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Colonialismo storico e colonialismo termonucleare (Il Programma Comunista, n.6-7 del 1957) |
Dalla fine della seconda guerra mondiale, anzi fin dal corso di essa, stiamo assistendo, si dice ormai dovunque, alla “fine del colonialismo”. In effetti, quello che sta tramontando sotto i nostri occhi è solo una forma del colonialismo.
Il colonialismo è ben più antico del capitalismo, le sue cause essendo riposte nella ineguaglianza dello sviluppo storico e nella divisione in classi della società. Ora tali condizioni obiettive preesistono al capitalismo; perciò si sono avuti un colonialismo schiavista e un colonialismo feudale, oltre al colonialismo borghese. Nella sua essenza economica universale, il colonialismo è l’aggregazione a un’economia superiore di un’economia arretrata, cioè il punto d’incontro di economie a diverso studio di sviluppo storico e il travaso violento dell’economia antiquata in quella sviluppata. In ogni epoca storica il pianeta è stato sede di diversi e disparati modi di produzione: nel suo significato generale il colonialismo ha rappresentato adunque una forma della diffusione nello spazio geografico dell’economia predominante in un determinato periodo storico. Se bene si considerano i fatti, la storia della civiltà mediterranea, per fare un esempio, è la storia del succedersi di diverse colonizzazioni: fenicia, greca, romana.
Di conseguenza, se si accetta il principio basilare del marxismo che la successione delle epoche storiche viene determinata dalla successione rivoluzionaria dei modi di produzione, bisogna riconoscere che il colonialismo ha funzionato come una “molla” del progresso storico, imponendo il superamento di vecchi rapporti produttivi e promuovendo in tal modo la diffusione del modo di produzione più avanzato. Ogni tipo di società di classe si è sforzato di fare il mondo a sua immagine e somiglianza. Il colonialismo è appunto la manifestazione di tale tendenza, comune ad ogni forma di Stato, cioè di potere politico e militare basato sulla dominazione di classe.
In tali condizioni il colonialismo non poteva essere dissociato dall’impiego della violenza. In una società di classe, sia essa di tipo schiavistico o di tipo capitalista, la diffusione del modo di produzione al di fuori dei confini dello Stato non può avvenire che nelle forme della conquista violenta. Tutti i critici non marxisti del colonialismo sono partiti da questo dato: l’impiego della violenza e la soggiogazione dei popoli conquistati, per formulare le loro maledizioni. Per tutti costoro, il santo ideale della rivolta anticolonialista è la “liberazione” dei popoli soggetti. Ora accade oggi, come è accaduto già in altre epoche storiche, che le ex colonie che riescono ad ottenere la cacciata dell’occupante colonialista e a darsi uno Stato indipendente, si mettano di gran lena, non a cancellare i rapporti produttivi “importati” e imposti con le armi dai conquistatori, ma sibbene a diffonderli più che questi non facessero, e a rafforzarli ulteriormente nello spazio.
L’affermazione che il colonialismo, nonostante lo spargimento di sangue e le forme drastiche di soggiogazione razziale, ha svolto una funzione positiva, favorendo la diffusione del modo di produzione dominante, suonerà come empia bestemmia agli adepti della religione anticolonialista, la religione politica di moda. Se poi si aggiungerà, traendo una logica conseguenza, che la guerra coloniale è l’unico mezzo di cui dispone lo Stato di classe per la diffusione geografica della economia predominante, si otterrà soltanto di tirarsi addosso una valanga di accuse, tra cui quella di pensarla alla stessa stregua degli arrabbiati razzisti borghesi.
Ora è incontrovertibile che le rivoluzioni nazional-democratiche che hanno dato alla luce i nuovi Stati indipendenti afro-asiatici (è di questi giorni la fondazione del primo Stato negro, la repubblica di Ghana) tendono ad operare il trapasso dagli arcaici rapporti feudali localmente predominanti al moderno industrialismo capitalista – poco importa se privatistico o statalistico – in quanto si prefiggono appunto di portare avanti dei megalomani piani di industrializzazione. Le rivoluzioni afro-asiatiche costituiscono, per quanto possa sembrare paradossale, una prosecuzione dialettica del colonialismo. A che portava, infatti, il colonialismo bianco se non ad imporre nei territori d’oltremare un minimo dei rapporti capitalistici vigenti nelle metropoli?
