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L’incandescente risveglio delle “genti di colore” nella visione marxista L’esempio del Congo |
La migliore illustrazione dei principii che stanno alla base della prospettiva marxista sulle lotte dei popoli coloniali è senza dubbio offerta dalle vicende lontane e recenti del Congo, di cui ci siamo più volte occupati su queste colonne ma sulle quali uno studio più approfondito, sia politico che economico, dovrà essere condotto nel prossimo avvenire. Diciamo la migliore illustrazione anzitutto perché il Congo è, fra i grandi Paesi dell’Africa nera, quello in cui il moto d’indipendenza coloniale si intreccia nel modo più diretto, e non da oggi, alle lotte di classe proletarie: basti ricordare che il tragico 1960 congolese fu inaugurato da poderosi scioperi nel centro commerciale e amministrativo di Léopoldville, dove già l’anno prima esplosioni analoghe si erano verificate; che una grande ondata di agitazioni schiettamente operaie si ebbe nel 1945, alla fine della seconda carneficina mondiale; e che del remoto 1905-08 sono i più ripugnanti episodi di sfruttamento capitalistico della manodopera indigena ad opera di quel Belgio che nel 1914 commuoverà il mondo democratico con la grancassa – tante volte denunciata dalla sinistra socialista internazionale, da Lenin fino a noi – delle “atrocità tedesche” e che, anche accettando per vere quelle che poi risultarono anche ufficialmente delle panzane, non avrebbe allora subìto per legge di nemesi storica se non una parte infinitesima delle infamie perpetrate dalla classe dominante a danno dei popoli sotto la sua “paterna tutela”.
Questo legame strettissimo fra moto popolare e moto proletario si spiega con la struttura dell’economia congolese, dove, nei gangli vitali, l’agricoltura ha assunto da molto decenni i caratteri della grande monocultura capitalistica nelle piantagioni di gomma, cacao e caffè, e l’industria mineraria e siderurgica, controllata da gigantesche organizzazioni finanziarie internazionali, presenta un’alta concentrazione di mano d’opera salariata, mentre le maggiori città commerciali, come la stessa Léopoldville (che sono nello stesso tempo grandi porti fluviali), contano un’altissima percentuali di proletari e sottoproletari negri, impiegati in lavori pesanti di carico e scarico. Esistevano dunque ed esistono nel Congo le premesse obiettive di quella radicalizzazione del moto popolare indipendentista di cui la III Internazionale, fino al suo 4° Congresso, affidò il compito ai Partiti comunisti metropolitano e indigeno.
D’altra parte, come abbiamo illustrato in precedenti occasioni, i due partiti dominanti, che hanno dietro di sé una lunga storia di attività clandestina e legale, offrivano il quadro tipico delle tensioni interne di tutti i moti popolari africani: mentre l’Abaco, diretto dall’attuale presidente della Repubblica Congolese, Kasavubu, agitava ed agita un programma federalista con netta accentuazione della preminenza della Regione di Léopoldville (già sede del Regno del Basso Congo, in epoche lontane), il Mouvement National Congolais di Lumumba propugnava invece uno Stato unitario e centralizzato in cui le antiche faide di tribù e di popoli fossero superate e disperse. È noto, infatti, che la grande carta in mano al colonialismo imperialista è la “balcanizzazione” del Continente Nero, lo sfruttamento dei contrasti e delle gelosie fra gruppi etnici di diverso livello civile ed economico in nome di una modernissima variante del romano “divide et impera”, dividi e comanda sui divisi.
È ovvio che il destino del Congo resosi ufficialmente indipendente era legato, fra l’altro, alla soluzione di questo dilemma: è al federalismo che la borghesia internazionale guarda come alla finestra che le può permettere di rientrare in possedimenti dalla cui porta è stata costretta ad uscire, e non a caso proprio contro l’anti-federalista Lumumba si sono scatenate tutte le forze interne ed esterne legate all’alta pirateria imperialistica. Approfittandone, il Katanga, manovrato tuttora (per confessione della stessa ONU) dai Belgi che vi possiedono il fior fiore delle aziende minerarie e siderurgiche, si rese subito autonomo, e le Nazioni Unite (e, dietro di loro, gli USA), che pure avevano interesse a una soluzione federalistica, ma non spinta fino agli estremi della secessione, dovettero – dopo un primo tentativo di fare la faccia feroce – accettare il fatto compiuto per non alienarsi del tutto il governo di Bruxelles. Poi, all’interno della Repubblica, cominciò l’offensiva anti-Lumumba con l’aiuto dei Kasavubu e dei Mobutu, e si ebbe quello al quale purtroppo oggi si assiste: la mobilitazione dei secolari contrasti fra tribù nell’interesse del padrone straniero.
Che l’orizzonte politico del MNC e di Lumumba soffrisse delle tare proprie di tutti i movimenti indigeni a sfondo radicale-piccolo borghese è innegabile. Non solo esso non è un orizzonte proletario, ma, da un lato, il suo unitarismo e centralismo – in sé forza d’avanzata, come il federalismo è forza di rinculo – non si estende oltre i confini politici arbitrariamente e innaturalmente imposti al Congo dalla potenza coloniale europea, mentre è condizione di vita dello Stato congolese di rompere la camicia di forza della strozzatura che, quasi secondo “corridoio polacco”, lo congiunge al mare (e da un momento all’altro può essere tagliato e convertito in una porta chiusa), e di saldarsi al moto di altre popolazioni affini già sotto dominio francese e ancora sotto dominio portoghese; dall’altro lato il suo programma era ed è invischiato nell’illusione democratica e pacifista per cui ci si è continuati ad appellare all’ONU quando era chiaro che proprio lì era la sede non di una possibile vittoria, ma di una fatale sconfitta. Gli ultimi avvenimenti – Lumumba prigioniero dei belgi attraverso Tshombé, e il moto pan-africano dei suoi eredi politici – dimostrano insieme che cosa si è perduto attendendo una soluzione dall’ONU e quali potenzialità contenesse e tuttora contenga la rivolta congolese.
