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L’anticolonialismo e noi (Il Programma Comunista, N° 25 e 26 del 1956) |
È dalla fine della seconda guerra mondiale che si discute sul colonialismo. La crisi di Suez ha costretto persino il governo americano a prendere posizione, sul terreno dei principii prima che su quello della politica internazionale. Già prima che la vertenza per il Canale sfociasse nella abortita spedizione anglo-francese, alla fine della scorsa estate, Foster Dulles espose il “credo” anticolonialista degli U.S.A. L’avere al fianco i banchieri di Wall Street e i generali del Pentagono innervosisce la stampa russo-comunista, per la quale il santuario dell’anticolonialismo non può essere che l’URSS. Ma le reiterate votazioni all’ONU di mozioni di censura contro Inghilterra e Francia sul banco degli accusati hanno offerto l’edificante spettacolo di americani e russi fraternamente uniti contro i rappresentanti del colonialismo della vecchia Europa.
Dunque, l’America, la suprema roccaforte della conservazione capitalista, il gendarme atomico della controrivoluzione, è anch’essa un baluardo dell’anticolonialismo? La stampa russo-comunista mal digerisce il repentino, ma non imprevisto, capovolgimento di fronte operato dagli americani, i quali, scacciando gli anglo-francesi da Porto Said, hanno strappato alla diplomazia russa il monopolio del filo-arabismo. Meno che mai essa acconsentirebbe a rispondere affermativamente a tale quesito. Noi, invece, non abbiamo difficoltà a farlo. Gli Stati Uniti, la super-potenza dello imperialismo, non fingono di essere, ma sono effettivamente nemici del colonialismo storico. Finché l'anticolonialismo americano era soltanto predicato per bocca di Foster Dulles si poteva avere qualche dubbio in proposito; non più quando accade che gli Stati Uniti, prendendo alla gola i governi di Londra e Parigi, li obbligano a vomitare le residue influenze di cui godevano nel Medio Oriente. Gli Stati Uniti anticolonialisti non sono un paradosso. Quello che la stampa orchestrata da Mosca non dice è che si può essere borghesi e fautori dell’indipendenza dei popoli coloniali, imperialisti e anticolonialisti, allo stesso modo che non basta abbracciare le ideologie anticolonialistiche sbandierate dai Paesi di Bandung per essere marxisti.
Sul piano ideologico, l’anticolonialismo è la versione negativa del nazionalismo borghese, è l’ideologia di classe delle borghesie che lottano per la conquista dello Stato nazionale nelle condizioni determinate dall’occupazione del territorio da parte di potenze d’oltremare. La formula sociale delle rivoluzioni anticoloniali è la stessa delle rivoluzioni democratiche d’Europa: allo stesso modo la loro ideologia anticolonialista non è che il vecchio principio nazionale propugnato dai filosofi e dagli agitatori delle rivoluzioni borghesi degli ultimi due secoli. Il suo carattere particolare è determinato dalla necessità di adattarsi a condizioni storiche in cui arcaici rapporti sociali, propri del feudalesimo o addirittura del pre-feudalesimo, si appoggiano alle forze di conservazione rappresentate da apparati burocratici e militari di potenze straniere. Carattere particolare, non originale. Infatti, la ideologia anticolonialista dei nuovi Stati afro-asiatici e dei movimenti insurrezionali delle colonie è agevolmente assimilabile, sempre sul piano dei principii generali, alle ideologie rivoluzionarie delle borghesie che in altri tempi dovettero lottare con le armi per enucleare la Stato nazionale dal corpo di imperi plurinazionali.
Comunque la si consideri, la critica all’imperialismo imbastita dai movimenti rivoluzionari afro-asiatici giunge a risultati diametralmente opposti a quelli cui perviene la critica marxista dell’imperialismo. Più in là del principio della sovranità nazionale e della non-ingerenza negli affari dello Stato, essa non arriva. Ma a tal punto erano già approdati gli ideologhi della rivoluzione borghese di Europa e di America.
Sul piano storico, il colonialismo è un rivolgimento politico e sociale che segna l’incontro fra gli interessi delle borghesie ex coloniali e gli interessi della grande produzione capitalista, la quale tende permanentemente ad allargare il mercato mondiale. In quanto tale, esso favorisce e non ostacola la conservazione dell’imperialismo. Il colonialismo, cioè l’inserimento nella sfera di produzione capitalista di territori e forze produttive di oltremare, rappresentò, negli ultimi decenni dello scorso secolo, un potente fattore di sviluppo del capitalismo monopolista determinando nelle metropoli la polarizzazione del potenziale economico-produttivo e politico, e quindi permettendo la formazione di mostri statali, baluardi della conservazione capitalista.
