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Il terremotato Medio Oriente (Il Programma Comunista, n.7, 8, 13, 21 del 1956) |
Forse è dall’epoca dell’Impero romano che i paesi che orlano le coste meridionali e orientali del Mediterraneo non erano più teatro di rivolgimenti politici che – come quelli odierni – interessassero così profondamente la storia mondiale.
Più recente e vicina a noi è la conquista mussulmana dell’Africa e di gran parte dell’Asia (VII e VIII secolo). Ma la conquista mussulmana ebbe influenza determinante sulla storia dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa. Oggi, invece, per l’intervento dell’imperialismo americano nell’intricato gioco dei movimenti nazionalistici nei Paesi rivieraschi del Mediterraneo e del Medio Oriente, ogni svolta nella storia di questi ultimi produce profonde ripercussioni sul mondo intero.
Appaiono, perciò, puerili, quando non sono coscientemente falsificate, le tesi di coloro che tendono a spiegare le cause di così imponente rivolgimento con le mene e gli intrighi delle diplomazie. Meno che le altre, è accettabile la romanzatura della “ingerenza russa”. Parliamone, prima di esaminare nel dettaglio i recenti clamorosi avvenimenti verificatisi nella zona mediorientale: la cacciata di Glubb Pascià dal comando della Legione Araba e la deportazione del capo del movimento nazionalista cipriota, l’arcivescovo Makarios.
La falsa ipotesi che vede nei diabolici intrighi della diplomazia russa il motore della rivolta dei paesi arabi e, in genere, coloniali, contro i tradizionali oppressori imperialisti ha avuto diritto di cittadinanza nelle redazioni di tutte le tinte, perché conviene per opposti motivi a tutti gli ispiratori della “opinione pubblica”. Conviene ai cominformisti, i quali debbono inculcare, per obbligo di mestiere, la nozione della crescente influenza nel mondo della Russia; conviene agli “atlantici”, che se ne servono per mascherare le profonde fratture e le feroci gelosie che dividono, ad onta della NATO, le vecchie potenze colonialistiche (Francia e Inghilterra) e lo strapotente concorrente, gli Stati Uniti che, sotto la cortina fumogena dell’anticolonialismo, tende ad imporre un nuovo colonialismo, affidato non più ai generali, ma ai finanzieri.
Già altre volte abbiamo cercato di ridurre l’intervento russo nel Medio Oriente alle sue reali proporzioni. In sostanza, la “colpa” di Mosca è, agli occhi della stampa atlantica, quella di imitare alla lettera la collaudatissima politica di penetrazione svolta dalle potenze occidentali e che consiste nell’assoggettarsi i governi locali. Politica non solo diversa ma diametralmente opposta ai principi rivoluzionari che furono asseriti e applicati nei riguardi dei paesi coloniali e semi-coloniali dai primi congressi dell’Internazionale Comunista. Le grida di indignazione che si levarono, nello scorso autunno, all’annunzio dell’avvenuta firma di un contratto per la fornitura di armi ceche e russe all’Egitto, non si sono ancora smorzate. Ma — a parte il fatto che governi democraticissimi come quelli del Belgio, della Svizzera, della Svezia, senza contare la stessa Inghilterra che vende armi indifferentemente a egiziani e israeliani, sono impegnati da decenni nel traffico d’armi per il Medio Oriente — la natura dei rapporti intercorrenti tra i centri imperialisti occidentali e i governi arabi trascende il piano meramente politico e, a maggior ragione, il sensazionale dominio della propaganda spettacolare.
Gli Stati arabi rappresentano la parte più arretrata dal punto di vista economico e sociale dell’intero continente asiatico. Ma tale condizione non è legata a fattori naturali, come sta dimostrando lo Stato di Israele che ha intrapreso e avviato brillantemente la lotta contro il deserto. L’esempio israeliano — nelle mani dei pionieri ebrei, il deserto sta soggiacendo alle opere di irrigazione e sta ritornando alla feracità decantata nella Bibbia — prova come una rivoluzione sociale possa avere ragione dei mali secolari che inchiodano i popoli dal Medio Oriente a infimi livelli sociali e culturali. La penisola arabica può uscire dallo stato di arretratezza in cui versa. Nelle regioni interne, per farsi un’idea, prospera ancora il commercio degli schiavi. Le condizioni in cui si trova il sistema delle comunicazioni, poi, sono tali che il tradizionale pellegrinaggio alla Mecca costa la vita, per gli inauditi disagi del viaggio sotto il sole feroce, a centinaia di persone. Se gli Stati arabi non progrediscono, ciò avviene perché vi si oppongono i regimi semifeudali fondati sulle monarchie e sui principati, dominanti dispoticamente su popolazioni che vivono miseramente in sordidi villaggi o peregrinano nel deserto.
