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L’antistorico nazionalismo irlandese Rapporto esposto alla riunione del partito del 6 e 7 maggio 1989 e pubblicato ne “Il Partito Comunista” nei numeri 144-147 del 1986 e 175-178 del 1989 |
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1. Resoconto breve |
Da oltre un sessantennio la nostra corrente si muove sul filo continuo di posizioni programmatiche e tattiche legate in modo insolubile alla globalità della dottrina. Non è che lo facciamo per amore di coerenza astratta né per lusso di consequenzialità logica, ma nella sicura coscienza che solo a questo patto, nell’alternarsi confuso delle fasi di avanzata e di rinculo del movimento comunista «il futuro si salva solo salvando nel presente il passato e proiettandolo nell’avvenire».
L’esigenza di proseguire nell’opera di scandaglio sulle questioni nazionali o etniche, già intrapresa da Marx, da Engels, proseguita da Lenin, dalla Sinistra e quindi dal nostro sia pure minuscolo partito, ci impone, dopo qualche tempo di rifare il punto sulla questione irlandese alla luce di recenti e continui sommovimenti. Si tratta di affrontare la realtà cercando di tappare le falle che hanno debilitato il fronte rivoluzionario.
Si diceva in un nostro testo: «L’attuale situazione, caratterizzata dalla transitoria assenza di un movimento autonomo del proletariato, ci costringe – nel campo della nostra pratica attività – a rivendicare l’integralità dei nostri testi classici, a combattere qualunque adulterazione, a sapere aspettare che l’inevitabile sconvolgersi delle situazioni ponga di nuovo il problema del pratico raccordarsi tra il programma e le lotte proletarie, a non sostituirci col nostro intelletto a queste lotte per risolvere problemi che centouna volte su cento ci sono insinuati dalla borghesia».
Il rapporto sull’Irlanda ha costituito l’introduzione ad un lavoro ben più ampio che il partito sta conducendo sulla questione irlandese.
Affondando il bisturi del determinismo storico sulla tematica irlandese non possiamo fare a meno di constatare quanto nelle sue sofferenze questo antico popolo sia riuscito a resistere alle avversità storiche, dovute soprattutto alla disgrazia di trovarsi vicino ad altra isola più grande e che ebbe l’opportunità di svilupparsi primariamente sia sul piano economico sia su quello politico e sociale.
Se l’Inghilterra fu la prima nazione ad emergere nel sistema capitalistico borghese, si può ben dire che l’Irlanda ne fu la prima colonia; infatti l’occupazione dell’Irlanda da parte degli inglesi si può datare verso il 1170, mentre che l’unione degli inglesi con scozzesi e gallesi per conformare il Regno Unito di Gran Bretagna avverrà nei secoli successivi e dopo aspre guerre intestine, ma questa sarà appunto un’unione, non una sottomissione!
Il popolo irlandese fu per secoli calpestato prima dai princìpi poi dai borghesi inglesi; fame, epidemie, emigrazioni forzate non permisero un naturale sviluppo di questo popolo e le peggiori brutalità furono all’ordine del giorno, anche se accompagnate da demagogiche mezze misure che non risolvevano minimamente i più urgenti problemi.
Il relatore, dopo essersi soffermato sulle ultime evoluzioni elettoralesche dell’IRA, che mostra sempre più chiaramente il suo volto democratico-populista e borghese, ha sinteticamente descritto le vicissitudini attraverso le quali l’Irlanda è passata negli ultimi due secoli.
Le generose lotte del periodo che va dalla rivoluzione americana ai primi decenni dell’800 furono ogni volta sconfitte soprattutto perché l’Irlanda aveva la disgrazia di essere troppo vicina all’Inghilterra.
La grande carestia degli anni ’40 dell’800 fu provocata non tanto dagli insetti quanto dalle spietate leggi di un capitalismo in rapido sviluppo. È di questo periodo anche lo sviluppo industriale dell’Ulster, primo passo verso la differenziazione tra le due parti del Paese, chiave di volta per la comprensione delle ragioni reali della divisione attuale. Ma fu solo a partire dalla fine dell’800 che il governo inglese iniziò a sfruttare sistematicamente i contrasti tra cattolici e protestanti, riflesso di reali e crescenti differenze economiche tra Nord e Sud dell’isola. Questa politica si intensificò nei decenni successivi via via che il governo di Londra si rendeva conto che non sarebbe riuscito a mantenere il dominio sull’intera Irlanda; da allora la lotta per l’indipendenza si identifica con i cattolici, mentre in precedenza vi si erano distinti numerosi protestanti.
In un’Irlanda spaccata in due la guerra civile divenne inevitabile: rinviata dalla guerra (che comunque vide una coraggiosa quanto sfortunata insurrezione a Dublino nel 1916), esplose subito dopo che questa ebbe termine.
Lo status, offerto da Londra poco tempo dopo, di Stato formalmente indipendente, pur se privato dell’Ulster, fu accettato da parte di molti dirigenti indipendentisti, ed il nuovo governo iniziò nel 1922 a costituire un suo proprio esercito, il cui scopo era principalmente quello di controllare i numerosi “scontenti” che pretendevano un’Irlanda unita. La lotta riprese ancor più violenta tra gli ex compagni d’arme, ed alla fine la borghesia irlandese riuscì a “pacificare” il paese.
Il capitalismo irlandese, più agrario che industriale, era riuscito ad avere il “suo” Stato, ma solo grazie a patteggiamenti imbelli con Londra e non per forza politica e militare, ed al prezzo della rinuncia alla parte più ricca dell’Isola; la sua violenza “rivoluzionaria” si espresse soprattutto nei confronti dei ribelli che non accettarono l’accordo capitolardo.
Oggi il Sinn Féin continua a parlare d’Irlanda unita come di un paradiso in terra che, una volta conquistato, potrebbe risolvere d’incanto tutti i problemi del paese, che invece sono causati da una situazione economica di portata mondiale. Si tratta in realtà di un falso obbiettivo che la borghesia irlandese sventola davanti al proletariato per scongiurarne la forza eversiva, e che il proletariato deve ignorare per essere libero di lottare per sé stesso, e per sé solo.
Mentre ai tempi, lontani, della borghesia rivoluzionaria, il marxismo ha auspicato la formazione di un’Irlanda indipendente, soprattutto perché ciò avrebbe costituito una liberazione anche per gli operai inglesi di lottare per la loro propria emancipazione, oggi l’obbiettivo della riunificazione nazionale è una deviazione dalla ripresa su basi di classe delle lotte economiche e politiche.
Dopo il lento ritiro dell’ultima glaciazione anche l’uomo si trovò nella necessità naturale di spingere le sue continue peregrinazioni verso zone che avevano subito un rinnovamento trasformando il paesaggio, facendo sparire certi tipi di fauna e di flora per darne vita ad altri.
Non si può ancora ben stabilire quali fossero le prime società comunistiche dell’isola irlandese, ma certo è che prima del sopraggiungere dei celti già vi erano altri abitatori, dimostrato questo dai resti di una civiltà megalitica diffusasi più o meno tra il III e il II millennio a.C.
È solo nei primi secoli del II millennio che le tribù celtiche abitanti la Germania centro-meridionale iniziano la loro lenta espansione sia verso oriente, verso l’Asia Minore attraverso la penisola balcanica, sia verso occidente giungendo attraverso la Francia fino alla penisola iberica, (dove mescolandosi a quelle popolazioni dettero origine ai celto-iberici) e alle isole britanniche. I celti non ebbero mai un’unità politica vera e propria, ma si distinsero per l’omogeneità del linguaggio e per molti secoli di religione (druidismo).
Suddivisi in svariate tribù potremmo ricordare quella dei Boi che nel 390 a.C., dopo aver occupato la valle padana, giunsero a Roma, che misero a ferro e fuoco. Quelli che occuparono la regione francese (di oggi) i romani li chiamarono Galli, mentre verso le isole britanniche si spostarono varie tribù: Cantii, Iceni, Cornovii, Brigantes, Pitti, Calcedoni, Scoti, Gallesi, ecc.
Non è che si possa parlare di storia d’Irlanda a partire da epoche lontane, anche perché per secoli e secoli si mantenne fuori dal raggio d’azione dei grandi movimenti espansionistici dei popoli precursori delle future civiltà. I greci ne accennano appena e vagamente. I romani, che per quasi quattro secoli si stanziarono in Britannia, vi si trovavano già in gravi difficoltà con le continue rivolte e guerriglie e non ebbero tempo né intenzione di passare oltre il braccio di mare che li separava dall’Irlanda. Anzi è da dire che non riuscirono mai a soggiogare completamente nemmeno la "grande isola".
Si sa che per secoli l’Irlanda, divisa nei territori di diverse tribù, non ebbe mai un’unità politica organica, anzi fra le diverse tribù erano frequenti lotte e guerre; la stessa cosa era per l’Inghilterra prima del sopraggiungere delle legioni romane. Si può anzi dire che furono gli irlandesi che a più riprese sbarcarono sulle coste della Britannia attaccando le legioni romane, e ma ritirandosi poi sempre.
Negli ultimi secoli a.C. si era andata sviluppando la pressione dei popoli germanici che scendendo dal Nord erano andati ad occupare gradatamente le terre del centro Europa, sospingendo verso le periferie i celti sia a oriente ma soprattutto a occidente di modo che, per diversi secoli i romani furono in continue lotte per frenare la valanga "barbarica".
Furono appunto anche queste continue guerre su tutti i fronti che contribuirono allo sfacelo dell’Impero Romano, che nel frattempo aveva aperto le porte al cristianesimo, quel cristianesimo che venne poi gradatamente assimilato dai popoli barbarici provenienti dal Nord e dall’Est.
Dalla Britannia, nel frattempo, verso il 400 dell’era cristiana, le legioni romane sono costrette a ritirarsi nel continente sotto l’incalzare delle invasioni degli Angli e dei Sassoni. Queste durano parecchi secoli trovando una dura opposizione da parte dei gallesi da occidente, e da parte degli scoti da nord.
Le isole che da secoli erano state occupate da tribù celtiche, che per alcuni secoli furono in parte dominate dai romani, stavano ora per subire l’invasione di popoli germanici, che riuscirono col tempo ad assimilare buon numero delle tribù indigene del centro-sud della grande isola e, contemporaneamente aprirono la via alla diffusione del cristianesimo.
È all’incirca dopo il 400 dell’era volgare che con il bretone Patrizio incomincia a diffondersi il cristianesimo in Irlanda, mentre le prime invasioni danesi hanno inizio solo verso la fine del 700.
Da questo momento è un continuo guerreggiare fra principi irlandesi e invasori vichinghi, guerre che vedono alternarsi nella supremazia ora uno ora l’altro dei capi irlandesi, e rispettivamente ora gli irlandesi ora i vichinghi. Queste battaglie, fra tribu e fra irlandesi e vichinghi, culminarono nella battaglia di Clontarf del 1014, ma le lotte continuarono con alterne vicende. Solo che, mentre nell’isola britannica gli invasori erano riusciti in parte a germanizzare i vinti, in Irlanda erano invece gli indigeni che assorbivano gli invasori, per cui la razza andava sempre più trasformandosi, ma non i criteri ed i caratteri tipici degli irlandesi.
Col 1169-74 ha inizio l’invasione inglese. Guerre, guerriglie, rivolte e conseguenti bagni di sangue: tradimenti, espropri e rapine, saccheggi e distruzioni sono un susseguirsi di episodi che si acuiscono dopo che l’Inghilterra si stacca dalla Chiesa di Roma. E non fu migliore il periodo di Cromwell, di cui si ricorda il Massacro di Drogheda, ove i prigionieri superstiti di quella battaglia furono passati tutti a fil di spada, non esclusi molti preti.
