|
||
|
Seguiva la presentazione della traccia di un nuovo rapporto, sotto forma di un insieme di tesi generali, relativo a come il nostro movimento definisce e si rapporta al suo fine proclamato, il Comunismo. Stato descritto “felice”, inizio e approdo del percorso umano che affronta il viaggio storico mantenendo il ricordo collettivo di un bene originario perduto e nel rimpianto per la sua mancanza. Il bisogno della ricomposizione delle parti dell’umano essere, separate dai millenni di guerra interspecifica, è presente alla coscienza collettiva in forme mistiche e religiose. Che non neghiamo, ma trovano nel marxismo conforto scientifico e dialettico, così come le ricorrenti intuizioni utopiche, delle quali superiamo la semplice nostalgia e auspicio volontarista di un ritorno a stati “di natura”, vedendo nel formarsi, crescere e lottare del proletariato moderno, movimento che non “vogliamo” ma che si svolge «davanti ai nostri occhi», la possibilità che finalmente si offre di superare la lacerazione fra individuo e comunità.
Gran parte della "cultura politica" mostra di credere che, ormai, crollato il Comunismo, il mercato e la connessa libertà hanno avuto partita vinta. I pensatori "deboli" la fanno da padroni e si rimettono con grande disponibilità alle infinite possibilità aperte dalla vittoria del mercato.
Ma il "pensiero forte" ancora in circolazione non disarma, e contro l’ottimismo generale in questo dominio fa cadere la doccia scozzese.
Il Declino del capitalismo di E. Severino lancia il grido di allarme: il Capitalismo distrugge la Terra. Prontamente gli scienziati dell’economia reagiscono: il Prof. Severino non ha autorità in materia, è un filosofo, tendente alla "tuttologia", dunque non attendibile in questo genere d’affermazione.
La contro replica non si è fatta attendere: «Sergio Ricossa, a proposito della premessa del mio libro, se il capitalismo distrugge la Terra distrugge sé stesso, riconosce che anche per me rimane incerta la consistenza scientifica delle sue implicazioni; ma aggiunge che do l’impressione che basti credere perché diventi vera (...) Rispondo che si può cambiare strada o perché si sa che è interrotta, o perché si crede che lo sia (e magari non lo è). Anche se il secondo motivo fosse del tutto privo di consistenza scientifica, il cambiamento di strada sarebbe reale» (Corriere della Sera, 2 gennaio 1994). Le palle non sono ferme, sembra obiettare il pensatore Severino.
Non illudiamoci che Severino, con la sua fede che il capitalismo stia distruggendo la Terra e dunque sé stesso, sillogismo da prendersi con le molle, ci dia una mano a far saltare per aria un sistema di produzione storico che effettivamente fa crepe da tutte le parti. Lo citiamo per mostrare che la sua vittoria a tutto campo è molto più problematica di quanto trionfalisticamente gridano a tutti i venti, e che, anzi, a dire il vero, si rivela una vittoria di Pirro pagata a caro prezzo prima di tutto dai proletari, ma anche dall’evidente macello delle mezze classi.
Non possiamo dunque aspettarci niente di buono dal braccio di ferro tra i vari Severino e Vattimo, Ricossa e Veca nostrani e d’altri paesi; la questione va ben oltre le loro povere concioni. Noi, che non ci siamo neanche girati davanti al baccano, non abbiamo che da parafrasare il classico "tirem innanz". Nel frattempo non possiamo non sottolineare il livello e fare il punto del dibattito generale sulle possibilità e lo sviluppo futuro del capitalismo in declino.
Nel campo economico-politico, ridotto a volgarissima disciplina dalle acrobazie degli econometrici, analisti, ricercatori di mercato ed altra varia zoologia, in linea generale prevale la considerazione opportunistica della variante neo-classica che predica da tempo il riconoscimento del valore primario della produzione di reddito, la classica torta intorno alla quale si riconosce legittima e in qualche modo inevitabile la "conflittualità" per la determinazione delle fette da distribuire e ridistribuire secondo i sofisticati ed ormai fallimentari meccanismi dello Stato assistenziale. È su questo terreno, senza riuscire ad intravedere al di là degli alberi la foresta, che si misurano gli economisti al capezzale del moribondo Capitale.
Per il nostro movimento politico si rende sempre più cogente e primario
il compito di ribadire le classiche posizioni che non riconoscono avvenire
né al mercato né alle nuove tecniche di conquista delle nuove aree di
sviluppo: per questo riproponiamo in sintesi le nostre tesi generalissime,
per poi dimostrare che i pannicelli caldi proposti da democratici ed ex
opportunisti, da liberal-moderati di varia astrazione e cultura, non saranno
in grado di impedire il declino, e per dirla col nostro linguaggio, la
crisi
catastrofica del sistema di produzione vigente a livello Internazionale.
Sintesi di nostre tesi generali
1. Il materialismo storico e dialettico avvalora la tesi dello sviluppo per salti, che smentisce ogni visione statica della natura e della società umana. Nello stesso tempo valorizza la prova storica ed antropologica di Morgan sulla verità del comunismo primitivo, "rozzo".
2. Il Comunismo non teme l’ipotesi d’una società felice delle origini, idealizzata a livello mitico e religioso in Paradiso Terrestre o Età dell’oro, perché questo tipo di comunismo valorizza l’idea di una umanità capace di realizzare la felicità, rotta dalla separazione in classi in un crescendo di tensioni che dialetticamente hanno condotto alla società capitalistica, oltre la quale solo l’ipotesi del Comunismo integrale può permettere l’emancipazione delle classi oppresse.
3. Nella concezione materialistica dialettica il Comunismo non è, però, un "ritorno" né una semplice nostalgia, né ancora meno meccanica restaurazione dell’ordine perduto. Se così fosse non avrebbe senso la lotta delle classi, e la comunità nuova si realizzerebbe per necessità meccanica insita nella natura-cultura.
4. Non si vede perché dovremmo lavorare esclusivamente nell’ipotesi dell’uomo imperfetto per natura e segnato dal Male. Questa è la tesi tipicamente cristiano-borghese esaltata dalle correnti moderniste, finendo così per costituire la giustificazione ideologica della fissità sostanziale della società e dell’essere umano. In realtà la "restaurazione" del Comunismo, inteso dal Mito e dalle religioni come prodotto dell’intervento salvifico, può essere svelato come fede nell’Uomo-Dio di poter stabilire la felicità, la verità, l’amicizia, la conversazione dell’uomo con tutto e con tutti. Non è forse vero e da noi da sempre affermato che la "ricomposizione" sociale del comunismo mira a questo: ad una relazione tra parte e tutto di tipo organico, per cui l’uomo, come nel Krta, il quaternario degli antichi Indù, non ha problemi di conoscenza, perché vive la pienezza della vita? Tra il tutto e la parte, tra interno ed esterno, tra soggetto ed oggetto non ci sarà contraddizione (vedi Critica al Programma di Gotha).
5. Si tratta certamente di saper cogliere il nucleo reale (Das Kern, come dice Marx) e razionale della questione, ma il nocciolo non potrebbe essere proprio la verità che si è velata e ri-velata, coperta di racconti e di interpretazioni, noi diremmo di "ideologia"..?
6. Tutta la storia, specie dell’Occidente, fino al marxismo, è segnata
da questo tipo d’esperienza. Il ricordo del Bene originario è stato
coperto dalla dura lotta, dalle tensioni sociali determinate dalla nascita
della opposizione delle classi, dalla cosiddetta guerra intraspecifica
di cui ha parlato Lorentz, dalla separazione tra soggetto e oggetto, tra
maschio e femmina. Come sostiene la esicastia di tipo orientale:
«quando l’uomo non parla più alla donna, quando essa non conversa e
non ascolta più le sue parole, si lascia libero spazio al demonio, al
separatore».
Nella versione comunistica radicale che noi
sosteniamo è necessario riattingere e riconoscere valore all’idea originaria
del Comunismo, altrimenti l’ipotesi-necessità della società senza classi
diventa veramente "utopia", una impossibilità pratica e teorica insieme.
Invece è per noi la "realtà che ci scorre davanti agli occhi", come dice
Marx.
La spinta e la potente accelerazione verso
l’uomo nuovo determinata dalla crescita delle forze produttive
durante lo sviluppo del moderno capitalismo, ha permesso al materialismo
storico di intravedere un regime sociale capace di realizzare la fine delle
contrapposizioni tra individuo e società, che gli ideologi borghesi radicali
avevano cominciato ad elaborare con gli spunti di Mably, Morelly, l’abate
Meslier e Saint-Martin. Con Rousseau attinge forte impulso la nozione
di "volontà generale" che allude alla ricomposizione tra parte e tutto
sociale: «Colui che osa prendere l’iniziativa di fondare una nazione,
deve sentirsi in grado di trasformare ogni individuo, che in sé stesso
è un tutto perfetto e isolato, in una parte di un tutto più grande da
cui questo individuo riceve in qualche modo la vita e l’essere; di alterare
la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza
parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che abbiamo tutti
ricevuti dalla Natura» (Contratto sociale).
La parte e il tutto sono parti integranti
dello stesso tutto; nella compagine sociale ciò appare quasi un "truismo",
cioè un’ovvietà; eppure deve essere ancora stabilito quali sono e devono
essere i limiti reciproci tra individuo e società. Se il tutto fagocita
la parte, l’individuo non ha più ragione d’essere come parte che sente
l’esigenza d’integrarsi e di rafforzarsi scambiando le sue relazioni
con la società; mentre se la parte pretende d’essere tutto, allora l’individuo
può fare a mento del rapporto con la società.
Nella versione di Rousseau, teorico della
democrazia "radicale" allo stato nascente, individuo e società si presentano
ancora come due enti metafisici ed astratti. Si dovrà capire che l’individuo
è il frutto dei rapporti sociali, e che in sé è solo un’astrazione.
La società è l’insieme dei rapporti sociali, e non una categoria
di pensiero. Col materialismo dialettico anche la "logica" migliora...
in quanto scienza organica, e non puramente "formale".
7. Il Comunismo è un sentimento ed un’idea che l’uomo si porta dentro, che sta dietro la sua vita di specie e che proietta nel futuro, come realtà completamente dispiegata. Si tratta di capire bene perché la società organica si è rotta dando inizio alla Storia come storia della lotta tra le classi (Vedi Engels, Origine della Famiglia, della Proprietà privata e dello Stato, nella loro sequenza).
8. Nelle religioni monoteistiche l’idea che Dio parli direttamente all’Uomo allude senza ombra di dubbio alla società organica prodotta, secondo una classica haggadah ebraica (racconto), dall’entrata dell’anima, che significa vita, spirito vivente, al momento di ogni concepimento, nel corpo femminile. Ciò che unisce si contrappone a ciò che separa. Il Separatore, inteso come demonio che rompe l’unità, non allude forse ad una forza metastorica che infrange l’equilibrio e spinge l’uomo nella direzione della "conoscenza" attraverso un rapporto attivo con la realtà, e cioè il lavoro? In ogni religione "oggettiva" antica è possibile trovare questo tentativo di ricostruzione della vita in generale, e di quella sociale in particolare.
9. Nella versione marxista – che s’iscrive alla fine dell’arco
storico che segna la nascita cosciente dell’organismo collettivo positivo,
capace di porsi il tema della società organica non semplicemente come
aspettativa utopica, o contemplazione, ma come reale trasformazione delle
divisioni sociali in un regime sociale unitario, facendo leva sulla loro
"naturale" dinamica – non c’è più spazio per interpretazioni volgari,
sia nel senso del determinismo biologico neo-metafisico, sia di tipo astrattamente
matematico proprio di modellistiche che giocano consapevolmente sulle astrazioni
e sulla loro pura funzionalità come "nuovi creatori", capaci di "creare
ancora", di trovare un nesso che unisca gli opposti, il tutto con la parte.
Per questo è necessario esser passati attraverso
l’insoddisfazione della polarità assoluta, nella tensione verso una
nuova unità. Il mistico non è un bambino, ma colui che non può
accettare la dualità irrisolta, in nome del Vivente non diviso e separato.
Ciò e sufficiente per affermare che la milizia rivoluzionaria non si omologa
al modo corrente di concepire la fede, la razionalità, la scienza.
Del resto le stesso filosofo "forte" riconosce
che l’azione umana non è il frutto della scoperta di una consistenza
"scientifica" di una determinata visione del mondo, ma di una convinzione
che è
capace di modificare il mondo. È quello che il comunismo
ha sempre sostenuto, non partendo da una condivisa scientificità delle
sue tesi, ma della propria fede nella necessità del cambiamento rivoluzionario,
il solo capace di trasformare profondamente il modo di intendere la realtà
e soprattutto di volgerla nel senso della soddisfazione dei bisogni materiali
e morali delle classi sfruttate. Per questo non ha mai preteso che i suoi
avversari condividessero la Teoria del Plusvalore ed il suo impianto "scientifico",
anche se Marx non ha escluso di far uso del modo di concepire la scienza
del suo tempo per "dimostrare" la attendibilità della sua teoria.
Così, quando noi rivendichiamo e sosteniamo la
scientificità del
materialismo storico non abbiamo mai pensato di appiattirci sui ricorrenti
e contraddittori modi di intendere la scienza da parte dell’ideologia
borghese, che, oltretutto, nei suoi alti e bassi, oggi in particolare,
nega che possa aversi un punto di vista assoluto della realtà.
La nostra mistica è dunque l’unificazione
nel Partito, come organo dirigente della classe, delle facoltà individuali
con una coscienza collettiva ed organica. A chi ci obietta che questo è
un classico
"wishfult thinking", cioè un pio desiderio, rispondiamo
che il comunismo non cessa di desiderare, e non se ne vergogna.
Come ultima relazione si ascoltava la prosecuzione sul significato del nostro superamento dell’utopismo. La nostra “mistica” concepisce una sintesi che esclude la contraddizione tipicamente borghese tra utopia e scienza: quando il nostro partito e la nostra tradizione ha sostenuto che il comunismo non è semplicemente sogno utopico, ma scienza, non ha mai voluto dire che la nostra scienza si appiattisce su quella concepita dalle filosofie e teoriche borghesi, tra l’altro molto peggiorate mano a mano che il capitalismo si è infognato nella sua irrimediabile decadenza. Noi abbiamo sempre rivendicato la nostra capacità di comprendere e di andare oltre i miti, le religioni e le personalità carismatiche che si pretende in ogni epoca di evocare senza coglierne il significato e la dimensione in rapporto alle potenti determinazioni sociali che li esprimono. Siamo stati sempre convinti che sono invece i “piani di vita”, che difendiamo come partito e come organo della classe, a determinare le grandi svolte storiche, secondo come si succedono, invecchiano, e si impongono. I più gravi arbitri del pensiero sono sempre quelli che vengono reclamati dall’individualismo antico e nuovo, propri della libertà soggettiva, della sua illusione di sottrarsi al ferreo determinismo del materialismo, che non vuole riconoscergli la forza e la possibilità d’essere trasformato da una prassi rivoluzionaria che comporta la conoscenza della storia e la capacità di direzione del movimento rivoluzionano. Per questo escludiamo, come abbiamo sempre escluso, che le teorie nascano ad ogni stormir di fronde, ma sono il condensato storico ed il frutto di bilanci che solo le grandi forze storiche sono incaricate di fare. Nella nostra epoca solo il partito storico e formale della Rivoluzione proletaria è abilitato a tanto.
La nostra mistica concepisce una sintesi dialettica di utopismo e di scienza senza contraddirsi. Leggiamo nel nostro "Utopia, scienza, azione": «L’utopismo è una anticipazione del futuro; il comunismo scientifico lo richiama alla cognizione del passato e del presente, solo perché del futuro non basta un’anticipazione arbitraria e romantica, ma occorre una previsione scientifica: quella specifica previsione che è resa possibile dal maturarsi della forma capitalistica e di produzione, e che strettamente si collega ai caratteri di essa forma, del suo sviluppo, e di particolari antagonismi che insorgono in essa».
Mentre l’ideologia borghese, secondo le mode, gli alti e i bassi della sua "cultura", ora riscopre i miti, ora la pura ragione, ora la religione – come sta accadendo in questa fase di minacciate apocalisse e catastrofi – la nostra visione della realtà è in grado di giustificare la ragione del mito e delle religioni ed il loro velo ideologico, come pure il nucleo molle della ragion pura e della scienza, quando questa si rifiuta di correggersi e di riconoscersi come espressione delle forze in gioco nella lotta sociale, rifugiandosi nella comoda "neutralità" e nella "oggettività" senza riferimenti sociali.