Su tale tasto la stampa ispirata dai governi occidentali non ama battere, e se qualche volta lo fa, ciò avviene allorquando troppo spinta appare la politica di ricatto che le corti arabe imbastiscono periodicamente contro gli imperialisti occidentali. Ma neppure il governo di Mosca, e la stampa fiancheggiatrice, che pure posano a guide della rivolta anticoloniale, osano smascherare il contenuto sociale degli Stati arabi. Ad esempio, il governo di Mosca è da un pezzo oramai che va offrendo armi e prestiti a quei governi, e mostra di esultare ogni volta che la coalizione militare che unisce Egitto, Siria e Arabia Saudita riesce a segnare un punto a proprio vantaggio ai danni della alleanza di Baghdad, che Mosca vede soprattutto come uno strumento militare sussidiario della Nato. Ma la stampa ispirata da Mosca si guarda bene dall’attaccare il regime dispotico che vige nell’Arabia Saudita o l’oligarchia militare che è succeduta alla monarchia di Faruk lasciando intatta la struttura sociale egizia.
La stampa asservita a Mosca si limita, atteggiandosi a protettrice dell’Islam, ad attaccare gli imperialisti occidentali e i magnati del petrolio, accusati di succhiare le ricchezze “appartenenti ai popoli arabi”. Ma, evitando di allargarne la critica e dirigerla anche contro le caste feudali, che vivono sfarzosamente in mezzo all’oceano senza fondo della miseria araba, la stampa cominformista giostra unicamente in maniera da accaparrarsi la fiducia e la devozione dei governi costituiti. In altre parole, è indubbio che la Russia lavora energicamente per penetrare nel “mondo arabo”, ma, ben lungi dall’usare i i metodi rivoluzionari, di cui ciancia la stampa atlantica, si rivolge alle classi dominanti, locali da Stato a Stato. In tale senso, la politica araba e, in genere, afro-asiatica di Mosca non si differenzia sostanzialmente da quella delle potenze imperialiste di Occidente, che si regge appunto sull’asservimento dei monarchi, grandi e piccoli, che spadroneggiano sugli arabi. Ma quanto siano esagerate le finte paure della propaganda lavorante sul tema degli “intrighi di Mosca” nei Medio Oriente, appare chiaro se si considera che, ad eguale scopo ed eguale metodo, i mezzi a disposizione di Mosca si riducono a poca cosa, se confrontati con quelli sui quali può contare l’imperialismo americano.
Abbiamo detto che i rapporti che intercorrono fra le centrali imperialistiche di Occidente e i governi arabi trascendono il piano politico. Vogliamo dire che essi non vanno considerati sul terreno della mera forza e della subordinazione violenta. La verità è che gli Stati arabi sono cointeressati direttamente negli affari economici del capitalismo occidentale. Spezzare questi vincoli è la condizione indispensabile per separare gli Stati arabi dall’Occidente. Finché questi vincoli esistono qualsiasi azione rivolta ad appoggiare i governi arabi non può avere altro effetto che rafforzare il potere di repressione di questi ultimi nei riguardi dei loro nemici interni, vale a dire delle classi sfruttate. In altre parole, le armi che Mosca cede, e chiede di cedere ai governi arabi, non potranno mai essere usate contro gli imperialisti occidentali finché i capitali che costoro maneggiano sono richiesti dagli stessi governi arabi. Contribuendo all’armamento del regime di Nasser, ad esempio, il governo di Mosca non ottiene che di rafforzarne il potere nei confronti dei nemici interni, perché l’Egitto, come l’Arabia e gli altri paesi arabi, ad onta delle clamorose campagne di stampa contro l’Occidente, non possono staccarsene, essendo impotenti a gestire con propri mezzi le principali branche della produzione.
Sicuramente i governi arabi hanno un debito di riconoscenza verso Mosca, ma lo stesso obbligo non compete alle masse sfruttate arabe, le quali nel rafforzamento dei governi, e quindi delle classi dominanti di cui questi sono strumento, debbono vedere soltanto il ribadimento delle proprie catene.
Che i russi sappiano bene quali vie occorre percorrere per penetrare nelle cittadelle del Medio Oriente, si ricava ancora una volta dall’accenno che Anastasi Mikoyan ha fatto, nel suo discorso al XX Congresso del PCUS, alla situazione di quella nevralgica area. «Nel Vicino Oriente — diceva Mikoyan — i monopoli petroliferi americani e inglesi hanno estratto, nel 1955, centocinquanta milioni di tonnellate di petrolio, cavandosela con una spesa complessiva di 240 milioni di dollari, ossia davvero a buon mercato. Ma di soli profitti hanno ricavato, per questo petrolio, 1.900 milioni di dollari, coprendo in un anno tutti gli investimenti di capitale effettuati in questa zona petrolifera. A Kuwait, per esempio, in un solo trimestre hanno ottenuto un profitto pari a tutto il capitale investito. Nell’industria petrolifera statunitense sarebbe occorso un minimo di sei o sette anni per l’ammortamento del capitale investito».
Abbiamo spiegato, nella serie di articoli dedicati al petrolio, come le compagnie petrolifere americane e inglesi pervengano, grazie al regime di monopolio consentito dalla cartellizzazione, a realizzare enormi sopraprofitti, adeguando i prezzi del grezzo del Medio Oriente, che registra costi di produzione relativamente bassi, ai prezzi del grezzo estratto dai pozzi degli Stati Uniti, che sono i più alti del mondo. Ma non dobbiamo ora occuparci di tale questione, bensì della speculazione che Mikoyan imbastiva sulle cifre surriportate.