Questo lungo periodo dura fino al 1800.
Qui è il caso di fare alcune considerazioni: 1) tutto dimostra che il primo impatto fra germani e celti nella Britannia dette origine ad una cultura del tutto particolare; 2) gli inglesi pur accanendosi contro gli irlandesi, furono per secoli in lotta con gli scozzesi ed i gallesi, coi quali però andarono in parte assimilandosi; 3) il loro sviluppo industriale e capitalistico fu favorito in quanto l’Irlanda era considerata e sfruttata come una colonia, da cui si attingevano carni, latticini, lana, e proletari per le sue fabbriche e carne da macello per le sue guerre.
Ben cosciente delle terribili conseguenze dell’oppressione dell’Irlanda da parte dell’Inghilterra, il marxismo auspicava una soluzione di quella questione nazionale con la liberazione dell’Irlanda dalla morsa politica e militare inglese.
4. SULL’ONDA DELLE RIVOLUZIONI AMERICANA E FRANCESE
Uno studio più dettagliato degli eventi politici ed economici che hanno coinvolto Irlanda e Inghilterra sarà completato e pubblicato a suo tempo. Per ora basti dire che le possibilità di una piena indipendenza per l’Irlanda furono cancellate da due fatti principali: il massacro seguito alla ribellione degli United Irishmen alla fine del diciottesimo secolo e l’Atto di Unione con l’Inghilterra del 1800.
In questo periodo la lotta era condotta dai settori sia mercantile sia terriero del capitalismo, che si scontravano con gli interessi imperiali dell’Inghilterra. Mentre le tredici colonie che sarebbero poi divenute gli Stati Uniti d’America riuscirono a coronare con un successo la loro ribellione, l’Irlanda avrebbe tragicamente subito le conseguenze della sua posizione geografica, così vicina all’Inghilterra.
Col primo gennaio 1801 è ufficialmente proclamato il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda (il Galles era stato unificato già nel 1240 e sottomesso alla Corona inglese nel 1283; la Scozia invece fu unita all’Inghilterra nel 1707, ma le due regioni conservano ancora almeno in parte le loro tradizioni ed i loro linguaggi di origine celtica). Il governo di Londra abolì il parlamento autonomo irlandese e rese il Paese ancora più dipendente, anche se furono ammessi 100 deputati irlandesi ai Comuni e 32 Lords alla Camera dei Lords.
La lotta non cessò e negli anni Venti la parola d’ordine fu quella di "abrogazione dell’unione". Ma questi movimenti nazionalistici erano guidati dalla borghesia liberale irlandese, che in buona parte intendeva strumentalizzare queste agitazioni al solo fine di esercitare sul governo inglese una pressione tale da indurlo a qualche concessione ai cattolici e in favore dei capitalisti e proprietari terrieri protestanti, per la maggior parte di origine inglese e scozzese.
Sono decine, centinaia di migliaia gli irlandesi che si muovono, che si ribellano, ma purtroppo sono guidati da uomini senza scrupoli che se ne servono solo per i loro fini politici.
Quel fronte comune di due secoli fa, l’unità fra interessi agrari e mercantili, venne presto a mancare, ed ebbe tra l’altro come disastrosa conseguenza il periodo di carestia degli anni ’40 del secolo scorso. Ma la malattia che colpì la patata nasconde gli effetti dello sviluppo del capitalismo industriale, in seguito al quale ampie zone agricole delle isole britanniche furono abbandonate soprattutto a causa dell’abrogazione delle Leggi sul Grano: quella che in Inghilterra fu una calamità finanziaria, divenne in Irlanda, su tutta l’isola, una sentenza di morte, insieme al processo di rivoluzione industriale che si limitò al solo Ulster.
Sarà necessario un altro mezzo secolo perché la questione agraria venga affrontata nel Sud dell’Irlanda, ma nel frattempo lo sviluppo industriale dell’Ulster inseriva questa regione dell’isola nel meccanismo economico dell’Inghilterra. Questo stretto collegamento economico con l’Impero Britannico permise all’Ulster di accedere ad un mercato assai più vasto di quanto sarebbe stato possibile a un’economia nazionale protezionistica ed in via di sviluppo.
Se gli ultimi due secoli si guardano da un punto di vista prettamente economico, i tragici eventi che si sono susseguiti possono essere spiegati materialisticamente: non si tratta di contese religiose, tribali o settarie ma di divergenti interessi economici in lotta tra loro.
5. IL MARXISMO E LA QUESTIONE NAZIONALE
Marx ed Engels furono sempre convinti che per risolvere, dialetticamente, i problemi dei popoli oppressi sarebbe stata necessaria l’unità internazionale della classe operaia, e la situazione dell’Irlanda di oggi, come anche di tante altre nazionalità sparse nel globo terrestre, ci sta a dimostrare quanto avessero ragione.
Il marxismo sperava che la questione dell’autodeterminazione nazionale venisse risolta in Irlanda, in modo da permettere alla lotta di classe di farsi avanti sulla scena senza mascheramenti ed impicci. Secondo Marx il raggiungimento dell’indipendenza irlandese sarebbe stato come un pugnale diretto al cuore della borghesia inglese, e avrebbe contribuito a sgombrare da ostacoli la via della rivoluzione nella stessa Inghilterra; anche se dopo l’indipendenza Inghilterra e Irlanda avrebbero potuto di nuovo unirsi come federazione.
Il marxismo ha invece sempre deriso il nazionalismo fine a sé stesso. Per Lenin la questione dell’autodeterminazione nazionale fu di importanza vitale nel combattere la reazione e l’imperialismo, ma ciò non significa che l’indipendenza nazionale fosse un fine in sé. Citando numerosi esempi, Lenin mise in chiaro che il diritto all’autodeterminazione nazionale non è un dato di giustizia in astratto ma dipende dalla capacità della borghesia locale a conquistare l’indipendenza. Un esempio è quello della Svezia: non bastava che i rappresentanti dei lavoratori svedesi votassero nel parlamento svedese per l’indipendenza della Norvegia, occorreva che la borghesia norvegese riuscisse a costituire il suo parlamento e quindi raggiungere la sua indipendenza.
Lenin fece l’esempio dell’Ucraina, come guida su come esaminare il problema chiave. La Russia domina l’Ucraina; l’azione del proletariato può essere tale da aggravare l’oppressione nazionale feudale o borghese? Certamente no, dice Lenin, il movimento proletario deve combattere l’oppressione nazionale altrimenti non solo rafforzerebbe la reazione ma accetterebbe anche le divisioni che l’imperialismo ha imposto al movimento operaio. Autodeterminazione nazionale per l’Ucraina, certamente! Ma la divisione criminale del movimento operaio tra le nazioni Ucraina e Russia mai! Il marxismo non ha mai accettato la divisione nazionale del movimento operaio, non solo perché i lavoratori materialmente non hanno patria (“Manifesto dei Comunisti”), ma anche perché i confini nazionali sono un’eredità della preistoria della specie umana e scompariranno col comunismo. Per noi marxisti i proletari, e gli oppressi e gli indigenti, in Irlanda sono nostri fratelli, ed è la loro sorte che ci interessa. Non condividiamo con i borghesi la categoria della “nostra patria”; noi intendiamo perseguire i nostri interessi di classe internazionale, organizzati in un unico partito per una rivoluzione planetaria.
Ma che fare se la borghesia nazionale è incapace a compiere il suo ruolo storico? Spetta al movimento proletario l’onere di portarlo a compimento per conto della borghesia, rimandando a un momento più lontano, o comunque successivo, il passaggio alla lotta per il socialismo? La risposta a questo quesito è che il movimento proletario deve accelerare la sua lotta per riempire il vuoto lasciato da una borghesia incapace, ma senza per questo limitarsi alla fase borghese.
In Russia Lenin si rese conto che la borghesia era incapace di portare a termine la rivoluzione democratica, e ciò consentì al proletariato di saltare la fase del potere politico borghese e combattere fin da subito per uno Stato socialista. Nello stesso modo, se la borghesia irlandese era incapace di conquistarsi l’autodecisione nazionale, compito del proletariato sarebbe stato, lottando in difesa dei propri interessi, prepararsi alla doppia rivoluzione. Il proletariato non deve attendere una fase di costituito potere borghese prima di iniziare a combattere per la sua rivoluzione: la lotta per il socialismo è iniziata col sorgere della borghesia industriale e dei lavoratori salariati, e ovunque ha la forza il proletariato prende il potere per sé.
Quindi il marxismo è stato favorevole al compimento della fase democratica borghese solo perché nella società si potesse liberare la lotta tra la borghesia nazionale ed il suo proletariato, e non per una qualsiasi forma di rispetto dei miti di democrazia e libertà. I fatti del 1848 mostrarono con chiarezza che non esiste altra via per il proletariato al di fuori della lotta per i suoi interessi di classe. Facendo riferimento alla insurrezione di Cracovia del 1846, in un discorso del 22 febbraio 1848, in occasione del suo secondo anniversario, Marx fa delle importanti considerazioni:
«Nella storia ci sono analogie sorprendenti. Il giacobinismo del 1793 è diventato il comunista dei giorni nostri. Nel 1793, quando la Russia, l’Austria e la Prussia si divisero la Polonia, le tre potenze indicarono la costituzione del 1791, condannata di comune accordo per i suoi pretesi princìpi giacobini. Cosa aveva proclamato la costituzione polacca del 1791? Nient’altro che la monarchia costituzionale: il potere legislativo nelle mani dei rappresentanti del paese, la libertà di stampa, la libertà di coscienza, la pubblicità dei dibattiti giudiziari, l’abolizione della servitù, ecc. E tutto ciò allora passava per il più puro giacobinismo. Come vedete, signori, la storia ha camminato. Il giacobinismo di allora è diventato oggi liberalismo, quanto vi è di più moderato.
«Le tre potenze hanno camminato con la storia. Nel 1846, quando annessero Cracovia all’Austria e privarono i polacchi degli ultimi resti d’indipendenza nazionale, definirono comunismo ciò che prima avevano definito giacobinismo.
«Ma in che consiste il comunismo della rivoluzione polacca? Essa era comunista perché voleva ristabilire la nazionalità polacca? Tanto varrebbe dire che la guerra condotta dalla coalizione europea contro Napoleone per salvare le nazionalità era una guerra comunista, e che il congresso di Vienna era composto di comunisti coronati. Oppure era comunista la rivoluzione di Cracovia, perché voleva instaurare il governo democratico? Nessuno accuserà i cittadini milionari di Berna e di New York di velleità comuniste. Il comunismo nega la necessità dell’esistenza delle classi; vuole abolire tutte le classi, ogni distinzione di classe. I rivoluzionari di Cracovia volevano soltanto eliminare le distinzioni politiche nelle classi; volevano dare diritti uguali alle diverse classi.
«Ma insomma, in che cosa era comunista questa rivoluzione di Cracovia? Forse perché tentò di spezzare le catene del feudalesimo, di affrancare la proprietà tributaria e di trasformarla in proprietà libera, in proprietà moderna? Se si dicesse ai proprietari francesi: “Sapete che cosa vogliono i democratici polacchi? I democratici polacchi vogliono introdurre da loro la forma di proprietà che già esiste da voi”, allora i proprietari francesi risponderebbero: “Fanno benissimo”. Ma se, come fa Guizot, dite ai proprietari francesi: “I polacchi vogliono abolire la proprietà come voi l’avete istituita con la rivoluzione del 1789 e come esiste ancora da voi”, allora essi griderebbero: “Come! Sono dunque rivoluzionari, comunisti! Bisogna schiacciare gl’infami” (...)