Ma, a mano a mano che la vecchia Europa colonialista perdeva il primato industriale e militare, i grandi imperi coloniali divenivano un intralcio allo sviluppo delle forze produttive capitaliste. La concentrazione del capitale raggiungeva livelli altissimi in Paesi (Stati Uniti, Germania, Giappone e, finalmente, Russia stalinista) che non possedevano imperi coloniali, e ben presto i nuovi arrivati eguagliarono, e infine superarono, le vecchie potenze coloniali: Inghilterra, Francia, Olanda, Portogallo, Belgio. Si creava così una situazione storica contraddittoria: da una parte, agguerriti potenziali industriali tendenzialmente capaci di espansione illimitata e, dall’altra, potenze economicamente in declino che disponevano di enormi spazi geografici e sociali ma erano incapaci di trasformarli in mercato capitalista. In altre parole, la perpetuazione del colonialismo storico accresceva le contraddizioni interne della sfera di produzione capitalista del pianeta, mentre accumulava un non meno pericoloso esplosivo rivoluzionario entro le vecchie strutture feudali o semifeudali sopravviventi nelle colonie. Acutizzava i morbi della iper-produzione capitalista, non alleviava quelli della ipo-produzione precapitalista.
Le successive guerre mondiali hanno corretto il profondo squilibrio. Ciò è avvenuto a tutto vantaggio della conservazione borghese, checché ne dica la stampa russo-comunista che da anni va presentando le rivoluzioni anticoloniali come un surrogato delle rivoluzioni proletarie. Gli enormi blocchi imperiali – si pensi che il Commonwealth britannico conteneva ¼ della superficie delle terre emerse e quasi ¼ della popolazione mondiale – andavano a pezzi. Immensi aggregati sociali, tenuti chiusi in rigide barriere protezioniste, si sezionavano secondo linee di divisione etniche e nazionali, dando vita agli Stati di India, Pakistan, Birmania, Ceylon, Indonesia, Vietnam, Egitto, Sudan, Tunisia, Marocco.
Secondo le interpretazioni del falso comunismo moscovita, questi Stati, sorgendo, hanno inferto gravissimi colpi all’imperialismo. Ciò è vero solo se si considera un aspetto particolare dell’imperialismo: il colonialismo storico dell’Inghilterra, della Francia, dell’Olanda. Invece, dal punto di vista dell’interesse generale del capitalismo, ogni movimento indipendentista afro-asiatico pervenuto alla vittoria ha spezzato uno dei lacci che minacciavano di strangolare la produzione capitalista, cioè la sfera della produzione mondiale che soggiace alle leggi economiche del capitalismo. Con l’affacciarsi alla storia dei nuovi Stati nazionali, il mercato mondiale capitalista si è virtualmente allargato, sono saltati gli argini che si opponevano all’inondazione di merci eruttate dalle macchine produttive dei Paesi di compiuto capitalismo.
Gli anni venturi mostreranno come la scomparsa del colonialismo storico abbia rappresentato una iniezione corroborante nel decadente capitalismo occidentale. Già disponiamo dell’esempio del Medio Oriente. Tutti possono vedere come la ritirata dell’influenza delle vecchie potenze imperialistiche dalla Regione (ultimo avvenimento la denuncia del Trattato anglo-giordano da parte della Giordania) abbia permesso al capitale americano di investirsi nella produzione di petrolio col risultato che gli indici produttivi dei pozzi sono saliti a livelli mai raggiunti. Se si pensa che l’economia dell’Europa occidentale è subordinata ai rifornimenti di prodotti petroliferi del Medio Oriente, si comprende come agli interessi generali della conservazione borghese giovi la sostituzione del capitale americano a quello anglo-francese nel Medio Oriente, visto che Inghilterra e Francia non dispongono della potenza finanziaria necessaria alla gestione dei pozzi petroliferi.
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L’anticolonialismo come lo vediamo noi
Nella precedente puntata, si è mostrato come i regimi anticolonialisti afro-asiatici siano, economicamente e socialmente, borghesi, e che la loro rivoluzione non ha superato – né poteva superare – i limiti della democrazia e dei suoi derivati ideologici.