«Mentre nelle vecchie dottrine il mito e il mistero furono espressioni delle descrizioni degli eventi precedenti ed attuali, e mentre la moderna filosofia della classe capitalistica vanta (con sempre minor risolutezza) di avere eliminati tali elementi fantastici dai fatti fin qui registrati, la nuova dottrina proletaria costruisce le linee della scienza del futuro, del tutto sgombro da elementi arbitrari e passionali».
Non ci siamo limitati a smentire il potere e il valore di "profeti ed eroi" secondo una critica puramente negativa, ma a coglierne il significato in rapporto al maturare dei piani di vita della specie, come si snodano nell’arco della storia naturale e umana: «Regolato il conto coi profeti, lo fu del pari con gli eroi, che le vecchie concezioni della storia ponevano al sommo, tanto nella forma di capitani di armi che in quella di legislatori e ordinatori di popoli e di Stati. Inutile anche qui dire come ogni sistema profetico, ogni gesta di conquistatori o di innovatori politici viene dalla critica marxista vagliata quale espressione o risultato che traduce effetti profondi dei piani di vita che si succedono, invecchiano, e si impongono. La nuova dottrina non può dunque legarsi ad un sistema di tavole o testi, premessi a tutta la battaglia; come non può affidarsi al successo di un Capo o di una avanguardia combattente ricca di volontà e di forza. Profetizzare un futuro, o voler "realizzare" un futuro sono posizioni entrambe inadeguate per i comunisti».
* * *
Si fa a questo punto necessario, per fissare bene gli occhi sull’avvenire, approfondire, alla luce del nostro metodo, quello che abbiamo fin dalle origini intese per avanguardia o avanguardie: «Il problema della prassi del Partito infatti non è di sapere il futuro, che sarebbe poco, né di volere il futuro, che sarebbe troppo, ma di conservare la linea del futuro della propria classe».
Vacuo ai nostri occhi il blaterare di tutto un secolo di avanguardie scollegate da questa linea di riferimento, specie quando non si è fatto, in tutti i campi, che abusare del termine. Nella mobilitazione di forze determinate dall’esplosione imperialistica del Capitale, gruppi e correnti si sono sentiti "allertati" nelle più strane direzioni. Ma l’allerta non è stata spesso che lo stato d’ansia di chi, vedendosi chiuso alla spalle il passato non più agibile, si è attivato ad esplorare il novum. La consegna – si è creduto – era quella di tornare poi indietro per dare lumi alla truppa – ed a volte è successo – ma molto spesso ci si è persi nell’esplorazione, illudendosi d’aver trovato solo per sé l’ambiente giusto, fermatisi a godersi il loro "universale astratto" per conto proprio. La storia di avanguardie rimaste tali e in tali condizioni è tra le più interessanti, ma a volte squallide. Per questo vale la pena di studiarne l’esperienza per trarne la giusta conclusione: non basta la volontà di rottura col presente insopportabile; è necessario conservare la linea del futuro della propria classe.
Non devono ingannare certi tentativi di bilancio provenienti da sponde opportuniste e borghesi: l’immagine che esse danno del Capitale nel suo insieme, come modo di produzione e come sistema di dominio politico e militare, anche quando tende ad essere presentato non più come "il migliore dei mondi possibili", ma pessimisticamente e obbiettivamente in declino, mira pur sempre a "far ingoiare rospi e serpenti", come ha recentemente ricordato l’ex-cancelliere socialdemocratico Schmidt. La produzione di plusvalore rimane l’imperativo dal quale nessuna forza politica è disposta a prendere le distanze: il sistema capitalistico può anche essere riconosciuto come un Inferno, ma nel quale la classe dominante sta sempre meglio del proletariato, metropolitano e delle periferie del mondo.
Ecco, il sovrappiù è il dogma intorno a cui ruota ogni società di
classe, ma che solo il materialismo storico ha circoscritto e determinato
come plusvalore, con le sue leggi che solo la rivoluzione comunista è
in grado d’infrangere.
Il "dogma" intorno a cui gira tutta la concezione marxista della società capitalistica, ed in generale della storia come lotta delle classi, è la produzione di plusvalore e la destinazione sociale di esso.
Il declino del capitalismo non consiste nella pretesa di Severino per la quale, se oggi il Capitalismo distrugge la Terra, dunque distrugge sé stesso. Non c’è ecologista oggi che non condivida l’asserzione del signor filosofo. La nostra tesi storica non esclude che il Capitale, a forza di distruggere le forze produttive secondo il suo infernale ritmo, finirà per autodistruggersi. Ma in qualche modo tutte le forme di catastrofismo antirivoluzionario finiscono per incontrarsi: sono forme di ultra imperialismo che teorizzano il superamento dell’insopportabile modo di produzione per via in qualche modo "naturale". Sarebbe facile che l’enorme marchingegno storico trovasse un limite di questo genere e si fermasse sull’orlo del baratro per una qualche illuminazione e miracolo di Damasco. Noi siamo invece della convinzione che senza l’entrata in campo del proletariato come ultima classe della preistoria umana, non ci sarà limite alla distruttività del modo di produzione capitalistico.
Cospicui economisti si sono cimentati nel tentativo di smentire e di correggere la lezione di Marx, con scarso risultato. Ma solo chi, come il nostro Partito, si predispone ad unire dottrina, cioè conoscenza dei piani dalla specie, e forza storica di dirigere e guidare verso il suo scopo il proletariato, può essere in grado di comprendere la potente dialettica che sta alla base della Teoria del Plusvalore, il cui significato e portata sfugge al modo di concepire la scienza proprio dei teorici borghesi. Solo il Partito infatti rivendica una visione d’insieme che lega indissolubilmente passato presente e futuro, una verità che individualmente può essere sostenuta o riconosciuta da chiunque, ma che solo nell’azione pratica rivoluzionaria acquista il suo valore.
Filosofi attuali e di moda lo hanno fatto, ma slegandone le implicazioni dall’azione storica. «Si deve concludere che le cose future sono reali anche se non esistono ancora (...) analogamente tutte le cose passate sono reali, anche se non esistono più», così afferma il filosofo americano Putnam, aggiungendo: «La questione è stata risolta mediante la Fisica, e non mediante la filosofia (...) non credo che esistano ancora problemi filosofici riguardo il tempo». Siamo di fronte ad un "mistico"? No. Semplicemente ad una ammissione che diventa inevitabile ogni volta che si abbia il coraggio di prescindere dalle angustie e dal feroce condizionamento dell’ideologia corrente. Putnam, infatti, ritiene che ciò sia possibile purché si sia disposti a distinguere tra "necessità" ed "esistenza". Da questo scaturisce a suo parere il tema della "libertà". E qui le nostre strade si dividono, come è naturale, e il suo modo di connettere ed inferire non è compatibile col nostro: alla nostra scuola le regole della dialettica non sono individuali.
Gravi arbitrii sono quegli atti del pensiero che vengono reclamati all’individualismo
antico e moderno ed attribuiti alla liberà oggettiva, alla sua pretesa
di sottrarsi alle leggi materialistiche e ai risultati del lavoro di specie.
Ma più grave ancora è la pretesa, nei casi estremi dell’individualismo
e dell’anarchia di matrice borghese, di esercitare nella realtà delle
forze sociali volontà e forza in modo arbitrario ed avulso dalle necessità
oggettive. La nostra dottrina al contrario consiste nella lettura delle
spinte e delle contraddizioni che reclamano l’intervento del "parto della
storia".
La dittatura proletaria: Stato come mezzo di lotta
Dal nostro punto di vista non è sufficiente riconoscere l’esistenza delle classi, le loro insanabili contraddizioni, per poi affidarle alla libertà individuale che dovrebbe o potrebbe intervenirvi in forma sporadica, contingente, nelle modalità borghesi del voto, dell’opinione, o anche della violenza individuale o di gruppo.
Marx, nella lettera a Weydemeier del 1852 sottolinea appunto che l’apporto del marxismo consiste nel riconoscimento della necessità della dittatura proletaria come la forza necessaria per superare le strettoie delle società di classe.
La dittatura proletaria non si "prefigura", né si configura come un "ordinamento giuridico sovrano", nel senso di strumento di lotta contro ogni lotta. Questo tipo di teorica è proprio di quegli Stati che nel corso della storia della lotta delle classi si sono proposti come apparato di forza volto a tenere sotto controllo ogni tipo di eversione d’un certo stato di cose funzionale ad inconfessati interessi di parte mascherati da interesse generale.
Lo Stato proletario si propone di spezzare (Zertreten, sottolinea Lenin in Stato e Rivoluzione) gli apparati che impediscono alle forze produttive imprigionate dentro ai rapporti di produzione capitalistici di liberarsi nella direzione del socialismo.
In virtù di questa apertura questo nostro Stato non si propone più come espressione di soggettiva vendetta o risentimento: forcipe necessario per il parto, la violenza rivoluzionaria non può essere sinonimo, neanche in senso psicologico, di forza puramente "reattiva", ma di potenza attiva, forte e necessaria, aperta al nuovo, tesa in avanti, non rivolta all’indietro.
Questo è il senso nell’Antidühring di Engels: il comunismo, contrariamente alle letture pacifistiche ed umanitaristiche dilaganti, non pretende di realizzare il potere sovrano che elimina ogni futura dialettica, ma che invece rompe il circolo vizioso della lotta tra le classi che impedisce alla specie di spingere in avanti i suoi "piani generali".
La pretesa di concepire la lotta come "violenza intraspecifica" inevitabile in quanto "naturale", impedisce di vedere che ben altre e più alte forme di competizione e di sfida sono aperte all’umanità, nel campo della conoscenza, della scienza, dell’arte, in una parola, nel processo d’umanizzazione della natura e di naturalizzazione dell’uomo.
Gli «spostamenti del campo del conflitto» di K. Schmitt, pur riconosciuti e scoperti dal discusso teorico tedesco, non sono meccanismi nati oggi, invece, come tutte le cose di questo mondo, ben più antichi dei loro "teorici", com’è giusto e naturale. Poiché però si alzano, come la nottola di Minerva, al tramonto, non hanno la grazia della filosofia del mattino, ed appaiono minacciosi e rassegnati o, peggio, "reattivi". Non ne abbiamo timore noi, i "violenti" e "aggressivi": ci sarà da lottare!
Lo "spostamento" che opererà la dittatura proletaria sarà quello che soltanto a sprazzi e senza coerenza hanno già tentato i "piani di specie" contenuti nella storia della lotta tra le classi, dall’antico schiavismo al moderno capitalismo. Sono i campi in cui si sono cimentati i grandi geni dell’arte, della filosofia, della scienza, che non hanno avuto la soddisfazione di vedere i loro meriti e le loro aperture diventate appannaggio di tutta l’umanità, piegati invece a vantaggio dei pochi, contro i troppi derisi e vilipesi.
Il capitalismo, ormai è chiaro anche ai suoi sostenitori, non potrà mai proporsi piani di specie. Il Comunismo è dunque una necessità, un piano a lunga scadenza, piaccia o non piaccia, non un bel gesto o una pia intenzione. Chi si assoggetta ad esso non lo fa per spirito umanitario o per astratto amore per la specie, lo fa come parte integrante di forze che continuerebbero a muoversi anche e nonostante la sua eventuale rinuncia; è quello che si è sempre verificato dopo epoche di ripiegamento e di viltà che hanno comportato tradimenti teorici e pratici.
Così noi siamo qui, indipendentemente da queste miserie, com’è nostro
solito stile, dettato da necessità e non da arbitrio, non per vendicarci
o risentiti. Essendo cioè aggressivi e non reattivi, siamo soggetti al
programma della specie, e non di un arbitrio soggettivo.
Come seconda relazione del sabato veniva esposta la continuazione dello studio cui abbiamo dato il titolo "Dal sogno e dal bisogno del comunismo allo scientifico programma rivoluzionario marxista". Si tornava sul nostro concetto di “filosofia”, che per il partito è parte integrante della dottrina e del programma e non componente secondaria o indifferente. È scienza del pensiero umano e delle sue leggi, accanto alle altre scienze della restante natura, non di maggiore dignità e generalità di esse. Come non esiste una scienza al di sopra della divisione in classi della società così non esiste una filosofia, o parte di essa, condivisibile fra le classi. Il nostro fine comunistico non è un “desiderio”, un piano ideale che intendiamo realizzare per via di convinzione, ma il ricordo umano collettivo, comprovato dalle ricerche scientifiche, su di una perduta armonia originale. Sulla quale perdita non versiamo lacrime ma freddamente e oggettivamente ne riconosciamo, nei suoi tragici svolti, il risultato umanamente progressivo. Così rileviamo nel corso storico presente il presentarsi delle condizioni materiali che verso una tale ri/composizione e ri/accordo sociale e naturale rendono possibile, necessario e desiderato il trapasso. Noi rivendichiamo una razionalità non estranea alle ragioni del sentimento, legata ad un piano generale materialmente iscritto nell’arco storico reale dell’umanizzazione dell’uomo.
Nel turbinio confuso e contraddittorio delle varie mode borghesi la filosofia, o teoria generale, è sempre più soggetta agli alti e bassi degli umori della società classista.
Abbiamo scritto, nel nostro Comunismo e Conoscenza umana:
«Il marxismo pone la questione della filosofia in modo originale ed in tal senso rifiuta di farsi allineare tra le varie filosofie elencabili storicamente, o peggio ancora sistematicamente. Noi diremo quindi che non vi è una filosofia marxista, ma nemmeno diremo che il marxismo non è una filosofia o che il marxismo non ha una filosofia: ciò darebbe luogo ad un equivoco e ad un pericolo gravissimo: quello di credere che il marxismo si ponga su un terreno estraneo a quello che i filosofi hanno da millenni ipotecato. E se ne potrebbe con deviazione grave dedurre che il militante marxista resti libero, accettate alcune direttive di azione politica e sociale e confessate alcune teorie economiche e storiche, dichiarandosi per una delle tante filosofie: realismo o idealismo, materialismo o spiritualismo, monismo o dualismo, o come volete. Ora il marxismo esclude tutte le filosofie storicamente nate in un modo diverso da quello con cui ogni filosofia condanna le restanti, e quindi, almeno distruttivamente ha una posizione caratteristica in materia di filosofia».È quello che riconosceva lo stesso Gramsci alla Sinistra: «Do atto alla Sinistra di aver finalmente acquisita e condivisa la sua tesi che aderire al comunismo marxista non importa solo aderire ad una dottrina economica e storica e ad un’azione politica, ma comporta una visione ben definita, e distinta da tutte le altre, dell’intero sistema dell’universo materiale» (Da Congresso di Lione, 1926). È quello che sosteniamo ancora noi e solo noi!
Ma in che consiste, in sintesi, questa distinzione? Nel fatto che: «Il materialismo dialettico non ha più bisogno d’una filosofia che stia al di sopra delle scienze. Tutto ciò che resta dell’intera filosofia che fino ad oggi si è avuta è la dottrina del pensiero e delle sue leggi: la logica formale e dialettica. Tutto il resto passa alla scienza positiva della Natura e della Storia» (Engels).
Non ci interessa cioè la filosofia estranea alle condizioni sociali, oggi di classe, che si limiti a trovare risultati. Noi sappiamo che essa non può fare a meno di trasmetterli e comunicarli, ma non è pensabile una trasmissione di risultati indipendente dagli interessi di classe. Per questo ogni dato raccolto ed ogni relativa conclusione di qualsiasi filosofia non può essere assolutamente oggettiva, perché la sua trasmissione comporta un adeguamento dei risultati stessi alla dialettica delle forze sociali dominanti. La scienza come realtà neutrale e valida per tutti è stata smentita, anche se noi abbiamo sempre considerato che la scienza della natura è solo relativamente viziata dall’ideologia.
Gli esseri umani sono costretti dalle condizioni materiali ad attenersi al "principio di realtà", lo vogliano o no, ma la rappresentazione che se ne fanno risente dell’ideologia che la sottende. I metodi della scienza naturale vengono esplicitamente richiamati da Marx ed Engels, che però non cadono nella posizione positivistica di una scienza identica per tutti. Il sogno di una conoscenza unificata, mentre è legittimo, non può nascondersi che è possibile solo alla condizione che rispecchi un punto di vista non soggettivo, e tanto meno di classe, ma quello dell’intera esigenza umana di stabilire un rapporto giusto con l’ambiente sia umano sia naturale. Se è possibile dire con Kant che l’uomo tende ad accordare la Natura, mentre essa è in sé segnata dalle contraddizioni, è altresì necessario dire che senza togliere le contraddizioni tra le classi, la Natura non solo continuerà ad opporre le sue resistenze, diverse per le specifiche esperienze umane, produttive, cognitive, artistiche.
Noi rivendichiamo così la nostra teoria come la più originale ed antidogmatica, perché l’unica che, mentre fa propri i risultati delle scienze in generale, consapevole che sono relativi ed incerti, in quanto poggiano su basi di classe, nello stesso tempo rifiuta di omologarli, trasmetterli come "verità assoluta", suscettibili come sono di essere sottomessi agli interessi del Capitale.