Le rivoluzioni democratiche e nazionali di Nehru, di Mao-Tse Tung, di Sukarno e colleghi non approdano, dal punto di vista del modo di produzione e dell’organizzazione sociale, a traguardi diversi da quelli ai quali giunsero, sotto la copertura di ideologie diverse, i capi colonialisti alla Cecil Rhodes.
Altra orrida bestemmia per gli orecchi dei santoni dell’anticolonialismo! Costoro costituiscono una chiesa abbastanza eterogenea, se a lato del gandhiano Nehru si schierano il neo-nazista Nasser e lo stalinista Mao-Tse Tung, per non parlare di re Saud d’Arabia, i cui principii politici sono rimasti al livello Ottomano. Ma tutti costoro non tendono certamente a ripristinare lo status quo economico e sociale che fu in parte sovvertito dalla conquista coloniale, ma si sforzano tremendamente di favorire la diffusione di forme produttive che da un paio di secoli almeno vigono nelle metropoli ex colonialiste: gestione capitalista dell’agricoltura (produzione di derrate destinate al mercato, oltre che al consumo della famiglia agricola), monetarizzazione dello scambio mercantile, lavoro associato salariato, macchinismo industriale.
È senza importanza che tali programmi siano contraddistinti, in India, col marchio del “socialismo democratico”, o, in Cina, con quello del “comunismo”. La loro essenza storica è prettamente capitalista e tale resterà finché la rivoluzione proletaria non tornerà a rombare nel cuore del capitalismo occidentale. È socialismo tutto ciò che si allontana dal lavoro salariato e dal mercantilismo, che costituiscono, invece, il traguardo verso cui corrono le rivoluzioni afro-asiatiche.
La tesi che l’imperialismo colonialista trovava il suo interesse nella conservazione pietrificata del feudalesimo, o addirittura dei tipi ancora più antiquati di organizzazione sociale, che i conquistatori coloniali avevano trovato nei territori d’oltremare, è uno dei cento luoghi comuni dei riformisti pseudo-marxisti. Costoro dimenticano che alla base dello sfruttamento capitalista c’è l’appropriazione del plusvalore. La razzìa che il capitalismo compie a danno della società è del tutto diversa dalle razzìe che le orde barbariche compivano nelle regioni dell’impero romano o, per stare al nostro tempo, dalle scorrerie che i predoni beduini del deserto perpetrano ancora oggi a danno degli abitanti delle oasi. La economia capitalista è la più predace delle economie fin qui esistite: al suo confronto i saccheggi su vasta scala operati nella storia dai popoli nomadi diventano imprese da ragazzi. Ciò non toglie che lo stupido cliché del colonialismo rappresentato come una calata di saccheggiatori intenti solo a spogliare i territori, lasciandone intatte le economie, anzi impedendone ogni mutamento, cade in frantumi appena si considera la vera essenza del modo di produzione capitalista che non può mai fermarsi, né lasciare che forme prestabilite si fermino.
In altre parole, l’imperialismo bianco non avrebbe mai potuto sfruttare le colonie se non avesse trasportato in esse, e imposto con la forza delle armi, un minimo di rapporti capitalistici. Cioè, se non avesse trasferito nelle colonie, immerse nelle forme della sparpagliata produzione feudale o legate addirittura alle primitive tecniche produttive della tribù selvaggia, le forme del lavoro associato salariato. E cos’è il lavoro associato salariato se non la base sulla quale i nuovi regimi afro-asiatici tendono a costruire moderne macchine produttive?
