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Questo articolo è stato scritto all’epoca della Guerra di Corea (1950-53), che oppose la Corea del Sud, sostenuta dalle forze delle Nazioni Unite guidate dal generale americano MacArthur, alla Corea del Nord, sostenuta dalla Repubblica Popolare Cinese e dall’URSS. Si concluse con un accordo che creò due Coree.
La Corea era stata occupata dal Giappone fin dal 1910 ed era quindi fonte di conflitto tra i due vincitori imperialisti del conflitto mondiale, gli USA e l’URSS, che si erano spartiti la Corea.
L’articolo risponde alla domanda: «Una
Russia di oggi che apertamente attaccasse in Oriente le truppe delle metropoli di Occidente, alla testa di Cinesi, Coreani, Indocinesi, Filippini, ed anche di Arabi, Egiziani e Marocchini, sarebbe dunque sulla via maestra della rivoluzione, come Lenin la segnò e l’antevide?».
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Il quadro del conflitto che avanza non può essere presentato senza che ne siano protagonisti i popoli dell’Oriente.
Questi si raggruppano in un blocco potente attorno alla Russia e si levano contro il blocco occidentale, che ha alla testa le grandi potenze coloniali bianche.
Non sono soltanto gli antiatlantici a gridare che questa era la grande prospettiva rivoluzionaria russa fin dal principio: alleanza, con lo Stato dei Soviet, da una parte della classe operaia dei paesi occidentali, dall’altra dei popoli oppressi di colore, per abbattere l’imperialismo capitalista. Sono gli stessi giornalisti della sponda americana che, rievocando la lotta come era impostata trenta anni addietro, rendono omaggio al loro nemico per la potente continuità storica nella sua strategia mondiale.
Nel settembre del 1920, dunque tra il secondo e il terzo Congresso della III Internazionale, ben ferma sulle direttive del marxismo rivoluzionario, si tiene, ricordano quei giornalisti, aBaku il Congresso dei popoli di Oriente. Quasi duemila delegati, dalla Cina all’Egitto, dalla Persia alla Libia.
E’ Zinoviev, che pure non aveva l’allure del guerriero, che legge il manifesto conclusivo dei lavori, è il presidente della Internazionale Proletaria; e alla sua voce gli uomini di colore rispondono con un solo grido levando spade e scimitarre. «L’Internazionale Comunista invita i popoli dell’Oriente a rovesciare colla forza delle armi gli oppressori di Occidente; a tal uopo proclama contro di essi la Guerra santa, e designa l’Inghilterra come primo nemico da affrontare e combattere!». Ma un non diverso grido di guerra è lanciato verso il Giappone, contro il quale si invoca l’insurrezione nazionale dei Coreani, mentre l’odio bolscevico viene nel proclama di Zinoviev dichiarato anche alla Francia e all’America, «ai pescecani statunitensi che hanno bevuto il sangue dei lavoratori delle Filippine» [1].
Benché quindici anni dopo Zinoviev sia stato giustiziato, oggi non si farebbe che tenere fede alla sua sfida, e, a sentire i fogli che citano quel fremente appello, Lenin avrebbe fin da quell’anno intraveduto che la via passava per una acutizzazione della rivalità imperiale tra Giappone e Stati Uniti; avrebbe addirittura offerto ai secondi una base militare nel Kamciatka [2] per colpire i nipponici. Dubitiamo di questo punto storico, ma la prospettiva era esplicita (fin dalle tesi sull’Oriente del IV Congresso mondiale comunista della fine 1922; e qui citiamo di prima mano: «Una nuova guerra mondiale nel Pacifico è inevitabile, se la rivoluzione non la previene [...] la nuova guerra che minaccia il mondo non trascinerà solo Giappone, America ed Inghilterra, ma anche le altre potenze capitalistiche come la Francia e l’Olanda [la lotta nel 1941 ebbe anche a teatro le Indie olandesi, sebbene la metropoli fosse sotto la occupazione tedesca] e tutto lascia prevedere che essa sarà ancora più devastatrice che la guerra 1914-1918».