Questo modo d’intendere la nostra filosofia ci consente di non cadere vittime di correnti scientifiche di qualsiasi scuola in modo acritico, o come frutto di pura speculazione o illuminazione che dir si voglia; di poter utilizzare i criteri di falsificabilità dei suoi teoremi senza aderire a nessun esclusivo apparato di verifica o di falsificazione, argomenti molto precari in qualsiasi contesto.
Così essa non si configura come Filosofia già fatta nella testa di Giove, eppure con dei contorni definiti, dal momento che sosteniamo, con Lenin, che è nata come un sol blocco. Nata, non morta, una volta per tutte, come amano credere i fautori della fine del Comunismo.
La Scienza positiva e della Storia, che avrebbero dovuto prendere il posto della vuota ed astratta speculazione, continuano a portare stigmate di classe, e a riesumare incessantemente gusci vuoti di tipo idealistico che ne nascondono i fallimenti. I loro risultati si rivelano sempre più marchiati dalle esigenze della classe al potere, e dunque non solo sono esigui ma difficilmente usabili nel nostro lavoro. Ciò non ci impedisce di riconoscere quanto nei loro metodi corrisponda alla dialettica delle forze oggettive, purché li commisuriamo ai nostri criteri ed ai nostri fini.
Del resto sono gli stessi borghesi che giornalmente si incaricano di
svilire e di relativizzare i loro codici ed apparati di ricerca, proprio
perché ha aggio nel loro impegno la ragione di fondo dell’ideologia
dominante: quella di mantenere il proprio predominio.
Il presunto "crollo del comunismo" per i teorici borghesi non è stato tanto quello del muro di Berlino quanto la convinzione che finalmente non si parlerà più di questa utopia irrealizzabile, e soprattutto capace di intaccare il solido pessimismo dell’anima moderna fondata sull’etica protestantica, la quale esclude che la natura discorde della realtà materiale possa essere accordata dal cuore e dall’azione dell’uomo.
Già Feuerbach aveva scritto ne L’Essenza del Cristianesimo che «Dio è l’ottativo del cuore cambiato in un presente felice», cioè il desiderio umano di veder abolita la distanza tra il volere e il potere, tra il desiderio e l’appagamento, tra l’intenzione e la realizzazione. Dopo di lui Marx, pur sottolineando la natura "metafisica" e filantropica del suo pensiero, ne aveva utilizzato la tensione morale che spingeva verso il superamento dell’alienazione.
Da dove nasce quel desiderio se non dall’esperienza filogeneticamente fatta dall’uomo nel comunismo "rozzo e primitivo"? Come può essersi inventato tale desiderio, se non ricordando ed aspirando poi a raccordare la realtà con la fantasia, l’esperienza del dolore e della sofferenza con la positività di vincerla e di superarla? Riconoscendo che l’Umanità ha vissuto questo accordo, sia pure rozzo e primitivo, il comunismo è apparso possibile, anzi necessario al materialismo dialettico, che non si limita, in nome di una filosofia filantropica ad auspicare tale raggiungimento, ma ad agire per tale scopo secondo un piano di specie che passa per la lotta e la conquista delle condizioni favorevoli a tale passaggio.
Le concezioni utopistiche avevano idealizzato un’umanità felice delle origini; il materialismo storico, senza escludere l’apporto delle scienze, di un metodo che facesse proprie le conquiste delle tecniche particolari, ha fatto leva sulla provata esperienza della vita organica delle origini (vedi Morgan) per teorizzare il comunismo. Partendo da questa capitale considerazione, è oggi l’unica "filosofia" che sostiene che solo ad un certo grado di sviluppo delle forze produttive la storia è diventata storia della lotta delle classi, e piuttosto che versare lacrime inutili sul latte versato o ripiegarsi nostalgicamente sul passato, ha sostenuto la necessità, per il proletariato come classe, di far leva sulle condizioni di vita che non può sopportare più, per andare oltre la società di classe.
Non dunque un "pio desiderio", ma un’analisi lucida, spregiudicata e oggettiva della realtà sociale e dell’economia dominante, per individuare le forze e le forme in grado di eliminare le condizioni del proprio sfruttamento e dell’alienazione dell’intera umanità.
Così l’ottativo del cuore diventa azione non slegata dalla ragione, cioè dai metodi, dalle regole, se vogliamo dai riti necessari per la rivendicazione e la realizzazione del socialismo. Il materialismo dialettico, solo nella nostra storica versione, ha tentato di praticare questo modulo organico del pensiero e di azione, nel quale sentimento, ragione e fede sono uniti.
Il Partito è stato sempre da noi concepito come questo nucleo che prefigura
il Comunismo, e comporta il rifiuto dell’imperante ed imperversante teoria
soggettivistica del liberalismo, il quale crede che la storia la facciano
gli individui, pena poi accettare ingenuamente favole "metafisiche" del
tipo mano invisibile e misteri che hanno a che fare con la magia
e le allucinazioni.
Le regole di razionalità del nostro metodo e del nostro rito non vanno confuse con i criteri di razionalità disincarnata ed avulsa del reale propri del razionalismo borghese, da Cartesio ad oggi. Noi rivendichiamo una razionalità non estranea alle ragioni del sentimento, dunque non tanto strumentale, semplicemente utile per l’azione ed il risultato, ma legata ad un piano generale che riconosciamo iscritto in tutto l’arco della storia come noi ce la rappresentiamo, dall’uomo armato di clava all’uomo comunista del futuro. Anche in questo caso, benché non neghiamo che la nostra scienza risente dei contesti culturali in cui si è sviluppata ed è potuta nascere definitivamente, non accettiamo che si appiattisca e si confonda con qualsiasi altra terapia o sistematica contingente.
È come se accettassimo che il materialismo di Marx è idealistico e quello di Engels evoluzionistico, come è sostenuto da un’analisi scolastica ed accademica, che respingiamo in nome del Partito e della milizia comunista. Come abbiamo sempre respinto la riduzione del nostro materialismo a canone di interpretazione storica, efficace, ma solo metodo e puramente metodo. Preferiamo dire che è un preciso rito nel senso che ha che fare con una religio, cioè un legame che unisce i militanti per uno stesso piano sociale di specie.
Lo stesso dimostrare "per ipotesi", tipico del razionalismo, è stato da noi smentito col nostro procedere sulla base di una esperienza fondata sulla storia e sulla sua dialettica, cioè su forze e forme di sviluppo che non pretendiamo né edificanti né semplicemente auspicabili, ma necessarie ed oggettive.
I nostri modelli cognitivi non coincidono con quelli correnti a corso
legale, perché si propongono di trasformare la realtà, e non di conoscerla,
come s’illudono i teorici borghesi in ogni campo.
La nostra oggettività, termine e problema "mitico" nel nostro linguaggio, quanto almeno quello di "dialettica", assume nella nostra filosofia un significato originale che non può essere appiattito su quello abituale e diffuso nelle altre correnti.
Non c’è teoria che non abbia rivendicato un pezzo di sano materialismo, per poi piegarlo alla sua soggettiva interpretazione: «Nessun dubbio che molte cose esistono, o che sono esistite un tempo e hanno già completamente smesso d’esistere, senza che nessun uomo le abbia mai viste e conosciute e senza che gli siano mai state utili» (Cartesio, Principia Philosophiae).
La cosa rimane. Ciò che cambia è il criterio della sua intelligibilità: essa diventa oggetto affinché noi possiamo esprimerlo in linguaggio corretto e pertinente. Il linguaggio comunque può trasmettere – per lo meno in una certa misura – un messaggio scientifico; perde questa possibilità e questa dignità quando è l’espressione d’una fede acritica negli elementi dei sensi e della tradizione, allora il linguaggio diventa improprio, "impertinente", luogo del pregiudizio e non della scienza.
Ma il nostro linguaggio è tipico di un organo non soggettivo e non individuale, cosicché l’oggettività a cui facciano riferimento non è quella di un modello neutrale, condiviso da tutti indipendentemente dai suoi connotati di classe. Questa è una illusione alla quale non prestiamo fede. Non a caso, nella guerra dei linguaggi siamo rimasti ancorati alla tradizione più pura e "purista", fuori dai contorcimenti opportunistici che sono crollati in questo scorcio di storia recente. L’oggettività non può essere ai nostri occhi una definizione scolastica, e la stessa materia per noi non è la stessa cosa di quella predicata dalla correnti fisiche e filosofiche correnti; non i connotati disincarnati del linguaggio simbolico-algebrico né quelli impastati di materialismo volgare: il nostro linguaggio è quello delle Tesi che il Partito ha saputo cristallizzare nel tempo; consapevole che non è scienza pura, ma la lettura che è stato possibile e necessario fare, lo scolpimento della teoria, per quanto impropri e poco efficaci siano i nostri attuali utensili.
Tutto questo per rimarcare che mentre non ci azzardiamo a arricchire
o a modificare, abbiamo da rivendicare l’assoluta originalità del
nostro metodo e dei nostri riti, pena l’eclettismo, l’esistenzialismo,
la confusione linguistica e dottrinaria che imperversano.
Il fondamentale tema veniva collegato a quanto giù esposto: nessuna corrente teorica borghese dispone più di un programma né di un piano di specie. Per il comunismo finalità programmatiche e forma combattente del partito appaiono assieme nel Manifesto del 1848. Nel Comunismo non si realizza una verità filosofica, anche se nel cammino per raggiungerlo non si esclude la lotta delle idee. La rivoluzione non è frutto di volontà individuale ma il parto di una nuova società umana. Comunismo distruzione degli Idoli, del denaro, della valorizzazione del capitale, per risvegliare l’uomo nuovo, che non ha bisogno più di vendere nulla di sé stesso. Nemmeno nessuna Ragione universale da idolatrare, semmai da distruggere. Restaurazione-Rivoluzione: secondo ideologi e politicanti, impegnati a risistemare i loro totem, non hanno più senso; non dalla “caduta del comunismo” ma almeno dall’avvento del Fascismo dicemmo noi, contro progressisti e neorisorgimentali. Abbiamo sostenuto la necessità della Restaurazione del partito e della dottrina. Questo atteggiamento ci ha valso il nostro non cercato ma necessario isolamento storico. I Piani di specie maturano secondo grandi ritmi e non per decisione dell’individuo, altro loro idolo, che contribuiscono a schiacciare e rendere sempre più risibile e solo. Il nostro modulo organizzativo di partito postula e pratica il centralismo organico non solo come necessario metodo “scientifico” ma per godere di una comunità che prefigura il comunismo.
Mentre le correnti teorico-filosofiche borghesi hanno esplicitamente rinunciato a qualsiasi programma visibile nel campo storico-politico e tanto più ad un piano di specie, noi comunisti rimaniamo fermamente ancorati al nostro programma storico generale. Quale migliore Piano di quello presentato ai proletari di tutto il mondo con la pubblicazione del Manifesto del partito comunista 1848? Il Piano di Specie che noi rivendichiamo non potrà dispiegarsi se non affermiamo la necessità del Partito, della sua funzione storica, fino alla presa del potere, dell’esercizio della dittatura proletaria per la prima radicale "riforma" della putrida società messa in piedi dal Capitale mondiale.
Ieri come oggi, per chi può vedere,
«Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: Papa e Zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi. Quale partito d’opposizione non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari governativi; quale partito d’opposizione non ha rilanciato l’infame accusa di comunismo tanto sugli uomini più progrediti dell’opposizione stessa, quanto sui propri avversari. Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni. Il comunismo è già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee. È ormai tempo che i comunisti espongono apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso. A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, italiano, tedesco, fiammingo e danese».Così l’introduzione al Manifesto. Chi sa leggere con spirito rivoluzionario non fatica molto a capire che basta cambiare i nomi dei governanti ed estendere l’area a tutto il mondo (tenendo conto a quel tempo sulla Terra vi erano circa 1 miliardo e mezzo di individui ed oggi oltre 5) ed il quadro è completo: sono aumentati i ricchi, ma sono centuplicati i poveri, i diseredati e gli affamati. Ci troviamo di fronte a un mondo che si sta sgretolando, una società che sta andando alla malora giorno dopo giorno!
«La storia di ogni società esistente fino a questo momento, è storia di lotta di classi (...) La società borghese moderna, sorta dal tramonto delle società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche nuove classi di oppressione, nuove forme di lotta».Sulla scia dei rivoluzionari di un secolo e mezzo fa s’incamminarono poi quelli che, facendo tesoro delle passate esperienze del movimento operaio e dello sviluppo del capitalismo, operarono per la fondazione di una nuova organizzazione comunista mondiale, la Terza Internazionale. Si andarono costituendo partiti comunisti in tutti i paesi ed avemmo ancora un tentativo di assalto al cielo con la Rivoluzione d’Ottobre e un fermento generale di grandi masse proletarie, specialmente in Germania. Ma la non vinta controrivoluzione sotto spoglie riformiste, socialdemocratiche e staliniste fece deviare dal loro cammino i movimenti rivoluzionari più avanzati e più decisi. La droga dell’opportunismo si era impadronita di larghe masse proletarie e il capitale e la società borghese furono salvi e poterono proseguire sul nefando cammino di guerre e distruzioni a tutti i livelli.
Anno dopo anno dal nord al sud e dall’est all’ovest si mantiene la barbarie e i lavoratori di paesi diversi si vanno dilaniando in lotte intestine mentre falsi profeti scendono tra le masse seminando zizzania e imbelli predizioni. I comunisti, che non sono né morti né spariti, invitano i proletari a salvaguardarsi da questi falsi profeti che, travestiti sotto mille colori, come camaleonti, tentano ancora d’ingannarli. Non c’è nulla da "rifondare"! C’è solo da riprendere il cammino da dove era stato deviato.
Contro questa situazione noi riaffermiamo la verità del Comunismo e ribadiamo ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che il Comunismo non ha mai preteso di affermarsi per via di idee, o per via di Verità da credere, anche se non esclude la lotta delle idee per affermare la sua verità. Se così non fosse crederemmo ad un sistema filosofico tra i tanti, preferito, mentre abbiamo sempre sostenuto che per Comunismo intendiamo un regime sociale prodotto dalla storia della liberazione della classe degli oppressi di ieri e di oggi dalla divisione in classi della società. Nel Comunismo non si realizza una verità filosofica, ma un processo reale che porta a conclusione una lotta di forze reali, non di archetipi che camminino sulle proprie gambe indipendentemente dalle condizioni concrete in cui gli uomini si trovano ad agire ed a vivere secondo forme determinate che chiamiamo classi sociali tra di loro in conflitto. Da ciò discende la natura "aperta" del materialismo storico e dialettico; che niente ha a che vedere con tutti i tipi di vulgata, i "marxismi" di cui parla Hobsbaum, compresi quelli che si sono pasciuti di "DiaMat" neo-idealistico e evoluzionistico, di inquisizioni e di tradimenti.
Nel suo nucleo fondamentale il materialismo storico trae origine dalla
considerazione antidogmatica per la quale ci sono, nella realtà, uomini
che vivono e si trovano a lottare tra di loro per il controllo delle risorse
necessarie alla vita, a organizzarsi secondo forme ereditate dalla storia
pregressa, e che solo in particolari condizioni di maturazione possono
essere modificate, anzi rivoluzionate, nella direzione delle necessità
che si sono aperte ed imposte. Abbiamo voluto dire che nella nostra visione
la Necessità è Libertà, "adfirmatio est negatio", e la
rivoluzione non è frutto della volontà individuale di nessuno, ma il
parto
che apre alla storia futura la possibilità di nuova umanità. Nessuna
Verità astratta dunque da affermare, ma da praticare e da realizzare.
Diciamo quello che non abbiamo forse mai detto in modo semplice ed inequivocabile: da dove viene la nostra avversione irriducibile al mercato, allo scambio di merci, all’alienazione dell’uomo? Dall’odio nei confronti della idolatria, fondamento assoluto della concezione ebraica della vita. Lotta agli idoli, alle copie, alle imitazioni, agli scimmmiottamenti, alla vendita della paccottiglia, al commercio delle illusioni. Non si dimentichi che Marx, di origini culturali ebraiche, apostata come tutti i grandi, non ne poteva dimenticare il nucleo forte, autentico.
L’analisi che egli fa della società capitalistica, l’ingresso dolente, profetico e pieno di ardore, la speranza di riscatto che gli consente di entrare nei gironi dell’Inferno del Capitale, non può non culminare nella resurrezione dell’uomo nuovo, liberato e salvato dagli orrori della morte. La denuncia e la lotta senza quartiere contro l’accumulazione, il Profitto, come valorizzazione del Capitale in quanto Capitale, comporta la distruzione dell’Idolo per eccellenza, del Vitello d’oro, al quale si prostrarono gli israeliti mentre Mosè riceveva, tra i nembi luminosi, le Tavole della Legge.