Quando si è compreso ciò, ci si avvede come il preteso abisso che separerebbe i nuovi Stati anti-colonialistici e l’imperialismo bianco si risolva in una differenza di grado. Lo Stato tenuto a battesimo dal Pandit Nehru, come quello santificato dal “compagno” Mao-Tse Tung, si fondano sullo stesso principio sul quale si accumulò, attraverso i decenni, la smisurata potenza degli Stati imperialistici di Occidente: il lavoro salariato, fonte insostituibile del profitto capitalista. Perché scandalizzarsi, allora, se diciamo che le rivoluzioni afro-asiatiche sono, dal punto di vista del modo di produzione, la prosecuzione dialettica del colonialismo? E perché scandalizzarsi se affermiamo, alla luce di innegabili fatti, che il colonialismo ha svolto una funzione positiva, beninteso, se lo si guarda dal punto di vista del processo di diffusione del capitalismo nel mondo?
In effetti, il colonialismo bianco agiva da forza di conservazione soltanto in quanto tendeva a perpetuare la sovrastruttura politica propria del feudalesimo, cioè le forme dispotiche e personali del potere politico, legate a rapporti economici primitivi nelle campagne, mentre in un primo tempo era frenato (ma solo frenato) nell’erosione delle vecchie strutture artigiane dall’esigenza di aprire un mercato ai prodotti finiti della metropoli da scambiare contro materie prime locali. Molto istruttivo il caso dell’India, dove il potere era diviso tra la Corona britannica, che controllava direttamente solo una parte dell’Impero indiano, e una miriade di principi vassalli che governavano assolutisticamente i loro sudditi. Una struttura politica similare e tuttora in vigore in Malesia, per restare all’Asia.
Nei calcoli dei reggitori degli imperi coloniali, la diarchia feudale-capitalistica avrebbe dovuto assicurare la conservazione del colonialismo bianco, il potere delle vecchie caste dominanti del feudalesimo asiatico dovendo funzionare come un apparecchio ausiliare del potere centrale emanante dalla metropoli. I fatti hanno dimostrato che simili calcoli erano sbagliati. A lungo andare, le arcaiche forme giuridiche si sono rivelate impotenti a contenere le nuove forze produttive erompenti, sicché sono saltate in aria appena è venuto a mancare, per effetto della seconda guerra mondiale, l’appoggio esterno dei poteri imperialistici.
Poiché non siamo obbligati ad incensare i Nehru e i Mao-Tse Tung, possiamo affermare tranquillamente che le rivoluzioni afro-asiatiche, ben lungi dall’aprire la via al socialismo, hanno segnato importanti traguardi nella diffusione del capitalismo nel mondo. Molta gente crede che a Pechino e a Nuova Dehli siano in marcia i centri motori del socialismo, democratico o stalinista che sia. In realtà, nella lotta tra colonialismo e anti-colonialismo ha vinto il pan-capitalismo, cioè il campo delle forze sociali che tendono a colmare i “vuoti” lasciati dal capitalismo nella sua marcia sanguinosa attraverso i Continenti. I Nehru e i Mao-Tse Tung queste cose non le possono dire, ma a che tendono i piani di produzione dei nuovi regimi anti-colonialistici se non a dilatare le isole di industrialismo che essi hanno ricevuto in parziale eredità dai debellati occupanti coloniali? Solo chi non è marxista può negare che l’industrialismo fondato sul lavoro salariato sia industrialismo capitalista!
Le rivoluzioni afro-asiatiche tendono a cancellare le disuguaglianze dello sviluppo storico nel mondo. Da quando l’Asia e l’Africa hanno preso la rincorsa verso l’industrializzazione, si è messa in marcia la unificazione qualitativa dell’economia mondiale. Si può prevedere che, a mano a mano che si restringeranno, e infine spariranno, le aree geografico-sociali nelle quali ancora sopravvivono rapporti di produzione pre-capitalistici, e le rivoluzioni antifeudali attueranno i loro programmi di modernizzazione dell’economia locale, il pianeta si avvierà verso l’unificazione dei modi di produzione. Arretreranno progressivamente i rapporti produttivi pre-capitalistici, si diffonderà conseguentemente il modo di produzione capitalista.