Il “bluff” russo
La spesa di 240 milioni, accettando le cifre di Mikojan, rappresenta il capitale di esercizio assorbito dalla gestione 1955 delle compagnie petrolifere americane e inglesi operanti nel Medio Oriente. Con tale modica spesa, dunque, chi ne potesse disporre sarebbe in grado di gestire i pozzi della penisola arabica e delle isole contigue? A tale effetto sensazionale tendeva Mikoyan che non si lasciava sfuggire l’occasione per descrivere a quale sviluppo sociale andrebbero incontro i paesi arabi se gli introiti ricavati dal petrolio andassero ai “legittimi proprietari”. Come si vede, il governo di Mosca, che si autodefinisce comunista e marxista, è fermo alla falsa tesi della lotta nazionale contro il cartello del petrolio. Ma gli Stati Arabi, come l’Italia domani e l’Iran ieri l’altro, non possono neppure opporsi al cartello, schierandosi su posizioni nazionaliste.
Un più lungo discorso meriterebbe l’argomento di come le monarchie e gli sceiccati arabi utilizzano, da “vittime” del cartello, le vistose royalties che frattanto incassano. Si vedrebbe nei dettagli come le somme versate dalle compagnie concessionarie servono ad alimentare il lusso sfarzoso delle corti dei governi, insomma delle classi dominanti. Non a caso i pozzi petroliferi arabi sono proprietà del Re. Le classi sfruttate non sono raggiunte neppure da uno spruzzo del fiume d’oro, che scorre nelle casse reali e nelle tasche dei ministri, né se ne giova la “collettività nazionale” perché i governi si guardano bene dall’impiegare le royalties nel finanziamento, per ipotesi, di opere pubbliche.
La questione che veramente interessa è come spiegare l’assoggettamento degli Stati arabi alle onnipotenti compagnie petrolifere anglo-americane. I rapporti che passano tra le due parti sono quelli da proprietario concedente a imprenditore concessionario, ma presentano un aspetto del tutto particolare. Per usare un esempio tratto dall’agricoltura capitalista, diremo che il proprietario dei pozzi arabi è equiparabile ad un ipotetico proprietario fondiario, che si trovasse nella insuperabile impossibilità di “disdettare”, cioè licenziare, l’affittuario. L’aspetto originale dei rapporti di produzione, che caratterizzano l’industria petrolifera mondiale, consiste nel fatto che il cartello anglo-americano del petrolio è l’unico imprenditore, l’imprenditore monopolista mondiale, con il quale gli Stati o i privati proprietari dei campi petroliferi dei paesi arretrati sono costretti a ricorrere per la ricerca e la estrazione del grezzo. Ciò vale soprattutto per le regioni petrolifere – come il Medio Oriente e l’America centrale e meridionale – che sono situate lontane dai mercati di consumo e sono prive di un apparato industriale capace di provvedere in proprio alla estrazione e al trasporto oltrefrontiera e oltremare degli idrocarburi.
In tali condizioni le tesi nazionaliste sbandierate dai Mikoyan per accarezzare la vanità dei governi arabi sono pure esercitazioni demagogiche, non hanno neppure la giustificazione di essere una ipotesi teorica. Mikoyan scopre che gli Stati arabi si avvierebbero verso un notevole progresso sociale, se i favolosi utili incassati al presente dal cartello petrolifero non prendessero la via dell’estero. Per ottenere ciò occorrerebbe che gli Stati arabi assumessero la gestione delle imprese petrolifere. Nulla si oppone a tale trapasso sul piano meramente giuridico. Né sarebbe un ostacolo insuperabile il reperimento del capitale di esercizio, che secondo Mikoyan assommerebbe ad appena 240 milioni di dollari.
Ma, ripetiamo, il proprietario dei pozzi del Medio Oriente (monarca, sceicco, ecc.) è nelle condizioni di un proprietario di fondi rustici impotente a far valere contro l’imprenditore agrario persino l’arma della “giusta causa”. Il cartello anglo-americano del petrolio monopolizza su scala mondiale lo sfruttamento dei pozzi di proprietà straniera perché non ha praticamente concorrenti. Neppure la Russia, che è la nemica n.1 del cartello, è in grado di competere economicamente con esso, perché non possiede la gigantesca organizzazione necessaria a trasportare il grezzo dal luogo di produzione ai mercati di consumo. In quanto a produzione di petrolio, la Russia detiene il primo posto in Europa, ma la sua flotta di petroliere si quota agli ultimi posti nella classifica mondiale, essendo inferiore persino alla flotta cisterniera italiana. L’apparente contrasto si spiega, tenendo presente che la distribuzione del greggio russo avviene mediante gli oleodotti e i trasporti fluviali sul Volga.