Una Russia di oggi che apertamente attaccasse in Oriente le truppe delle metropoli di Occidente, alla testa di Cinesi, Coreani, Indocinesi, Filippini, ed anche di Arabi, Egiziani e Marocchini, sarebbe dunque sulla via maestra della rivoluzione, come Lenin la segnò e l’antevide?
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Per il sucido borghese dei nostri paesi, pericolo giallo e pericolo rosso sarebbero una cosa sola, e nessun’altra divinità, oltre il dollaro, potrebbe salvarlo. Ma lo spettro del pericolo giallo è ancora più antico. Nei primi anni del secolo l’Europa si andava polarizzando nei due blocchi nemici che preparavano il primo incendio delle rivalità imperiali. La Russia degli Zar si misurò col Giappone [3], il più progredito dei popoli asiatici proprio per il dominio su quelle stesse acque del Mar Giallo e del Mar del Giappone che insanguina la guerra di oggi, ed il prestigio militare europeo subì un gravissimo attentato. In effetti i gialli di Tokio erano, più dei bianchi di Mosca, avanzati sulla via di un’attrezzatura di tipo capitalistico.
Quel Guglielmo, che fu poi descritto come l’Energumeno scatenatore della prima grande guerra, aveva allora la mania di dipingere; ed un suo quadro mostrò la Germania, in corazza di Walchiria, che convoca i popoli bianchi, e addita loro sul lontano orizzonte la livida luce della minaccia asiatica. Lo schieramento delle potenze non seguì però il vaticinio dell’imperatore imbrattatele: la Germania non ebbe seco che la Turchia, popolo mongolo; Russi, Francesi, Inglesi, Italiani, si gettarono su di lei, e alla grande Intesa aderirono dagli altri continenti non solo l’America, ma perfino il Giappone e la Cina.
Il facile quadro di una contesa tra razze umane, che scendano da opposti continenti a conquistare l’egemonia sul mondo non era dunque completo; ed invano esso ritenta gli scrittori di oggi che addirittura si lasciano andare a vedere una risorta Cartagine che si vendica di Roma, nel diffondersi al mondo mediterraneo di colore del sommovimento nascente da Corea, Tibet, Indocina.
Nella Seconda Guerra Mondiale la Germania, risollevatasi in armi e di nuovo accusata della provocazione, si vede contro, in nome della libertà, tutti i dominatori e gli oppressori delle razze colorate. Al suo fianco non scende che il giallo Giappone. Quanto alla Russia dei Soviet, essa all’inizio non accusa la dichiarazione di guerra contenuta nel “patto anti-comintern” che aveva unito Germania e Giappone. Col secondo non entrerà in guerra che pro forma, e a tumulazione avvenuta.
Colla prima stipula una intesa, il cui contenuto è proprio la pelle di una “nazionalità oppressa”, quella di Polonia. Occorre uno sforzo notevole per vedere gli eventi nello scorcio di quella visione, che un terzo articolista borghese attribuisce a Lenin: fase delle guerre nazionali rivoluzionarie del secolo XIX - poi fase delle guerre di classe rivoluzionarie in Europa e vittoria in Russia - infine la terza fase: al tempo stesso rivoluzioni nazionali in Oriente, di classe nei paesi imperialisti. Occorre uno sforzo ancora maggiore per inserire nella strategia anti-occidentale e anti-metropolitana il secondo periodo della guerra mondiale ultima: tacciono le guerre sante, che Mosca doveva capitanare, e si dà aperta alleanza, e molto più di qualche base, al nemico numero uno della rivoluzione, la Gran Bretagna, e al nemico numero due che in quel torno le toglie il secolare rango: l’America del Nord. Si getta nella fornace, per salvare questi centri imperiali, ed evitare loro di autorecidere i tentacoli con cui tengono avvinto il globo e le sue genti di colore attraverso Suez e Panama, il fiore della gioventù proletaria sovietica, firmando per armarla effetti su effetti di indebitamento al capitale mondiale [4], in affitto e prestito, o peggio ancora in dono.