«Risaliamo più indietro. Nel 1789 la questione politica dei diritti dell’uomo implicava la questione sociale della libera concorrenza. E che accade in Inghilterra? In tutte le questioni, dal Reform Bill fino all’abolizione delle leggi sul grano, i partiti politici hanno combattuto per cose che non fossero mutamenti di proprietà, questioni di proprietà, questioni sociali? Anche qui in Belgio, la lotta tra liberalismo e cattolicesimo è qualcosa di diverso dalla lotta tra il capitale industriale e la grande proprietà fondiaria».
La classe dominante nei diversi paesi manteneva un atteggiamento conservatore e di avversione nei confronti delle riforme democratiche che le nuove classi ricche, che a quella contendevano il potere, avanzavano e che, a loro dire, rispecchiavano gli interessi della nazione nel suo insieme. Ma, non appena le nuove classi inferiori facevano sentire la loro voce, tutte le classi dominanti e tutte le anime della borghesia non esitavano a scagliarsi in una ritrovata solidarietà contro gli operai, i poveri, i derelitti, che venivano messi a tacere spesso in un bagno di sangue. Questa fu la indiscutibile lezione della rivoluzione del 1848 in Francia e delle altre rivoluzioni borghesi.
Citiamo ancora Marx, dalla Neue Rheinische Zeitung del 29 giugno 1848, “La rivoluzione di giugno”:
«La fraternité, la fratellanza delle classi opposte di cui una sfrutta l’altra, questa fraternité proclamata in febbraio, scritta in lettere maiuscole sulla fronte di Parigi, su ogni prigione, su ogni caserma, ha la sua vera espressione autentica, prosaica, nella guerra civile: la guerra civile nella sua forma più spaventosa, la guerra del lavoro contro il capitale. Questa fratellanza fiammeggiava davanti a tutte le finestre di Parigi la sera del 25 giugno, quando la Parigi della borghesia si illuminava, mentre la Parigi del proletariato bruciava, sanguinava, rantolava.
«La fratellanza è durata esattamente finché l’interesse della borghesia si affratellava all’interesse del proletariato. Pedanti della vecchia tradizione rivoluzionaria del 1793, socialisti sistematici che chiedevano alla borghesia l’elemosina per il popolo e ai quali era permesso di tenere lunghe prediche e di compromettersi finché il leone proletario doveva essere cullato nel sonno, repubblicani che chiedevano tutto il vecchio ordine borghese meno la testa coronata, oppositori dinastici per i quali il caso aveva sostituito la caduta di una dinastia a un cambio di ministro, legittimisti che non volevano deporre la livrea ma solo modificarne il taglio, questi erano gli alleati con i quali il popolo fece il suo febbraio (...)
«Nessuna delle innumerevoli rivoluzioni della borghesia francese dal 1789 fu un attentato contro l’ordine, poiché si lasciava sussistere il dominio di classe, la schiavitù degli operai, l’ordine borghese, per quanto spesso cambiasse la forma politica di questo dominio e di questa schiavitù».
È necessario dividere l’era capitalistica in due periodi, che però non sono separati nettamente da un muro, ma collegati da numerosi anelli di transizione: primo periodo quello della decadenza del feudalismo, che viene gradatamente sostituito dal sistema democratico borghese che trascina sulla scena politica vasti movimenti di massa coinvolgendo tutte le classi di ogni nazionalità; nel secondo periodo gli Stati capitalistici sono completamente sviluppati e l’antagonismo fra proletariato e borghesia assume via via più spazio.
Il proletario apprezza e pone al di sopra di tutto l’unione dei proletari di tutte le nazioni ed esamina ogni rivendicazione nazionale dal punto di vista della lotta di classe degli operai; quindi contro la borghesia della nazione opprimente ma anche contro la borghesia della nazione oppressa.
Da Fattori di razza e nazione, capitolo III.7:
«Antiche e nuove deformazioni polemiche hanno confuso la posizione programmatica internazionalista del proletariato comunista con la natura formalmente nazionale di alcune prime tappe della sua lotta. Storicamente il proletariato non diviene una classe e non perviene ad avere un partito politico di classe se non negli ambiti nazionali; ed anche la lotta per il potere la ingaggia in una forma nazionale in quanto attende ad abbattere lo Stato della propria borghesia. Anche un certo tempo dopo la conquista del potere proletario questo può restare limitato ad ambito nazionale. Ma ciò non toglie la contrapposizione storica essenziale tra la borghesia, che mira a costituire nazioni borghesi presentandole come nazioni “in generale”, e il proletariato, che nega la nazione “in generale” e la solidarietà patriottica, dovendo costruire una società internazionale, per quanto comprenda che fino ad un certo stadio è rivendicazione utile, ma sempre in quanto borghese, quella della unità nazionale».
Nel capitolo “L’Internazionale e la questione di nazionalità” si ricorda che:
«Nel seno del Consiglio generale della Prima Internazionale e sotto la personale direzione di Marx, interessanti dibattiti forniscono i dati per rettificare gli errori di principio sulla questione delle lotte storiche di nazionalità. La tendenza ad ignorarle anziché spiegarle materialisticamente, più che caratterizzare un internazionalismo avanzato tradisce posizioni particolariste e federaliste derivate da teorie utopiste e libertarie da cui il marxismo sgombrò il campo».
E ancora si spiegherà, nel capitolo “Epoca imperialista e residui irredentisti”:
«Il sopravvivere, alla grande epoca delle guerre di indipendenza e di sistemazione nazionale con carattere borghese rivoluzionario, di gran numero di casi in cui nazionalità minori sono soggette a Stati di altra nazionalità nella stessa Europa, non toglie che l’Internazionale proletaria debba rifiutare ogni giustificazione di guerre di Stati con motivi di irredentismo, e debba smascherare la finalità imperialista di ogni guerra borghese, invitando i lavoratori al sabotaggio di essa da ogni lato. L’incapacità di attuare questa linea ha determinato la distruzione delle energie rivoluzionarie sotto le ondate di opportunismo di due guerre, e la determinerà in una guerra futura se le masse non abbandoneranno in tempo la direzione opportunista (socialdemocratica o cominformista) col sopravvivere in tutti i casi del capitalismo alle sue violente sanguinose crisi».
Potremmo qui proseguire con cento altre citazioni, ma le rimanderemo ai futuri articoli inerenti la questione nazionale e razziale.
6. MARX ED ENGELS SULL’IRLANDA
In una sua lettera da Londra del 1843 un giovane rivoluzionario, Engels, scriveva:
«Uomini che non hanno nulla da perdere, non avendo due terzi di loro neanche una camicia addosso, veri proletari e sanculotti e soprattutto irlandesi, gaelici, selvaggi, testoni, fanatici. Chi non ha visto gli irlandesi non può dire di conoscerli. Date a me duecentomila irlandesi e sarei capace di rovesciare l’intera monarchia britannica. L’irlandese è un gaio e allegro figlio della natura, il cui cibo principale è la patata. È stato gettato all’improvviso nella nostra civiltà direttamente dalla brughiera, dove viveva di tè annacquato e magri pasti sotto un tetto rotto. La fame lo costringe a recarsi in Inghilterra, dove nel trambusto meccanico, freddo ed egoista della città industriale le sue passioni si ridestano (...)
«Ma in Inghilterra ha imparato molte cose. È stato alle riunioni e nelle associazioni dei lavoratori, sa cos’è l’abrogazione e che cosa significa Sir Robert Peel; si è sicuramente azzuffato parecchie volte con la polizia e conosce bene la brutalità e la scelleratezza dei peeler [poliziotti]. Ha anche sentito parlare di O’Connell [capo dei liberali].
«Ma eccolo dunque che ritrova la sua baracca e il suo fazzoletto di terra. Raccoglie le patate sicuro di aver cibo per l’inverno. A questo punto si presenta il fittavolo principale che vuole l’affitto. Santi del cielo, ma dove lo troviamo il denaro? Dato che è responsabile del fitto agli occhi del proprietario, il fittavolo dispone il sequestro delle sue cose. L’irlandese resiste e viene imprigionato. Alla fine si ritrova in libertà e non molto tempo dopo il fittavolo principale o qualcun altro che aveva preso parte al sequestro, viene trovato morto in un fosso.
«Per il proletario irlandese questa è ordinaria amministrazione. Il contrasto tra la sua educazione semiselvaggia e l’ambiente completamente civilizzato in cui viene a trovarsi in seguito, produce in lui un conflitto interno, un’irritazione continua, una rabbia che cova senza tregua nel suo cuore rendendolo capace di tutto. Inoltre è schiacciato dal peso di cinque secoli di oppressione con tutto ciò che questo significa. Non c’è da stupirsi perciò se ogni volta che se ne presenta l’occasione mena furibondo colpi all’impazzata come ogni altra creatura semiselvaggia, se arde dal desiderio di vendicarsi e di distruggere, e se non ha nessun importanza quale sia l’oggetto di tale violenza, purché egli possa colpire e distruggere. A tutto questo va aggiunto il violento odio nutrito dai gaelici nei confronti dei sassoni, nonché la tensione fra il fanatismo cattolico, alimentato dal clero, e l’arroganza dei protestanti-episcopali. Chi è in grado di padroneggiare tutti questi elementi può ottenere tutto. O’Connell li tiene sotto controllo, e quali masse può mobilitare! L’altro ieri, a Cork, 150.000 uomini; ieri a Neagh, 200.000; e così ogni giorno.
«Un corteo trionfale che si protrae per quindici giorni, quale nessun imperatore romano ha conosciuto. Se O’Connell volesse davvero migliorare le condizioni del popolo, se gli stesse veramente a cuore l’eliminazione della miseria – e non i meschini obiettivi juste-milieu [giusto mezzo] che sono alla base di tutto il clamore delle agitazioni promosse per l’abrogazione dell’atto di unione – vorrei sapere quale richiesta da lui avanzata sulla scorta del potere attualmente nelle sue mani potrebbe essere respinta da Sir Robert Peel. Che cosa fa invece O’Connell di tutto il suo potere e dei milioni di capaci e disperati irlandesi? Non riesce neanche a ottenere una cosa miserabile come l’abrogazione dell’atto di unione. Ma solo, naturalmente, perché non vuole, preferendo servirsi dell’impoverito e oppresso popolo irlandese per mettere in imbarazzo i ministri tory e aiutare i suoi amici del juste-milieu a tornare al potere. Sir Robert Peel lo sa molto bene ed è per ciò che 25.000 soldati bastano a tener l’Irlanda sotto controllo. Se O’Connell fosse veramente l’uomo del popolo, se avesse abbastanza coraggio e non avesse a sua volta paura del popolo, se cioè non fosse un whig sotto mentite spoglie ma un democratico integro e coerente, l’ultimo soldato inglese avrebbe lasciato l’Irlanda già molto tempo fa e non ci sarebbe più un solo ozioso pastore protestante in zone esclusivamente cattoliche né un barone normanno in un castello irlandese. Ecco come stanno le cose. Se il popolo fosse lasciato libero anche solo un momento, Daniel O’Connell e i suoi aristocratici danarosi si troverebbero presto in quel totale isolamento in cui O’Connell vorrebbe trascinare i tory.