A che si riduce, dunque, la pretesa minaccia russa al predominio dell’imperialismo occidentale nel Medio Oriente? E che occorre pensare delle bluffistiche campagne nazionalistiche ed antioccidentali degli Stati arabi? L’esperienza fallimentare delle nazionalizzazioni persiane è decisiva: l’Iran rimase assediato col suo petrolio invenduto, né la Russia gli fu di alcun aiuto nonostante la frontiera in comune, sicché alla fine il cartello internazionale rimise piede nel settembre del 1954 in Abadad, introducendo il capitale americano fino ad allora rimasto fuori. Altra prova non occorre per dimostrare esatta la tesi rivoluzionaria che la lotta antimonopolista è mera demagogia allorché si pretende di condurla su basi nazionali. Pochi fatti danno come gli affari mondiali del petrolio una così chiara e irrefutabile dimostrazione del principio rivoluzionario che lo spezzamento delle ferree forme di produzione del capitalismo è possibile solo attraverso la lotta di classe. La lotta contro il cartello del petrolio, uno dei cardini dell’imperialismo, non si combatte in periferia, ma nelle metropoli, cioè non attraverso la lotta tra nazioni e Stati, ma attraverso la guerra di classe.
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Nell’introduzione a questo articolo (n.7 del 31 marzo - 13 aprile), si è dimostrato come la storia dell’intervento russo nella tormentata vicenda del Media Oriente sia un autentico bluff: non solo la Russia si guarda bene dal far leva sui moti sociali determinati dalle spaventose condizioni di vita delle popolazioni arabe e, semmai, appoggia i governi forcaioli e semi-feudali che le opprimono, ma questi sono in realtà, come i governi di tutti i Paesi petroliferi, alle dipendenze del cartello internazionale del petrolio per una legge economico-mercantile insuperabile. Ciò premesso, vediamo la situazione creatasi in Giordania e a Cipro.
Giordania e Cipro
Al lettore potrà sembrare che abbiamo dedicato troppo spazio per mostrare la falsità e la improponibilità della ipotesi della ingerenza russa, che universalmente la stampa usa, allorché deve fornire una spiegazione degli avvenimenti che si verificano nel Medio Oriente, e, in genere, nelle parti del mondo che vanno sottraendosi al giogo del vecchio colonialismo. Ma non si poteva diversamente, volendosi porre il lettore in grado di accettare a ragion veduta la nostra ipotesi, e cioè che i contrasti che dividono l’Inghilterra e l’America nel Medio Oriente, come la Francia e l’America nell’Africa del Nord, sono più profondi e reali che non la rivalità, più dichiarata che professata, che divide le potenze occidentali prese in blocco e la Russia.
Alla Giordania, abbiamo riservato recentemente un intero articolo. Qui converrà ripetere le cose essenziali, in maniera da collegare i passati avvenimenti all’ultimo clamoroso colpo di scena rappresentato dalla destituzione del britannico John Bagott Glubb, meglio noto come Glubb Pascià, dal comando della Legione Araba.
La Giordania, che fino alla guerra arabo-israeliana si chiamava Transgiordania perché aveva giurisdizione solo su territori posti al di là del fiume Giordano, è un esempio tipico di Stato creato... per fecondazione artificiale dalle cancellerie imperialiste. Dal punto di vista del governo britannico, la Trangiordania, più che uno Stato, è una caserma costruita per ospitare la Legione Araba. Questa in origine era una piccola formazione che crebbe poi durante la seconda guerra mondiale fino ad arrivare alle dimensioni odierne: quasi 18.000 uomini modernamente armati e comandati, fino alla cacciata di Glubb Fascia, da sessantotto ufficiali inglesi. La consegna permanente data dal Foreign Office alla Legione, non per nulla equipaggiata e istruita rispettivamente dall’industria di guerra e dallo Stato maggiore imperiale britannico, era e pare che debba rimanere ancora la vigilanza ai pozzi petroliferi irakeni e agli oleodotti che li collegano con la costa del Mediterraneo.
Durante la seconda guerra mondiale la Legione Araba fu docile strumento nelle mani inglesi e rispose appuntino allo scopo per il quale era stata creato. Sotto il commando di Glubb Pascià, debellò nell’aprile 1941 la ribellione antibritannica nell’Iraq, provvedendo a porre al sicuro dalle mene naziste i pozzi di Bassora, di Mossul e soprattutto di Kirkuk, nonché il gigantesco oleodotto che si diparte da quest’ultima località per sboccare a Haifa di Palestina e a Tripoli di Siria. Gli stessi servizi doveva rendere in Siria dando man forte ai degaullisti insorti contro le burocrazie militari rimaste fedeli al governo filo-tedesco di Vichy.
I guai recenti della Giordania sono cominciati proprio quando Abdullah, che dal 1946 era divenuto re, fece, grazie alla forza della Legione, il più grosso colpo della sua vita, cioè quando, intervenendo nella guerra arabo-israeliana del 1948, oltrepassò il Giordano e occupò parte della Palestina. L’annessione giordana interessò precisamente taluni territori che, secondo il deliberato dell’ONU, avrebbero dovuto costituire uno Stato arabo palestinese, accanto allo Stato israeliano. Fu una fortunata conquista territoriale perché Amman, che, come è noto, governa su un territorio che per gran parte non è che deserto, riuscì a catturare centri abitati relativamente sviluppati della Palestina. Ma, insieme con il bottino, fece ingresso nei confini dello Stato ingrandito una massa disperata e turbolenta di arabi palestinesi, che erano scappati dalle loro sedi avanti alle truppe ebraiche avanzanti. Secondo dati recenti, si tratterebbe di un buon quarto della popolazione giordana, che venne assistita in modo insufficiente dall’UNRWA, e quindi è malnutrita, cenciosa, alloggiata in miserabili baracche e, quel che conta, animata da odio furioso verso Israele.