Oggi che, schiantata la centrale tedesca che non governava su nessun popolo extra-continentale, ma, sola, tentava superare il controllo mondiale unitario del mare e dell’aria, questo rimane incontrastato alle metropoli anglosassoni. Oggi soltanto, si propone alle masse sterminate ma semi inermi dei popoli dell’Oriente di andare al loro attacco, si riproclama la santa guerra e si invoca la selva delle scimitarre contro la spietata minaccia della pioggia di atomiche, si illudono combattenti fanatici ma ignoranti sulla ritirata ruffiana e traditrice, smascherata dalla stessa stampa inglese, delle divisioni motorizzate e degli stormi aerei dinanzi a pugni di uomini che avanzano a piedi.
Qualche cosa di fondamentale, in tutto questo, non va.
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Un uomo piccolo dai corti baffi biondi, dalla calma voce e dagli occhi luminosi e limpidi legge dalla tribuna del Kremlino le sue tesi sulla questione nazionale e coloniale, e la risolve in nuova chiarezza tra l’ammirazione dei rappresentanti del proletariato e del marxismo nel mondo. Sì, la Seconda Internazionale non aveva capito nulla di questo, aveva condannato l’imperialismo, ma poi era caduta nelle sue spire per non avere inteso che contro di esso bisognava mobilitare tutte le forze: nella madre patria il disfattismo della insurrezione sociale, nelle colonie e nei paesi semi-coloniali anche la rivolta nazionale. Era caduta nell’inganno della difesa della patria, i suoi capi traditori avevano mangiato nel piatto dell’imperialismo, invitando i lavoratori della grande industria ad accettare qualche briciola del feroce sfruttamento su milioni di uomini di oltremare.
Oggi noi, Internazionale Comunista, noi, Russia dei Soviet, noi, partiti comunisti che in tutte le nazioni progredite tendiamo alla conquista del potere, in guerra dichiarata alla borghesia e ai suoi servitori socialdemocratici, stipuliamo nei paesi di Oriente una alleanza tra il giovanissimo movimento operaio, i nascenti partiti comunisti e i movimenti rivoluzionari che tendono a cacciare gli oppressori imperialisti. Abbiamo in una discussione, alla luce della nostra dottrina, stabilito di non parlare di movimenti democratici borghesi, ma di movimenti nazionalisti rivoluzionari, poiché non possiamo ammettere alleanze colla classe borghese ma solo con movimenti che stiano sul terreno della insurrezione armata.
La parola borghese era troppo forte, ma quella nazionalista lo era altrettanto: vecchi socialisti come Serrati e Graziadei mostrarono, ingenuo l’uno, sottile l’altro, le loro perplessità.
L’analisi di Lenin proseguiva tranquilla, senza perplessità di sorta. Le tesi contengono i suoi dati inequivocabili. Occorre anzitutto «una nozione chiara delle circostanze storiche ed economiche». Senza tale guida fondamentale non si capirebbe nulla del metodo marxista, che non soffre regole ideologiche buone per tutti i tempi. Io, diceva Serrati, ho dovuto lottare sei anni contro l’infatuazione nazionalista per Trieste che doveva essere liberata dai Tedeschi, infatuazione che si diceva rivoluzionaria. Come posso plaudire al nazional-rivoluzionario malese [5]? Ma, storicamente pensando, una lotta nazionale a Trieste nella situazione del 1848 avrebbe avuto l’appoggio proletario perché era rivoluzionaria, in mezzo a una Europa che doveva uscire dalle svolte della rivoluzione antifeudale: così per le leniniste guerre nazionali progressive in Europa, fino al 1870. Alla data 1914 le guerre sono imperialiste e reazionarie, poco importa che abbiano per teatro la stessa frontiera, per bandiera la stessa ideologia, è lo stadio di sviluppo sociale che a noi marxisti interessa.
In quali circostanze storiche ed economiche parlava Lenin al Kremlino, Zinoviev pochi mesi dopo a Baku? Le tesi lo scolpiscono.
