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Un’unica via di uscita per il Congo come per tutti i Paesi “arretrati” (Il Programma Comunista, n.1 del 1965) |
Ribadiamo un concetto semplice e chiaro: gli Stati capitalisti e tutte le altre forze politiche della conservazione di est come di ovest o svolgono una politica controrivoluzionaria o agiscono militarmente per soffocare ogni insurrezione di classe ed ogni moto di liberazione nazionale, oppure fanno l’una e l’altra cosa insieme.
Questa maledetta attività, cui solo il comunismo rivoluzionario potrà porre fine, è il logico e necessario prodotto della divisione della società in classi e della esistenza di Stati nazionali. Nessuna propaganda ci convincerà mai che il mondo borghese possa cambiare per divenire meno odioso ed oppressivo. L’ipocrisia di questa società è tale, che il primo comandamento per gli operai è quello di diffidare al massimo grado di ogni parola o gesto dei reggitori dello Stato. Quando poi costoro, con la loro caratteristica improntitudine, osano parlare di umanitarismo e recitare la commedia della civiltà offesa dai “barbari” c’è solo da aspettarsene gli infami e sanguinosi massacri di lavoratori sfruttati e di popoli oppressi. Nessuna fiducia, dunque, ma solo disprezzo e odio di classe, da parte nostra, verso tutta quest’aristocrazia del danaro.
Quanto è avvenuto e sta avvenendo nel Congo è altamente istruttivo. Con la commedia degli “ostaggi” bianchi in mano di guerriglieri congolesi, tutta la canaglia borghese si è gettata anima e corpo o a far strage di negri o a solidarizzare con i massacri di infelici, rei del solo delitto di volersi liberare dallo sfruttamento economico dei maggiori trusts industriali e finanziari dell’occidente, e della schiavitù politica di quegli Stati che, ripetendo ogni giorno la loro professione di fede anticolonialista e la loro volontà di soccorrere i Paesi sottosviluppati e affamati, perpetuano le forme già aggressive e più brutali del colonialismo classico quando le forme “pulite” del neocolonialismo si dimostrano inadeguate a perseguire i loro scopi di rapina. È, lo ripetiamo, l’azione militare che si alterna o si combina all’azione politica controrivoluzionaria. Il capitalismo è nato colonialista, e morirà tale, solo sotto i colpi dei proletari uniti di tutti i Paesi e di tutte le razze, guidati dal Partito comunista rivoluzionario.
Gli ultimi cruenti episodi di violenza armata verificatisi nel Congo non sono che un nuovo anello nella catena di sofferenze che il capitalismo vi ha prodotto dal primo momento che vi è penetrato, e che sono cresciuti a dismisura da quando (1960) gli ha fatto il gran regalo dell’indipendenza, perché da allora, sulla preda già sanguinante, ha conficcato il suo mortale artiglio il leone della giungla capitalista: gli Stati Uniti d’America. Al solito, gli americani si sono serviti della benemerita organizzazione delle Nazioni Unite per far la festa a questo ricco ma impotente Paese. Il pretesto non mancava, e tutti sanno che esso fu offerto dalla secessione del Katanga, voluta dai belgi e dal loro arnese Tshombé. La tanto decantata funzione di pace e ordine dello ONU (e tutti sanno come a quel coro si sia sempre unita la robusta voce dei russi) è stata così sperimentata ancora una volta. E, come se non bastasse, gli USA, con faccia tosta pari solo all’arroganza, pretendono ora che gli altri Paesi membri dell’organizzazione contribuiscano al pagamento delle spese per le operazioni svolte da questo loro strumento e dai “caschi blu” per conto dei loro prevalenti se non esclusivi interessi. Hanno dunque ragione i russi a negare il loro contributo finanziario, ma hanno torto marcio ad invocare a giustificazione soprattutto l’argomento giuridico che l’invio dei caschi blu è stato deciso dall’Assemblea e non dal Consiglio di Sicurezza, che – secondo l’interpretazione della Carta da essi data – sarebbe il solo organo competente a farlo. Notiamo di sfuggita come l’invocare statuti non serva a nulla, e come la democrazia ovunque applicata si risolva nel fare la volontà del più forte.