Quando il patto turco-irakeno, firmato il 24 febbraio 1955, al quale aderirono successivamente il Pakistan, l’Inghilterra e l’Iran, venne a dividere la Lega Araba, la situazione della monarchia hascemita di Giordania cominciò a farsi pericolosa. Infatti, l’alleanza di Bagdad ebbe come contraccolpo la triplice alleanza del Cairo sottoscritta dall’Egitto, dalla Siria e dall’Arabia Saudita. La scissione avvenuta nel seno della Lega Araba comportò un rincrudimento della questione palestinese. Ora, si comprende come il governo di Amman non possa guardare con piacere ai piani accarezzati dagli accesi nazionalisti panarabi del Cairo nei confronti di Israele. Siano espressi nella loro versione estremista (cacciata in mare degli ebrei e soppressione dello Stato d’Israele) o in quella moderata (costituzione dello Stato arabo di Palestina, secondo il dettato dell’ONU) tali progetti non possono sedurre re Hussein. È chiaro, infatti, che, in ambo i casi. Amman dovrebbe rinunciare alle annessioni palestinesi e ridiventare, di conseguenza, capitale di una seconda Trangiordania. Al governo di Amman, ne siano a capo leaders simpatizzanti per il panarabismo o altri portati all’occidentalismo, conviene naturalmente perpetuare lo status quo territoriale. Ma ciò non conviene ai profughi arabi che bramano ritornare in Palestina e, pertanto, attribuiscono valore di amici soltanto ai nemici dichiarati di Israele, e cioè agli Stati della “triplice” egizio-saudita-siriana. Fu da questo materiale umano in ebollizione che partirono le violente dimostrazioni dello scorso dicembre.
La situazione della Giordania divenne critica per l’azione diplomatica svolta dalla alleanza del Cairo, in evidente appoggio agli insorti, e che culminò nella clamorosa offerta di una regolare sovvenzione finanziaria ad Amman, a sostituzione dell’eguale somma di sterline (8.750.000) che la Inghilterra corrisponde annualmente alla Giordania in forza del trattato anglo-giordano. Con la destituzione di Glubb Pascià, e di altri ufficiali superiori di nazionalità britannica dal comando della Legione Araba, annunciata il 2 marzo, la monarchia giordana ha tentato di uscire dalle strettoie.
L’atto clamoroso doveva arrecare un grave colpo al prestigio britannico, ma non ha comportato quella debacle inglese in Giordania attesa dalla stampa filo-egiziana. A distanza, esso appare come una abile via di mezzo tra la rottura dell’alleanza con l’Inghilterra e la soddisfazione delle richieste del movimento panarabo capeggiato dal Cairo. All’indomani della cacciata di Glubb Pascià, il governo di Amman ha riaffermato la propria fedeltà all’alleanza con Londra, consentendo altresì a una sessantina di ufficiali che ancora prestano servizio nella Legione Araba di restare ai loro posti. A riprova delle intenzioni giordane è venuto il rifiuto opposto da re Hussein al premier siriano El Ghazzi, recatosi il 9 marzo ad Amman, in veste di latore e di interprete delle proposte avanzate dalla Conferenza dei capi di Stato di Egitto, Arabia Saudita e Siria, riunita al Cairo. A re Hussein sarebbe stato proposto, a quanto riferisce la stampa inglese, di recarsi al Cairo per discutere su un progetto di adesione della Giordania alla triplice egizio-saudita-siriana.
Ma è chiaro che l’Inghilterra non può ritenersi soddisfatta. La Giordania continua a prendere le sovvenzioni britanniche e a rispettare le clausole del trattato anglo-giordano che consentono all’Inghilterra di tenere basi aeree e formazioni corazzate in territorio giordano. Ma chi può dire fino a qual punto la Corte e il governo di Amman potranno resistere alla pressione coordinata che, all’interno dello Stato come dall’estero, il nazionalismo pan-arabo esercita su di essi? Una cosa è certa: la cacciata di Glubb Pascià ha intaccato fortemente il predominio inglese in Giordania e in tutto il Medio Oriente. Non deve stupire pertanto che, pur di salvarsi, il governo di Londra non abbia esitato a sfidare il nazionalismo greco a Cipro, a costo di provocare una crisi nello stesso schieramento della NATO.
Il governo di Londra, prendendo la grave misura della deportazione dell’arcivescovo Makarios, capo effettivo del nazionalismo pan-ellenico cipriota, era sicuramente in grado di prevedere che l’atto di forza avrebbe provocato la violenta reazione della Grecia, che apertamente aspira ad annettere l’isola. Il governo di Londra sapeva pure che gli Stati Uniti avrebbero appoggiato decisamente le recriminazioni anti-britanniche della Grecia. Non si deve dimenticare che l’attuale Stato greco deve in definitiva la sua esistenza agli Stati Uniti, i quali si addossarono il compito di condurre una sanguinosa repressione contro il movimento partigiano alimentato dalla Russia, e, fino alla scomunica cominformista di Tito, dalla Iugoslavia.