«Il fine essenziale del partito comunista è la lotta contro la democrazia borghese, di cui si tratta di smascherare l’ipocrisia». Questa ipocrisia copre la realtà della oppressione sociale nel mondo borghese tra padrone ed operaio, e la realtà della oppressione dei grandi e pochi Stati imperiali sulle colonie e semicolonie. Per stabilire la nostra strategia in Oriente, le tesi di Lenin ribadiscono una serie di capisaldi. «Dobbiamo por fine alle illusioni nazionali della piccola borghesia sulla possibilità di una pacifica convivenza e di una eguaglianza tra le nazioni sotto il regime capitalista». «Senza la nostra vittoria sul capitalismo non possono essere abolite né le oppressioni nazionali né l’ineguaglianza sociale». «La congiuntura politica mondiale attuale [1920] mette all’ordine del giorno la dittatura del proletariato; e tutti gli avvenimenti della politica internazionale convergono inevitabilmente intorno a questo centro di gravità: la lotta della borghesia internazionale contro la repubblica dei Soviet, che deve raggruppare attorno a sé, da una parte tutti i movimenti di classe dei lavoratori avanzati in tutti i paesi, dall’altra quelli emancipatori nazionali nelle colonie e nazioni oppresse». Nel compito della Internazionale Comunista va tenuto conto «della tendenza alla realizzazione di un piano economico mondiale la cui applicazione regolare sarebbe controllata dal proletariato vincitore di tutti i paesi».
Altri punti fondamentali stanno a base della tattica “orientale”. Non potrebbero essere più rassicuranti. «Diventa attuale il problema della trasformazione della dittatura proletaria nazionale (che esiste in un solo paese e non può perciò esercitare una influenza decisiva sulla politica mondiale) in dittatura proletaria internazionale (quale realizzerebbero almeno diversi paesi avanzati, capaci di influire in modo decisivo sulla politica mondiale)». E soprattutto: «L’Internazionalismo operaio esige la subordinazione degli interessi della lotta proletaria in un paese agli interessi di questa lotta nel mondo intiero, e, da parte delle nazioni che hanno vinta la borghesia, il consenso ai massimi sacrifici nazionali in vista del rovesciamento del capitale internazionale».
Tutto questo essendo ben saldo, e salda la fiducia nella lotta rivoluzionaria anticapitalista in tutti i paesi borghesi, anche i più radicali tra i marxisti europei di sinistra gridarono il loro consenso alle conclusioni delle tesi, ed alla ferrea dialettica dell’oratore.
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Si può su tali basi sistemare, con modo più autentico di quelle che conviene alla grande stampa, l’inquadramento storico di Lenin.
Il modo di vita delle associazioni umane nei lunghi millenni non rende direttamente dipendenti i popoli dei vari paesi, che talvolta non si incontrano e nemmeno si conoscono. Ma quando l’era del capitalismo si inizia, già i metodi di produzione e di comunicazione hanno legate tutte le parti della terra. La rivoluzione politica contro i poteri feudali balza violentemente da un capo all’altro di Europa; non vi sono più storie nazionali ma una storia sola, almeno di tutta la parte atlantica del continente. La classe dei proletari appare sulla scena storica e combatte con la borghesia nelle sue rivoluzioni, partecipa ad un fronte unico per le conquiste liberali e nazionali, ed offre ai nuovi padroni della società le truppe irregolari delle insurrezioni e quelle regolari delle grandi guerre di sistemazione nazionale. E’ un fatto storico, e lo stesso Manifesto del 1848 ne fa ancora una norma strategica per dati paesi e popoli, come quelli ancora oppressi da Austria e Russia.
Non è il caso di coprire il fatto che azione nazionale vuol dire blocco delle classi: in quella fase, capitalisti ed operai contro i feudatari.
Per tutto il campo europeo, il marxismo chiude questa fase al 1870. Nella Comune di Parigi, come del resto aveva tentato nel ’48, la classe operaia denunzia il blocco nazionale, lotta da sola e prende il potere, per tempo sufficiente a mostrare che la forma di esso è la dittatura.
Da allora, chi nel campo europeo invoca ancora blocchi nazionali tra le classi, è traditore: la Terza Internazionale, la Rivoluzione Russa, il leninismo liquidano per sempre tale partita: nella teoria, nella organizzazione, nella lotta armata.