Sul piano politico, l’anticolonialismo si schiera sulle abusate posizioni del neutralismo. In un mondo dominato dai grandi blocchi militari, i Paesi aderenti alla Conferenza di Bandung pretendono di fungere come una immensa Svizzera, “equidistante” dagli imperialismi di Oriente e di Occidente. Le proclamazioni di principio però male si conciliano con la realtà. I Paesi afro-asiatici assurti al rango di Stati nazionali, malgrado la comune sbandierata origine anticolonialista, non costituiscono un blocco. Esiste difatti un nazionalismo pan-cinese, un nazionalismo pan-arabo, un nazionalismo pan-indiano.
Esistono già “zone di influenza” nell’ambito dei “neutrali” che hanno firmato i “cinque punti” di Bandung. Lo sta a dimostrare, ad esempio, il sostanziale accordo cui sono pervenuti, pur in assenza di espliciti strumenti diplomatici, India e Cina, le quali si sono spartite i diritti di influenza sui piccoli Stati himalayani. Nel regno del Nepal, situato alla frontiera nord-orientale dell’India, supremo regolatore della politica interna ed estera è il governo di Nuova Delhi che è più volte intervenuto sia attraverso i suoi consiglieri economici, sia attraverso le sue truppe. Il Butan, piccolo principato di 300.000 abitanti, è un protettorato dell’India, la quale ne cura gli affari esteri ed economici, ricopiando in maniera curiosa i principii che l’Inghilterra colonialista tuttora segue in Malesia e altrove. Riguardo poi al Sikkim, staterello formalmente sovrano che è abitato da 130.000 indù, il nazionalismo pan-indiano di Nehru non va per il sottile: il territorio è militarmente occupato dalle truppe indiane. Orbene, non è successo a caso che l’opposizione indiana alla annessione cinese del Tibet si sia stemperata, e quindi dileguata, a mano a mano che il governo di Nuova Delhi riusciva ad imporre agli staterelli himalayani un assetto pro-indiano. A dirla in breve, India e Cina, i due colossi del neutralismo, non tollerano che esistano ai loro confini Stati neutrali: preferiscono accordarsi per spartirsene il controllo.
Altro discorso meriterebbero i dissensi nazionalistici che dividono India e Pakistan per il Kashmir, Afghanistan e Pakistan per il Pashtunistan e soprattutto i violenti e inconciliabili contrasti che dividono il cosiddetto mondo arabo. Tale argomento l’abbiamo svolto largamente in precedenti articoli. Basterà dire che il “mondo arabo” risulta diviso, a volere ignorare i dissensi di secondaria importanza, in tre grandi costruzioni statali e interstatuali: l’impero sceriffiano del Marocco, che tende ad una federazione degli Stati arabi dell’Africa settentrionale, il Patto di Bagdad, che in origine era un’alleanza turco-irakena ma che in seguito ha assorbito il Pakistan e l’Iran e ricevuto l’adesione dell’Inghilterra, e finalmente l’Alleanza tra Egitto-Arabia Saudita, Siria e Yemen cui ultimamente si è aggiunta la Giordania.
Il preteso “blocco” dei Paesi di Bandung, anche se per ipotesi fosse privo di contraddizioni interne, neppure potrebbe appartarsi dalla grande lotta a raggio mondiale che oppone le coalizioni militari della Nato e del Trattato di Varsavia. Non lo potrebbe, perché l’industrializzazione, verso cui tendono i Paesi afro-asiatici, è condizionata dall’aiuto finanziario e tecnico dei Paesi capitalisticamente progrediti. Nelle condizioni storiche attuali il “neutralismo” afro-asiatico si riduce poi a vuota ideologia che non ha riferimenti tangibili con l’operato degli Stati che lo sbandierano. E basterebbe considerare la crisi di Suez all’indomani del fallito attacco anglo-francese all’Egitto. Si è parlato del peso parlamentare che hanno avuto i voti degli afro-asiatici nelle votazioni dell’ONU a favore dell’Egitto. Tutti sanno, invece, che a piegare Inghilterra e Francia sono state le minacciate sanzioni economiche degli Stati Uniti i quali, per il taglio del flusso di petrolio mediorientale determinato dall’occlusione del Canale di Suez, sono diventati gli unici fornitori di idrocarburi dell’Europa, e quindi gli arbitri assoluti della industria e dei trasporti del vecchio Continente.