Ciò mostra quanto sia giusta la nostra tesi che l’ingerenza russa nel Medio Oriente non spiega affatto gli sconvolgimenti in atto nella zona. Infatti se veramente la diplomazia russa e i partiti comunisti legati a Mosca fossero il nemico principale dell’Inghilterra alle prese con il nazionalismo arabo, non si potrebbe spiegare come avviene che l’Inghilterra, in un momento di massimo pericolo per le sue posizioni mediorientali, possa gettarsi su una linea politica che ha l’effetto di drizzarle contro gli alleati occidentali. Chi ha mia visto uno che per fronteggiare l’assalto del nemico, provvede innanzitutto a guastarsi con gli alleati? Il punto da chiarire come si vede è un altro: l’Inghilterra e gli Stati Uniti sono veramente alleati per quanto riguarda la loro azione nel Medio Oriente? Si vedrà allora che il colpo vibrato a Cipro si può considerare come un supremo tentativo inglese, inteso a costringere gli Stati Uniti a comportarsi finalmente da alleati e non più da sornioni sabotatori della politica inglese nel Medio Oriente.
Il duello anglo-americano
È vero che non è la prima volta che l’Inghilterra muove la pedina di Cipro nel complicato e disperato gioco che conduce verso gli Stati arabi. Già all’epoca dei tumulti giordani Cipro fece parlare di sé. Accadde — e ne riferimmo — nello scorso gennaio, allorché Eden decise di inviare nell’isola un reparto di truppe paracadutate, forte di 2.000 uomini. Si temette allora che la minacciosa misura dovesse preludere, come dicemmo, ad una “guatemalizzazione” della Giordania; e tale eventualità non è invero ancora da scartare del tutto.
Non a caso, il secondo grosso avvenimento registrato nella situazione di Cipro si è verificato all’indomani di un altro rivolgimento accaduto in Giordania, cioè, appunto la cacciata di Glubb Pascià. La deportazione dell’Arcivescovo Makarios, capo della Chiesa ortodossa dell’isola e bandiera del movimento filo-ellenico, segue di appena una settimana il colpo di testa di re Hussein di Giordania. Ma stavolta gli accadimenti ciprioti non sono rimasti circoscritti nella crisi imperiale della Gran Bretagna, ma, al contrario, ne sono saltati fuori violentemente, investendo lo stesso schieramento del Patto Atlantico. I tumulti antibritannici scoppiati in Grecia, la violenta protesta del Governo di Atene, la furiosa campagna inscenata dalla stampa greca contro il governo Eden hanno messo a repentaglio le relazioni tra Londra e Atene. Né basta la decisione, presa dal governo greco, di deferire la questione di Cipro alle Nazioni Unite: ha trasformato la crisi greco-britannica in una crisi dell’intero schieramento atlantico. Infatti, le Nazioni aderenti al Patto Atlantico saranno poste, se e quando la questione di Cipro sarà discussa all’ONU, nella spinosa alternativa di prendere posizione contro l’una o l’altra delle parti, entrambe amiche e alleate.
Gli Stati Unti non hanno, invero, esitato nella scelta. Immediatamente si sono schierati al lato della Grecia. Infatti, l’ambasciatore statunitense in Grecia si precipitava, il 13 marzo, al ministero degli Esteri greco per consegnare il testo di una dichiarazione, diramata il giorno prima a Washington dal Dipartimento di Stato, nella quale si esprimeva la «preoccupazione piena di simpatia» del governo americano per gli avvenimenti di Cipro. Il passo americano sollevava violente proteste nella stampa britannica. Il “Daily Mail” giungeva al punto di definire il gesto americano «un calcio in bocca alla Gran Bretagna». In tal modo, Cipro diventava una questione della NATO.
Ma nessuno sulla stampa ha chiarito un punto: sapeva il governo inglese a quali reazioni greche e americane andava incontro colpendo brutalmente il movimento filo-ellenico di Cipro? Di certo c’è che da tempo erano note le mire della Grecia su Cipro, isola abitata da circa 364.000 greci e da una minoranza turca di circa 80.000 persone. Né le aspirazioni di Atene sono senza fondamento, avendo dimostrato il plebiscito indetto nella isola nel gennaio 1950 che la popolazione è favorevole, a schiacciante maggioranza, all’unione alla Grecia. Quale importanza rivesta al momento la questione di Cipro per Atene, si vede dal fatto che le recenti elezioni greche hanno visto i partiti rivali azzuffarsi nei comizi elettorali quasi esclusivamente sulla politica di Atene verso Cipro. Né il governo di Londra ignorava, d’altra parte, che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti a fianco della Grecia per evitare lo sfasciamento dell’alleanza atlantica. Non potendosi ritenere che tutto il Foreign Office sia stato colpito da improvvisa cecità, si deve ritenere che il governo di Londra abbia operato a freddo la deportazione di Makario. In vista di che? È chiaro: Londra ha manovrato sia per raggiungere lo scopo immediato di far risalire il prestigio britannico offuscato, agli occhi degli arabi, dalla cacciata di Glubb Pascià, sia per ottenere finalmente la soddisfazione di un desiderio alimentato lungamente dalla diplomazia inglese: la “associazione” americana alla politica britannica nel Medio Oriente.