In Oriente i regimi sono ancora feudali. Quale sarà lo sviluppo? Le potenze coloniali hanno portato i prodotti della loro industria, ed in pochi casi gli stessi impianti, ai margini costieri; lo stesso artigianato locale decade ed i suoi elementi si versano nell’interno, nel lavoro agricolo: un contadiname miserrimo soggiace allo sfruttamento diretto dei signorotti indigeni e indiretto del capitale mondiale. Ove una locale borghesia industriale e commerciale sorge, essa è legata a quella straniera e ne dipende. Mal si delinea un blocco contro gli stranieri; solo in certi paesi (vedi il Marocco) vi accedono gli stessi capi feudali e il gran possesso terriero; in genere la spinta viene dai contadini, dai pochi operai; e ad essi si unisce, come in Europa nell’epoca romantica, la categoria degli intellettuali, divisi tra la xenofobia tradizionalista e le suggestioni della scienza e della tecnica bianca. Questa massa informe insorge; il suo moto crea difficoltà gravi alla classe capitalistica europea: essa ha due nemici: il popolo delle colonie, il proletariato di casa.
Come pensiamo che da un sistema di economia sociale di Oriente si arrivi al socialismo? Occorre, come in Europa, attendere una rivoluzione borghese coi suoi moti nazionali appoggiata dalle masse lavoratrici e povere, e solo dopo, lo stabilirsi di una lotta di classe locale, del movimento operaio, della lotta per il potere e i Soviet? Con una tale strada la rivoluzione proletaria mondiale coprirebbe secoli e secoli.
In modo più o meno chiaro, i delegati di Oriente nel 1922 dissero di no, che per il capitalismo con le sue infamie, oramai non più mascherate da parate popolari e nazionaliste, non volevano passare, ma affiancarsi alla rivoluzione mondiale delle classi operaie nei paesi capitalisti, ed attuare anche nei loro paesi la dittatura delle masse non abbienti e il sistema dei Soviet.
I marxisti occidentali accettarono il piano. Esso significa che ove in Oriente scoppia la lotta contro il locale regime feudale agrario o teocratico, e al tempo stesso contro le metropoli coloniali, i comunisti locali e internazionali entrano nella lotta e la appoggiano. Non per darsi come postulato un regime democratico borghese, autonomo e locale, bensì per scatenare la rivoluzione permanente, che si fermerà alla dittatura sovietista. Marx ed Engels, ricordò Zinoviev, allargando le braccia davanti alla sorpresa di Serrati, l’hanno sempre detto: lo dissero per la Germania del 1848!
Ed allora la serie dei tre periodi si pone così: appoggio alle insurrezioni nazionali nelle metropoli, fino al 1870. Lotta insurrezionale di classe nelle metropoli, 1871-1917: una sola vittoria, in Russia. Lotta di classe nelle metropoli e insurrezioni nazional-popolari nelle colonie con la Russia rivoluzionaria al centro, in una unica strategia mondiale che si fermi solo al rovesciamento OVUNQUE del potere capitalistico, al tempo di Lenin.
Il problema economico sociale, in una simile prospettiva, veniva superato dalla garanzia contenuta nel «piano economico mondiale unitario». Il proletariato, padrone in Occidente del potere e dei mezzi moderni di produzione, ne fa partecipe l’economia dei paesi arretrati con un “piano” che, come quello cui già tende il capitalismo di oggi, è unitario, ma a differenza di quello non vuole conquiste, oppressione, sterminio e sfruttamento.
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La prospettiva della terza guerra mondiale oggi possibile NON É QUESTA.
Anzitutto è stato gettato via il concetto di interdipendenza mondiale delle lotte, come dottrina, come strategia, come organizzazione. Il Presidium della Internazionale Comunista, violando le facoltà statutarie, si è arbitrato il 15 maggio 1943 a discioglierne la organizzazione, pretendendo che la decisione internazionale dei problemi di un singolo paese non è più possibile, essendo mutata la situazione del 1920, e ogni partito nazionale deve essere autonomo. Nella motivazione è approvato il distacco del partito comunista degli Stati Uniti nel novembre 1940! Ma questo era avvenuto di fronte alla spartizione della Polonia con Hitler! E’ poi detto che la rottura del vincolo mondiale è necessaria perché, mentre i partiti nei paesi hitleriani devono fare lotta disfattista, quelli nei paesi avversi devono lavorare per il blocco nazionale: le parole ufficiali sono: «appoggiare con ogni forza lo sforzo di guerra dei governi».