In ultima analisi, il neutralismo politico dei Paesi afro-asiatici, ad onta delle frange retoriche, serve a mascherare il rifiuto di privarsi dei vantaggi del doppio gioco nei confronti della politica dei Centri mondiali dell’imperialismo. Esso corrisponde alle necessità in cui si trovano i governi afro-asiatici. Questi non possono sperare di mandare avanti i loro piani di industrializzazione senza ricorrere alle sovvenzioni e ai prestiti degli Stati di sviluppato capitalismo, e quindi senza dipendere economicamente da essi. Ma nello stesso tempo non possono abbandonare la programmatica opposizione all’imperialismo. Se lo facessero, perderebbero l’appoggio delle masse che nel passato hanno combattuto per scacciare gli occupanti colonialisti e che oggi costituiscono il nerbo delle forze rivoluzionarie che lottano per la soppressione dei vecchi rapporti feudali. In tali condizioni il neutralismo formale rappresenta una indispensabile garanzia contro la disintegrazione dello Stato.
L’errore degli indifferentisti
La concezione che abbiamo dell’anticolonialismo non ci impedisce di considerare alla stregua di avvenimenti storici positivi e di autentiche rivoluzioni i movimenti per la formazione degli Stati nazionali dalle rovine degli imperi coloniali. Tali movimenti assicurano il passaggio dal feudalesimo, in ogni caso dal precapitalismo, al moderno modo di produzione industriale, quindi operano una rivoluzione sociale. Il partito del comunismo rivoluzionario non può che appoggiare la Rivoluzione ovunque essa sorga, purché esso sappia discernere il vero dal falso, cioè il volgare riformismo dal sovvertimento dei rapporti sociali esistenti.
Esistono, tuttavia, gruppi di persone che si definiscono marxisti rivoluzionari, i quali assumono posizioni di indifferenza verso gli avvenimenti che accadono negli imperi coloniali e negli Stati che si sono formati dalla loro dissoluzione. Essi ragionano press’a poco così: “Corea, Indocina, Algeria, Marocco, Canale di Suez sono altrettante rogne del mondo borghese che i borghesi dovranno grattarsi. Non siamo così fessi da lasciarci prendere al laccio della solidarietà dei popoli di colore per fare il gioco ora degli americani, ora dei russi”.
In sostanza, tale modo di vedere nega che il movimento anticolonialista svolga una funzione rivoluzionaria, anzi riduce il fatto della formazione degli Stati nazionali afro-asiatici a una conseguenza delle competizioni nella quale sono impegnate le massime potenze imperialistiche del mondo: gli Stati Uniti e la Russia. Non si potrebbe avere una visione più errata della realtà. Le rivoluzioni afro-asiatiche sono state, e sono tuttora, determinate da condizioni di ordine obiettivo e soggettivo, e cioè dall’oppressione colonialista e dall’odio inestinguibile delle masse per il duplice giogo dello sfruttamento imperialista e del dispotismo di semifeudali strutture sociali sostenute dallo straniero. Se le rivoluzioni, come insegnava Lenin, scoppiano allorché il potere dominante non è più in grado di governare e le masse oppresse non vogliono più saperne dei vecchi ordinamenti, non si può minimamente dubitare che la formazione degli Stati nazionali afro-asiatici abbia rappresentato una rivoluzione.
Per effetto della seconda guerra mondiale, le potenze colonialiste non potettero più governare i loro vecchi possedimenti e per la rivolta armata dei popoli di colore fu ad esse impedito di riprendere possesso, dopo la fine delle ostilità, dei territori perduti. Né la rivolta si limitò a cancellare le tracce del servaggio verso lo straniero, ma travolse le vecchie impalcature politiche alle quali rimaneva aggrappato il feudalesimo asiatico.
Non si può sostenere, senza negare l’evidenza storica, che gli Stati afro-asiatici siano sorti per decisione dei grandi Centri imperialistici. Vediamo, per un momento, sfruttando quali condizioni storiche ha trionfato in Cina la rivoluzione di Mao-Tse Tung. Quarant’anni di storia, e anche di più se si comincia a contare dalla rivoluzione antimonarchica del 1911, stanno a dimostrare che la guerra civile cinese cominciò ancora prima che sorgesse il nuovo imperialismo russo. E perché il movimento rivoluzionario cinese raggiungesse il suo obiettivo principale, vale a dire la instaurazione di uno Stato moderno unitario e fortemente centralizzato – fatto altamente rivoluzionario in un Paese come la Cina nella quale sopravvive l’atomizzata produzione da villaggio precapitalista – è occorso che fosse spazzata via la potenza giapponese. Di fronte alla Cina, il Giappone ha rappresentato per oltre cinquant’anni un insuperabile ostacolo sul cammino della rivoluzione, la potenza che ha invariabilmente frustrato ogni tentativo di unificare politicamente la Cina. Vero è che la occupazione giapponese della Manciuria e di gran parte della Cina ha avuto fine a seguito della sconfitta riportata dal Giappone nella seconda guerra mondiale, ma la liberazione del territorio si è accompagnata ad un movimento rivoluzionario che sta cambiando radicalmente la società cinese.