Tutto quello che Londra è riuscita a ottenere da Washington, dall’epoca dell’annuncio dell’accordo russo-egiziano per la vendita delle armi, è stata la riconferma dell’accordo tripartito anglo-franco-americano del 25 maggio 1950, che garantisce l’odierna frontiera arabo-israeliana. Ai reiterati inviti di adesione al Patto di Baghdad, il governo di Washington ha risposto invariabilmente picche. Né Londra disponeva finora di mezzi atti a far recedere i cari cugini americani dalla politica dello wait and see, cioè di stare a vedere come la costruzione imperiale britannica affoga. Ora Londra possiede di che ricattare gli Stati Unti: appunto la crisi di Cipro. Non essendo riuscita ad ottenere un cambiamento della politica americana nel Medio Oriente, oggi cerca di farsi “vendere”, potendo dare in cambio qualche soddisfazione al nazionalismo greco-cipriota, l’“associazione” richiesta invano a Washington. Riuscirà il gioco inglese? O riuscirà l’America a fronteggiare il ricatto con un controricatto?
Intanto, possiamo sapere fin da ora che cosa Londra intende ottenere da Washington. Non certamente un fronte unico contro la “ingerenza russa” nel Medio Oriente, o tantomeno contro le utopistiche politiche autarchiche ispirate dal velleitario nazionalismo arabo. Londra tende ad arrestare l’espansione americana nel Medio Oriente, che, iniziata durante la seconda guerra mondiale, minaccia di scalzare definitivamente l’influenza britannica. In realtà, i soli possibili rivali che si fronteggiano in questa zona sono le compagnie petrolifere americane e inglesi, le quali soltanto posseggono l’attrezzatura necessaria a estrarre e trasportare ai mercati di consumo transoceanici il petrolio di Kuwait, Bahrein, Arabia Saudita, Iran, ecc. La tirannia dello spazio ci vieta di illustrare, come vorremmo, questo importante fenomeno, che dobbiamo rimandare a prossime trattazioni. Basterà per ora citare il caso dell’Iran, ove le disgrazie procurate da Mossadeq all’Anglo-Iranian sono state sfruttate dalle compagnie petrolifere americane per penetrare nel paese. E il caso dell’Egitto, ove gli americani stanno entrando mentre gli inglesi ne escono, finanziando la costruzione della gigantesca diga di Assuan. Né mancano altre prove dell’arretramento del vecchio colonialismo inglese sotto la spinta del nuovo colonialismo usuraio capeggiato dagli Stati Uniti.
Il rivolgimento non è certo di poco conto, se gli avvenimenti del Medio Oriente e dei paesi rivieraschi del Mediterraneo si ripercuotono sulla politica mondiale, come non avveniva da secoli. Contrariamente a quanto pretende la stampa cominformista, o genericamente democratica, che vede nei tumultuosi avvenimenti di questa vitale zona del mondo la «marcia dei popoli oppressi verso l’indipendenza», lo sviluppo storico dei paesi arabi è gravemente ostacolato dai meccanismi economici che subordinano le colonie alle metropoli, gli Stati formalmente sovrani ai centri imperialistici. L’indipendenza di questi Stati, e degli altri che vanno sorgendo dalle rovine del vecchio colonialismo, è reale solo sul terreno giuridico. Per il momento, tale giudizio è valido anche per i grandi Stati asiatici, quali la Cina, l’India, l’Indonesia, il Pakistan. Ma questi possono sperare di arrivare, attraverso una dura e non breve lotta per l’industrializzazione, ad allentare la servitù economica verso l’Occidente industriale. Per i paesi arabi, invece, l’avvenire è scuro, perché non posseggono le risorse naturali e le energie demografiche che sarebbero necessarie per abolire l’unilateralità delle loro economie nazionali e ridurre la dipendenza dall’Occidente.
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Nel n.8 di “Programma” avevamo notato come la cacciata di Glubb Pascià dalla Giordania non avesse ancora segnato la temuta debacle dell’influenza inglese in quel regno ma aprisse una fase nuova in cui sarebbe stato ben difficile ai governanti, pur legati alle sovvenzioni britanniche, resistere alle pressioni interne ed esterne del nazionalismo pan-arabico. Nello stesso tempo avevamo strettamente connesso la crisi giordana alla crisi cipriota e previsto che quest’ultima si sarebbe aggravata nella stessa misura in cui il prestigio dell’Inghilterra nel baluardo della Giordania sarebbe ulteriormente decaduto.