«Ecco perché O’Connell stringe una stretta alleanza con il clero cattolico; ecco perché esorta gli irlandesi a guardarsi dai pericolosi socialisti; ecco perché rifiuta l’aiuto offertogli dai cartisti [primo partito di massa della classe operaia inglese: fra le richieste presentate al parlamento vi era quella che l’Irlanda potesse annullare l’unione con l’Inghilterra, che fu respinta con l’appoggio dei liberali irlandesi il 2 maggio 1842], pur parlando di tanto in tanto di democrazia per salvare la faccia, proprio come Luigi Filippo soleva parlare delle istituzioni repubblicane. Ecco perché non riuscirà ad ottenere altro che l’educazione politica del popolo irlandese, dalla quale, in ultima istanza, nessuno più di lui dovrà guardarsi».
Questa lettera di un Engels appena ventitreenne può dare un’idea di quale fosse la situazione dell’Irlanda nel 1843. Tanto lui che Marx negli anni che seguiranno si interesseranno via via sempre più di tutta la problematica irlandese sviluppando con criterio dialettico l’importanza della lotta per l’indipendenza nazionale dall’ultrasecolare dominio anglosassone.
7. STERMINIO E RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Per valutare la tragedia dell’Irlanda verso la metà dell’800 basta dare un’occhiata alle statistiche della popolazione:
5.319.867 ab. nel 1801
6.084.996 ab. nel 1811
6.869.544 ab. nel 1821
7.828.347 ab. nel 1831
8.222.664 ab. nel 1841
6.623.985 ab. nel 1851 (!)
5.850.309 ab. nel 1861
Oggi la repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord contano complessivamente poco più di quattro milioni e mezzo di abitanti!
Dal 1845 al 1848 tre anni di cattivo raccolto, specialmente di patate, morirono quasi un milione di irlandesi ed altrettanti furono costretti ad emigrare (la patata, originaria del centro America, fu introdotta in Europa come pianta rara da studio. Soltanto dal 1663, in seguito ad una terribile carestia fu usata in Irlanda come produttrice di tuberi alimentari).
Intanto nel Nord Irlanda (Ulster) la rivoluzione industriale britannica legava le sorti della borghesia protestante, fino a pochi anni prima secessionista, a quelle dell’Impero. Ma la politica colonialista inglese riuscì ad attrarre ai suoi interessi anche la parte protestante della classe operaia, creando così una frattura indissolubile in seno al proletariato. Ad identificare gli operai protestanti con i loro padroni contribuì senz’altro il settarismo religioso, accompagnato però da privilegi economici, e il tutto influenzato dall’Ordine di Orange (da Guglielmo d’Orange, condottiero militare protestante che sconfisse Giacomo II il Cattolico e salì sul trono di Gran Bretagna nel 1688), creato dall’aristocrazia coloniale nel 1795, a struttura interclassista e assai attivo nel creare disordini settari fra proletariato cattolico e protestante.
Dal trauma della carestia, che aveva provato in modo definitivo agli irlandesi la durezza dell’oppressione esercitata dall’imperialismo e dai grandi proprietari terrieri, nasceva negli anni sessanta il movimento dei Feniani, repubblicano e deciso ad usare la forza per liberare l’Irlanda dal dominio straniero.
La lunga lotta per l’indipendenza, che inevitabilmente significava confronto aperto con l’Inghilterra, conobbe una fase di ripresa verso la fine dell’Ottocento, quando l’Irish Nationalist Party riuscì a sfruttare a suo vantaggio la rivalità tra i due partiti della classe dominante inglese, i Conservatori ed i Liberali. I deputati irlandesi, guidati da Parnell, decisero di sostenere il Partito Liberale, che aveva promesso all’Irlanda l’Home Rule, l’autogoverno.
Dopo quasi quotidiani disordini, scontri a sfondo politico-religioso, a partire dal 1880 il governo liberale inglese, sotto la spinta dei parlamentari irlandesi a Westminster, decideva di proporre una limitata autonomia per l’Irlanda. I protestanti dell’Ulster, con l’aiuto del partito conservatore, si opposero in modo così violento da causare la caduta del governo. Il disegno di legge fu a più riprese bocciato dal Parlamento, sia a causa di elementi reazionari all’interno del Partito Liberale stesso, sia naturalmente per l’opposizione dei Conservatori
Questi a partire dagli anni ’80 iniziarono a sfruttare sistematicamente i contrasti religiosi tra cattolici e protestanti, riflesso di reali differenze economiche tra il Nord e il Sud del paese. Fu Lord Randolph Churchill a decidere di giocare la “carta orangista” a Belfast nel 1886, per sfruttare le differenze religiose e così spingere la minoranza protestante a difendere i suoi legami economici con l’Inghilterra. Era questo in realtà riconoscere che non si poteva più sperare di continuare a dominare l’intera Irlanda e ci si doveva preparare, quando necessario, a tenerne solo una parte.
La politica di fomentare i contrasti di religione fu una causa determinante del declino di Charles Stewart Parnell, l’ultimo capo protestante, fino ad oggi, della lotta per un’Irlanda unita ed indipendente. Il crollo del suo Irish Nationalist Party causò un rinvio della questione dell’Irlanda unita e indipendente, mentre prese forza in tutta l’isola la lotta per la riforma agraria, che avrebbe posto le basi per una classe possidente cattolica; questo fatto avrebbe dato nuova forza alla campagna per l’autonomia, cioè per l’autogoverno.
Fallita la via parlamentare e morto Parnell, popolarissimo capo del gruppo di deputati irlandesi a Westminster, riapparivano sulla scena politica organizzazioni decise ad ottenere l’indipendenza con mezzi più radicali.
Il Partito Liberale si vide ancora bloccare numerosi disegni di legge per l’Home Rule, finché nel 1914 la legge fu approvata, benché persistesse il disaccordo all’interno della borghesia inglese: alcuni intendevano acconsentire all’indipendenza dell’Irlanda, altri avrebbero preferito combattervi una guerra piuttosto che perderla. Winston Churchill era all’epoca il portavoce della corrente a favore della totale indipendenza irlandese, e nel 1912 si recò addirittura a Belfast per tentare di convincere i protestanti dell’Ulster a porsi alla testa del movimento per l’Home Rule, ma il suo consiglio rimase lettera morta.
In realtà esisteva il pericolo di una ribellione dell’Ulster alla legge, tanto che Churchill, allora a capo della Marina Britannica, avrebbe più tardi affermato che «se Belfast si fosse messa in testa di resistere con le armi la mia marina avrebbe ridotto la città in rovine nel giro di ventiquattro ore». Da buon servitore dell’Impero, per Churchill ogni resistenza era da stroncare, e non avrebbe certamente esitato a schiacciare una eventuale ribellione nell’Ulster, così come aveva mostrato di saper fare nei confronti di agitazioni e scioperi degli operai. La prospettiva della legge, che venne, sull’Home Rule in Irlanda di fatto portò il paese, nel periodo che arriva fino all’estate del 1914, sull’orlo della guerra civile. Solo lo scoppio della Prima Guerra mondiale impedì lo scontro aperto tra i Volontari Irlandesi organizzati nel Sud e i Volontari dell’Ulster nel Nord, quest’ultimi guidati da Edward Carson. Ma la guerra rinviò soltanto l’inevitabile.
9. BORGHESI E PROLETARI IN IRLANDA ALL’EPOCA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Durante le agitazioni e gli scioperi che precedettero la Prima Guerra mondiale, l’organo ufficiale del Sinn Féin trattava lo sciopero come un peccato imperdonabile. Lo stesso Arthur Griffith mosse dure critiche nei confronti del movimento operaio indipendente e si scagliava con odio profondo contro James Larkin, un dirigente rivoluzionario: non poteva sopportare chi metteva la classe avanti alla nazione. Ebbe poi la soddisfazione di vedere, allo scoppio della guerra, tanti dirigenti "internazionalisti" della classe operaia inglese divenire ultra-sciovinisti.
Nel 1913 Griffith formulò le seguenti posizioni: «Il Sinn Féin non è un movimento settoriale, ma nazionale, ed in quanto tale non può tollerare ingiustizia e oppressione all’interno della nazione. Esso non parteciperà, o perlomeno non per mio tramite, a qualsiasi guerra di classe o a tentativi per promuoverla. Vi possono essere molte classi, ma la nazione è una. Se vi sono alcuni che pensano che l’Irlanda è solo un nome e nient’altro, che gli interessi dei lavoratori irlandesi non risiedano nel sostenere la nazione ma nel distruggerla, e che la via per la redenzione del genere umano passi per l’universalismo, per il cosmopolitismo o per qualsiasi altro "ismo" che non sia Nazionalismo, ebbene io non faccio parte di quella compagnia (...) Io non mi fido dell’uomo che dice di amare nello stesso modo tutta l’umanità, perché so che l’uomo che ama tutti i bambini del vicinato come il suo è un cattivo padre» (Sinn Féin, novembre 1913).
Il concetto di "Libera Nazione" propagandato da Griffith è in gran parte basato su uno studio dell’Ungheria, che è presa a modello, e sull’economia di Friedrich List, un economista borghese tedesco che esaltava il protezionismo come strumento di sviluppo per una economia nazionale. Ma le economie nazionali indipendenti, ammesso che tale categoria esista o sia mai esistita, non nascono nel vuoto. Una economia nazionale può essere tenuta insieme solo da uno Stato che garantisca la continuità dei rapporti di produzione contro gli attacchi sociali interni e delle borghesie esterne. Anche lo Stato, per formarsi, ha bisogno di certe premesse. Una volta che il processo è iniziato lo Stato esercita la sua forza difendendo gli interessi della nuova classe al potere, il che significa colpire chiunque si dimostri un pericolo per il suo ordine.
Riguardo alla contiguità fra le aspirazioni nazionali e la controrivoluzione nel "Libero Stato" dell’Eire, citeremo due personaggi famosi. Il primo è Daniel O’Connell, un eminente nazionalista della prima metà dell’Ottocento che, in un resoconto di James Connolly, si sarebbe trovato a conversare con uno spaccapietre al lavoro lungo la strada; alla domanda di questo il personaggio non poté negare che in una futura Irlanda indipendente la sua vita avrebbe continuato ad essere quella di spaccare le pietre. Il secondo, e più esplicito, esempio riguarda Arthur Griffith, il fondatore del Sinn Féin e "teorico" del movimento nazionalista all’inizio del Novecento. In tale veste dichiarò che gli irlandesi, per il privilegio di vivere nel loro proprio paese, devono essere disposti a lavorare per salari più bassi. Non c’è da stupirsi che i borghesi locali sostenessero con estremo entusiasmo questa parte del credo nazionalista e che Griffith fu successivamente uno degli artefici dell’accordo col Regno Unito che portò alla formazione del Libero Stato d’Irlanda.
Già dal 1894 le diverse Trade Unions, che fino allora avevano agito autonomamente, decidono di tenere annualmente un Congresso generale comune. Dal 1908 al 1913 il movimento operaio cresce e si irrobustisce ed affronta decisamente duri periodi di crisi con scioperi ed agitazioni; sorge contemporaneamente il Partito Operaio Irlandese. Nel frattempo, nel 1905, è fondato il Sinn Féin ("Noi stessi"), partito che propone il ritiro dei deputati irlandesi da Westminster e la formazione di un parlamento separato a Dublino, in aperta sfida alla legge britannica.
Nel 1914, sotto la guida di James Connolly la classe operaia irlandese impegna una lotta serrata contro la guerra imperialista, nonostante le persecuzioni della polizia inglese.