Altro esempio, l’India. Come sono sorti i nuovi Stati nazionali dallo sfasciarsi dell’ex impero indiano? Non certamente per decisione dei Grandi. Anche in questo caso la rivolta al colonialismo, incruenta ma non per questo meno vigorosa, si avvalse di condizioni obiettive. All’origine dell’Unione Indiana, del Pakistan, della Birmania, di Ceylon non ci fu guerra civile o impossessamento armato del potere per assenza delle autorità colonialistiche, come avvenne in Indonesia dove lo Stato nazionale si sostituì direttamente all’occupante giapponese. All’origine della dissoluzione dell’ex impero indiano vi fu un atto di rinunzia della Gran Bretagna, la quale fu costretta, nel corso della guerra, a promettere l’indipendenza ai popoli della grande penisola asiatica. Mentre l’Asse nazi-fascista minacciava da vicino il Canale di Suez, porta di accesso al Medio Oriente, in India si delineavano pericolosi movimenti anti-britannici, come quello capeggiato da Chandra Bose che apertamente sosteneva la propaganda nipponica. E ciò avveniva mentre le armate del Tenno dilagavano verso la Birmania, dopo aver conquistato Hong Kong e Singapore. In tali condizioni, all’Inghilterra non restava possibilità di scelta: dovette promettere l’indipendenza a indù e musulmani. Alla fine delle ostilità essa non fu in grado di rimangiarsi la promessa: per farlo, avrebbe dovuto disporre dell’antica potenza che ormai era un ricordo.
Gli Stati afro-asiatici si sono formati attraverso una lunga e sanguinosa lotta contro l’imperialismo. Tale lotta sarebbe stata impossibile se non fosse stata alimentata dalle larghe masse, che non astratti principii ideologici ma la brutale realtà dello sfruttamento e dell’oppressione gettavano nel campo della rivolta.
Nelle attuali condizioni storiche, caratterizzate dall’assenza del proletariato rivoluzionario, le rivoluzioni anticoloniali non potevano andare oltre il limite della rivoluzione democratica e nazionale. Nella Russia zarista la rivoluzione andò oltre perché alla testa del movimento c’era un partito rivoluzionario proletario, che manca al presente nei Paesi ex coloniali, e purtroppo anche nelle metropoli capitaliste.
Le rivoluzioni afro-asiatiche, considerate da questo punto di vista, hanno le carte in regola. Esse, per tornare alle obiezioni dei nostri contraddittori, fanno il proprio “gioco”, anche se pencolano ora verso gli americani, ora verso i russi. Quel che deve fare il marxismo rivoluzionario è assodare se il “gioco” esperito dalle giovani democrazie anticolonialiste abbia una “posta” rivoluzionaria. Per quanto ci riguarda, non abbiamo difficoltà a rispondere affermativamente. Regimi i quali lavorano a demolire le vecchie impalcature politiche e gli antiquati modi di produzione precapitalistici, introducendo il lavoro associato e il moderno proletariato industriale, quei regimi lavorano rivoluzionariamente.
La differenza che corre tra le nostre valutazioni dell’anticolonialismo e quelle dei nostri avversari e nemici consiste in questo: per la stampa russo-comunista – che confonde la democrazia rivoluzionaria afro-asiatica col socialismo o non si sa che preludi ad esso – le rivoluzioni anticoloniali sono un punto di arrivo. Lo stesso criterio guida gli anticolonialisti di marca americana. Per noi la rivoluzione anticoloniale è un punto di partenza, o meglio la fase storica attraverso cui debbono necessariamente passare i popoli coloniali ed ex coloniali per arrivare al socialismo. Ciò non significa che ci nascondiamo che la rivoluzione proletaria, quando arriverà, si troverà di fronte gli attuali Stati nazionali che pure oggi sono indispensabili per il passaggio dal feudalesimo asiatico al moderno industrialismo capitalista.