Il sogno e il risveglio culmina nell’uomo che non ha più bisogno di vendere nulla di sé, perché scambia umanità, espressione autentica del suo essere, con umanità, non secondo rapporti e misura idolatrici, ma secondo natura e cultura liberate dall’asservimento e dalla morte.
In un mondo nel quale il trionfo dell’inautentico, dell’imitato,
del copiato è giunto alla sua apoteosi ed alla sua degradazione più evidente,
lotta contro il Capitale significa sempre più e sempre meglio lotta per
la Vita contro i suoi surrogati, per l’Arte contro i cascami, per la
Conoscenza contro il culto del falso e dell’ambiguo. Solo il Comunismo,
come piano di specie, è in grado di proporre il regno della pienezza e
della completa soddisfazione.
Nessuna Ragione da idolatrare, dunque, semmai da distruggere. Ma quale Ragione si lascia distruggere, e come? Il culto della Ragione, in quanto dea, misura suprema dei rapporti umani, culminata nella scandalosa danza della ballerina in Notre Dame, è la Ragione della Borghesia oppure della universalità del genere umano?
Non è pensabile che questa capitale differenza sia sfuggita alle considerazioni di G. Lucaks: la Ragione borghese aveva potuto proporsi come Ragione universale ed effettivamente identificarsi con essa. Quando inizia la sua disgregazione? Quando essa non avrà più capacità di impancarsi a ragione universale, quando la ballerina si rivelerà per quello che è ormai oggi, una disfatta prostituta, piuttosto che una dea o una giovane e vergine vestale.
Con questo si vuole affermare il ritorno legittimo dell’aggressione antica (nuova?) e barbara dell’istinto, della violenza? Bisogna intendersi: violenza di chi? Della natura imperialistica del Capitale, dell’istinto non risolto della Ragione borghese, della sua necessità di difesa e di autoconservazione contro l’istinto aggressivo (letteralmente: che va avanti) del nemico storico che è il proletariato? Oppure necessaria violenza di una Nuova Ragione storica? O di una Nuova Riforma? Non sono domande oziose.
È certo comunque che la Ragione universale è ormai una nozione solo ideologica, e come tale smentita dalla sua attitudine storica ampiamente fallita di produrre gli effetti promessi, e in particolare quelli sui quali giurò: i principi della libertà, della uguaglianza e della fraternità. Il monarca che si dimostra incapace di prestar fede al giuramento, è degno d’essere spazzato via, non per ragioni morali, ma per manifesta incapacità (Hobbes).
La Ragione si è dimostrata senza misura, avendo prodotto i più gravi squilibri che regime sociale abbia mai determinato, fino alla rivolta stessa della grande Madre Natura che grida di non poter più sopportare i barbari e lo scempio.
Avrà la Ragione il buon gusto di tirarsi da parte? È assolutamente
da escludere. Altrimenti avrebbe il senso della Misura!
Marx, nella Critica al programma di Gotha, aveva avvertito che solo il comunismo potrà risolvere in modo felice, secondo una conoscenza razionale compiuta, le contraddizioni tra interno ed esterno, basso ed alto. Destra e sinistra, ci permetteremo di dire oggi: ormai tutti, ideologi e politicanti, sono impegnati nello sforzo di risistemazione della mappa della politica e dei vari totem nei quali, secondo loro, non hanno più senso le vecchie distinzioni, crollate sotto le macerie del... comunismo.
Naturalmente non li seguiamo nelle loro evoluzioni, ma se li prendessimo per un momento in considerazione, potremmo rispondere che non è da ora che la Sinistra (termine che rivendichiamo e scriviamo maiuscola, riferendoci alla nostra frazione nel PSI poi corrente nel PCd’I) ammonisce che fu l’avvento del Fascismo e la sconfitta della Rivoluzione proletaria mondiale che fecero saltare le vecchie categorie. Altro che 1989, quando tutti hanno finto d’essersi risvegliati a nuova vita, o a demenza senile.
In realtà, fino dal secondo dopoguerra, mentre la destra e la sinistra
si sfidavano in improbabili neo-risorgimenti o in parlamentaristiche diatribe
e pugilati tra cadaveri ambulanti, abbiamo sostenuto che l’unica battaglia
degna d’esser combattuta è tra Restaurazione del partito e della dottrina
e Controrivoluzione. Non abbiamo certo atteso le ultime notizie per impostare
la nostra dura opera che s’impone nella fase putrescente del capitale.
Così, mentre i fautori del Progresso si stracciano le vesti e si disperano
tra vaniloqui di ulteriori magnifiche sorti, noi indichiamo al proletariato
la necessità di tenere alta la testa e di attenersi al linguaggio giusto,
col quale non ci vergogniamo di riconoscerci come Restauratori delle forme
necessarie per il conseguimento della vittoria, e cioè il partito, la
teoria, il sindacato di classe, capisaldi per il ribaltamento della realtà
esistente.
Agli occhi delle correnti idealistiche piccolo-borghesi noi fummo e siamo dei "nullisti rivoluzionari". Non ce ne siamo adontati, perché il nostro metro di misura, la teoria rivoluzionaria, non è soggetta ad acquisizioni e interpretazioni soggettive. Mai abbiamo creduto che la prassi rivoluzionaria potesse essere approntata dall’opinione dei singoli, fossero pure grandi combattenti e dirigenti come Marx o Lenin. Questo atteggiamento ci ha permesso di porci al livello della teoria invariante, che solo l’organo partito detiene, alla portata dei Piani di Specie che maturano dialetticamente nella Storia non per decisione di Tizio o di Caio, ma secondo i grandi ritmi dei modi di produzione e delle Rivoluzioni, che si verificano non ad ogni stormir di fronda, ma in particolari e rari risvolti e nodi, che vanno saputi riconoscere dall’organo collettivo che è il Partito.
Questo peculiare atteggiamento che ci ha valso la nostra non cercata ma necessaria solitudine ed isolamento storico, non può in nessun modo essere condiviso dalle esagitate confuse correnti esistenzialistico-ermeneutiche che sono di moda da oltre un cinquantennio, e oltre tutto peggiorate negli ultimi tempi, che si vantano d’aver rigettato nettamente un qualsiasi debole legame con la concezione materialistico dialettica della storia e della natura, anche se un tempo non lontanissimo si proposero come "compagni di strada".
Dovremmo adontarcene? Nemmeno per sogno. L’arco discendente dell’ideologia borghese non soltanto non ha nulla da proporci, ma lo riconosce da sé, se ne fa infatti vanto, perché vede nella sua non-progettualità attuale, nella sua impossibilità di qualsiasi piano a lunga scadenza, l’apice del suo trionfo, della propria nullità. Finalmente – si dice – siamo liberi da ogni condizionamento ideologico: di pensare ciò che vogliamo, anche se riconosciamo di non essere in grado di pensare nulla!
Al contrario il nostro passato e presente "nullismo" non ha perduto
contatto con i "fatti merdosi", che anzi studiamo con accanimento usando
anche le inadeguate teknai del nemico, ma soprattutto con la grande
tradizione teorica, non solo quella nata come blocco unico nell’età
delle moderne rivoluzioni di classe, ma con le grandi tradizioni del passato
che non esitano a darci ragione, quando battono in breccia il facile, piccolo
e miserabile soggettivismo partorito dalla disgregazione borghese, dalla
sua conclamata incapacità di pensare in grande, secondo almeno le esigenze
della storia e dello stesso individuo, il loro idolo, che
hanno contribuito a schiacciare, a rendere ridicolo e risibile, sempre
più solo, spaesato, nullo, appunto!, come loro hanno voluto con
la loro imbelle volontà. Il nostro rifiuto di "arricchire", aggiustare,
manipolare, è stato saggio e positivo, e ci mette in condizioni di non
dover nulla ai pasticci delle correnti nemiche, di coglierne al contrario
l’estrema confessata impotenza, la propria teorizzata e vergognosa debolezza.
Per questo siamo fermi a rivendicare la "scientificità" del materialismo storico e dialettico, proprio perché «Marx non è mai stato così attuale: la fine dei "partiti comunisti" è la sua vendetta postuma» (Roger Garaudy, convertito... all’Islam).
Altro che falsificazione della teoria marxista come vorrebbero gli epistemologi alla Popper, che tanti seguaci sembra avere nel nostro ameno paese! Sottolinea ancora Garaudy che Marx previde ("congetturò", dicono loro!) che «il capitalismo creerà sempre più ricchezza e contemporaneamente sempre più miseria ed esclusione: Marx ha avuto ragione». E così la teoria che si richiama non tanto alla persona Marx, ma alla scienza da lui ed Engels codificata, non in forma chiusa ed impenetrabile alle "confutazioni", perché proprio in virtù di esse rimane solida ed unica a spiegare questo mistero. E non solo a spiegare, ma a combattere per trasformare quello squallore in realtà sociale comunistica.
Il nostro modulo anche organizzativo che si rifà a questi principi base, postula e pratica il centralismo organico, non tanto e solamente per condividere il metodo "scientifico", ma per godere d’una "società" che prefigura il comunismo, nella quale non si dibatte, ma si scolpisce, nella ricerca e nella lotta, quanto la tradizione rivoluzionaria ha accumulato di esperienze e di vita di specie, con entusiasmo, in una visione del tempo che unisce la prospettiva e il senso delle differenze con la visione unica che lega nello stesso arco il pitecantropo armato di clava (a proposito: sembra che fosse mite, ma non stupido ed inerme, simbolo dell’unità tribalica che ricorda la bestia dalla quale forse discendiamo...) con l’uomo comunista, in un Tempo unico che non è in contrasto con l’unico Spazio, secondo la stretta e dialettica relazione che Einstein ha indicato, e immagine di un Cosmo (ordine) che solo la società comunista sarà in grado di raggiungere.
Il centralismo organico, come modulo di vita interna, permette di parlare di tutto, in ambiente heimlich, familiare, che impegna a sporgersi verso quel "perturbante unheimlich" che è la società futura e l’uomo futuro, perturbanti perché non possono non assomigliare all’attuale nostro partito, e che conosciamo per "prefigurazione", che sarà e la Specie conoscerà non tanto per "sentito dire", ma in quanto realtà organica composta non da piccoli ed indipendenti individui ma da Umanità capace di realizzare il suo Piano di Specie.
Ciò non significa che la concezione comunista non sappia cogliere le
contraddizioni, ma che nega che assumano carattere "politico" all’interno
della compagine comunista, in conflitto di interessi e di forze.
Proseguiva quindi l’esposto sul tema programmatico-conoscitivo che abbiamo denominato Sogno e bisogno del Comunismo. La nostra morale e il nostro concetto di “utile” è da sempre contrapposto al profitto di tipo capitalistico. Noi rivendichiamo che solo la nostra teoria ed il nostro programma sono in grado di concepire e di tradurre in azione un autentico piano di specie, capace di risolvere dialetticamente la contraddizione tra genere e individuo propria dei diversi modi di produzione e di vita sociale che si sono susseguiti nella storia. Da ciò segue che rivendichiamo la nostra visione, che mai come oggi è in grado di rispondere alla tragica condizione in cui è piombato l’universo borghese, prodotto della reificazione capitalistica, che ha aggravato fino alla nausea l’inconciliabilità tra individuo e genere, perché l’essere umano, prima di tutto proletario, è stato sradicato dal suo legame di affetti e di relazioni con la comunità complessiva. La proiezione nel futuro storico dell’attuale e passato bisogno di comunismo non costituisce, come ci si obbietta, un sogno da visionari, relegabili nella speculazione metafisica, ma una necessità che è e sarà vieppiù reale, e dunque inevitabile, tale cioè da doversi realizzare, pena la rovina di tutte le classi, e dunque anche dell’individuo, divenuto feticcio, astrazione, idolo insulso e condannato alla disperazione.
Tra filosofie e teorie di apparentemente opposta valenza, quelle che cioè aristocraticamente vantano di non perseguire per definizione nessun "utile", essendo la filosofia per definizione scienza fondata sul puro interesse teorico, e quelle che esplicitamente, per contrapposizione polemica in nome del pragmatismo volgare, esaltano la "natura" del mercato e della sua intrinseca armonia prestabilita, non può esserci una "filosofia di mezzo", che dovrebbe poi essere la nostra. Per i fautori della politique d’abord siamo dei poveri e isolati "teorici" e con ciò "nullisti rivoluzionari", per altri pur sempre dei "materialisti", vizio di fondo per ogni effettiva possibilità teorica, legati dunque mani e piedi a quelle "bassure" da cui essi sarebbero sfuggiti in virtù della loro estasi di coscienza.
Non dovremmo e avremmo nulla da rispondere in nessuna direzione, ma è utile farlo, per la nostra interna necessità. Diciamo allora che siamo da sempre giunti alla considerazione che il nostro linguaggio non coincide con il loro, che il nostro modo di intendere «la musica, il canto e la danza», che è riconosciuto dalla Sinistra come il linguaggio delle epoche rivoluzionarie, non corrisponde al loro canto, danza e musica. Non siamo noi i primi a scoprire che il linguaggio si corrompe (già lo rivelava Platone nel Cràtilo), e noi sosteniamo che insieme alle società di classe, dominate dalla brutalità e dal conflitto intraspecifico, si è "corrotto" il linguaggio, in modo tale che la nostre parole e sintassi, e dunque teoria, non sono tanto facilmente misurabili con le loro corrispondenti parole, linguaggio, teoria.
La nostra Filosofia non è "inutile", ma subordinata alla prassi rivoluzionaria, e nello stesso tempo "invariante", cristallizzata in un programma che appare quasi astorico, tanto supera il modo volgare e contingente di concepire il tempo e la storia proprio della società del profitto. Questo perché neghiamo che esso possa essere manovrato da interventi "creativi", siano essi individuali o di gruppo.
"Utilità", per la guida del processo rivoluzionario, che non può essere confusa con quella del "profitto", sia pubblico sia privato, legato all’hic et nunc dell’interesse immediato e di classe: la sua utilità è per la specie, connessa a quella della natura nel suo complesso, che non è per noi un’astrazione, come avviene in quasi tutte le interpretazioni di essa, dal giusnaturalismo ai nostri giorni, ma l’Ambiente (Umgebung, tutto ciò che ci circonda) nella sua accezione più vasta, di cui la nostra specie non può disinteressarsi, ma "conoscere", per una integrazione non puramente distruttiva, bensì attiva secondo i sapienti piani generali che solo la società comunista sarà in grado di concepire e di approntare.
Non ci chiudiamo dunque in una teoria puramente "teoretica", né in
una forma di funzionalismo pragmatico manovrabile a buon mercato. Questa
è la nostra differenza, che anche quando sembra poter coincidere con qualche
forma di ideologia avversaria, in realtà si coniuga secondo regole sue
proprie e tipiche dei quel sol blocco in cui nacque.
All’inizio dell’era capitalistico-moderna (1776) Adamo Smith scrisse La Ricchezza delle Nazioni facendo le ironie, a proposito delle "mano invisibile" che governerebbe misteriosamente i rapporti economici tra gli esseri umani: parliamo del fornaio e del macellaio che, senza farsi prendere della compassione e dando libera espressione al sacro egoismo, garantiscono l’equilibrio della domanda e dell’offerta e con ciò il benessere sociale della comunità.
Geniale, senza dubbio, anche per riconoscimento di papà Marx. Ma la ricchezza di cui parla Smith non è la ricchezza di specie, bensì quella della classe capitalistica. Nonostante la "riscoperta" del "libero mercato", del "liberalismo" di cui si sproloquia nei nostri penosi tempi, solo il piano di specie possibile col comunismo può dare una risposta degna all’enigma ricchezza.
Scrive Marx in "Teorie sul plusvalore":
«Produzione per la produzione non vuole dire altro che sviluppo delle forze produttive dell’uomo, cioè sviluppo della ricchezza umana come fine a sé. Se si contrappone a questo fine, come fa Sismondi, il bene del singolo, si afferma che lo sviluppo della specie deve essere arrestato per assicurare il bene del singolo, e che quindi, per esempio, non dovrebbe essere fatta nessuna guerra, perché in ogni guerra vi sono dei morti (...) Non si comprende che lo sviluppo della capacità della specie-uomo, benché si compia dapprima a spese del maggior numero degli individui e di certe classi, spezza infine questo antagonismo e coincide con lo sviluppo del singolo individuo, che cioè il più elevato sviluppo dell’individualità non si acquista che attraverso un processo storico nel quale gli individui restano sacrificati; astrazione fatta dalla sterilità di tali considerazioni, giacché i vantaggi della specie nel regno umano, come in quello animale e in quello vegetale, trionfano sempre a detrimento di quelli degli individui».Si è parlato a proposito di un Marx "esoterico", nel quale non sarebbero assenti venature che potrebbero dirsi "nitzsckeane". Nessun problema. La contraddizione in Marx e nella nostra scuola non è né un pranzo di gala né un mistero religioso. Anche se dovremmo farci spiegare perché non c’è Chiesa o Patria che non si ritrovi davanti ai caduti delle loro guerre per riconoscente lodare il tributo... dei suoi figli, che naturalmente per noi, in ultima istanza, non sono che proletari. Il sacrificio sublimato, che diventa cinico monumento al milite ignoto, da parte delle classi possidenti coincide con la spiegazione del passo di Marx appena citato.