Scriverà Lenin nel luglio 1916 in “Risultati della discussione sull’autodecisione”:
«Un colpo forte come quello assestato al potere della borghesia imperialista inglese dall’insurrezione in Irlanda ha un’importanza politica cento volte maggiore di un’insurrezione in Asia o in Africa», e più avanti: «La disgrazia degli irlandesi sta nel fatto che sono insorti intempestivamente, in un momento in cui l’insurrezione europea del proletariato non era ancora matura. Il capitalismo non è costruito così armonicamente da permettere alle diverse sorgenti dell’insurrezione di confluire immediatamente senza insuccessi e senza sconfitte. Al contrario, proprio le differenze di tempo, di genere e di luogo delle insurrezioni è garanzia di ampiezza e di profondità del movimento generale; soltanto nei movimenti rivoluzionari intempestivi, parziali, frazionati e perciò non riusciti, le masse acquisteranno esperienza, si istruiranno, raccoglieranno le forze e prepareranno in questo modo l’assalto generale così come i singoli scioperi, le dimostrazioni cittadine e nazionali, gli ammutinamenti nell’esercito, le esplosioni contadine ecc. prepararono l’assalto generale del 1905».
Nel marzo 1916 in America si tenne un Congresso, al quale parteciparono circa tremila irlandesi residenti in America. Tale congresso approvò una risoluzione nella quale si rivendicava l’indipendenza dell’Irlanda e si gettavano le basi di un’organizzazione che prese il nome di Amici della Libertà Irlandese.
Tra le masse operaie s’era andata sviluppando un’altra organizzazione: l’Irish Citizen Army, una milizia operaia incaricata di difendere i proletari dagli attacchi della polizia. In quello stesso periodo sorsero organizzazioni paramilitari interclassiste: a Belfast, l’Ulster Volunteer Force (UVF), formata dagli unionisti che volevano difendere con la forza l’appartenenza all’Impero britannico; dall’altra parte gli Irish Volunteer.
Durante la guerra mondiale il movimento nazionalista fu in genere tranquillo, almeno per quanto riguarda la lotta contro l’Inghilterra, soprattutto perché l’Home Rule era in effetti stata concessa. Ma vi furono due correnti che continuarono a darsi da fare: la prima, facente capo a Roger Casement, che guardava alla Germania come fonte di sostegno e assistenza, soprattutto per le armi (una tendenza simile, nei confronti della Germania, si sarebbe manifestata anche durante la Seconda Guerra): in tal caso la Germania si sarebbe assicurata l’appoggio di un’Irlanda indipendente nella sua guerra contro l’Inghilterra, ma l’Irlanda avrebbe semplicemente cambiato padrone.
La seconda corrente, il cui principale esponente fu Connolly, vedeva che l’odiata Inghilterra era nei guai, e che si prospettava una possibilità di successo per una ribellione di tutta l’Irlanda.
L’insurrezione, che ebbe culmine il 23 aprile 1916, lunedì di Pasqua, verrà ricordato nella storia del popolo irlandese per la brutalità con cui fu domata. L’insurrezione rimase quasi completamente confinata a Dublino, a causa della defezione all’ultimo minuto della Fratellanza Repubblicana Irlandese. Sopraffacendo di sorpresa le forze di occupazione britanniche, i ribelli riuscirono a impadronirsi di una parte della città ma, pur resistendo coraggiosamente, nonostante l’isolamento, di fronte a una forza di 20 mila soldati, furono infine sconfitti e massacrati. Dopo un processo farsa i sopravvissuti sette maggiori responsabili finirono davanti ai plotoni d’esecuzione inglesi; a Connolly, ferito alle gambe, fu usata la gentilezza di legarlo ad una sedia a rotelle per la fucilazione.
Connolly si era distinto per le sue idee avanzate: unificare la lotta di classe con la lotta di liberazione nazionale in modo da formare una repubblica socialista; per questo era necessaria la cacciata dell’esercito inglese. Altra sua intuizione fondamentale fu che se l’Irlanda fosse stata divisa (era una proposta che andava facendosi strada già d’allora) sarebbe stata una tragedia per il proletariato dell’Ulster e di tutta l’isola: l’unità fra protestanti e cattolici nel movimento operaio era già difficile, con un’Irlanda divisa fra Nord e Sud si sarebbe scatenato «un’orgia di reazione».
Con la fine della guerra la lotta degli irlandesi per l’indipendenza riesplose con rinnovato vigore, ed il governo di Londra reagì cercando di affogare nel sangue qualsiasi tentativo di rivolta. Le atrocità dei Black and Tans ed il più raffinato terrorismo degli Ausiliari ebbero però il solo effetto di infiammare ancora di più gli animi e di rendere più popolare la lotta per l’indipendenza. Incendi appiccati ai villaggi e città, agguati nelle campagne, esecuzioni individuali nelle strade; arresti, internamenti e scioperi della fame; la guerra segreta tra la famosa Coiro Gang dell’Intelligence Service inglese e la rete clandestina di Michael Collins, tutto ciò erano eventi di ogni giorno nell’Irlanda del primo dopoguerra.
Nel 1918, finita la guerra, si svolsero le elezioni generali in tutto il Regno Unito che videro il trionfo del Sinn Féin che conquistò 73 seggi sui 105 a disposizione degli irlandesi a Westminster. Sconfitta militare – vittoria elettorale.
Il 21 gennaio 1919 si costituì il Dail Eire Ann, il parlamento irlandese, formato da rappresentanti democraticamente eletti, che ratificò la borghese costituzione della repubblica e dichiarò l’indipendenza della nazione. Venne adottato un programma democratico e fu nominato un gabinetto, si stabilirono delle corti e l’IRA fu posta sotto il controllo del ministro della difesa.
Finalmente il governo di Londra iniziò negoziati segreti per arrivare ad un accordo, secondo il quale era offerto un parlamento separato per le 26 Contee, a condizione che si accettasse uno status particolare per le 6 Contee del Nord; le basi per questo accordo erano già state gettate con la Legge sul Governo dell’Irlanda, del 1920, nella quale erano previsti parlamenti separati per le due parti dell’isola.
Il governo britannico dovette fare delle ulteriori concessioni finché furono raggiunte le condizioni per una tregua il 21 luglio 1921, in seguito alla quale tutti i prigionieri irlandesi dovevano essere liberati; sarebbero inoltre iniziate le trattative per arrivare ad una forma di indipendenza per l’Irlanda per la quale il centro-sud sarebbe diventato uno Stato a sé. Il trattato con Londra prevedeva elezioni per un Parlamento nel Sud, che si sarebbe dotato di un proprio esercito, la National Army, e di una forza di polizia. In effetti nel 1922 la formazione della National Army ebbe inizio, mentre permanevano le formazioni armate dei volontari che avevano combattuto contro gli inglesi. Del nuovo esercito facevano parte sia fresche reclute sia esperti veterani; questi ultimi di disparate provenienze, ma soprattutto ex appartenenti agli eserciti inglese-americano, e a formazioni irlandesi.
Ma già nel settembre un proclama militare britannico dichiarava il Dail Eire Ann illegale; furono soppressi tutti i giornali repubblicani e gli inglesi scatenarono un regime di terrore che si prolungò fino alla sottoscrizione di una tregua nel luglio 1921. In questo periodo fu imposta con la forza delle armi la divisione del paese in uno Stato pseudo indipendente al sud (autonomo, legato alla persona del re d’Inghilterra, ma con un governo ed un esercito proprio, associato al Commonwealth) e in una provincia del Regno Unito (Ulster) al nord.
Sta di fatto che l’Eire, con 26 contee, restava la regione prevalentemente cattolica ed agricola, e più povera; l’Ulster invece, al nord, con 6 contee, prevalentemente protestante, più ricca di industrie e con un porto molto efficiente, restava legato al Regno Unito di Gran Bretagna. Il destino dell’Irlanda era tracciato ed il proletariato diviso e sconfitto. Sconfitto ma non domato!
L’intuizione di Connolly si era avverata, la borghesia inglese era riuscita ad opporre i proletari protestanti e quelli cattolici. Ma la creazione dell’Ulster britannico garantiva anche gli interessi della borghesia unionista concentrata nel nord del paese e strettamente legata agli interessi imperialistici inglesi fin dal 1800.
L’interclassismo dell’ideologia orangista era riuscito a legare la classe operaia protestante del nord, in posizione di privilegio materiale rispetto alla minoranza cattolica, agli interessi della borghesia locale. L’Ulster si basò così fin dall’inizio sulla aperta discriminazione religiosa, in cui naturalmente il settarismo religioso è solo uno specchietto per nascondere la natura del dominio imperialistico e di classe.
Il potere nel parlamento (Stormont) e nel governo assicurava alla borghesia unionista il pieno controllo delle condizioni materiali della divisione fra lavoratori protestanti e lavoratori cattolici. Essere protestanti significava avere la precedenza nell’assegnazione di case e di posti di lavoro; essere protestanti significava quindi essere unionisti, identificarsi con la Gran Bretagna e con la classe dominante e nutrire nei confronti dei cattolici sentimenti molto simili a quelli dei bianchi poveri d’America nei riguardi dei negri. Il settarismo inerente alla struttura dello Stato era poi rafforzato e difeso da leggi sull’ordine pubblico tra le più repressive del mondo.
È del 1922 lo Special Powers act che conferiva al governo dell’Irlanda del Nord poteri straordinari contro la sovversione. Fra questi poteri quello di incarcerare senza mandato, abolendo la difesa legale; quello di proibire associazioni e pubblicazioni politiche, l’internamento senza processo e a tempo indeterminato; la pena di morte per il possesso illegale di armi ed esplosivi; la fustigazione dei prigionieri e la confisca dei beni dei condannati. Sul piano militare apparati di polizia armatissimi e composti esclusivamente di protestanti: la Royal Ulster Constabulary (RUC), polizia reale dell’Ulster, e un corpo armato di volontari orangisti chiamati B-Specials, a sostegno del partito unionista e poi ancora le Orange Lodges, organizzazioni sociali il cui compito era quello di sollecitare il fervore politico protestante tenendo vivo alla base il senso della superiorità protestante.
Gli appartenenti alla minoranza cattolica diventarono i niggers dell’Ulster, privi di rappresentanza politica, repressi da leggi liberticide e discriminanti rispetto alle abitazioni, all’istruzione e soprattutto all’occupazione.
13. CONTRORIVOLUZIONE BORGHESE NEL SUD
Tra i repubblicani irlandesi il trattato non fu ovunque accettato con entusiasmo, al contrario, la divisione dell’Irlanda che questo implicava causò il sorgere di un forte dissenso. Per qualche mese il nuovo Stato del Sud rimase paralizzato da questa situazione, che vedeva opposti i fautori del trattato e coloro che intendevano continuare a combattere perché fosse esteso al Nord. Fu proprio Arthur Griffith, uno dei fondatori del Sinn Féin e firmatario del trattato, che chiese a Michael Collins, anch’esso firmatario, di organizzare il nuovo Stato ed il suo esercito e di metter quindi a tacere gli oppositori eventuali.
Per un breve periodo le due parti, composte di uomini che avevano combattuto fianco a fianco, apparvero riluttanti a affrontarsi armi alla mano, ma questa situazione non poteva durare: uno Stato degno di questo nome non può fare a meno di favorire l’economia, proteggere la sicurezza pubblica e disarmare chiunque gli si opponga, ed il nuovo Stato delle 26 Contee non era diverso dagli altri. Uno scontro aperto divenne quindi inevitabile tra questo Stato Nazionale ed i suoi oppositori.
Repubblican Army (IRA), come si chiamava il movimento che aveva combattuto gli inglesi, si spaccò a metà. Quelli che aderivano al Trattato con l’Inghilterra si avvicinarono al governo, che aveva Griffith come presidente, mentre coloro che intendevano continuare a combattere nel Nord perché l’Ulster fosse incluso nel nuovo Stato Irlandese ne rimasero fuori.