L’intervento dei parà belgi trasportati da aerei americani e sorretti dall’esercito tshombista composto di formazioni regolari e di mercenari bianchi pagati con dollari USA, fu giustificato con motivi antirazzisti e umanitari. A tutta questa banda di ipocriti e alle loro lacrime di coccodrillo noi ripetiamo ciò che già altre volte abbiamo detto: “Xenofobia? Se lo sfruttamento è straniero, la lotta contro di lui assume per forza colori xenofobi: colpa sua, non degli sfruttati”.
Quanto poi alle “cause” che lor signori pongono a base delle “atrocità” commesse dai “selvaggi”, e cioè l’impreparazione all’autogoverno e l’immaturità politica, non hanno essi riconosciuto a sé medesimi la colpa di tutto ciò smentendo in pieno la vecchia campagna propagandistica secondo la quale la colonizzazione non era fatta a scopi di sfruttamento e di rapina ma solo per portarvi gli inestimabili valori della “civiltà”? Tutte le loro lacrime, dunque, non ci commuovono. Al contrario, i comunisti rivoluzionari si schierano a fianco dei guerriglieri negri del Congo come di tutti i Paesi della Africa, e di tutte le masse di sfruttati di qualunque pelle che lottano contro l’imperialismo colonialista e contro la sua violenza armata.
Per il successo delle aspirazioni a una vera indipendenza e unità congolese, come preludio a future e definitive lotte per il trionfo del socialismo mondiale, auguriamo che le forze politiche dirigenti che fanno capo a Gbenye, a Soumialot, a Kanza, a Mulele abbandonino la strada già percorsa dal loro coraggioso predecessore Lumumba, se non vogliono veder fallire ancora una volta i loro sforzi ed eroismi: che cioè non si illudano di realizzare i loro scopi attraverso pateracchi con partiti al servizio degli interessi del capitale straniero. Con un simile indirizzo non c’è che da attendersi altri sanguinosi trabocchetti.
L’esperienza passata e quella recentissima deve insegnare una volta per sempre non solo a diffidare, ma a moltiplicare i colpi fino ad abbattere il governo fantoccio di Tshombé e a distruggere tutte le forze che lo sostengono. Sappiamo che il compito è terribilmente duro, ma altra via di uscita non c’è se si vuole dare un contenuto reale alla proclamata Repubblica Popolare Congolese (RPC) da sostituire all’attuale Repubblica Democratica Congolese (RDC) di Tshombé.
Senza l’appoggio internazionale del proletariato rivoluzionario sappiamo quanto sia difficile vincere la partita contro avversari tanto potenti e decisi a non lasciarsi sfuggire la preda del profitto estorto agli schiavi salariati delle miniere di rame, di stagno, di uranio, di cobalto e di diamanti, del Congo. Il senso dell’indipendenza concessa a questo Paese, nella mente dei vecchi e nuovi dominatori, è solo quello di creare una forza politica interna che li aiuti a sfruttare ulteriormente le immense ricchezze che vi esistono. La via per ottenere una vera sovranità politica e disporre da padroni assoluti dell’intero prodotto interno non passa dunque certo per il compromesso con i trust stranieri. Seguendo una tale via ci si ridurrebbe al livello della politica servile dei Tshombé, e non si farebbe che dargli ragione.