Arriveremo a vedere un mondo tutto-capitalista? Siamo certi che la rivoluzione proletaria interverrà ad evitarci questa jattura sprofondando nella tomba i mostruosi Stati capitalistici di Occidente. Intanto, la tendenza pan-capitalista esiste. La diffusione del capitalismo nel mondo ha ricevuto un impulso formidabile dalle rivoluzioni anti-coloniali. Con un’energia che davvero non trova confronti in quella spesa dagli ex colonizzatori, i regimi nazional-democratici d’Asia e d’Africa vanno propagando le moderne forme dell’industrialismo capitalista in regioni che ne erano rimaste finora immuni.
Tenendo d’occhio questi rivolgimenti, anche se ancora allo stato potenziale, i paladini dell’anti-colonialismo proclamano finita l’era coloniale e firmano l’atto di morte dell’imperialismo. Ma sono davvero venute a mancare le cause fondamentali del colonialismo?
Nella ineguaglianza dello sviluppo storico e nella divisione in classi della società abbiamo individuato le cause del colonialismo, fenomeno storico che si manifesta nella subordinazione di un’economia e di una struttura sociale di rango inferiore a un’economia e struttura sociale di livello superiore. La colonizzazione tende a sopprimere il modo di produzione vigente nella colonia e a soppiantarlo col più evoluto e redditizio modo di produzione della metropoli imperialista. In pratica, la colonizzazione capitalista ha dovuto esportare nei territori d’oltremare il modo di produzione capitalista al di fuori della volontà e dei calcoli della stessa borghesia metropolitana, desiderosa di assicurare una posizione di esclusività monopolistica alla produzione nazionale.
Ad esempio, le compagnie petrolifere americane non potrebbero sfruttare l’Arabia senza creare, investendo capitale industriale, una classe salariata indigena addetta alle trivelle. Che cosa significa ciò? Che le differenze tra l’economia della metropoli e la economia della colonia ove si impianta lo sfruttamento non possono più essere differenze qualitative, cioè differenze tra modi di produzione, ma differenze quantitative, cioè differenze di gradi di sviluppo entro lo stesso modo di produzione. Nel Texas come a Dahran, il petrolio si estrae secondo un unico sistema tecnico ed economico.
Quello che, invece, divide come un abisso i due Stati, che benissimo si possono considerare per tale ragione nel rapporto metropoli-colonia è il diverso grado di sviluppo del capitalismo, che negli USA raggiunge livelli vertiginosi e satura totalmente l’economia sociale, mentre in Arabia costituisce solo un’oasi nel deserto di un’economia arretratissima. Ciò si scorge anche sul piano ideologico e psicologico. L’acceso anticolonialista arabo non si vergogna delle trivelle del petrolio, ma lamenta che la “modernizzazione” – per i popoli coloniali “modernizzarsi” non significa che copiare il modo di produzione dei popoli evoluti, e quindi del proprio padrone colonialista – sia limitata soltanto a qualche branca produttiva.
In conclusione, quand’anche tutto il mondo diventasse capitalista, e moderni complessi industriali coprissero l’intera Asia e segnassero la fine degli ordinamenti tribali dell’Africa, quand’anche si arrivasse alla totale eguaglianza qualitativa nel segno capitalista dei modi di produzione esistenti nel mondo, non si cancellerebbero gli scarti tra i livelli di sviluppo delle varie economie. In un mondo tutto-capitalista dal Polo all’Equatore, sussisterebbero pur sempre differenze quantitative. Ora è appunto nella ineguaglianza dello sviluppo storico e nella esistenza dello Stato di classe che si perpetua il colonialismo. Gli ideologi dell’anti-colonialismo sbagliano perciò di grosso quando pretendono che, modernizzandosi gli Stati afro-asiatici secondo il modello economico delle metropoli imperialistiche, verranno a mancare le condizioni obiettive del regime coloniale.