Gli avversari della tregua si erano aquertierati a Dublino nelle Four Courts, nei pressi del tribunale. Quando i ribelli fecero un’incursione in un garage per procurarsi i mezzi di trasporto, alcuni di loro furono arrestati. I ribelli rapirono allora un generale della National Army. Nel contempo altri ostili alla tregua si erano impadroniti di punti chiave di Dublino. Finché Collins, infuriato, pretese che la situazione venisse immediatamente normalizzata: i ribelli che occupavano l’area della Four Courts ricevettero il 27 giugno 1922 un ultimatum in cui si chiedeva loro di arrendersi. A mezzanotte l’ultimatum fu rifiutato. La zona fu quindi sottoposta a un pesante cannoneggiamento per tre giorni da parte del giovane esercito nazionale, con l’artiglieria prestata dagli inglesi, provocando grosse perdite tra gli assediati. Come ebbe poi a dire Cathal Brugha, un vecchio combattente repubblicano, sembrava essere tornati al 1916. Molti preferirono farsi uccidere piuttosto che essere fatti prigionieri dagli ex compagni, gli altri furono considerati ostaggi.
Quattro di loro furono fucilati poco dopo come rappresaglia per l’assassinio di un deputato del Dail, esecuzione discussa ed approvata in una apposita riunione di gabinetto; furono scelti quattro prigionieri, Rory O’Connors, Liam Mellows, Joseph Mc Kelvey e Richard Barret – giustiziati alla svelta il mattino seguente senza nemmeno un processo pro-forma – che rappresentavano, si disse, le quattro province dell’Irlanda: Leinster, Connanght, Ulster e Munster. Ma, più che altro, tutti loro sapevano troppo. Era una dichiarazione di guerra nei confronti di chi intendeva ribellarsi contro lo Stato, e dimostrava che non era necessario essere inglesi per opprimere gli irlandesi. Seguì un’ondata di arresti, spesso secondo lo stile appreso dalle forze di occupazione appena partite, come le irruzioni nelle abitazioni nel cuore della notte; talvolta gli arrestati, come accade a Harry Boland, restavano uccisi “mentre tentavano di fuggire”. L’ondata della guerra civile, villaggio per villaggio non tardò ad estendersi nelle campagne; distaccamenti celeri furono formati per non dare tregua agli irregolari – e fu proprio in una di queste incursioni che Collins fu ucciso in una imboscata. Nell’insieme si ebbe un numero eccezionale di operazioni militari contro gli ex compagni d’arme. Lo Stato borghese aveva bisogno di essere difeso da parte della stessa borghesia, si doveva ristabilire l’ordine!
In che differiva questo svolgersi degli eventi da quanto era successo nel corso delle altre rivoluzioni borghesi? Ben poco! Come sempre, una volta compiutasi la rivoluzione borghese, l’unica potenzialità rivoluzionaria che resta è quella della lotta del proletariato contro tutto il regime borghese.
A partire dal 1923 l’Irlanda si riempì di campi di concentramento, sotto diverse insegne, sia nel Nord sia nel Sud. Nonostante le differenze, si è da allora verificata una convergenza tra Dublino, Belfast e Londra per assicurare che qualsiasi opposizione alle strutture statali esistenti fosse combattuta e sconfitta.
La classe dominante in Irlanda ha infine avuto la sua forma di autodeterminazione, ed intende mantenerla così com’è.
Se vogliamo aggiungere qualcosa sull’Eire, ricordiamo che è tutt’ora dotata di Tribunali Speciali, campi di concentramento, leggi sui crimini contro lo Stato, censura, ecc. Non c’è male per la “libera nazione” auspicata da Arthur Griffith!
Come giudicare la Guerra Civile Irlandese del 1921-23? Come poter sostenere che esista ancora una rivoluzione borghese incompleta da condurre a termine? Come la unificazione nazionale dell’Irlanda potrebbe essere una fase inevitabile da compiere prima di volgersi verso altre imprese?
14. UN NAZIONALISMO “TRADITO” ?
Un argomento ancora oggi usato dal Sinn Féin e simili che le aspirazioni nazionalistiche sarebbero state "tradite"; in tal senso si richiamano alla Costituzione del 1798 e alla Dichiarazione del Dail del 1919 quali esempi perfetti di delusi principi democratici. Vecchi imbrogli da non passare sotto silenzio.
La borghesia, in tutti i paesi, ha sempre agitato slogan sonori su libertà, democrazia e unità nazionale, per infiammare gli animi del popolo, ed in particolare del proletariato, affinché combattesse la sua battaglia. Nella lotta contro l’assolutismo feudale e la dominazione imperialista, fino ad una data fase, è stato giusto che la classe operaia abbia costituito un fronte con la sua borghesia per sconfiggere il comune nemico; ma ciò è durato fino al momento in cui gli interessi antagonistici tra borghesia locale e proletariato hanno generato lo scatenarsi della lotta di classe all’interno della "nazione", spaccandola in due. Tutte le rivoluzioni borghesi hanno seguito la stessa strada, dalla Rivoluzione Francese – nella quale Napoleone non esitò a spazzare le strade di Parigi colme di proletari con scariche di mitraglia – alla proclamazione della Repubblica Irlandese e alla successiva Guerra Civile. La borghesia non "tradisce" la democrazia come tale, ma difende il dominio di classe impersonato dallo Stato, il quale rappresenta e difende l’economia nazionale su cui sono fondate le classi che si fronteggiano in eterna contraddizione l’una con l’altra. Nessuna scelta individuale può portare a mutamenti di questo stato delle cose, prodotto di secoli di storia umana e infine della lotta e sofferenza di numerose generazioni proletarie. Gli stessi borghesi, per quanto possano riempirsi la bocca di libertà e concordia nazionale, sono altrettanto prigionieri degli eventi storici, non meno dei baroni che combattevano in difesa dei regimi dispotici.
Appena una data borghesia prende il potere, non può fare a meno di organizzare lo Stato, proteggere la proprietà, promulgare leggi, creare corpi di polizia e un esercito, e, contro il proletariato, funzionare come la struttura statale appena rovesciata. Ben presto inizia a gettare in carcere gli oppositori, a prendere ostaggi, a creare tribunali speciali, campi di concentramento ecc.
Nessuno può negare che lo Stato Irlandese che si chiama Eire appartenga appieno a questo tipo. Anzi, in certe innovazioni legali l’Eire è stato un pioniere, come per la Legge sui crimini contro lo Stato del 1939, i Tribunali Speciali ecc., innovazioni ben presto imitate dalle autorità dell’Ulster. Tanto che, in questo senso, grazie all’accordo Anglo-Irlandese, la borghesia di fatto dispone già di una sorta di Irlanda Unita, nella quale la popolazione è sotto lo stesso tallone di ferro: grazie alle meraviglie del dominio democratico borghese, tutta l’isola è sotto lo stretto controllo della polizia, che si chiami Police o Garda.
Naturalmente, all’interno della classe borghese, durante la sua rivoluzione e anche dopo, vi sono sempre differenze e contrasti su quanto lontano debba spingersi la rivoluzione, che causano lotte anche acute tra i nazionalisti. È questo violento conflitto che dà adito all’illusione di un "tradimento" da parte della borghesia. Certo vi sono degli individui, rinnegati ed espulsi dalla classe borghese, imprigionati e talvolta uccisi, per i quali questi eventi assumono una triste tangibilità, ma nel suo insieme la nuova classe dominante non tarda ad enucleare un solido senso di comunione di intenti. La trovata disciplina fra i ranghi interni della borghesia, e la sua dichiarazione di guerra contro la classe operaia, sono sintomi della controrivoluzione.
15. LOTTA SOCIALE SOTTO LOGORE INSEGNE
I disordini a sfondo religioso continuarono negli anni ’30 con un’acutezza particolare.
I disordini dei primi anni sessanta rilevarono l’affermarsi di nuove tendenze politiche sia a “destra” sia a “sinistra”. Da una parte la RUC con il reverendo Jan Paisley, a capo negli anni ’50 del movimento estremista anti-cattolico, radicato tra gli operai e organizzato attorno alla Libera Chiesa Presbiteriana; dall’altra una campagna per la formazione pacifica di un’Irlanda unita.
Non diminuirono neanche dopo il 1964 quando, nell’ottobre, entrò in carica il governo laburista, dal quale sia i riformatori nord-irlandesi sia alcuni deputati laburisti si aspettavano delle iniziative a favore dei cattolici. Ma i progetti riformisti dei laburisti non trovarono sbocchi reali; tale immobilismo spinse molti ad aderire alla Associazione dell’Irlanda del Nord per i diritti civili (NICRA) fondata nel febbraio del 1967. Questa associazione quanto mai “rispettabile” e a composizione prevalentemente borghese, anche se appoggiata dalla “sinistra”, con le sue proteste squisitamente costituzionali non ottenne mai nessun beneficio dallo Stormont, né fu appoggiata in alcun modo da Westminster. Ogni sua iniziativa era contrastata dagli unionisti locali, fino agli scontri dell’ottobre 1968 a Derry. Nacque in questa situazione un nuovo gruppo di “sinistra”, Peoples Democracy fondato da giovani intellettuali.
Nonostante l’avvento di O’Neil come primo ministro dell’Ulster e la sua politica di “liberalismo riformatore” la situazione continuò a rimanere tesa e si susseguivano gli scontri fra RUC e le squadre del reverendo Paisley da una parte e l’associazione per i diritti civili e il Peoples Democracy dall’altra. Del 17 aprile 1969 è l’elezione di Bernadette Devlin, candidata per il Peoples Democracy, a Westminster come indipendente. O’Neil dette le dimissioni il mese stesso.
Le parate annuali di luglio e agosto dei protestanti divennero detonatori di violenza: RUC e B-Specials invasero le zone cattoliche della città, furono uccise sette persone, 400 furono i feriti e 500 case andarono distrutte o danneggiate. Le condizioni per un intervento militare inglese difficilmente avrebbero potuto essere più propizie.
Dopo il 14 agosto intervenne l’esercito britannico con circa 6.000 uomini, intervento dovuto a due motivi fondamentali: 1) perché lo Stormont aveva perso il controllo dello Stato; 2) perché questo consentì al governo laburista di mantenere la sua posizione riformista e al tempo stesso salvaguardare la struttura dello Stato dell’Ulster.
Il governo laburista dimostrò ancora una volta, di fronte a una scelta, che i “diritti dei cittadini” non stavano affatto al primo posto nella sua scala di priorità. La minoranza cattolica perse ogni illusione su un appoggio laburista agli unionisti.
In questa situazione nacque l’Ira Provisional. Il Partito Repubblicano, successore dell’IRA storica, non aveva garantito la difesa dei ghetti cattolici nell’agosto 1969. Sui muri comparve la scritta derisoria: “I Ran Away” (sono scappato). Il partito si scisse in repubblicani di sinistra “Official”, che sostenevano una linea di trasformazione per via costituzionale, e repubblicani “Provisional” che sostenevano l’unificazione nazionale attraverso la lotta armata.
La fondamentale analogia tra gli obiettivi del partito laburista e quelli del partito conservatore, la loro comune preoccupazione di salvaguardare la struttura capitalistico-imperialista, è testimoniata dall’appoggio dato dai conservatori al governo laburista durante tutto il periodo considerato.
Dal 1969 ad oggi [1989] tale situazione di completo immobilismo politico, dato l’irrigidimento delle posizioni di Londra, sempre più apertamente a protezione dei gruppi anglo protestanti degli unionisti dell’Ulster, ha spostato lo scontro quasi esclusivamente sul piano militare.