Contro di esso è vano invocare la libertà del rapporto venditore-compratore rinverdito dalle contingenti sbornie a favore del "mercato". Sempre Marx, in Per la critica dell’Economia politica:
«Tanto poco sono rapporti puramente individuali quelli che si esprimono nel rapporto tra compratore e venditore, che questi due entrano in questo rapporto solo in quanto il loro lavoro individuale viene negato, diventa cioè lavoro di nessun individuo singolo, diventa denaro. E come è sciocco dunque intendere questi caratteri – dal punto di vista economico, borghese – del compratore e del venditore come forme sociali eterne dell’individualità umana, altrettanto sbagliato è piangerli come abolizione dell’individualità. Essi sono una necessaria espressione dell’individualità sulla base di un determinato stadio del processo di produzione sociale».Il nesso individualità o individuo-specie è, come si evince, dialettico: e nessuna soluzione al di fuori di quella che noi sosteniamo è in grado di impostarla e risolverla adeguatamente. È il caso di dire, questa volta con Gramsci dei Quaderni dal carcere:
«"Non abbiate paura né dei bricconi né dei malvagi. Abbiate paura dell’onesto uomo che s’inganna: gli è in buona fede verso sé stesso, crede il bene e tutti si fidano di lui; ma, sfortunatamente, s’inganna circa i mezzi di procurare il bene degli uomini". Questo spunto dell’abate Galiani era rivolto contro i ’filosofi’ nel 700, contro i giacobini futuri, ma si attaglia a tutti i cattivi politici cosiddetti in buona fede».
Onesti, bricconi e malvagi di oggi
Ma oggi, onesti, bricconi e malvagi sono uniti in una sola impresa, quella di impedire il Piano di Specie che solo la rivoluzione comunista è in grado di varare. Mai come dopo il crollo del "socialismo reale" e la presunta "fine delle ideologie" è stato così evidente. Cadute le macerie è più facile fare la conta delle vittime e dei danni. La tresca tra "onesti", che non saprebbero di economia, per dirla con l’abate Galiani, e che ostentano la loro buona fede, e "malvagi e bricconi" che traggono sia da Stati sia da mafie private le condizioni favorevoli ad un mercato quanto mai florido di commesse militari, è sotto gli occhi di tutti.
Eppure hanno la spudoratezza di fingere un piano generale, capace di armonizzare crescita demografica e risorse mondiali. La recente conferenza del Cairo intorno la quale si è organizzata una grancassa infernale, è sotto gli occhi di tutti. Lo stesso vicepresidente "ecologista" Gore, americano, ha ammesso:
«Rappresentiamo meno di un quarto della popolazione mondiale, ma utilizziamo tre quarti delle materie prime esistenti. Un bambino nato in America avrà un effetto sull’ambiente trenta volte maggiore di un bambino nato in India. I ricchi del mondo hanno la responsabilità di affrontare il proprio sproporzionato impatto».
Dal canto loro i fondamentalisti islamici e nostrani si ergono a difensori "della vita" a tutti i costi, accampando principi contraddetti ogni ora della loro prassi vile e plebea, stando dietro a tutte la più segrete e subdole operazioni politico-diplomatiche dell’imperialismo fatiscente. Gli islamici gridano ad un tentativo di strangolamento della loro ricchezza e capacità di riscatto fondato sulla prolificità e sul numero della popolazione, notoriamente l’arma delle cosiddette nazioni povere e magari "proletarie"; fascismo docet!
Ma dove sta il loro piano di specie? Questi non sono che piani del Capitale,
anzi incapacità di fare piani, della sua anarchia produttiva e distributiva,
che ha raggiunto un grado di distruttività tale da richiedere genocidi
aperti a scala di interi popoli. Altro che contraddizione tra individuo
e specie. Qui siamo all’incompatibilità evidente tra vita e morte!
Per questo abbiamo nel recente passato polemizzato aspramente con le varie forme di opportunismo che si richiamavano all’ "azione", al principio di adesione alla "real politik", ed altre diavolerie: avevamo ben individuato che prima o poi si sarebbe rinunciato all’idea stessa del socialismo, in qualunque salsa condita, fosse pure quella socialdemocratica da noi aborrita da sempre! Bisogna ammettere che la Realtà vince sempre anche sull’immaginazione più fervida. Possiamo dire di aver avuto facilmente ragione.
Scrivevamo nel 1971 (riunione di Cortona-Camucia):
«O la Storia va all’indietro o sono i nostri scienziati e opportunisti che fanno il verso del gambero e, senza accorgersene, si sono ridotti più in basso dei socialisti utopisti, di Fourier, di Owen, e Saint-Simon! Ci si potrebbe obbiettare che una società comunista fu concepita anche prima del marxismo, addirittura nei tempi più antichi, da Platone al Rinascimento a Campanella; è vero, ma furono sempre società comuniste "reazionarie", che intendevano fondarsi sul potere e sulle strutture già realizzate, che dovevano anzi legittimarle e giustificarle; noi postulavamo la società senza classi. A questo punto anche lo Stato etico di Hegel è "comunismo". Ma tant’è: nella confusione dei nostri giorni, persa la bussola del programma comunista, quando alla domanda: che cos’è il comunismo? si risponde che non ci sono modelli, che è tutto da vedere, che, comunque, è quella società in cui si svilupperanno le forze produttive, si corre il rischio di suggerire come modello di socialismo il Giappone o la Germania di Bonn. Mancanza di tesi significa idealismo assoluto, oppure iperempirismo; rispondere che il socialismo è pensabile ma non conoscibile vuol dire cadere nel piatto agnosticismo, confessare la propria impotenza di fronte alla realtà».E infatti ci siamo! D "la politica al primo posto" si è arrivati al "realismo" di chi non sono non solo osa prevedere la propria egemonia, ma confessa di non essere in grado di proporsi neppure come credibile opposizione democratica. Di realismo in realismo, eccoci al rimorchio della più piatta realtà esistente. La stessa tanto sbandierata creatività, prassi, attività, si sono rilevate merci avariate ed obsolete: ormai non rimane loro che patire il riconoscimento della propria legittimità politica al servizio della "società" e della Nazione.
Il "socialismo realistico" non è niente altro che la foglia di fico
del tradimento perpetrato in anni lontani e che ha lasciato il segno non
solo sugli attori del tempo, ma anche sui futuri rinnegati ed imitatori.
Siamo così rimasti soli a considerare il socialismo come scienza.
Meglio così!
Intanto, e sempre più, «si lavora in fretta; c’è più competizione e anche più aggressività, ed in questa decadenza il rischio di errore aumenta» (l’astronomo Francois Biraud). Di fronte alla scienza ogni viltà conviene che sia morta... Ma la scienza, soprattutto, non ama la fretta.
I sistemi antichi potevano apparire statici fino al punto di rappresentarsi come eterni. Non a caso la "sovrastruttura" per eccellenza, la sintesi di tutte le sovrastrutture, si chiamò Metafisica. La definizione che di essa dà Aristotele, e cioè "la scienza dell’essere in quanto essere", ha a che fare con principi postulati dalla Ragione, ed in quanto tali non verificabili e controllabili secondo le metodiche dell’empiria. Noi siamo in grado di sostenere che la Metafisica è proiezione di un modo di produzione relativamente lento e duraturo: per questo appare la scienza della stabilità e della certezza. Ma ogni epoca ha la sua Metafisica, anzi, come si ammette oggi apertamente (anche dai fautori!), le sue Metafisiche, in concorrenza, tra l’altro, una con l’altra.
In verità non abbiamo pregiudiziali teoriche anti-movimento o anti-azione, ma, avendo ampiamente sottolineato che la formula bernsteiniana il movimento è tutto, il fine è nulla è la premessa di ogni revisionismo opportunistico, siamo altresì convinti che l’aggressività e la competizione comportino un alto rischio di errore, come ammette Biraud, al punto di compromettere l’attendibilità della scienza. Anzi, ad essere più completi nel giudizio, ci suggerisce la tesi per la quale il parossismo raggiunto dal capitalismo decrepito non è più capace di produrre "scienza", cosa di cui fu capace ai suoi albori, nella sua "filosofia mattinale", al punto che Marx gli riconosce la sua classicità, specie nel campo delle scienze della natura, che dichiara apertamente di seguire nella sua Introduzione alla Critica della Economia politica.
Non lo facciamo in nome di una Ragione Assoluta, di una scienza definita una volta per tutte, della pretesa di stabilire in che consista il tì estì di Platone ed Aristotele, ma proprio in nome della storicità della Ragione stessa, della sua "genealogia". Quando noi sosteniamo la Ragione del proletariato e delle classi subalterne, e dunque una Ragione consapevolmente di parte, perché di classe, non lo facciamo perché essa è per definizione la Ragione "opposta", ma perché è anche una ragione genealogicamente giustificata, l’ultima in ordine di tempo e di necessità, prodotto della storia, con i suoi limiti ed errori che certo non trascuriamo. Ragione, comunque, che dopo aver reclamato i suoi diritti, aspira a farsi Ragione umana in generale. Il rischio di ricadere nella pretesa di ogni Metafisica, di proporsi cioè come Ragione assoluta, lo escludiamo dalle nostre premesse, alle quali intendiamo rimanere fedeli.
Insomma: nessuna paura: il Comunismo non è la fine della storia. Oggi
è il nostro fine, ma soprattutto, l’abbiamo detto tante volte,
è solo l’inizio della vera storia.
Prendendo le mosse dalla considerazione che lo Stato borghese è un falso organo collettivo, capace di proporsi solo piani particolari e classisti e non di specie, abbiamo seguito il percorso storico e politico che indica come solo il Partito è in grado di porsi fini così alti. Non è la soggettiva e mefitica morale individuale che può illudersi di perseguire un fine universale, ma quella di una compagine politica che contempla nel suo programma la società senza classi. La morale, concepita dalle classi reazionarie come una e indivisibile, pena esser contraddetta ogni giorno sulla base delle più misere contingenze, ha fatto la sua prova nefasta nell’esperienza catastrofica della fase imperialistica del Capitale, negli eccidi, nei genocidi etnici, anche quando proclami il valore dei diritti universali. Noi non ci trinceriamo dietro parole ed appelli di facciata: sappiamo che la morale proletaria sembra contraddire le premesse alle quali si richiama, quelle dell’uomo unico, sodale e capace di collaborazione organica. Senza cedere alle tronfie morali estetizzanti della “bella morte” o della violenza in senso astratto. Richiamandoci all’elaborazione storica del senso della morale collettiva e individuale, dal tempo classico ad oggi, sosteniamo che non è la morale del libero arbitrio individuale che può affrontare i temi della storia, una morale che deve invece confrontarsi con le necessità del combattimento e del fine. La coerenza deve essere essa stessa collettiva, e non è la somma di singole morali individuali, anche quando, per le ragioni della milizia, che hanno a che fare con l’adesione personale, il partito non solo non disprezza ma esige coerenza anche individuale.
Dovremmo riflettere, sulla base delle leggi elementari della dialettica, o scienza delle contraddizioni, perché, una volta al Potere, ogni forza politica tenda a presentarsi (e se è veramente tale sa presentarsi così) come capace di rappresentare l’intera Società; al punto che le forze soccombenti, sia pure consistenti e credibili, anche se manifestano la velleità di contestarla e combatterla come espressione di parte, non hanno né il prestigio né la forza per ribaltare la situazione. Annotava il Machiavelli:
«Facci dunque Principe di vincere e mantenere lo Stato; e mezzi sempre siano giudicati onorevoli e da ciascuno saranno laudati; perché el vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo (...) Chi vince riesce sempre a presentarsi come legittimo e degno del posto che occupa».La spiegazione sta nel fatto che la conquista del potere dà l’impressione che la Ragione stia dalla sua parte per aver conciliato le contraddizioni, per averle "tolte", dando al "vulgo" l’impressione di poter godere di tale risultato. In secondo luogo perché una volta al Potere, anche le forze che nella fase del combattimento sono parse sul punto di lacerarsi, all’ordine si sottomettono e dare l’impressione della stabilità.
La Ragione della forza, a cose fatte, acquista la dignità del Diritto
e della legittimità, la forza della Ragione. Non a caso San Paolo ebbe
a sostenere che "ogni potere viene da Dio". Questo è il comune modo d’intendere
la cosiddetta "scienza politica", che sarebbe valida in ogni tempo ed in
ogni paese. Noi vogliamo invece sostenere che nelle società di classe
anche il più realista degli scienziati della politica non va al di là
delle ragioni della sua classe.
Non ci si lasci dunque commuovere dal lamento quotidiano sulla mancanza di autorevolezza dello Stato a causa del turbinio con cui si alternano, nelle varie nazioni, le cosiddette "classi dirigenti" o "élite al potere": in realtà si approfitta di ogni situazione per rafforzare e modernizzare l’apparato di repressione sul proletariato. E anche quando con le forme di un probabile assetto federalistico, e non solo nel caso anomalo Italia, si vuol dare l’impressione di un alleggerimento della pressione della macchina Stato.
Nel tipo di modello trascendentista feudale la Ragion di Stato, cioè la necessità di sacrificare qualunque ragione particolare della società alla suprema unità del potere delle classi possidenti, era intesa come al disopra delle stesse leggi dello Stato. Il nascente liberalismo, sulla spinta della borghesia emergente e in odio all’ancien règime, promise di render chiaro il rapporto tra cittadini e Stato secondo la formula dello "Stato di diritto" di cui si ciancia insistentemente oggi, che comporta, almeno a livello teorico, che tutti i rapporti tra cittadini e apparati di governo devono essere soggetti alla Legge scritta, alla Costituzione. Ma la Ragion di Stato non si compone e non scompare «quando, grazie alla generosa utopia liberale, noi occidentali ci siamo illusi che le Costituzioni, i Parlamenti legiferanti, le magistrature indipendenti, tutto ciò insomma che definisce lo Stato moderno di diritto liberaldemocratico, potessero imporre il dominio della legge su tutti, nessuno escluso, gli atti dei poteri. Non è stato purtroppo così» (A. Panebianco, "politologo", Corriere della Sera). Perché: «con l’avvento della democrazia la Ragion di Stato si è semplicemente mimetizzata e gli imperativi di essa più o meno ipocritamente ribattezzati come Utilità nazionale».
Qual’è la natura del legame tra le esigenze di "trasparenza" dello Stato, riconosciute da tutti, e quelle di segretezza degli atti di governo che devono raggiungere i loro effetti a tutti i costi? Mistero.
Solo noi abbiamo spiegato in forma chiara e razionale tale segreto. Lo Stato della borghesia è lo Stato di una classe, quella al potere, sorretta dai suoi alleati di turno, ma che esclude la classe proletaria, nonostante le ipocrisie democratiche e popolari. Il contenzioso sempre aperto e sempre più drammatico tra i vari Stati rispecchia la tensione tra le forme di concorrenza che nessun organismo sovranazionale o di arbitrato è in grado di risolvere. Ciascun Stato nazionale inserito nell’economia globale tende a difendere la sua fetta di mercato ed i suoi interessi: come può non avere la necessità di una diplomazia segreta, i suoi sistemi di corruzione, la sua voglia di cercare scorciatoie e mezzi violenti di fronte alle contraddizioni che gli si parano davanti?
Panebianco sostiene che l’instabilità è dovuta «alla struttura anarchica del sistema internazionale degli Stati, dominati dalle regole della politica di potenza e dal fatto che gli ordini politici democratici sono sempre potenzialmente sottoposti alla minaccia di eversioni interne». Molto bene: ma allora in che consisterebbe l’ideale di un ordine internazionale pacifico e capace di dirimere le sue tensioni attraverso le regole ed il diritto? È la solita utopia, che dovrebbe tenere i piedi per terra ricordando l’imperfezione della natura umana...