La grande via, la grande prospettiva di Lenin è dunque caduta, se nel campo occidentale, e non più in una colonia o semi-colonia, si fa blocco, non con gruppi nazionalisti insorti contro un governo di casa o di fuori, ma col governo costituito, borghese, capitalista, imperiale, possessore delle colonie di oltremare. Caduta e capovolta è la formula della alleanza di allora, che era di chiarezza cristallina: lega fra tutti i nemici dei grandi poteri capitalisti di Occidente.
La storia non è mai semplice e facile a decifrare, e lo schieramento degli Stati, oggi che la consegna cambia di nuovo, ed è di dirompere (come si faceva con Hitler) la forza interna dei governi guerrafondai di America ed Europa, riescirà più o meno complicato, come alla vigilia delle altre due guerre.
Intanto la decisione sul doppio compito dei partiti nei vari Stati viene sempre da quel presidio del Kremlino, che osò autodisciogliersi.
Ma non abbiamo più, come nel programma di Lenin, quale traguardo della alleanza di classi oppresse e popoli oppressi, la caduta del capitalismo in America e in Inghilterra. Manca così ogni via alla «dittatura proletaria internazionale» ed ogni possibilità di quel «piano di economia proletaria mondiale» che sola scioglieva il problema di “saltare” il regime borghese in Cina, e non crearlo a benefizio dei Chiang Kai-shek di ieri, dei Mao-Tsè di domani (o dei Tito di oggi). A tutto si è rinunziato, poi che si oppone alla via maestra quella tortuosa che ammette la “pacifica convivenza” sotto il regime capitalista; perché non si subordina più l’interesse di una prima nazione proletaria a quello della vittoria nei paesi più avanzati, e si negano i “sacrifici nazionali”, da Lenin richiesti e promessi, per far luogo ad un comune egoismo nazionale e statale.
A questi patti, come era basso opportunismo, perfettamente analogo a quello della Seconda Internazionale che volle nel 1914 i blocchi nazionali, l’appoggio totale ai governi in guerra della alleanza anti-germanica, così, distrutte e rinnegate tutte le garanzie leniniste, lo è divenuta la alleanza nazionale nei paesi di Oriente, e il “blocco delle quattro classi” che abbraccia borghesi locali di industria e di commercio, e impegna ad essi un lungo avvenire di esercizio economico capitalistico. L’appoggio di guerra ad un regime di Mao-Tsè è tanto reazionario quanto lo è stato quello al regime di Roosevelt, e quanto lo fu - al tempo di Lenin - l’appoggio in guerra all’impero kaiserista o alla repubblica francese.
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La sinistra marxista in tempo ammonì che la grande linea della prospettiva storica della classe rivoluzionaria non muta, da quando essa per effetto di nuove forze produttive appare nella società, fin quando non perviene alla definitiva dispersione dei rapporti di produzione antichi.
Ma la maggioranza della classe operaia sembra oggi seguire la scuola che pretende mutare le grandi prospettive, sotto pretesto che lo studio di situazioni ed esperienze nuove lo esiga. Non diversamente si difese il revisioniamo della fine dell’altro secolo, assumendo che le forme pacifiche dello sviluppo borghese suggerissero di fare gettito del mezzo della lotta armata e della dittatura, che Marx preconizzava.
Tutto potrebbe avere insegnato il trentennio che ha seguito la scomparsa di Lenin, fuor che la interdipendenza mondiale, e degli Stati costituiti, e delle economie sociali, sia rallentata. Se così fosse, come avrebbero i governanti russi abbracciata ed impegnata a Yalta, a Potsdam, la modernissima politica di guerra; che ha voluto sulla scena mondiale il vinto annientato e distrutto, sotto la vera dittatura internazionale del blocco vincitore? Che ha elevato l’inganno, più grandioso di quello della Lega wilsoniana 1918, della Organizzazione delle Nazioni, nel cui palagio, mentre sui campi di Corea scorre il sangue, scorre lo spumante nei calici dei brindisi cui partecipano con tranquillo sorriso gli avversari delle nuove guerre sante?