Tuttavia, lo sfasciamento degli imperi coloniali ci avverte che qualcosa è cambiato nel colonialismo. Quello che sta tramontando è il colonialismo storico. Era molto più antico del capitalismo, ma è morto prima di questi. Sulle sue macerie una nuova forma di colonialismo sta prendendo il sopravvento, una forma adeguata allo sviluppo dell’imperialismo descritto da Lenin. Il colonialismo storico si fondava sulla conquista militare e l’occupazione permanente dei territori della colonia. Esso abbraccia le epoche storiche nelle quali la produzione predominante si basava sull’agricoltura, lo scambio mercantile era limitato, e il livello della tecnica militare comportava l’impiego di corpi di spedizione e il loro acquartieramento sul territorio conquistato. A tale tipo di colonialismo appartennero, ai limiti fra medioevo ed era moderna, le monarchie assolute che disponevano di potenti flotte navali. Nei casi rispettivi, scopo della conquista coloniale francese, olandese, portoghese, spagnola, britannica, era la conquista di terra agraria o di passaggi obbligati del commercio marittimo.
Il colonialismo storico si fondava in ultima analisi sul possesso diretto e immediato dei mezzi di produzione presenti nelle colonie, e ciò rendeva indispensabile l’annessione del territorio. A tale legge il capitalismo esordiente non poté sottrarsi, sicché dovette procedere alla colonizzazione dei territori di oltremare copiando i metodi dei conquistatori coloniali di epoche defunte.
Quali mutamenti hanno spinto nella tomba il colonialismo storico? L’aspetto più impressionante delle trasformazioni avvenute nell’imperialismo è costituito dai profondi rivolgimenti della tecnica militare. Ma la tecnica militare è solo un aspetto particolare della tecnica produttiva in genere. Il grado di sviluppo a cui è arrivato il capitalismo consente ai massimi centri della finanza mondiale di controllare in maniera non diretta né immediata i mezzi di produzione. La enorme potenza raggiunta dal capitale finanziario ha ridotto a pura spesa improduttiva e a passivo di bilancio l’occupazione materiale del territorio da sfruttare alla maniera coloniale antica. Agli imperialisti della seconda maniera non occorre più inviare corpi di spedizione nei territori oltremare e mantenere sul posto una costosa burocrazia di occupazione. Essi possono controllare a distanza il meccanismo produttivo delle “regioni sottosviluppate” del globo mediante il gioco dei prestiti e delle sovvenzioni che, nella finzione giuridica, figurano stipulati fra “Stati sovrani”. Anzi, sono in grado di costruire, anticipandone i capitali, grandi aziende industriali che lasceranno (in apparenza) amministrare dagli indigeni elevati al rango di “liberi cittadini” di repubbliche sovrane, ma che, attraverso i meccanismi bancari internazionali, piloteranno come vogliono, senza muoversi dai loro uffici e senza che la flotta debba accorrere sul posto. Chi non sa che i piani di industrializzazione della Cina, dell’India e degli altri Stati afro-asiatici si stanno realizzando grazie all’intervento del capitale straniero (leggi: Stati Uniti, Germania, Russia)?
I nuovi colonialisti dell’“era” termonucleare fanno a meno della occupazione dei “posti di blocco” del commercio mondiale, quali le basi navali già detenute dall’Inghilterra ai quattro angoli del mondo. Mediante gli smisurati cartelli internazionali essi rinserrano il commercio mondiale nella prigione del monopolio, dalle cui mura di acciaio ogni evasione è impensabile. Quando l’Iran espropriò l’Anglo-Iranian, l’imperialismo non usò i vecchi metodi del colonialismo storico, lasciò che Mossadeq affogasse nel suo petrolio invenduto, anziché organizzare un “raid” punitivo contri i ribelli. E, ad operazione compiuta, si vide ch’erano prevalsi, in seno al cartello internazionale del petrolio, i metodi del nuovo colonialismo propugnati dagli Stati Uniti, i quali, senza sparare una cartuccia, riuscirono a mettere le mani sul petrolio, benché nazionalizzato, dell’Iran.