I teorici borghesi non intendono vedere il nesso stretto che lega il pericolo di "eversione interna" con le lotte e le guerre degli Stati tra di loro. Noi invece abbiamo sempre sostenuto che le tensioni e le guerre tra gli Stati non sono che l’espressione visibile e traumatica delle tensioni di classe interne ai singoli paesi, dove ogni borghesia, per competere all’esterno, devi dimostrarsi capace di mantenere l’ordine all’interno, cioè soggetta la propria classe operaia perché non si leghi a quella degli altri paesi afflitta dallo stesso male. Uno spettro s’aggira per l’Europa...
Scriveva Cesare Beccaria in Della Taglia, Dei delitti e delle pene,
«Questione è se sia utile il mettere a prezzo la testa di un uomo conosciuto reo, ed armando il braccio di ciascun cittadino, farne un carnefice. O il reo è fuori de’ confini, o al di dentro: nel primo caso il sovrano stimola i cittadini a commettere un delitto, e gli espone ad un supplizio, facendo così una ingiuria ed una usurpazione di autorità negli altri dominii, ed autorizza in questa maniera le altre nazioni far lo stesso con lui; nel secondo, mostra la propria debolezza. Chi ha la forza per difendersi, non cerca di comprarla. Di più, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale e di virtù, che ad ogni minimo vento svaniscono nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono. Con una mano il legislatore stringe legami di famiglia, di parentela, di amicizia; e coll’altra premia che li rompe e che li sprezza: sempre contraddittorio a sé medesimo, ora invita alla fiducia gli animi sospettosi degli uomini, ora sparge la diffidenza in tutti i cuori. Invece di prevenire un delitto ne fa nascere cento. Questi sono gli espedienti delle nazioni deboli, delle quali non sono che istantanee riparazioni di un delitto ruinoso che crolla da ogni parte. A misura che crescono i lumi di una nazione, la buona fede e la confidenza reciproca divengono necessarie, e sempre più tendono a confondersi colla vera politica».Il cane al guinzaglio viene trattenuto volutamente per renderlo diffidente ed aggressivo, per esasperarne la violenza riposta, ed al momento opportuno scagliarlo contro il nemico. È quello che fa il moderno Stato, solo apparentemente cervello della società, incapace di piani in grado di favorire confidenza e integrazione reciproca tra gli uomini. Che cosa sono gli hangar ricolmi di armi, che cosa "l’equilibrio del terrore" se non potenti bulldog allevati dai prepotenti per sbranare il nemico? Chissà come dev’essere il Cuore di Cane ora invitato alla fiducia verso gli animi sospettosi, ora eccitato ad aggredirli. Non si dovrebbe parlare così al Cuore, mettendolo cinicamente tra due fuochi, speculando sulla sua atavica confusione.
Ma gli Stati, lo Stato moderno, in preda permanente della propria intrinseca contraddizione, non sa uscire da essa. È necessario strappargli il guinzaglio. Chi può farlo? Solo chi conosce ed è in grado storicamente di organizzare un piano di Specie. È quello che abbiamo sempre detto: non potremo trasformare il vecchio apparato, che dovrà invece essere distrutto (Zertreten!). La Rivoluzione passa per questa via obbligata. In ogni epoca che pone e impone tempi "ultimi" apocalittici (cioè rivelatori) non si pongono alternative di comodo. Questo sentore-sentimento, e necessità, è comune a tutte le epoche di crisi, che hanno promesso e mantenuto le decisioni prese.
Quelli che sostengono un tempo storico uguale, senza salti, graduale, fingono di non vedere e di non ricordare questi salti epocali. O perché li hanno vissuti, per modo di dire, come "bestie prive di ragione", o assistendovi senza turbarsi delle rovine, in forma istintiva e superficiale.
Il tempo storico non è lo stesso, procede per via dialettica. Il passaggio
dalla Preistoria alla Storia non potrà essere indolore, o semplicemente
"naturale".
Nuovi cieli e nuova terra non sono metafore ad effetto.
Sono e saranno veramente nuovi cieli e nuova terra. Non sarà aria fritta,
un generico nuovo ordine metafisico, ma una condizione reale, da
sempre Promessa, alla quale gli uomini sono stati
chiamati
per agire, non semplicemente per stare a vedere passivamente che
l’opera si compia.
Sotto il giogo della necessità
Ma come sottrarsi, nell’azione per giungere al comunismo, al "giogo della necessità"? Questo è il nucleo forte della tragedia e della storia antica, come di ogni tragedia umana.
Il mondo greco non conosce il concetto di "libera scelta" o di "libero arbitrio". Il suo legame coll’eredità eroico-epica è resistente, anche in quegli autori che la mettono in dubbio. Il nesso libertà-necessità è dialetticamente stretto ed oggettivo. Non esistono parole magiche che lo possano risolvere per incanto. Gli uomini sono mossi a combattere per togliere o riparare un torto, un’ingiustizia, ma così facendo sono condannati a commettere altri torti, altre ingiustizie. L’animo tragico diventa definitivamente consapevole, eidos, e d’ora innanzi ogni decisione sarà soggetta a questa drammatica domanda: vale la pena di versare sangue, si può evitare, si può risolvere la questione secondo le regole delle polemicài tècnai? In questa tensione il calcolo razionale è presente, ma come in ombra, di fronte alla tragedia della scelta. La mentalità eroico-epica sente che dietro l’azione violenta sta il favore o l’opposizione degli dèi.
Ora che il velo è caduto e che l’eroe non può cercare l’alibi di forze "esterne" che lo tengono sottomesso al loro volere, un nuovo mondo si apre dinnanzi all’umanità. Prometeo ha strappato il fuoco agli dèi e l’ha consegnato agli uomini, pagando il suo prezzo eterno. Gli uomini sanno che quel fuoco di cui si sono appropriati li divora, e diventa per loro inevitabile farne un uso responsabile.
Fino a che punto è necessario ricorrere alla forza, alla violenza dispiegata, cinetica, come diciamo noi? Non è un problema che non ci riguardi. Non lo vedono più le forze reazionarie che credono di essere state legittimate una volta per sempre all’uso dello Stato e della sua macchina infernale. Noi invece, che conosciamo la dialettica più e meglio dei Greci, non ce lo possiamo permettere. Finché l’uomo ha il senso della storia, soffre la scelta. La politica è tragedia, ebbe a riconoscere uno spirito epico ed avventuroso della stazza di Napoleone il Grande.
Ma come matura questa convinzione? Quando nel mondo antico prevale lo "spirito epico" la responsabilità è mascherata dalla sottomissione al volere degli dèi. Se l’uomo, anche di potere, non avesse le spalle coperte da una forza così avvolgente e deresponsabilizzante, come potrebbe affrontare decisioni che spingono a sacrifici umani anche appartenenti al genos, perché l’impresa possa avere un esito favorevole?
Il passaggio allo "spirito tragico" segna una lacerazione ed una frattura. Nell’essere umano s’insinua il dubbio che il sacrificio non sia onesto, che sia sacrilego. Egli si sente allora diviso; gli dèi possono essere con lui, ma è lui che non è più d’accorso con sé stesso.
Questo stato è lungo e complesso, ma è il momento di uno sviluppo etico e culturale che sembra assurgere a categoria, mentre è invece storico, concreto, documentabile, al punto che accompagna atteggiamenti diversi e situazioni diverse, ma vissute da questo dramma. Dover rinunciare al Fato, al Destino, alla forza esterna del volere degli dèi significa soppesare non solo costi e benefici (aspetto più pragmatico ma che meno coinvolge il cuore umano), piuttosto invece il rapporto dell’uomo con sé stesso, operando una ferita profonda non ancora sanata.
Lo sa bene chi opera nel campo politico. È di Lenin l’affermazione rivolta al plotone d’esecuzione: «quando sentite di essere diventati indifferenti, smettete». Uccidere comporta indignazione, coscienza del male, anche se necessario. Finché questo sentimento è vivo l’uomo è negato, ma anche affermato, perché sente la reazione, non è una macchina che si modella sulla società, oggetto, merce, sostituibile e scambiabile in ogni momento. Ancora l’uomo reagisce a farsi ingranaggio, e dalla sua istintiva reattività al delitto, al sangue, può trarre i motivi per la sua perfezionabilità, la forza per continuare a cambiare delle relazioni ingiuste che lo turbano e lo spingono a combatterle.
Siamo responsabili in quanto siamo capaci di andare oltre la soddisfazione immediata di un bisogno primario. Anche l’animale è capace di soddisfare un bisogno primario, in quanto dotato di un patrimonio genetico altamente determinato che gli permette di scegliere anche meglio dell’uomo. Basti pensare a come gli animali evitano di mangiare cose dannose alla loro salute. Ma l’uomo, in quanto homo tecnicus, è capace di porre come oggetto della sua azione un certo tipo di obbiettivo che è il prodotto di un calcolo (magari approssimativo, a volte anche ampiamente errato) che si chiama desiderio cosciente di ottenere un certo risultato capace di soddisfare un suo bisogno. Questo calcolo ragionato è per il momento rivolto al suo utile individuale. La capacità di considerare una catena di "nessi causali" che possono portarlo al risultato desiderato fa sì che egli sia responsabile della sua decisione. Ma l’atto decisionale è da tener distinto dal semplice desiderio, anche se cosciente. Questo è il punto cruciale della "azione responsabile". Generalmente per "responsabile" intendiamo un’azione che comporti delle conseguenze per gli altri, capace di compromettere il diritto o le scelte possibili degli altri.
Ma prima si tratta di stabilire se l’uomo è capace di "calcolare" i rischi ed i costi in rapporto ai probabili vantaggi che un certo tipo di decisione può permettergli. Se si pensa alla cosiddetta "serendipity", cioè alla considerazione teorica che spesso otteniamo nel corso della ricerca proprio il contrario di quello che ci aspettavamo, specie nell’ambito della ricerca scientifica, ci dovremmo rendere conto quanto sia vero il proverbio per cui tra il dire e il fare...
La domanda è se l’uomo sia capace di decidere svincolandosi "relativamente" dall’ambiente (Umwelt), o fino a che punto, se cioè la sua azione sia deterministicamente condizionata, o fino a che punto. Dobbiamo dire che la sua predeterminazione è "relativa", e che è capace, in determinate circostanze e in virtù di particolari tecniche, di sottrarsi al dominio incontrollato dell’ambiente. Questi processi si chiamano produzione e riproduzione della sua vita materiale, quello che più comunemente è detta Economia. Egli cioè (ad essere corretti, non individualmente ma socialmente) è in grado, per un concorso di fattori favorevoli, di "decidere" un tipo di azione che gli permette di calcolare la riuscita capace di conseguire un risultato utile per la sua attività.
Come si vede l’azione "responsabile" in senso etico, cioè come
rispetto dei diritti e preoccupata delle conseguenze che la nostra azione
può comportare per soggetti che immaginiamo portatori di analoghi desideri
e bisogni da soddisfare, non è ancora emersa, ma ha bisogno di questa
base per poter essere posta e compresa.
Il relatore è a questa riunione giunto ad esporre le nostre considerazioni sui concetti di individuo, morale, milizia di partito. L’uomo arcaico giudica i sentimenti personali come una debolezza che viene a turbare il necessario svolgersi della natura. Il “lirismo” personale fu reazione indesiderata ad una lacerazione sociale esterna che costringeva a de/cidere. L’adesione al partito, che per noi è atto volontario e personale, la sappiamo non atto “libero” ma prodotto dalle determinazioni sociali. Ma nell’individuo è frutto di discernimento, insieme di sensibilità, sentimenti, sdegno, oltre che conoscenza, intelletto. Non c’è contraddizione fra l’adesione personale al partito, che è organo collettivo impersonale, in quanto è rinuncia all’illusione di modificare la realtà con le proprie sole forze per la collaborazione fra chi sente, vuole e pensa lo stesso fine. Utilizzando un passo di Trotski si dava questa nostra definizione di “onestà”: coerenza fra parola ed azione, davanti alla classe lavoratrice, in rapporto all’obiettivo supremo del movimento. È escluso che il partito comunista possa mentire alla classe che rappresenta. A maggior ragione che si possa mentire al partito senza con questo negarlo e distruggerlo.
Si tende a credere che nell’uomo "moderno" l’azione responsabile sia il frutto e la conseguenza di una lunga tensione interiore, prodotto d’un dissidio che porta all’assunzione di responsabilità, alla scelta del Bene contro la tentazione del Male.
Ciò nell’uomo arcaico appare determinato da uno ostacolo che gli frappone il Cosmo. Segno che l’universo dell’uomo arcaico ha una struttura semplice ed organica, al punto che il suo personale sentimento, l’insorgere stesso di un sentimento personale è visto come un evento che si frappone all’ordinato o comunque necessario svolgersi degli eventi naturali determinati dal "divino".
Ancora oggi nelle menti "arcaiche", o che hanno mantenuto forte il legame o la nostalgia con l’uomo antico ("armato di clava"), il sentimento lirico viene percepito come una sorta di debolezza, di ripiegamento interiore, non inteso come fonte di azione "eroica", ma di lacerazione, di doppiezza, spesso di proclività al tradimento. È certo che il lirismo fu una forma di rassegnazione a un colpo subito dall’esterno, piuttosto che di libera elaborazione personale sofferta e stimolo alla iniziativa consapevole, alla de/cisione responsabile.
Ciò conferma quanto permutati siano i valori nel corso della vita della
specie umana, quanto arbitraria sia la pretesa d’imporre un Decalogo
oltre il tempo e lo spazio. Quando ciò avviene si ipostatizza un Tempo
ed una Cultura, senza sospettare che il "dissidio individuale", la "libertà"
come sentimento può essere concepito come debolezza, invece che
come forza, prerogativa irrinunciabile e diritto naturale.
L’adesione personale alla milizia nel partito comunista
Da ciò facciamo discendere che l’adesione al Partito, seppure atto di libero arbitrio, mosso da un dissidio interiore e soggettivo, è il prodotto dell’interazione tra le determinazioni sociali – che spingono gli impegni e i cuori più sensibili a desiderare e riconoscere i sentimenti e le relazioni proprie del comunismo – e la capacità di discernere, che è anche intellettuale e frutto di conoscenza, tra i diversi programmi politici, i diversi piani di sviluppo sociale complessivi, le contrapposte interpretazioni della realtà storica.
Non vediamo contraddizione tra l’adesione personale al partito, organismo collettivo ed organico, e l’elevarsi del singolo al suo metodo unitario di azione e di pensiero, che non richiede affatto, come beotamente si polemizza, la negazione della facoltà di elaborazione ed acquisizione anche individuale del patrimonio comune di dottrina, che in quanto tale travalica i confini tra generazioni, gli ambiti spazio-temporali, le diverse sensibilità culturali.
La capacità di sentire e di raziocinare del militante comunista, di fronte alle stridenti contraddizioni proprie della società divisa in classi, è volta alla sua aspirazione, che è personale e collettiva, a ricomporle in una dimensione organica felice. Se dissidio c’è, come nell’uomo arcaico, proviene dall’esterno del partito, e colpisce il suo sentimento che non accetta né si rassegna alla contraddizione, al male sociale opposto al sogno di una polis che sia corrispondente ad una ideale di giustizia, di bellezza, d’organizzazione armonica di storia e di natura. L’assunzione di responsabilità personale nel Partito si tramuta in gioia ed entusiasmo, in senso morale, nel significato che egli rinuncia alla illusione romantica di modificare la realtà con le sue sole forze, in nome della collaborazione fraterna con chi sente e vuole alla stesso modo, prima ancora di pensare analogamente.
La forza e le capacità individuali del militante sono integrate senza
contraddizione nella sensibilità, nel metodo, nella storia, nella dottrina
collettive, che nel partito assumono la dimensione e la forma di azione
rivoluzionaria, capace pensare e battersi per l’unico e condiviso
piano
di specie.
Seguiva la prosecuzione del tema tendente alla definizione più generale del nostro movimento. Il nucleo duro e forte della nostra “morale rivoluzionaria” consiste nell’appartenenza ad una forma organica di milizia per la quale l’identità non è costituita dai legami di sangue propria delle società primitive, primordiali o pagane, ma dall’appartenenza alla specie umana nell’arco che unisce l’uomo con la clava all’uomo comunista. Da qui l’atteggiamento dialettico-aperto, per il quale il Partito, che si autodefinisce organo della classe operaia, non si chiude in sé stesso, non perde di vista la specie-comunismo nemmeno nei momenti più difficili, proibitivi, allorché la difesa del Partito comporta la chiusura e l’isolamento. La morale rivoluzionaria, in quanto è il prodotto della lotta e della storia della lotta di classe, non può permettersi il lusso di sublimi affermazioni di principio, astratte e a tavolino, ma impraticate nell’esperienza concreta. Ciò esclude nello stesso tempo l’adesione ai macchiavellismi propri della morale di classe delle caste dirigenti, poiché il rapporto tra mezzi e fini non è indifferente: per la nostra morale non tutti i mezzi sono adeguati e praticabili, costi quello che costi. Il nostro cioè non è il relativismo sociologico oggi di moda, ma il consapevole bilancio che la difesa intransigente della vita delle classi sfruttate richiede per poter essere portata al suo esito positivo.
