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I negri assaggiano la libertà (Il Programma Comunista, N.5 del 1952) |
Uno dei cosiddetti pezzi forti della propaganda democratica di guerra e della crociata antifascista fu quello della bestiale politica di trasferimento in massa di popolazioni non gradite al regime, condotta dal nazismo. Già allora, il virtuoso scandalo della democrazia occidentale appariva quanto mai ipocrita: bastava ricordare quanto avevano fatto gli inglesi nel corso della loro storia coloniale o gli americani nei confronti dei pellerossa.
Il dopoguerra ha dimostrato – per chi ne aveva bisogno – che la violenza brutale non è appannaggio di determinate forme politiche borghesi, perché ha una lunga tradizione nel corso di sviluppo di tutto il regime capitalista, dall’accumulazione primitiva in poi. I liberatori dal nazismo fecero, tale quale, quello che il fascismo aveva fatto: popolazioni “trapiantate” dalla sera alla mattina e, dove si aveva più fretta, massacri generali. Le democrazie occidentali si scandalizzarono, allora, di quel che avveniva oltre la cortina di ferro, sebbene, firmando gli accordi per la spartizione del mondo, dovessero pur immaginare che fatti del genere si sarebbero verificati.
Non si scandalizzano ora, se non con qualche voce di circostanza alla Camera dei Comuni, per l’espulsione di tutta la popolazione indigena da una provincia del Kenya dove si trovavano venti famiglie bianche in tutto, né per l’internamento di duecento negri ribelli. Il provvedimento sarà indubbiamente giustificato coi superiori interessi della civiltà e della cristianità, non ne dubitiamo!
Un giornalista de
“La Stampa” (28-11) così descrive un rastrellamento:
«L’ultimo trasporto
forzato ha avuto luogo ieri, e ha definitivamente riempito sia il recinto
dell’ippodromo, dove le donne e i bambini sono stati ammassati nelle scuderie,
sia il terreno circostante alla prigione locale, dove, sotto la sinistra sagoma
di una forca si sono raccolti gli uomini, vigilati dietro il filo spinato da
poliziotti indigeni e da militari bianchi.
«Con la riserva di Leshau, dove i Kikuyu erano stabiliti da tre generazioni, il
villaggio di Kampi Ya Simba, a venti chilometri da Thompson Falls, è stato il
principale teatro dell’operazione. Anche Kampi Ya Simba è ora un mucchio di
rovine. Ieri nel pomeriggio mentre sull’abitato sonante delle gutturali voci dei
negri splendeva il tremendo sole dei tropici, arrivarono in jeep grossi reparti
di polizia seguiti da numerosi autocarri. Le molte centinaia di indigeni ebbero
su due piedi l’ordine di raccogliere le loro poche robe e furono caricati sui
camions che li trasportarono a Thompson Falls. Ai tetti di paglia delle capanne
Kikuyu vennero attaccate delle corde fissate alle jeeps, e in pochi minuti
l’intero villaggio era ridotto a un mucchio di rovine».
E poi si meravigliano che mettano in libertà gli ordinatori dei massacri o gli organizzatori dei campi di concentramento durante la guerra! O si dirà che i massacratori e internati erano, allora, di pelle bianca, e adesso sono di pelle nera? Infatti, è questo ritornello che, nella liberatrice America, giustifica il linciaggio. In Russia, la giustificazione è un’altra – sono trotzkysti! – e la coscienza è a posto. La famosa coscienza di cui tutti gli altoparlanti riempiono le orecchie ai milioni di rincitrulliti in ascolto.