Una responsabilità storica
Ma il compito di spingere il movimento lumumbista al di là delle sue posizioni immediate e di travolgere insieme le resistenze centrifughe dell’Abaco e delle tribù più arretrate facendo leva sulla base proletaria del MNC, sull’originaria posizione di forza dell’unitarismo, e sulla decisione di usare i mezzi non-parlamentari delle grandi svolte storiche, presente nelle prime fasi del terremoto congolese nelle grandi masse indigene, questo compito spettava al Partito internazionale del proletariato – se fosse ancora esistito.
Che cosa ha fatto, il Cremlino, che si pretende falsamente erede della tradizione leninista, se non l’opposto di ciò che questa tradizione imponeva? Esso proclama, nella retorica dei discorsi ufficiali, di sostenere Lumumba; ma la decisione di affidare all’ONU il compito di proteggere il trapasso dall’amministrazione belga a quella congolese, con tutto quello che ha voluto dire per la liquidazione dell’ala estrema del moto anticolonialista, reca la firma dei sovietici, e questi non hanno cessato da allora, e senza dubbio non cesseranno in avvenire, di spostare la questione del Congo dal terreno naturale della lotta aperta in territorio indigeno al terreno falso e ingannatore delle assemblee del Palazzo di Cristallo. Nemmeno risulta (in ciò è anche la risposta a quelli che, riducendo la storia a un banale dramma da marionette, esclamano altezzosi: “È un moto non proletario, manovrato dall’imperialismo moscovita”) che abbiano mai fornito ai cosiddetti amici congolesi un aiuto che non fosse ipocritamente verbale e concretamente capitolardo – l’aiuto nel reprimere le velleità di scegliere una strada non democratica, non conciliatrice, non localistica e non legalitaria, della rivoluzione armata.
La grande occasione
Non è difficile immaginare quali potenzialità sarebbero esplose dal seno della rivolta negra del Congo se l’Internazionale Comunista, viva anziché essere stata sciolta, e solidamente trincerata sulle posizioni programmatiche del 1920-23, anziché ridotta a pupazzo diplomatico di uno Stato non più proletario, avesse gettato nella storica battaglia il peso della sua forza estesa a tutto il mondo e accentrata nelle metropoli e nei gangli vitali dell’imperialismo. I confini ristretti dell’orizzonte radicale del MNC sarebbero stati infranti; le giovani forze proletarie nelle campagne, nelle miniere, nei grandi stabilimenti siderurgici, sui docks dei numerosi porti fluviali sarebbero entrate in scena con la decisione e la violenza di cui avevano dato prova – con grande scandalo dei civilissimi bianchi, colpevoli di ben altre violenze e di una secolare ipocrisia fatta per nasconderle – all’inizio del 1960 e prima; e l’incendio si sarebbe potuto estendere non solo ai vicini territori, ma, come dimostrano i fatti del dicembre 1959 e del dicembre 1960 - gennaio 1961 in Belgio, raggiungere col suo alito impetuoso la roccaforte metropolitana dell’affarismo europeo, a Bruxelles, a Liegi, ad Anversa.
È comodo ora, da una parte, sorridere su quella che sembra l’“operetta congolese” mentre è la tragedia di un popolo al quale è mancato l’appoggio e la guida dei proletari della “civile Europa” e del mondo e, dall’altra, gemere sulla sorte di uomini, come Lumumba o chi per lui, che tutti i membri dell’ONU, nessuno escluso, hanno consegnato a uno squallido destino: nel dramma che ora vede imprigionato a opera di federalisti e secessionisti l’uomo in cui si incarnava una possibilità di radicalizzazione del moto congolese, è la conferma che una sola è la strada della liberazione dei popoli di colore, la strada che unisce in un vincolo indissolubile i loro moti a quelli del proletariato metropolitano, e che ha per insegna non il “socialismo in un solo Paese” ma l’Internazionalismo Comunista, non la democrazia ma la violenza di classe, non il pacifismo della coesistenza ma l’aperta dichiarazione di guerra al mondo internazionale borghese.
La partita è per oggi perduta, nel Congo, ma il proletariato indigeno non è morto e la stessa dinamica dell’imperialismo è condannata a ingrossarne le file. Lumumba o altri possono sparire dalla scena con tutti i loro pregiudizi e le loro potenzialità di superarli: ma la rivoluzione non ha mai cessato, scoppiando, di produrre i suoi militanti grandi e piccoli, i suoi capi e gregari. Un uomo può essere messo in catene, soprattutto se, in parte, ha contribuito a forgiarle; ma la storia è più forte di qualunque apparato poliziesco, e la sua vendetta non ha nome né tempo. Verrà giorno in cui i galeotti e i falsi amici dei rivoluzionari negri si ritroveranno insieme, sotto buona guardia proletaria, nella prigione dai triplici muri che, volenti o nolenti, si saranno creata.
Possano i proletari di Léopoldville, Stanleyville, Elisabethville, non restare più soli nella loro eroica battaglia!