Ancora. Il colonialismo storico non disponeva per il dominio dei mari – condizione indispensabile per il controllo e la dominazione territoriale imperialistica – delle armi di cui abbondano gli imperialisti termonucleari. È l’avvento dell’imperialismo delle portaerei che ha scacciato il colonialismo storico dalle sue posizioni.
Bisogna guardarsi, però, dal cadere nell’errore di disgiungere la forza dell’economia. Benché possa sembrare in apparenza che il cannone, e le navi su cui era montato (corazzate, incrociatori, ecc.), formassero un apparato di forza che, sul terreno economico, richiedeva minori spese, è vero invece che le moderne portaerei, pur venendo a costare molto più che i tradizionali mezzi navali, permettono ai centri imperialistici una notevole riduzione delle spese complessive richieste dalla politica di egemonia. Può sembrare paradossale, ma l’imperialismo delle porterei è meno dispendioso dell’imperialismo degli eserciti e delle corazzate, anche se una portaerei come la “Forrestal” viene a costare centotrenta miliardi di lire e altrettanto costano gli apparecchi che essa trasporta.
Infatti, la vecchia Inghilterra, per conservare il predominio nel Mediterraneo, doveva tenere in efficienza una catena di unitissime basi: Gibilterra, Malta, Alessandria, Cipro, senza contare la zona del Canale di Suez, nei cui porti stazionava un’imponente flotta. Per ottenere lo stesso obiettivo, gli imperialisti americani si servono tranquillamente di una flotta, la VI, composta di due portaerei (la nominata “Forrestal” e la “Lake Champlain”), di una corazzata da 45 mila tonnellate (la “Iowa”), di due incrociatori (il “Salem” e il “Boston”) e di venti cacciatorpediniere e due sommergibili.
Ma i mezzi navali elencati costituiscono soltanto uno dei gruppi di combattimento (task force) che compongono la flotta, e precisamente la T.F.60. Aggregata ad essa è la T.F.61 che comprende una forza anfibia cui si appoggia un contingente di fanteria da sbarco armato di artiglieria atomica che costituisce la T.F.62. Infine, vi è la T.. 66 addetta alla lotta anti-sommergibile. Ma la Sesta Flotta USA, la più potente del mondo, che è fornita di missili di vario tipo, di bombardieri a grande raggio e di artiglieria atomica, che può sbarcare forze di fanteria in qualsiasi punto della costa del Mediterraneo e tenere sotto il controllo dei suoi aerei territori compresi entro una circonferenza dal raggio di 1.400 miglia, e quindi comprendente la Russia meridionale e tutto il Levante, non ha una base logistica nel Mediterraneo: è soltanto “ospite” nei porti che tradizionalmente visita. Infatti, il suo rifornimento logistico è affidato ad un altro gruppo di combattimento, la T.F.63; che ha la sua base a Norfolk (Virginia).
Una moderna super-portaerei potrà costare da sola quanto un’intera flotta di altri tempi, ma uno strumento di combattimento e di dominazione come la Sesta Flotta USA riunisce in poche unità una potenzialità militare che ai tempi del colonialismo storico non si poteva neppure immaginare. Il colonialismo storico ha dovuto cedere il posto al colonialismo termonucleare, perché questi si è rivelato più redditizio. In fondo, alla base del trapasso c’è una differenza di grado di produttività che gioca a danno dei vecchi Stati colonialisti di Europa.
Il nuovo colonialismo è telecomandato: esso controlla a distanza sia i capitali, manovrati negli uffici dei grandi pirati della finanza a mezzo di radiotelegrafo, sia le armi, alle quali è affidata la protezione dei profitti. Non meravigliano, dunque, i missili in un mondo in cui anche il capitale finanziario è… telecomandato.