Di fatto, dopo il 1969, la questione irlandese si è trasformata quasi in una guerra con brevi alternanze di tregua. Fino a tutto il 1984 i morti sono stati 2.400, i feriti oltre 20.000. Repressioni, assassini, campi di internamento, torture; si ricorda per esempio il tristemente famoso “H blok”; interi quartieri trasformati in campi di battaglia, piccole barricate, autoblinde della RUC che ispezionano, questo è il desolante scenario che regna su Belfast da oltre 15 anni. Momenti di particolare tensione furono determinati dalla morte di Bobby Sands, volontario dell’IRA detenuto nel carcere di Maze, dove si lasciò morire di fame, seguito poi da altri nove suoi compagni.
Lo sciopero della fame in Irlanda ha una lunga storia fin dal 1900. Connolly, arrestato durante la serrata di Dublino, vi sarebbe ricorso quando fu incarcerato per rifiutare i giudici. Anche nel 1917, durante le rivolte di quell’anno, molti degli arrestati non riconobbero la competenza della corte e praticarono lo sciopero della fame per farsi riconoscere la condizione di prigionieri politici. Nel settembre di quell’anno la morte a causa del nutrimento forzato di Thomas Ashe, un comandante della sollevazione di Pasqua, suscitò vaste proteste.
Ma lo sciopero della fame ha una antica tradizione non solo nelle vicende politiche ma come metodo con il quale una persona di basso rango chiedeva giustizia, in una vertenza legale, nei confronti di un’altra di alto rango.
Nel maggio del 1983, su iniziativa del governo dell’Eire e sotto la presidenza di Garret Fitzgerald, capo del movimento Fine Gael, sono stati chiamati a riunirsi tutti i partiti politici cattolici e protestanti delle due Irlande per cercare insieme una soluzione al conflitto. Ma una parte fondamentale, il Sinn Féin, non è stata ammessa poiché, si dice, «Il Forum è aperto solo a coloro che rifiutano decisamente la violenza». E gli inglesi? Rifiutano però di aderire anche i partiti unionisti dell’Ulster, lealisti e protestanti, sostenendo che il governo di Dublino non deve immischiarsi nelle questioni che riguardano il territorio inglese.
Senza i due principali protagonisti della guerra il Forum è andato avanti, e dopo dodici mesi è arrivato a formulare alcune proposte di soluzioni “possibili”. L’obiettivo finale ribadito è ovviamente quello di un’Irlanda unita e indipendente, composta delle trentadue contee; ma vengono indicate due soluzioni “transitorie”: uno Stato federale; una sovranità angloirlandese comune e paritetica sulle sei contee dell’Ulster.
Sinn Féin, IRA militare, Esercito Nazionale di Liberazione Irlandese respingono queste soluzioni, e altrettanto fanno lealisti e protestanti. Anche la risposta del governo Thatcher fu No-No-No: no ad uno Stato unitario, no ad una Irlanda federale; no ad una gestione condivisa.
Tutto ciò non fa che esasperare la situazione e a rafforzare l’attività dell’IRA militare, che a quanto sembra trova i suoi sostenitori tra gli irlandesi d’America. Si arriva così alla bomba dell’IRA del 1984 che sventra il Grand Hotel di Brighton, quarantacinque chili di melinite, destinati alla Thatcher ma che fortunosamente vi sfugge.
Il Provisional Ira / Sinn Féin è formato dall’unione tra i militanti del Nord e i tradizionalisti del Sud ed ha i seguenti obiettivi: impegno britannico a lasciare definitivamente l’Irlanda; riconoscimento ufficiale da parte inglese del diritto del popolo irlandese a decidere del proprio avvenire; amnistia per tutti i prigionieri politici in Inghilterra. Il Sinn Féin non chiede alla popolazione delle 6 Contee di aggregarsi allo Stato delle 26 Contee, ma intende sostituire i due Stati con una “repubblica democratica socialista” di tutte le trentadue contee!
Verso la fine di gennaio 1989 ha avuto luogo a Dublino una conferenza del Sinn Féin, l’ala politica del Movimento Repubblicano Irlandese, per commemorare il settantesimo anniversario della convocazione del Parlamento Irlandese (Dail) nel 1919. L’importanza dell’evento non è tanto nella condanna dell’imperialismo e dei capitalisti stranieri che il consesso ha enunciato (come se i capitalisti locali non fossero, in fondo, così malvagi), quanto nella svolta inaugurata sul piano strategico. Prodotta dall’egemonia acquisita dall’ala politica dei Provisionals su quella militare, è quasi identica a quella che due decenni fa spezzò l’IRA in due.
Il ventennio appena trascorso ha visto il coinvolgimento diretto delle forze militari e di polizia britanniche nelle sei contee dell’Ulster che ancora fanno parte del Regno Unito. Fu proprio il governo laburista di Harold Wilson, conscio dell’incapacità della dominante élite protestante a contenere l’agitazione che serpeggiava tra la popolazione cattolica sui diritti civili, che nel 1969 inviò truppe, con il pretesto di proteggere i cattolici dalle brutalità dei "B-Specials" della polizia, la Royal Ulster Constabulary.
Ma chi avrebbe protetto i cattolici dall’esercito inglese? Infatti la funzione dell’esercito sarebbe venuta evidente nel massacro della Bloody Sunday nel 1972, quando fu aperto il fuoco su una dimostrazione. Da allora una riorganizzata IRA Provisional ha sempre più esteso le sue attività contro il governo britannico, non solo in Irlanda del Nord ma in Inghilterra, Germania, Olanda, ovunque è stato possibile rendere colpo su colpo. L’Irlanda del Nord è divenuta sempre più zona di guerra, infestata da spie, con frequenti operazioni di polizia, con le zone separate da siepi di filo spinato, mentre ogni immaginabile accorgimento anti-insurrezionale è stato messo alla prova. Si tratta d’altronde di un campo nel quale l’Inghilterra, che ha inventato i campi di concentramento durante la guerra Anglo-Boera in Sud Africa, ha ben poco da imparare; in Ulster ha avuto modo di saggiare le ultime teorie sulle operazioni antiguerriglia, un invidiabile ampio campo di addestramento per il suo esercito.
Incapace di colpire efficacemente le forze di occupazione, l’IRA ha preso come bersagli anche le attività civili di sostegno all’esercito, tutto quello che forniva servizi alle unità inglesi, dalle imprese di costruzioni a quelle di traslochi, nonché poliziotti fuori servizio e soldati part-time, tutto andava bene. In realtà le bombe hanno colpito soprattutto civili, perché i militari erano più difficili da raggiungere. L’aumento impressionante di morti da entrambe le parti ha portato ad una enorme riduzione degli effettivi delle unità in servizio attivo dell’IRA, che è riuscita a compensare le perdite solo a seguito di provocazioni dell’invasore che rinnovavano e rafforzavano gli odi.
Una di queste è stata l’esecuzione di tre membri dell’IRA l’anno scorso a Gibilterra. Da una parte l’IRA cercava un avvenimento che desse risonanza internazionale alla guerriglia facendogli una buona pubblicità, dall’altra il governo inglese intendeva provare la sua determinazione a fermare i terroristi, i quali sono stati freddati nelle strade di una colonia britannica di fronte a testimoni. Purtroppo i metodi impiegati nelle zone rurali dell’Ulster non hanno avuto altrettanta notorietà. Lo Stato non ha intenzione di fermarsi davanti a niente per colpire chiunque lo sfidi e per spazzar via qualsiasi tentativo di resistenza armata ricorre ad un’esperienza di secoli di repressione in tutti gli angoli del pianeta.
Spesso ci si domanda il perché degli attacchi condotti in Ulster contro obbiettivi "facili", cioè civili e soldati o poliziotti non in attività, e l’assassinio di membri di gruppi paramilitari sia cattolici sia protestanti (spesso denominati “omicidi settari”). La presenza di corruzione, tangenti, racket, protezioni di "padrini" settari su entrambi i versanti porta a spiegare le uccisioni su questo terreno di interessi mafiosi.
È su questo sfondo che sono importanti le dichiarazioni del Sinn Féin. Gerry Adams, il suo presidente, ha criticato le recenti azioni che hanno causato «un’eccezionale e spiacevole numero di morti tra i civili», ed ha avvertito che se si dovesse continuare su questa strada si indebolirebbe il morale tra coloro che appoggiano i repubblicani. Il vice presidente, Martin McGuinness, ha fatto sapere che l’IRA ha sciolto una formazione a Fermanagh «perché l’uccisione di civili è sbagliata». Pochi giorni prima il giornale repubblicano Provisional "An Phoblacht" aveva pubblicato un’intervista di un portavoce della direzione dell’IRA, che aveva ammesso che un’unità era stata sciolta e disarmata perché colpevole dell’uccisione di un ex poliziotto.
Nel commentare le negative conseguenze della uccisione di civili, l’IRA ha colto l’occasione per far sapere di avere l’intenzione di subordinare la sua attività alle necessità politiche del movimento. «Ci rendiamo conto di avere la responsabilità della correzione dei problemi e della regolazione delle nostre attività in modo che non ostacolino, ma al contrario siano complemento degli sforzi per costruire un fronte ad ampia base contro l’imperialismo (...) Ciò significa che abbiamo l’intenzione di favorire l’instaurarsi di un clima favorevole a una politica radicale in Irlanda, e di assistere con ogni mezzo lo sviluppo di tale processo».
La strategia dei Provisionals è stata rappresentata per molti anni da un fucile in una mano ed un’urna elettorale nell’altra, a simbolizzare l’intenzione di voler combattere contemporaneamente su entrambi i fronti. Adesso è chiaro che l’aspetto politico avrà d’ora in poi le maggiori attenzioni, strategia espressa chiaramente da Adams; ammesso che non sarebbero stati in grado di vincere da soli, ha poi dichiarato: «è finito il periodo elitistico e dogmatico». In altre parole, fatevi sotto, ce n’è per tutti.
Segnali di distensione sono stati lanciati in direzione di ambienti protestanti, assicurando che i loro interessi sarebbero tenuti in considerazione, nella convinzione che solo con la loro cooperazione sia possibile riunificare l’Irlanda.
Non si tratta certo di affermazioni dell’ultima ora, al contrario si inseriscono in una trasformazione strategica preparata da tempo. In occasione di una pubblica riunione a Dublino, il 19 gennaio, la necessità di lottare per "l’Unità irlandese" era stata difesa non solo dal Sinn Féin, ma anche dall’irrimediabilmente opportunista Partito Comunista Irlandese, un dirigente del quale affermò che la realizzazione di un programma democratico «rappresenta appieno il sentimento radicale di questi tempi».
Alla medesima riunione fu letta una dichiarazione di Adams che condannava il governo Fianna Fail per la sua politica sociale ed economica: «Il loro opportunismo egoista, la loro politica economica e sociale reazionaria, il loro conservatorismo morale ed il loro aperto e attivo sostegno per l’imperialismo inglese sono in stridente contrasto con la politica ed il programma adottatati dal primo Dail (...) Un milione e un quarto di irlandesi sono emigrati dalle 26 contee negli ultimi 70 anni. Un altro milione vive in condizioni di povertà. La disoccupazione continua ad aumentare ed i deboli, i malati, i poveri sono sempre più le vittime predilette del governo». La conclusione cui giunge Adams è che la nazione irlandese deve avere sovranità sulla propria economia, in modo da superare tutti i problemi che il governo dell’Eire non è in grado di risolvere.
