse tentata una resistenza armata? Non lo si può certo affermare, ma se pure Berlino doveva subire la sorte toccata a Parigi e a Vienna, «una sconfitta dopo una lotta seria è un fatto di importanza rivoluzionaria altrettanto grande quanto una vittoria ottenuta a buon mercato» perchè lascia «dietro di sé, nell’animo dei sopravvissuti, un desiderio di vendetta, che in tempi rivoluzionari è uno degli stimoli più potenti ad azioni energiche e appassionate». E poi «è evidente che, in ogni lotta, chi raccoglie il guanto della sfida arrischia di essere battuto; ma è forse questo un motivo per confessarsi battuto e sottomettersi al giogo senza estrarre la spada? In una rivoluzione, chi occupa una posizione decisiva e l’abbandona, invece di costringere il nemico a prenderla di assalto, immancabilmente merita di essere trattato come un traditore».
Ma se questo era stato il comportamento dell’Assemblea prussiana e della sua Guardia nazionale, che aveva consegnato le armi senza combattere, non meno vergognoso era stato quello dell’Assemblea nazionale di Francoforte e del governo centrale.
Non ci soffermeremo a trattare altri importanti aspetti dei fatti avvenuti dopo la caduta di Vienna e Berlino. Tra questi, notevole interesse avrebbe il processo a Marx per aver firmato, insieme ad altri rivoluzionari, un appello alla violenza per trasformare in resistenza attiva la vile resistenza passiva proclamata dalla Assemblea prussiana, processo conclusosi con la sua assoluzione da parte dei giudici borghesi ai quali egli aveva impartito una vera e propria lezione di logica rivoluzionaria.
I fatti essenziali che caratterizzarono il ritorno all’assolutismo pieno in Austria, in Prussia e nell’intera Germania nei primi mesi del 1849 sono i seguenti.
In Austria la Dieta fu sciolta il 4 Marzo e i deputati dispersi con la forza delle armi: tra essi quegli slavi che si erano posti così fedelmente al servizio dell’Impero, dal quale si illudevano di ottenere un’esistenza nazionale indipendente. Con la nuova Costituzione del 4 Maggio, l’Austria risolse il dilemma della Assemblea di Francoforte: se dovesse essere prussiano o austriaco il futuro capo del Reich tedesco, che, secondo la Costituzione finalmente varata a Francoforte il 28 Marzo, sarebbe stato non più una repubblica ma un impero!
Il trionfo della Prussia e dei fautori della «piccola Germania» (cioè della Germania senza l’Austria tedesca) era così scontato: esso fu opera dei piccoli borghesi del partito democratico ormai in maggioranza nell’Assemblea di Francoforte dopo la uscita dei deputati austriaci.
C’era da attendersi che il re di Prussia accettasse la corona imperiale. Niente affatto: egli dichiarò di poterla accettare solo dai principi e, con ciò, mise sotto i piedi la Costituzione di Francoforte non riconoscendola come legge sovrana. Il conflitto tra parlamenti e governi in tutta la Germania divenne così inevitabile e solo la forza delle armi lo poteva decidere. I parlamenti erano dalla parte dell’Assemblea di Francoforte e del suo «potere» (sempre esaltato e mai garantito con la forza popolare): i governi si decisero a scioglierli dietro invito della Prussia che, dopo d’aver convocato un Congresso di principi, concentrò un esercito a tre giorni di marcia da Francoforte.
Il conflitto scoppiò ai primi di Maggio. La situazione era molto più favorevole all’Assemblea di quanto si potesse prevedere. Infatti, il partito democratico da minoranza era diventato maggioranza per la diserzione dei membri conservatori e dei deputati austriaci richiamati in Austria. Sarà questa sinistra all’altezza della situazione? Essa «si era servita dei suoi posti sui banchi dell’opposizione per tuonare contro la debolezza, l’indecisione, l’indolenza della vecchia maggioranza e della reggenza dell’impero. Ora era chiamata essa stessa, di colpo, a sostituire questa vecchia maggioranza. Essa doveva ora mostrare quello che sapeva fare».
Il popolo era dalla sua parte, l’esercito era esitante, l’Austria era paralizzata insieme alla Russia dalla lotta contro gli ungheresi (questi saranno battuti solo in Agosto mentre gli italiani lo erano già in Marzo), e nella Prussia – la più da temere – molte simpatie esistevano per la rivoluzione. Tutto dipendeva dalla condotta dell’Assemblea, se cioè riusciva a spingere il governo all’azione e in caso contrario, a sostituirlo con uno più energico e deciso.
Purtroppo essa dimostrò di non sapere che «l’insurrezione è un’arte», e che non osservare le sue norme d’azione può solo portare alla rovina. Fu ciò che avvenne. «La classe operaia prese le armi con la piena coscienza del fatto che, per le sue conseguenze immediate, questa lotta non era la sua. Essa seguiva però la sola linea politica giusta, di non permettere a nessuna classe elevatasi sulle sue spalle (come aveva fatto la borghesia nel 1848) di consolidare il suo dominio di classe senza per lo meno aprire alla classe operaia un libero campo per la lotta per i suoi interessi. In ogni caso, la classe operaia si sforzava di portare le cose a una crisi nella quale, o la nazione fosse lanciata in modo aperto e irresistibile sulla via della rivoluzione, oppure fosse restaurata per quanto possibile la situazione di prima della rivoluzione, in modo che una nuova rivoluzione diventasse inevitabile».
Non solo i piccoli borghesi non espressero la dantoniana audacia che era necessaria, ma agirono addirittura alla rovescia: fecero di tutto per staccarsi dalla rivoluzione: invece di trasferire l’Assemblea nelle regioni insorte, la portarono a Stoccarda dove il governo osservava una specie di neutralità, e solo in ultimo si decisero a fare ciò che da tempo aveva reclamato l’unico rivoluzionario dell’Assemblea: W. Wolff, redattore della N.R.Z.: mettere fuori legge il «reggente dell’impero». Ma ormai era troppo tardi: il rapporto di forze si era del tutto capovolto. Così l’Assemblea, che ormai non contava più nulla, fu sciolta manu militari dal governo dei Württemberg, dietro istigazione della Prussia, il 18 giugno 1849.
Con essa spariva l’ultimo residuo di ciò che la rivoluzione di marzo 1848 aveva prodotto in Germania, la controrivoluzione poté d’allora in poi avanzare liberamente.
Abbiamo visto che il proletariato «appoggiò la rivoluzione borghese per conquistare un campo di battaglia sul quale muovere apertamente guerra alla borghesia». Non appena vide che la classe borghese cominciava a precludere questo campo di battaglia, sacrificando i suoi interessi, «dovette accorgersi che non poteva più lasciarsi guidare dalla borghesia ma doveva organizzarsi malgrado essa. Quanto più la rivoluzione si insabbiava, tanto più rivoluzionaria diventava la classe operaia. Essa era ancora troppo debole per portare alla vittoria la bandiera che la borghesia aveva tradito, ma per quella bandiera combatté coraggiosamente, e la sua sconfitta non fu, come per la classe borghese, il principio della fine, bensì, al contrario, la fine del principio della sua lotta di emancipazione» (Mehring: Storia della socialdemocrazia tedesca).
«Al posto delle sue rivendicazioni, esagerate nella forma, nel contenuto meschine e persino ancora borghesi, e che essa voleva strappare come concessioni alla repubblica di Febbraio, subentrò l’ardita parola di lotta rivoluzionaria: Abbattimento della borghesia. Dittatura della classe operaia!».