Né la super-flotta che riassume in sé le armi della terra, del mare e del cielo, può dirsi l’ultimo ritrovato militare dell’imperialismo americano, successore della “perfida Albione”. Il Pentagono sta studiando un nuovo tipo di divisione aviotrasportata. Mette conto di trascrivere la descrizione che ne fa un giornale napoletano: «A Fort Bragg, nella Carolina del Nord e altrove, si sta attualmente sperimentando un nuovo tipo di unità, dotata di armi dell’ultimo modello e organizzata secondo criteri nuovi. Si tratta di una divisione aviotrasportata di nuovo tipo, la quale, imbarcata dalle basi americane, potrebbe entro 40 ore atterrare in qualsiasi parte del mondo. Questa divisione aviotrasportabile comprenderebbe 11.500 uomini, quasi tutti paracadutisti che verrebbero portati in volo da circa 600 aerei da trasporto specialmente studiati, come il C119 per le truppe, il C123 per i materiali pesanti, il C124 per i lunghi percorsi. Questa nuova divisione viene chiamata “Pentomic”, poiché comprende cinque gruppi su cinque plotoni». Il giornale, trasudando gioia, annuncia che la prima divisione di tal genere sarà pronta entro il prossimo giugno. Successivamente, verrebbe costituito un Corpo d’Armata con due o tre divisioni “Pentomic”(non ci attardiamo a stabilire quanto, in questa descrizione, vi sia di bluffistico e intimidatorio: anche il terrore e la “propaganda della paura” sono strumenti di forza, armi telecomandabili…).
Non occorre altro per spiegare l’anti-colonialismo degli Eisenhower e dei Foster Dulles, che è poi soltanto avversione alle vecchie forme del colonialismo capitalista. Con la Sesta Flotta nel Mediterraneo e una base, una sola, a Dahran, nell’Arabia Saudita, l’imperialismo termonucleare dei briganti americani può tenere in pugno tutto il Medio Oriente. Se i marines sbarcati dalla T.F.61 incontrassero difficoltà, ad onta dei bombardamenti a tappeto effettuati dagli Skywarriors (i “guerrieri del cielo”) decollati dal modernissimo ponte a Y della “Forrestal”, le loro pene durerebbero non più di 40 ore, il tempo necessario alle divisioni “Pentomic” per accorrere sul posto, ben fornite di missili, cannoni senza rinculo, mortai, mitragliatrici e, naturalmente, di carri armati aereo-trasportati.
Ciò spiega come l’imberbe re Hussein di Giordania abbia potuto, l’anno scorso di questi giorni, cacciare Glubb Pascià, e il bluffista Nasser ottenere lo sgombero di Porto Said. Ormai, un’intera armata nemica presente sul posto fa meno paura di una divisione aviotrasportata acquartierata a seimila miglia di distanza.
Il colonialismo storico era una forma imperfetta del colonialismo capitalista. Esso perpetuava rapporti produttivi bastardi, in cui il controllo e l’appropriazione della forza lavoro del produttore, che è l’essenza del capitalismo, si accompagnava alla soggiogazione fisica del lavoratore, che fu l’essenza di modi di produzione di epoche defunte. La fondazione dei nuovi Stati afro-asiatici, sopprimendo le distinzioni e i privilegi razziali instaurati dagli occupanti colonialisti, ha avuto per effetto di rendere completamente “libero” il lavoratore delle colonie.
Il colonialismo termonucleare, il colonialismo che gli Stati Uniti stanno introducendo nel mondo, è colonialismo capitalista alla stato puro. Esso sfrutta “liberi” lavoratori affascinati dai megalomani piani di industrializzazione di governi che, sotto il pretesto di costruire “qualcosa di diverso dal capitalismo”, funzionano, e più ancora funzioneranno in avvenire, da veicoli dell’espansionismo imperialistico del dollaro.
Il vecchio colonialismo, nella sua brutale negazione dei diritti della “persona umana”, era meno ripugnante del nuovo colonialismo, che perpetua lo sfruttamento capitalista di sempre, ma vi aggiunge la stomachevole ipocrisia delle ideologie sulla eguaglianza delle razze.