Non ha dunque alcun senso proporre alla classe operaia una prospettiva che la chiuda nel breve ambito di problemi nazionali.
La teoria che baratta il piano socialista mondiale con il socialismo in un solo paese, che sostiene possibile la convivenza non solo di ipotetici Stati proletari con gli Stati della borghesia, ma anche solo di opposti centri di potere militare costituito, prima che il capitalismo mondiale sia vinto, questa teoria non è nulla di diverso da quella «piccolo-borghese sull’uguaglianza giuridica delle nazioni in regime capitalistico” bollata nelle tesi 1920 di Lenin; nulla di mutato da programmi della Lega per la Pace e la Libertà dei Mazzini, dei Kossuth, bollata in quelle 1864 di Marx.
Poiché al piano unitario mondiale di potenza meno che mai oggi rinunzia il Capitale, e muove a ribadire le catene sulla classe operaia di tutti i paesi “prosperi” e poveri, e la soggezione degli Stati minori e delle immense masse coloniali, ogni teoria di convivenza ed ogni grande agitazione mondiale di pace, vale complicità con quel piano di affamamento e di oppressione.
Ogni tentativo di una guerra santa come appello alla difesa da un assalto che voglia turbare quell’impossibile equilibrio, fatto dopo le rinunzie di decenni e decenni alla richiesta suprema di distruggere dalle fondamenta i centri imperialisti, non può avere come contenuto reale che la immolazione degli sforzi di partigiani e di ribelli ai fini di imperialismi, che li sfrutteranno non diversamente da quello americano, presentato nel 1943 tra i campioni della libertà del mondo.
Ma la maggioranza della classe operaia mondiale, tuttavia, cade oggi nell’inganno della campagna per la Pace, e forse domani cadrebbe in quello di una nuova e vana immolazione partigiana; non ritorna alla sua prospettiva autonoma rivoluzionaria, come dopo il 1918 seppe tornarvi.
Forse occorre attendere l’altro Lenin, ed era Lenin, come sfuggì detto in un momento di lirismo al freddo Zinoviev, “l’homme qui vient tous les cinq-cents ans”?
Cinquecento anni, oggi che le grosse riviste traggono luce per il pubblico non meno grosso da cicli tanto brevi, come quello di Ike da “mediano di mischia” a generalissimo atlantico, o quelli di cambio della guardia nelle alcove dei capi politici?
Il cammino del comunismo, che non si chiude nel ciclo della vita di uomini e nemmeno di generazioni, non avrà bisogno di tanto, perché alla politica del blocco occidentale antifascista e antitedesco di ieri, a quella del blocco orientale di oggi, sedicente anticapitalista, che persegue non più la repubblica socialista mondiale, ma una democrazia nazionale e popolare, più mentita di quella bandita da Washington, sia data la stessa definizione che dette Lenin al socialnazionalismo del 1914: tradimento. E sia data da una ricostituita unità di organamento e di lotta degli sfruttati e degli oppressi di tutti i paesi.
E fino a tanto, non v’è pace che sia desiderabile, non v’è guerra che non sia infame.
[1] La prima citazione è nel discorso di Zinoviev alla prima seduta; il discorso contro l’oppressione americana sulle Filippine è invece di John Reed.
[2] La Kamchatka è una penisola vulcanica lunga 1.380 km nell’Estremo Oriente russo, che si protende nell’Oceano Pacifico.
[3] Si tratta della guerra russo-giapponese del 1904-1905, segnata dal disastro della flotta russa a Port Arthur e dalla sconfitta della Russia zarista.
[4] Gli Stati Uniti concessero un prestito alla Russia per finanziare le forniture di armi americane durante la Seconda guerra mondiale.
[5] Un’insurrezione guidata dal Partito Comunista Malese scoppiò nel 1948 in Malesia, allora colonia britannica. Seguirono dieci anni di guerriglia per sedare la ribellione.