Certo, noi non conosciamo la morale assoluta dei popi, dei preti, delle università, del Vaticano, o delle messe di domenica a mezzogiorno. L’imperativo categorico di Kant e il filosofico Cristo senza carne e sangue, e senza i vantaggi artistici di un mito religioso, ci sono estranei quanto quel vecchio, crudele volpone di un Mosè, che scoprì sul Sinai il tesoro di una morale eterna. La morale è una funzione della vigente società umana, non v’è in essa nulla di assoluto; essa si modifica insieme alla società e serve di espressione generalizzata degli interessi delle sue classi, in particolare delle classi dominanti. La morale ufficiale è una briglia ideale sul collo degli oppressi.
Nel corso della lotta, la classe operaia si costruisce una sua morale, una morale rivoluzionaria, che comincia con l’abbattere iddio e le norme assolute. Per "onestà" noi intendiamo "coerenza fra parola e azione, agli occhi della classe lavoratrice", sotto il controllo dell’obbiettivo supremo del movimento e della lotta: la liberazione dell’umanità dalla schiavitù, attraverso la rivoluzione sociale.
«Noi, per esempio, non diciamo affatto che non si debba usare l’astuzia e l’inganno, che si debbano amare i propri nemici, ecc. Una morale così sublime è evidentemente accessibile solo a uomini di Stato bacchettoni come Lord Curzon, Lord Northcliff o Mr Henderson. Noi odiamo e disprezziamo i nostri nemici, in quanto lo meritano; li battiamo o li inganniamo, a seconda delle circostanze; e, anche quando ci decidiamo a contrattare, non sentiamo nessun palpito di amore che tutto perdoni. Ma crediamo fermamente che non si debba mentire alle masse né ingannarle circa i fini e i metodi della loro lotta. La rivoluzione sociale poggia sullo sviluppo della coscienza di classe del proletariato, sulla sua fede nelle proprie forze e nel partito che le guida. Si può usare l’astuzia contro i nemici del proletariato, non contro il proletariato. Il nostro partito ha, con le masse e alla loro testa, commesso mille errori. Questi errori noi i abbiamo apertamente riconosciuti di fronte alle masse, e abbiamo proceduto con esse ai necessari colpi di barra. Ciò che gli ipocriti e i santuzzi della legalità chiamano la nostra demagogia, è soltanto verità proclamata a voce per essi troppo alta, troppo rude, troppo allarmante. Ecco che cosa intendiamo noi per onestà, signori Henderson!» (Trotski, Fra imperialismo e guerra, 1921).Di che tipo sono gli errori di tipo individuale di cui la "morale rivoluzionaria" può macchiarsi? Perché i "capi" si sono circondati di falsi collaboratori? O perché non danno prova di buon carattere individuale? Può esserci anche questo, ma sarebbe una vera miseria in rapporto alle necessità storiche del proletariato. La responsabilità storica del Partito non può ridursi ad una sorta di galateo formale: il suo problema vero consiste nella necessità di non debordare dai principi e dal programma storico. Non esistono garanzie formali che questo non avvenga. Per ovviare a questo non c’è che il lavoro organico, senza illusioni di infallibilità. Lenin parla infinite volte della necessità di verificare nell’azione pratica la teoria, che è la guida per l’azione, e propone di correggere anche cento volte se necessario quanto non va. È escluso che il partito comunista possa mentire alla classe che rappresenta. A maggior ragione che si possa mentire al partito senza con questo negarlo e distruggerlo.
«Lo sforzo dei marxisti di sinistra è di operare sulla curva spezzata dei partiti contingenti per ricondurla alla curva continua ed armonica del partito storico. Questa è una posizione di principio, ma è puerile volerla trasformare in ricette di organizzazione. Secondo la linea storica noi utilizziamo non solo la conoscenza del passato e del presente della umanità, della classe capitalistica ed anche della classe proletaria, ma altresì una conoscenza diretta e sicura del futuro della società e della umanità, come è tracciata nella certezza della nostra dottrina che culmina nella società senza classi e senza Stato, che forse in un certo senso sarà una società senza partito, a meno che non si intenda come partito un organo che non lotta contro altri partiti, ma che svolge la difesa della specie umana contro i pericoli della natura fisica e dei suoi processi evolutivi e probabilmente anche catastrofici» (Tesi di Napoli, 1965).
Come trovare il modo di far coincidere il Partito storico con il partito formale? Primo: non illudersi di "stare col partito storico infischiandosene di quello formale"; oppure, al contrario, di darsi un gran da fare per avere una forte organizzazione formale, magari anche pletorica, infischiandosene dei principi.
Sono possibili misure amministrative che possano garantire da ogni degenerazione e da cattivi comportamenti? Certamente no, e lo diciamo con il senso dell’esperienza: statuti e commissioni di controllo e di vigilanza non solo non hanno impedito la degenerazione, ma ad un certo punto hanno contribuito a incoraggiarla e sanzionarla. Ma se intendiamo parlare di disciplina, dedizione, presenza assidua, lotta e conoscenza delle necessità della classe, partecipazione dal vivo alle lotte, allora mai ne avremo abbastanza. Insomma, tutto meno che forme di zelo ipocrita, tutto meno che rassegnazione alle cose, alla speranza che maturino da sé, senza il filo storico che solo il Partito nella sua intelligenza organica è in grado di mantenere, sia pure con tutti i difetti e le manchevolezze propri delle diverse contingenze storiche.
Ma soprattutto, nella morale rivoluzionaria – che non è la somma dei meriti individuali dei singoli militanti, bensì un valore collettivo, diffuso, misurato da una salute che si avverte nella gioia e nell’entusiasmo del lavorare insieme contro il Capitale e le brutture che ammorbano la società di classe – si sintetizzano secoli di esperienza e di battaglie, si precisano i contorni netti della tattica e della strategia per la vittoria definitiva, vicina o lontana poco importa, in rapporto alla necessità complessiva della storia.
Per la morale che noi pratichiamo il problema fondamentale cui attenersi è quello di non ingannare mai il proletariato facendo mercato dei principi o agendo da "astuti" contro i suoi interessi vitali permanenti, mediati ed immediati. Le astuzie a volte poco valgono anche contro il nemico, che di noi teme essenzialmente la coerenza rivoluzionaria: sappiamo bene che non sono certo gli escamotages da "007" o da gladiatori senza cervello e senza cuore a garantire la vittoria possibile. Nella nostra morale, considerata ingenua dagli opportunisti di sempre, la difesa delle condizioni immediate di vita, la lotta economica e sindacale non è mai in contraddizione col fine politico, con la presa del potere; al contrario: questo modo di intendere la lotta è la giusta "ginnastica" per i fini più alti della politica, come sostiene Lenin.
Nella storia del proletariato, ogni volta che il Partito ha difeso con intransigenza le sue esigenze materiali e non ne ha fatto mercato, si è spinto in avanti nei fini; quando per debolezze interne non lo ha fatto in modo cristallino, ha visto declinare la possibilità di vittoria.
Le astuzie contro il proletariato si pagano, perché significano rinculo verso il machiavellismo deteriore, che significa incapacità di commisurare il mezzo al fine, dimostrando impazienza o temerarietà, o peggio, rassegnazione e rinuncia, con conseguenti lunghi periodi di depressione del movimento. Nella nostra versione "morale rivoluzionaria" è il contrario di forzatura, puro atto di volontà, che non rispecchi le condizioni oggettive della realtà sociale. In generale nell’ambito borghese "volontà" viene intesa come atto che piega e travolge l’ostacolo disinteressandosi della sua natura: tale atteggiamento diventa nelle forme opportunistiche che hanno infestato storicamente il movimento proletario volontarismo, attivismo, o al contrario, codismo, rassegnazione e rinuncia, fino al tradimento aperto.
Morale (da mos = costume) significa per noi comportamento commisurato alla realtà e ai fini, coerenza di lungo periodo, capace di caratterizzare ed identificare una forza sociale. Per altri ha assunto il significato di volontà che può tutto, quanto più è cieca ed irrazionale, arbitraria ed estranea alla conoscenza dei dati reali della situazione.
Le forze, anche nel Partito, crescono o diminuiscono non in virtù di impulsi volontari, come espressione di genialità metastoriche, mentre sono la dedizione e la coerenza che s’innestano nella maturità della realtà sociale con le sue necessità che determinano i veri salti di qualità del processo rivoluzionario. Non c’è dubbio che questi valori comportano espletamento di tutte le funzioni, allenamento, devozione alla causa, anche se queste non sono in grado di dare le risposte che "vogliamo". La prassi non è un "fare" arbitrario, ma un tipo d’azione che è prodotto di forze sociali in contraddizione tra loro, che è dato modificare solo sulla base della conoscenza del loro grado di sviluppo, di crescita e di declino.
Una morale che pretendesse di non tener conto di queste condizioni non
sarebbe che velleitarismo, demagogia dannosa per il movimento operaio,
che ha conosciuto nel corso del suo sviluppo storico tutte le patologie
proprie di ciascun momento per il quale è passato. Tutto ciò non ci meraviglia,
ma ci ammonisce a non ricadere né nell’infantilismo, né nel verbalismo;
tanto meno nel "senilismo", che potrebbe essere l’anticamera della rovina
di tutte le classi.
La "degenerazione", una volta attaccato l’organismo, non è una malattia di poco conto che possa essere vinta con una terapia a base di "pillole". Chi credette che la degenerazione del partito potesse essere combattuta con qualche raddrizzamento di tattica, dovette rendersi conto in seguito che un’intera epoca storica doveva consumarsi. Ancora una volta nessuna concessione alla rassegnazione, ma una constatazione grave e onesta: di fronte al male c’è una sola cura, difendere con le unghie e con i denti i principi. Ogni adattamento di facile somministrazione era destinato ad aggravare la malattia, ed avrebbe attaccato non solo la "base", ma più ancora i "vertici", i gradi dirigenti.
Anzi, la base, magari per istinto, avrebbe continuato a credere, fino a esprimersi in commoventi sussulti (vedi riti di massa, come i funerali di "grandi capi"). Ma il "cancro" mano a mano ha attaccato anche la "base", con l’evidente caduta della "morale proletaria" che un certo moralismo operaista lamenta, a proposito di concessioni al consumismo, di morale sessuale degenerata (niente di più subdolo)... Il proletariato in quest’ottica avrebbe dovuto mantenersi integro, nonostante il tradimento. Il cancro avrebbe dovuto risparmiare... gli innocenti!
Ma l’àncora di salvezza non poteva invece che essere il riferimento alle basi "profetiche", alla "utopia reale" del Manifesto, alla necessità strutturale, per la classe operaia, di riconoscere nel Comunismo il suo esito storico e naturale. La "degenerazione" così non sarà in grado di oscurare quella Promessa che viene da lontano, dall’esterno della classe, dovremmo dire dall’esterno stesso del Partito.
Ma il Partito "formale" vive in una compagine organizzata. È necessario
che un minimo di legame venga mantenuto anche quando solo un pugno di militanti
è in grado di farlo. Dovunque ci si riunisce per difendere il Programma
c’è il Partito.
Il "Corpo Mistico" del partito di classe
Il Partito di classe lotta ed aspira ad un tipo di comunità umana in cui nessuno dei suoi membri sia escluso dai benefici della collaborazione e del lavoro comune, secondo la formula valida, per la sua base superiore, "ad ognuno secondo i suoi bisogni". Questo fine ultimo, che è considerato dagli avversari e dai nemici utopia, è la realizzazione del "Corpo Mistico" per il quale tutti i movimenti comunistici, in qualche misura, lungo il corso di regimi sociali precedenti, antichi o più vicini a noi, hanno combattuto, cercando, anche se impropriamente, di dargli consistenza.
Nell’attuale regime lacerato dalla più acuta divisione tra le classi sociali, una delle quali, la borghesia, ha escluso dal godimento dei beni necessari alla vita la grande maggioranza dei nullatenenti, soltanto nel Partito prefigura e pratica al suo interno il comunismo come "corpo organico". Esso non pretende di essere embrione del comunismo dispiegato alla scala storica, di sostituire già i rapporti economici della società comunistica a venire, ma si sforza di rapportarsi al suo interno secondo i moduli del centralismo organico.
La mistica comunista non è la stessa cosa e non ha la stessa natura
delle altre note esperienze mistiche di altre correnti di pensiero, politiche
o religiose. Il centralismo organico, saldo masso su cui tenere
i piedi, è prima di tutto una tensione, una aspirazione, in quanto tale
sempre meglio praticabile. I suoi segni di imperfezione e di mancanza non
potranno essere risolti che nella società comunista dispiegata alla scala
sociale. Ma questa ammissione e questa consapevolezza non giustifica nel
Partito l’attesa e la rinuncia alla sua pratica come impossibile, semmai
reclama di impiegare tutte le sue forze perché il vantaggio del "Corpo
Mistico" possa essere goduto fin da ora.
L’uomo è un "essere sociale", dice Marx; non "socievole", come preferisce Aristotele, ideologo inconsapevole, e neanche sappiamo quanto, della società greca già divisa in classi. Si pensi soltanto alla sua definizione di schiavo come "utensile", strumento oltre che utile, parlante... Per la nostra concezione l’uomo è fin dalle sue oscure origini un essere impossibile da pensare fuori dal suo contesto, dalla sua relazione col tutto, dal clan, tribù, fino alla società organizzata secondo forme diverse nel corso storico. La comunità delle origini, per quanto ristretta da tutti i punti di vista, è incomprensibile alle moderne teorie dell’ "individuo", in qualche modo dotato di diritti propri, autosufficiente ed il più delle volte asociale.
Nella realtà del comunismo rozzo la conoscenza che esso ha di sé data dal rapporto diretto, carnale; non esiste ancora teoria astratta, perché non esistono differenziazioni di funzioni intese come privilegio da far valere da parte di individui contro altri.
Come abbiamo avuto modo di sostenere, qualitativamente la società comunista delle origini vive un livello di vita molto alto, che solo la società comunista dispiegata alla scala generale come noi la immaginiamo potrà raggiungere, dopo aver superato l’atomismo e la disgregazione propria del capitalistismo. Tale nozione elementare poggia su un enunciato che nella nostra versione non avrebbe bisogno di "dimostrazione" e di prove, in quanto attiene ad un sentimento primario, ma che abbisogna di teoria e di argomentazione quando viene opposta all’ideologia borghese, la quale poggia la sua visione del mondo sulla coscienza individuale, sull’astrazione concettuale e su altri modi di giustificare la sua prassi antitetica alla nostra.
Infatti il comunismo, più ancora che una necessità sociale proiettata nel futuro, è un’evidenza che scorre sotto gli occhi di chi ha lo sguardo chiaro. Il comunismo, prima di essere dimostrato attraverso teoremi scientifico-positivi, è un’esigenza che s’impone di fronte alle necessità che ogni giorno vengono erette dal capitale contro il lavoro. Certamente questo non viene con altrettanta naturalezza riconosciuto da chi vive di lavoro altrui.
Da quando la società organica e naturale si è divisa in classi, per necessità storiche che hanno infranto l’equilibrio precedente,
si è generato un sentimento di frattura che poté essere chiamato colpa,
peccato, o non meglio identificata causa. Ma nella lacerazione sta,
dialetticamente, la necessità e la condizione del suo superamento. Questa
è la legge della dialettica che ci governa, che la vogliamo o la contrastiamo.
«La verità s’impone dall’esterno: come una cosa. Attorno a quest’idea l’Occidente realizzava l’idea di un mondo esterno e si staccava dai sogni dell’infanzia. Dava un posto alle cose. Realizzava la nozione di un mondo fuori di noi» (Sgalambro, Sole-Cultura, 15 ottobre 1995). Ciò che non è nascosto, che sta alla luce del Sole, lo percepiamo come "esterno", oggettivo. Invece tendiamo a nascondere nel segreto della coscienza ciò che non vogliamo portare alla luce ed alla pubblica conoscenza.
Questo atteggiamento trae origine da una storica "separazione", da una lacerazione necessaria che divise Oriente da Occidente, se vogliamo stare ad un topos storico-geografico che ha in sé una evidente valenza metaforica. Forse, più esattamente, proviene da una frattura più antica e profonda, che per noi consiste nella rottura dell’involucro del comunismo primitivo, l’età dell’oro, l’età dei sogni dell’infanzia. In quella condizione non c’era posto per le cose fuori di noi, né per un Dio estraneo, perché egli stava con l’uomo, né fuori né dentro, ma accanto, conversando amichevolmente con lui, poiché l’uomo era amico dell’altro nella esperienza organica degli inizi. La de/cisione di mettere Dio fuori, nella condizione metafisica della trascendenza, tanto raccomandata dai sacerdoti, è significato un metterlo fuori gioco, in un’ambigua posizione, in segno di protesta e riferimento massimo, ma anche di allontanamento, perché non disturbasse più, non interferisse nella autonomia umana.