Pur senza voler togliere alcunché alla critica della classe dominante in Eire e del suo modo di agire, non possiamo passare sotto silenzio l’illusione del controllo nazionale dell’economia. Un aspetto fondamentale del capitalismo è che esso è invariabilmente soggetto a crisi, alle quali non esiste rimedio se non attraverso depressioni, guerre, miseria, disoccupazione ed immense sofferenze per la classe operaia. Se grandi e potenti paesi, Stati Uniti compresi, non riescono a sottrarsi alla sempre più profonda crisi del capitalismo, come può Adams seriamente pensare che un’Irlanda unificata possa fare di meglio? Dentro o fuori il Mercato Comune, l’Irlanda, unita o divisa, continuerà ad essere prigioniera della incontrollabile crisi del mercato mondiale. L’unico modo per eliminare i problemi dei poveri e degli oppressi delle 26 contee, e del resto del mondo, è di abolire l’economia proprietaria capitalistica – cioè instaurare il comunismo.
Lo Stato d’Irlanda è andato via via staccandosi sempre più dall’Inghilterra e nel 1937, pur rimanendo nel Commonwealth, si diede una nuova costituzione cambiando il nome con quello di Eire; rimase neutrale durante il secondo conflitto mondiale e nel 1949 uscì anche dal Commonwealth.
Restava però aperto e insanabile il conflitto per l’Ulster, che la Repubblica Irlandese ancora rivendica.
L’Irlanda è oggi un paese molto giovane (più del 50% della popolazione è al di sotto dei 25 anni) ma vi sono scarse speranze di lavoro. In passato questa contraddizione veniva risolta tramite l’emigrazione diretta nei paesi di lingua inglese, ma oggi questa via d’uscita è in gran parte bloccata, perché la Gran Bretagna, date le condizioni in cui si trova, non offre più le prospettive d’inserimento di un tempo mentre Stati Uniti, Canada e altri paesi stanno ponendo limiti ferrei all’immigrazione. Inoltre, l’irruzione sulla scena sociale di una gran massa di giovani con i loro problemi economici può fortemente indebolire la presa ideologica della Chiesa e creare tensioni non trascurabili ed indurli ad immettersi istintivamente sulla retta via di una radicale trasformazione sociale.
La Repubblica d’Irlanda d’oggi, con una superficie di 70.273 Kmq., ha una popolazione di circa 3 milioni di abitanti e una densità media di 43 abitanti per Kmq.; 2,7 milioni sono cattolici, il resto per lo più protestanti. L’Ulster, con una superficie di 14.130 Kmq., ha circa 1,5 milioni di abitanti e una densità di 109 per Kmq. (il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord ha una densità di 236 abitanti per Kmq.); poco più di un terzo sono cattolici, il resto anglicani o presbiteriani.
Questo sta a dimostrare che mentre la Repubblica è prevalentemente agricola e cattolica, il Nord più sviluppato è prevalentemente protestante e industrializzato. Ecco perché l’imperialismo britannico non ha mai voluto cedere nei confronti dell’Irlanda del Nord.
Oggi il Sinn Féin sente che la situazione è divenuta più fluida. Quello che all’inizio del secolo sembrava indistruttibile, la potenza economica e militare dell’Inghilterra, ha nel frattempo subìto profondi cambiamenti. L’economia britannica è in grave declino – è addirittura divenuta paese prevalentemente importatore, rispetto alle esportazioni, di manufatti industriali, per la prima volta in due secoli! Chissà che un giorno non lontano all’Inghilterra non converrà liberarsi delle 6 Contee dell’Ulster, se queste arrivassero a costituire un peso. Ma in tal caso a che condizioni ciò avverrebbe? Cosa comporterebbe arrivare ad un accordo con i protestanti del Nord? Quanto dovrà essere trasformata l’economia dell’Eire per potervi inserire l’area industriale del Nord?
Non è poi del tutto fantascienza prendere in considerazione la possibilità che si crei una federazione con l’antico nemico, come era stato prospettato da Marx più di cento anni fa! Naturalmente il Mercato Comune diluirebbe un po’ il fenomeno, ma una federazione economica sempre federazione è. Povero Mr. Griffith!
Coloro che ancora sognano un’Irlanda unificata, che credono soluzione di tutti i problemi del popolo che vive sull’isola, dovrebbero meditare sull’eventualità che il miracolo si avveri, che Gerry Adams e gli altri membri del Provisional Sinn Féin riescano a convincere i protestanti e Londra a concludere un accordo. Questo comporterebbe condizioni dure da digerire, come la secolarità dello Stato: la separazione della Chiesa Cattolica dallo Stato provocherebbe tra i borghesi molto più scontento dell’Unione con la Gran Bretagna ed in tal caso si possono immaginare le misure che uno Stato Unificato d’Irlanda dovrebbe prendere per mantenere la pace. Quanti ex compagni d’arme verrebbero braccati, oppressi, imprigionati o uccisi stavolta? Chi sarà il nuovo Michael Collins (che riuscì a meritare il soprannome di Pilsudski irlandese) che porterà ovunque la guerra in nome dell’ordine?
Ma le prospettive per una Irlanda unita sono oggi diverse da quelle di due secoli fa. Oggi abbiamo un sistema sociale fatiscente che scarica tutti i suoi problemi sui poveri e sugli sfruttati. Non c’è più spazio per la creazione di Stati liberi e indipendenti, il mondo è costituito di blocchi di Stati che si contendono fieramente i mercati del pianeta. Quale sarebbe, in questo quadro, il ruolo di un’Irlanda unita, pur se provvista di una base industriale? Quale paese più debole sceglierebbe per opprimere o invadere? Forse in passato l’Eire si è potuta costruire una facciata di neutralità, in quanto piccolo paese agrario, ma il discorso cambia quando dovrà lottare in un mercato mondiale che si riduce sempre più.
Con quali paesi si schiererebbe l’Irlanda in caso di guerra? La neutralità del paese è stata praticamente garantita, negli ultimi cinquanta anni, da Inghilterra e Stati Uniti, ma sorge il quesito se un’Irlanda unificata potrebbe permettersi di basare la sua difesa su queste fondamenta. Forse uno dei requisiti per concedere l’unificazione potrebbe essere l’appartenenza alla NATO. Eh no, signor Adams, è altamente probabile che l’unificazione, invece di risolvere i problemi, li aggravi.
Certo non neghiamo che vi è una tremenda oppressione in Ulster e che i cattolici, discendenti della razza irlandese, sono sottoposti a feroci e vendicativi attacchi da parte dei gruppi orangisti e non condanneremo mai nessuno perché combatte contro l’oppressione. Ma se i cattolici irlandesi sono oppressi, i proletari cattolici lo sono due volte, come le donne proletarie cattoliche tre. Sottolineeremo sempre tuttavia la falsità dell’obiettivo nazionale per la classe lavoratrice irlandese.Anche in Irlanda, in assenza della lotta di classe, che trascini la stragrande maggioranza dei diseredati e degli oppressi a fianco del proletariato organizzato per i suoi obiettivi immediati e storici, non ci possiamo aspettare che reazioni individuali e la ricaduta nel nazionalismo.
Dall’altra sponda la classe operaia inglese continua a sostenere le aspirazioni imperialistiche della propria borghesia, rinunciando essa stessa alla lotta per la propria emancipazione.
Noi non auspichiamo la costituzione di un’Irlanda unita oggi. Se questa vi sarà, il proletariato vi troverà un nuovo nemico.
È per l’unificazione dei lavori delle isole britanniche nella lotta irriducibile contro la borghesia di entrambi i paesi, che noi dedichiamo il nostro lavoro.
Formuliamo infine alcune considerazioni in merito alla questione irlandese.
1) La questione irlandese si riassume ormai nella presenza di uno Stato borghese, la Gran Bretagna, che ne opprime un altro, ugualmente borghese, la Repubblica d’Irlanda. Sono quindi storicamente superate le premesse materiali della nostra tattica di doppia rivoluzione.
2) Ciononostante il partito comunista che fosse presente in Gran Bretagna dovrebbe ancora invitare i proletari a battersi per la sconfitta dell’imperialismo della propria borghesia, nel senso di porre nel suo programma la separazione dell’Ulster dallo Stato inglese e la fine del secolare e permanente stato d’assedio delle province del Nord.
3) L’attuale movimento tendente alla separazione dell’Ulster dalla Gran Bretagna e alla ricomposizione nazionale irlandese non ha più alcuna possibilità di successo visto il consolidarsi dello Stato capitalistico della Repubblica d’Irlanda e la accettazione del compromesso regionale da parte delle sue classi dominanti, che ormai ritengono pericoloso per la pace sociale interna e senz’altro da evitare lo scatenare la guerra civile anti-inglese ed anti-protestante.
4) I partiti e i movimenti armati cattolici, che raccolgono il malessere delle classi povere del Nord e del Sud, con programma nazionale e democratico, non hanno storicamente più motivo d’essere se non come espressione di interessi reazionari degli strati più bassi della borghesia cattolica e come ingabbiamento nazionalista e chiesastico delle energie del combattivo proletariato.
5) È necessario che il proletariato si costituisca in classe autonoma esprimendo il proprio partito internazionale comunista e le proprie organizzazioni economiche di classe. È necessario che ricostituisca i primi nuclei d’avanguardia nelle diverse sfere nazionali, in un’unica compagine mondiale predisposta alle future lotte che scaturiranno dalla universale crisi del capitalismo.
6) Il partito comunista che fosse presente ed ascoltato nell’isola darebbe la consegna ai proletari di disertare le attuali organizzazioni interclassiste per darsi strutture di difesa di classe, armate e disciplinate, da opporre alle forze militari regolari e irregolari inglesi, agenti per sé e per delega di fatto della vigliacca borghesia cattolica repubblicana.
Il proletariato inglese è mancato all’appuntamento rivoluzionario del primo dopoguerra sia perché privo di un forte e coerente partito rivoluzionario sia per le dirigenze opportuniste e riformiste tradeunioniste. Di conseguenza i proletari irlandesi non hanno potuto contare sull’appoggio del proletariato della nazione dominante per conquistarsi la loro indipendenza di classe.
Milioni di proletari irlandesi vivono in Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia, ecc. e potrebbe essere fonte di un futuro internazionalismo proletario se non si lasciassero trascinare dal solito riformismo ed opportunismo.
Non c’è morfina o cocaina che tenga, la droga più fetente per il proletariato sono le religioni che mascherano lo sfruttamento imperialistico e borghese sotto tutti i cieli; in Irlanda cattolicesimo e protestantesimo, in Polonia i preti cattolici come in Italia ed in tutti i paesi latini, nel Libano e Medio Oriente ebrei, arabi delle varie sette, cristiani, ecc,: nel golfo Persico sciiti e sunniti; in India poi non parliamone mentre che dall’America ci giungono “nuove” droghe dai mormoni, ai testimoni di Geova, ecc. ecc.
È necessario che il proletariato si costituisca in classe autonoma esprimendo il suo proprio partito comunista internazionale rivoluzionario; che si prepari una solida base teorica programmatica e che organizzi i primi nuclei d’avanguardia nelle diverse sfere nazionali conformandosi in un’unica organizzazione mondiale predisposta alle future lotte che scaturiranno dal seno di questa società morente.
Per questo è necessario che i giovani proletari, appartengano pur essi ad una delle tante minoranze, istriani, sudtirolesi, corsi, ecc., escano dal loro conformismo individualistico o anarcoide, escano dall’opportunismo delle miriadi di gruppuscoli settari e diano il loro contributo alla realizzazione del vero Partito formale, precursore della internazionale e grande Nazione Umana!