La situazione è evoluta proprio in questo senso. Il governo giordano di Samir el-Rifai, che aveva tentato di mantenere una posizione di equlibrio nella crisi dei rapporti occidentali-egiziani, è caduto il 22 maggio lasciando il posto ad un aperto sostenitore delle tendenze nazionaliste, antibritanniche e panarabe, Said el-Muftì, al quale re Hussein ha dato incarico di stringere ancor più i rapporti con gli Stati arabi, per conseguire con essi «l’unità, la libertà e il rispetto» dell’intero mondo musulmano, e che ha già sollevato il problema di una revisione del trattato con la Gran Bretagna.
Non si è ancora alla rottura: infatti, si tratterebbe di sostituire alle sovvenzioni londinesi un canone di affitto per le basi militari, il che, sebbene in forma che si vuol sottolineare provvisoria, significa pur sempre “noleggiarsi” al “nemico”. Ma siamo su una via inclinata che fa prevedere nuove richieste e nuove tensioni, tanto più che a capo della Legione Araba, già riserva di caccia di Glubb Pascià, è stato nominato il capo dei “liberi ufficiali” avversi alla dipendenza straniera, gen. Ali Abu Nuwar. E poiché, ad aggravare la situazione, il britannico sottosegretario alle Colonie Lord Lloyd si è sentito sonoramente fischiare ad Aden, dove aveva tenuto un discorso per ribadire il fermo intendimento inglese di non mutare lo status quo della Colonia della Corona (19 maggio, le date, come si vede, sono significativamente vicine in Giordania e ad Aden), la crisi di Cipro ha subìto un ulteriore aggravamento.
In un suo discorso a Norwich, il 10 giugno, Eden ha dichiarato: «Non si deve assolutamente prendere in considerazione l’eventualità di cedere su un qualsiasi elemento nella difesa dei nostri legittimi e vitali interessi sia nel Golfo Persico, sia a Cipro, sia ad Aden... La vita del nostro paese e dell’Europa occidentale dipende oggi e dovrà dipendere per molti anni a venire dai rifornimenti di petrolio del Medio Oriente. Se le nostre risorse petrolifere dovessero mai essere in pericolo, saremmo costretti a difenderle». E, drammatizzando la situazione con accenti che possono sembrare esagerati, ma che ben esprimono la dipendenza dell’“agiatezza inglese” dai suoi possedimenti imperialistici: «Le installazioni di cui abbiamo bisogno a Cipro fanno parte di questa difesa», ha continuato. «Non possiamo quindi mettere in questione la loro disponibilità. Il tenore di vita di ogni singola persona in Gran Bretagna non si raddoppierebbe in 25 anni, ma diventerebbe un quarto in un periodo molto più breve. Ed anche se ognuno lavorasse il doppio, non servirebbe a nulla». Poco dopo, sono fioccati gli arresti di ciprioti in Inghilterra e altrove.
Così, il terremoto medio-orientale continua, fatalmente, inesorabimente.
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Mentre l’affare di Suez si avvia – nel segreto delle conversazioni diplomatiche iniziate all’ONU – verso la prevedibile soluzione concordata nel senso che gli Stati Uniti caldeggiano, il Medio Oriente non cessa di manifestare i sintomi esplosivi di una crisi interna. E, ancora una volta, è la pressione dell’imperialismo che fa zampillare dal sottosuolo, accanto al petrolio, armi ed armati.
L’area di tensione si è spostata dall’Egitto alla Giordania e ad Israele. La manovra inglese, tanto sottile quanto disperata, è chiara: nell’imminenza delle elezioni nella Giordania, dalla quale – attraverso una serie di vicende che abbiamo seguito in ripetuti articoli – la sua influenza è stata cacciata, l’Inghilterra cerca di rientrare in quella zona, la vecchia sede di Glubb Pascià e della Legione cosiddetta araba, per via indiretta, cioè per la via dell’Iraq. Di qui l’annuncio dell’entrata in Giordania di truppe irachene – entrata poi smentita, ma successivamente “non esclusa” – con l’evidente compito, dati gli stretti legami inglesi con l’Iraq, di riguadagnare il terreno perduto nel mondo arabo e di registrarvi un punto a favore dopo i rovesci subiti in Egitto. Il pretesto è di garantire “libere elezioni”: questi campioni della democrazia affidano la “volontà popolare” al linguaggio delle baionette…
La mossa, comunque debba concludersi (o con uno ritirata del preannunciato invio di truppe, o con la sua tardiva conferma), ha immediatamente creato una catena di reazioni. Israele grida alla minaccia al suo territorio; gli ebrei non dimenticano la duplicità della politica britannica, che già nel corso della prima guerra mondiale promise insieme agli arabi una Grande Arabia e agli israeliti la ricostituzione della Home. L’Egitto, per quanto impegnato nel lavorio diplomatico, non può mancare di seguire con ansia la situazione giordana. In tutti i paesi arabi riaffiorano le diffidenze reciproche e le gelosie. Così, covando sotto le ceneri e spostandosi da un epicentro all’altro, la guerriglia – se non la guerra aperta – viaggia lungo la fascia mediterranea.
E poi si parla di rilancio europeo, di mercato comune, di unità dell’Occidente. L’unità dei mercanti non può essere che una rinnovata zuffa intorno allo stesso osso.