Indipendenza nazionale e rivoluzione democratica
Più fondata nella realtà, che non la negazione della natura rivoluzionaria degli Stati ex coloniali, è la obiezione fatta alla indipendenza di essi. Possono considerarsi “indipendenti” Stati che lampantemente dipendono dalla finanza e dalla tecnica straniera?
A nostro avviso, la questione dell’indipendenza economica di uno Stato non è legata necessariamente alla questione del contenuto sociale e della funzione storica dello Stato. Non è provato che uno Stato economicamente non indipendente sia nella impossibilità di svolgere una funzione rivoluzionaria. L’industrializzazione degli enormi spazi sociali dei grandi Stati asiatici è un fatto rivoluzionario, nonostante sia resa possibile dagli investimenti di capitale effettuati da Stati di avanzato capitalismo, come è il caso della Cina e dell’India, le quali si giovano rispettivamente dei capitali ceduti dalla Russia e dagli organismi finanziari internazionali.
Ma, a ben guardare, l’indipendenza economica non è, nella realtà del mercato mondiale, un concetto di volgare metafisica politica? Quale organismo produttivo, non solo dei Paesi afro-asiatici, ma della stessa sfera capitalista, può considerarsi indipendente dal resto del mondo? Certo è che proprio i Paesi di sviluppato industrialismo sono soggetti più che gli altri alle oscillazioni del mercato mondiale. Basti pensare alle conseguenze che ha provocato nell’economia europea la chiusura del Canale di Suez. L’interruzione del flusso del petrolio mediorientale ha dimostrato appunto che un cataclisma del mercato mondiale può produrre maggiori rovine nei Paesi altamente industrializzati che non in altri, che, per deficienza di sviluppo storico, vivono ai margini delle grandi correnti del traffico commerciale mondiale. Da tale punto di vista, la evolutissima Inghilterra è meno dipendente che l’arretratissimo Afghanistan.
La rivoluzione borghese ha dimostrato, e basta rileggere il Manifesto dei Comunisti per convincersene, che con l’avvento del mercato mondiale è tramontata per sempre l’epoca degli organismi produttivi indipendenti. Se mai è esistita un’epoca storica, nella quale l’indipendenza economica ha avuto un senso, quella fu il feudalesimo, nel quale la produzione della vita sociale si svolgeva in “isole chiuse”. Di fronte al feudalesimo, la rivoluzione borghese rappresenta non già l’affermazione del principio dell’indipendenza economica, ma la sua negazione, svolgendosi essa nel senso della soppressione dei sistemi produttivi parcellari, non comunicanti, isolati gli uni dagli altri.
Ora quale tendenza si nota nel movimento anticolonialista? Appunto quella della cancellazione delle antiquate economie di villaggio semifeudali. Non altro significato, per fare un esempio, ha il gigantesco piano di costruzioni ferroviarie intraprese dal governo cinese, le quali, allorché saranno terminate, serviranno a collegare i remoti territori dell’Asia Centrale alla evoluta fascia costiera, lo stesso che dire al mercato mondiale. In tal modo, il villaggio semifeudale cinese cesserà davvero di essere indipendente.
Il marxismo può restare indifferente davanti ad avvenimenti del genere? Certamente no. Essi sono avvenimenti rivoluzionari. Insieme con la ferrovia, penetrano nel Turkestan cinese o nella giungla indocinese o nel selvaggio Assam la industria, sia pure capitalista, e con essa il proletariato moderno.
L’indipendenza politica, espressione corrente del linguaggio politico, è un concetto approssimato e convenzionale. Con essa si intende significare null’altro che la macchina statale non è ingranata in un vasto meccanismo supernazionale – come era il caso del vicereame delle Indie, subordinato alla Corona britannica – ma trae origine dalla compagine sociale delimitata dalle frontiere politiche dello Stato. Il passaggio dall’una all’altra condizione si accompagna, nei Paesi afro-asiatici, a una profonda rivoluzione.
Naturalmente, il principio generale ammette eccezioni, quali sono rappresentate da certi Stati arabi, dove, ad onta dell’indipendenza politica, si perpetuano forme addirittura schiaviste, come avviene nell’Arabia Saudita.
Indipendenza politica, per i grandi Stati ex coloniali, ha significato Stato nazionale. E questo è l’obiettivo storico della rivoluzione borghese: lo Stato nazionale. Senza Stato nazionale borghese, la “quantità” feudale non può trasformarsi in “qualità” borghese-capitalista.