Il nulla di fatto seguito ai colloqui di agosto fra Gbenye e il ministro degli esteri belga, il “socialista” Spaak, assistito dall’inviato speciale statunitense Devlin, stanno a provare quanto sopra. Altra prova lampante è quella avutasi subito dopo i colloqui che Kanza, ministro degli esteri del governo Gbenye, tenne a Nairobi con Attwood, ambasciatore americano nel Kenya, poco prima della ultima crisi. La risposta fu appunto l’aggressione a mano armata. Questi fatti dimostrano che nessuna soluzione politica del genere piace per ora agli americani, e che questi hanno insistito e insisteranno per la soluzione militare. A loro, poi, essa non costa che l’invio di un po’ di aerei, armi, munizioni e “consiglieri” per addestrare i mercenari raccolti da ogni luogo della terra, e pagati qualche dollaro più dei soldati dell’esercito regolare della R.D.C. di Léopoldville, con la funzione di stimolare l’azione bellica dei “regolari”, o quanto meno di evitarne le diserzioni in massa e il passaggio dalla parte delle forze popolari. È incredibile e paradossale, ma, stando a qualche informatore, l’esercito Tshombista combatterebbe a mò di “sandwich”, ossia con formazioni regolari precedute e seguite da reparti di mercenari meno infedeli. Se ciò è vero, è un nuovo segno del declino del capitalismo.
Stando così le cose, vorremmo farci spiegare dagli strateghi delle Botteghe Oscure come fanno essi a trovare la soluzione del problema congolese. Scrive “Rinascita” n. 48: «La strada dell’indipendenza congolese e della pace in questo Paese grande quanto l’Europa passa attraverso una autentica riconciliazione nazionale e una eliminazione di tutti gli interventi stranieri (…) L’alternativa è una guerra civile che forse non potrà essere vinta militarmente dai guerriglieri ma che aprirebbe un’altra ferita di lama occidentale, nel fianco del terzo mondo e dell’Africa».
Basta riflettere un attimo per notare l’inconsistenza di questa prosa.
Secondo i suddetti strateghi, i moderati (dai quali si dovrebbe forse escludere Tshombé) dovrebbero rappacificarsi con i radicali (Gbenye, Mulele, etc), ricostituire la vecchia unità del movimento, e procedere insieme (senza dire “come”) a eliminare lo straniero. Bello, no? Peccato che questa comoda strategia resti un pio desiderio da gradualisti impenitenti! Quale rivoluzione della storia infatti ha mai cacciato lo straniero in tal maniera? Non è sempre accaduto (come in Francia nel 1789) che per battere la controrivoluzione esterna si è dovuto passare ad abbattere anche, e prima ancora, quella interna, nella quale i moderati si sono sempre rifugiati? Non è sempre accaduto che quando la parte più decisa si è buttata nelle braccia della parte moderata del movimento rivoluzionario, questo (come in Germania nel 1848) ha mancato al suo scopo? Perché allora il terrore sacro dell’“alternativa” della guerra civile? Non vi accorgete, o emeriti opportunisti, che al massimo siete e restate dei semplici “filantropi” e che solo questo vago umanitarismo vi fa inscenare le proteste contro l’arrivo di Tshombé e il fatto – stupore! – che Paolo VI accolga fra le braccia il “fantoccio insanguinato”?
I comunisti rivoluzionari sanno che l’umanitarismo non ha nulla a che vedere con la posizione di classe di un partito. Sanno anzi che sempre, come in questo caso, esso serve solo a mascherare posizioni opportunistiche, caratterizzate da un chiasso inconcludente e demagogico.
Gli operai ricordino che si deve proprio all’abbandono della strategia leninista della saldatura tra rivoluzione proletaria nelle metropoli bianche e movimenti rivoluzionari anticoloniali da parte dei partiti moscoviti (dei partiti “cinesofili” non si può parlare di abbandono di quella via rivoluzionaria perché non vi hanno mai messo piede), se oggi i popoli di colore in rivolta contro l’imperialismo incontrano ostacoli talvolta insuperabili, o superabili solo attraverso sacrifici di sangue infinitamente maggiori.
Abbasso dunque le parole d’ordine di pacificazione lanciate nei Paesi “progrediti” come in quelli sottosviluppati. Per dirla con Lenin, il programma di chi le agita «non è socialista, ma borghese-pacifista».