Un’operazione capitale, che lo stesso Engels ricorda nella Dialettica della Natura, di cui la Specie umana paga ancora il prezzo, quello che fu comunque necessario per poter parlare di oggettività e di scienza. Così è stata accettata la nozione secondo la quale la verità s’impone dall’esterno, come una cosa, fino a riconoscere il suo diritto a coartarci, ad imprimersi sulla nostra coscienza.
I fanatici della Verità non hanno mai esitato ad imporla sotto la velata pedagogia del "proporla" (la Chiesa, ogni Chiesa, propone di credere) rivendicando, come nelle antiche gerarchie, d’esserne i depositari eletti ed esclusivi. Ma se essa, la Verità, risplende, in quanto non nascosta per definizione, non dovrebbe aver bisogno di sacerdoti, come il Sole che riscalda ed accompagna per sua natura. In questa forma i moderni gerarchi hanno potuto sostenere la loro necessità e la loro funzione: «Ogni forza è forza morale, perché si rivolge sempre alla volontà. Infatti, qualunque sia l’argomento adoperato, dalla predica al manganello, esso sollecita interiormente l’Uomo e lo persuade a consentire» (G. Gentile, Lode del manganello).
Che il Dio del "realismo metafisico" abbia la condiscendenza di tornare
accanto all’Uomo-Specie e che la Verità non venga più imposta come
una Cosa! Perché questo avvenga è necessario che si compia il rovesciamento
d’ogni prassi come si è consolidata nella società del Capitale. Ma
questa possibilità non potrà realizzarsi se l’uomo, che per noi non
è ancora l’uomo "generico", bensì rapporto sociale di classe, si sottrarrà
al suo compito storico.
«Prima viene l’Essere, poi la Coscienza» (Ideologia tedesca, Marx). Gli enunciati elementari della Teoria generale dell’Essere, nella loro semplicità ed evidenza, non sopportano nessun intervento dell’analisi, pena il deturpamento determinato da ogni conato di dimostrazione. Il loro contenuto è la loro Forma, riconducibile a giudizi analitici che non richiedono, almeno a prima vista, altro che "adesione", sine glossa.
Dzog-chen: «Esso invita a tornare allo stato naturale dell’Uomo, nel quale egli non si distingue dal mondo esterno». "Tutto è in tutto", come pensava Anassagora, uno dei filosofi dal doppio volto, uno ancora rivolto ad Oriente, l’altro ad Occidente, di cui contribuisce a creare le forme del pensiero. Alcune delle più elevate riflessioni sono presenti in tutte le culture e in tutte le tradizioni, a testimoniare la comune matrice dell’umanità.
Nel sanscrito antico RA significa semplicemente "Umanità", mentre oggi sembra alludere a "razza", con tutte le aberrazioni che sappiamo.
Il sogno di tornare allo stato "naturale" risorge continuamente nel corso della storia umana nei momenti salienti di grande disorientamento provocato dalle civilizzazioni, che dopo aver molto dato e promesso hanno messo a nudo i loro limiti e la necessità del loro superamento. Ecco perché un personaggio umbratile e complicato come Rousseau, all’aurora del mondo borghese moderno, potè teorizzare il ritorno all’uomo semplice delle origini, non ancora rovinato ed imbarbarito dalla civiltà.
Ma l’Eden, o età dell’oro, i cui barbaglii infiammano ogni tanto le regioni più lontane del nostro comune orizzonte, era probabilmente quel tempo e quel luogo in cui e durante il quale l’uomo non si distingueva dal mondo esterno, nel quale non era ancora emersa la "coscienza" come l’intendiamo oggi. In quel tempo la "conoscenza" viene rivendicata da Dio: Lui solo sa. In generale "beato" viene considerato colui che non sa. La "coscienza" non era ancora intesa come centro che permette all’uomo di distinguersi e di separarsi dal mondo esterno, secondo un’individualità autosufficiente e responsabile, o, oggi si dice, come principio di realtà, che dà all’uomo la possibilità di non confondere i tempi, di escludere la reversibilità di essi, pena la ricaduta nello stato naturale.
La consapevolezza d’essere "distinti" dal mondo esterno, monadi dotate di autonomia, responsabilità, etica, differenza sociale, viene considerata la conquista precipua del mondo occidentale. Dal momento in cui l’uomo la conquistò, mise tra sé e l’altro quella differenza che lo fa "individuo", entità che non si confonde col tutto, né con la natura, né con gli altri esseri sociali. Comincia la storia con le sue contraddizioni, lontana ormai dal comunismo cosmico, primitivo, in cui era parte integrante d’un tutto intero ed organico, non sviluppato né "smembrato".
Per gli antichi indù il mondo esterno è come lo smembramento del corpo di Ka, il Dio Progenitore Prijapati, che quelli che verranno dopo dovranno ricomporre.
Dovremmo dunque rinunciare alla cultura della differenza, dell’individualità
e del principio di realtà? Il comunismo non è affatto indifferente a
questi problemi generali, e nello stesso tempo sa collocarsi nelle varie
e differenziate esperienze storiche. È certo che non nasconde, anzi proclama
esplicitamente di avere in odio l’atomismo sociale borghese in cui il
Capitale ha fatto piombare la storia umana. Postula senza mezzi termini
che il suo fine storico è quello di realizzare una comunità di uomini
solidali, uniti in un legame che non conosce il profitto individuale,
che persegue e realizza la comune cooperazione e felicità, proprio come
promesso... dalla Costituzione americana! Utopia? No! Necessità storica.
Si tratta di mettersi su questa linea di continuità.
Come ultima relazione veniva presentata la prosecuzione sul tema Comunismo. Il nucleo di ogni mistica consiste nella intuizione di una totalità originaria nella quale non si sono ancora differenziati un soggetto ed un oggetto. C’è chi vi vede un’espressione primitiva di promiscuità da dimenticare e da esorcizzare, perché fomite di caos e di mancanza di quelle distinzioni fondamentali che si considerano essenziali per la civiltà; altri invece la rimpiangono come un’appartenenza avvolgente e rassicurante, identificandola anche nominalmente come un’epoca felice, Eden, Età dell’oro. Il comunismo scientifico non teme di rivendicare come suo antecedente il “comunismo rozzo e primitivo”, non per esaltarne l’ipostatico valore, ma perché la comunistica società di specie comporterà un senso di appartenenza nella quale le singole individualità non sentiranno il legame con essa come una costrizione ma naturale e felice. Nella visione che ci riguarda la mistica dunque non è «quella notte in cui tutte le vacche sono nere», ma la fine delle chiusure castali e di classe, in cui individuo è il contrario di atomo indipendente, e, come letteralmente significa, “una unità in armonia col macrocosmo”, immagine simmetrica della totalità. Le diverse esperienze mistiche hanno in comune il culto dell’unità, diremmo del monismo, e si propongono il superamento delle divisioni, delle lacerazioni che impediscono agli essere umani di farsi “perfetti” non più divisi in due nello spirito e nel corpo. Naturalmente rivendichiamo ciò che ci distingue, e lo facciamo non in nome di una astratta superiorità teorica (anche se su questo terreno sosteniamo tesi ben precise sia a livello di conoscenza sia di vita organica di partito), ma in nome ed in rapporto alla concretezza storica, che non è semplice, anzi per molti tratti tragica. Anche l’affermazione del Cronotopo (vedi: "In morte di Albert Einstein", 1955), che non è una enunciazione ideologica ma il punto di arrivo della conoscenza fisica da Rieman ad Einstein, prova che quello che sosteniamo non è una nostra bizzarra invenzione ma converge con i risultati del maturare del pensiero umano quando eccezionalmente riesce ad esprimersi senza chiusure preconcette di tipo interessato, ideologico e discriminatorio. Infatti, nel nostro modo di intendere l’organizzazione del partito, l’aderenza al programma si confronta con la sua efficacia e coerenza storica e non con particolari rituali o esami imposti da un sinedrio di sacerdoti.
Nella teoria della "coscienza occidentale", secondo le regole della sua "razionalità", si passa dal mondo greco fino al moderno "razionalismo" di tipo borghese, dai demoni, che Platone nel Cratilo riconosce come "custodi saggi" dell’età dell’oro, citando Le opere e i giorni del poeta Esiodo: «Poscia che il destino questa stirpe dissolse, demoni sacri, li si disse, della terra, benigni, tutori, custodi degli uomini mortali», ai demoni della società del Capitale di cui parla Marx. Nella mistica d’oriente, invece, i demoni di Madre Luce «ci tengono al laccio delle percezioni e dei desideri, facendoci credere ad un mondo esterno, segnato da noi».
Per il "principio di realtà", questa percezione chiara della differenza della coscienza in rapporto al mondo esterno (la realtà materiale), diviene custode del nostro corpo, del nostro Essere ("essere con la coscienza a posto"). Nella cultura occidentale, del Sole che cade, diventa il pegno, la garanzia della stabilità, della Verità, della responsabilità morale. Quante cose sono avvenute e sono cambiate da che il Sole è salito nella volta celeste, toccando il Mezzogiorno senz’ombra! La coscienza occidentale si vanta di saper mettere tra sé ed i corsi esterni del mondo uno schermo che le assicura conoscenza oggettiva e scienza controllabile.
Facendo a meno dei "custodi", dei dèmoni di Esiodo, il daimon socratico si è introdotto dentro la persona, diventata centro da cui il mondo esterno acquista significato. Non solo: ci fa credere che "dentro di noi" siano possibili e necessarie ulteriori distinzioni, separazioni, aggregazioni, fino al moderno Super-Io freudiano che una volta "introiettato" diventa il controllore morale del nostro soggetto, o Io. Cosi viviamo nel ghiaccio, infranto da questo "custode" che monta la guardia contro i nemici, fino al punto che l’uomo moderno "è morso" dalla coscienza, pronta a richiamarlo al senso del dovere, alla vigilanza critica, alla percezione dell’"errore".
La Madre Unica del Tibet, al contrario, sostiene che non è questa la realtà, e soprattutto che per questa via non è dato raggiungere uno stato di armonia, di felicità autentica. Al laccio dei demoni dei desideri e delle percezioni, occhiuti ed esigenti, noi ci sentiamo colpevoli, limitati, infelici. Dobbiamo sperare ed agire perché essi tramontino e portino via con sé ogni nuvola ed ogni preoccupazione. Quanto più la coscienza-demone governa il mondo, tanto più il mondo vero, in cui non c’è soggetto diviso dall’oggetto, ne risulta diviso, disgregato, non solo in senso fisico-operativo ma nel senso psichico, sia sociale sia individuale.
Non solo l’"individuo", categoria e idolo della cultura razionalistico-critica, ma la stessa Specie umana hanno perduto, sotto la sua azione, unità e interezza. Il guardiano salutare delle origini è diventato un torturatore. Non c’è altra strada ed esercizio mistico allora che la liberazione dai lacci, percezione e desideri che ci fanno "servi", proprio come teorizza Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, e precisamente nella famosa figura del "servo-padrone" che tanto ha influenzato la ideologia borghese, Marx compreso, prima della scoperta del materialismo storico e dialettico. Rompendo quei lacci l’uomo avrebbe un... mondo da conquistare!
Dall’autocontrollo, tanto caro al razionalismo borghese, potrebbe
passare ad uno stato nuovo, dove non si percepisce la differenza tra interno
ed esterno, soggetto ed oggetto.
Ogni cultura ha prodotto le sue forme di mistica, ma nella nostra concezione il desiderio di superamento delle contraddizioni che impediscono l’unità, l’armonia, contro la divisione, l’atteggiamento e la condizione schizoide che deprime e depriva l’essere umano, non può essere concepito al di fuori del contesto reale della vita sociale, produttiva, che costituisce la struttura sulla quale si elevano non solo le idee, ma anche i sentimenti più personali, individuali ed intimi degli uomini.
La tendenza, oggi molto ricorrente, a presentare le forme della mistica come al di sopra d’ogni differenza di modo di produzione, di vita culturale specifica di determinate aree di sviluppo, corrisponde alla tentazione di fare d’ogni erba un fascio, senza rispetto per il prima ed il dopo. Tutto in nome della "comune natura umana", sempre in definitiva uguale a se stessa.
Noi opponiamo a questo metodo la nostra visione, per la quale se è vero (e noi siamo fautori del monismo!) che la Specie umana è una, e dunque legata «nel sol arco che unisce l’uomo con la clava all’uomo comunista», è anche vero che quest’arco si svolge secondo necessità dialettiche, processi di materiale e spirituale liberazione, che non possono essere genericamente risolti con il termine astratto di Libertà.
La libertà, compresa quella che nella mistica allude ad un intreccio inestricabile ed integrato di soggetto e di oggetto, non è un "valore" che cade dal cielo. L’analisi di certe forme di mistica – che per la loro "suggestività" sembrano proporsi come paradigmatiche della comune aspirazione umana all’unità ed al superamento d’ogni paratia interna ed esterna agli uomini ed alla natura – ci permetterà di vedere come esse sono espressione di "cultura", di conquista, ma a volte anche di ripiegamento negativo, di rassegnazione, di rinuncia e di reazione. Non sempre è agevole operare questa distinzione e differenza, ma se non lo facciamo finiamo per fraintedere e mistificare.
Nella confusione voluta di culture si crede di poter scambiare a buon mercato l’unità spirituale e materiale come se fosse una merce da vendere all’incanto: in realtà il materialismo dialettico sa riconoscere la differenza tra le merci, nonostante che Il Capitale di Marx le presenti come quella "enorme accolta" che contraddistingue l’anarchica e coatta produzione che non risponde ad un reale piano di Specie in grado di soddisfare le esigenze ed i bisogni umani. Figuriamoci se non analizziamo i prodotti dello "spirito umano", che costituiscono le sovrastrutture, e dunque quelle formazioni estremamente complesse che sono il sublimato delle sottostanti realtà materiali dalle quali traggono origine.
Quando si è anche filologicamente corretti, otteniamo i migliori risultati scientifici. Che cosa dice di tanto grave il marxismo quando, a proposito di realtà filosofiche e religiose, parla di sovrastrutture? Gli stessi fautori di esse concepiscono i loro valori "in alto", "sopra", e di questa posizione fanno un potere, un primato, quando non una minaccia, oppure, nel migliore dei casi, una consolazione senza la quale la vita rischia di diventare invivibile.
Ma non vogliamo ora insegnare il mestiere ai "mistici" di altra scuola: siamo convinti da sempre, però, che le stesse arti, religione e filosofia sono delle realtà troppo importanti per essere lasciate nelle mani dei mestieranti e dei loro presunti legittimi ministri.
Un punto di contatto tra mistiche di culture lontane nel tempo e nello spazio consiste nell’aspirazione comune a ristabilire un rapporto equilibrato tra uomo e natura, magari con l’auspicio di un ritorno dell’Uomo allo "stato naturale". Non si può negare che questo è stato un motivo ricorrente nelle varie esperienze umane, ed il marxismo le ha analizzate quando hanno avuto una valenza rivoluzionaria o reazionaria.
La "coscienza" come centro che permette all’uomo di "distinguersi" dal mondo esterno, secondo la modalità dell’individuo, costituisce l’inizio della "separazione" dal mondo circostante. Questa è "l’eresia", come la chiama Alan Cromer, il cui lato peculiare è quello di aver instillato nell’uomo l’abitudine, del tutto "innaturale", a guardare «fuori di sé, con spirito libero e disincantato, svincolando la sua intelligenza dal sapere religioso tradizionale che invece tendeva ad instaurare un legame magico tra l’Io e il mondo».
Quest’operazione, che non è indipendente dalle condizioni storiche d’un certo tipo di sviluppo economico e sociale, comporta la rottura di un involucro, un mettere tra sé e l’altro da sé una differenza che fa dell’essere umano un "individuo", fino all’attuale "monade" atomizzata, chiusa, o comunque disarmonica, a causa delle contraddizioni tra il lavoro sociale comune e l’appropriazione privata, che determina sfasature e tensione, irriducibilità di base tra il "borghese" ed il "cittadino".
L’eresia, che noi consideriamo nella sua portata non un "errore", comporta che la storia si approfondisca sempre di più come "storia della lotta delle classi", storia di sofferenze e di sviluppo, di spinte in avanti e di lacerazioni insanabili del vecchio organico sistema sociale. La fine del comunismo "selvaggio", come lo definisce Lafargue, in cui ognuno fa parte di un tutt’uno intero, inconsapevole, beato nella comunità naturale e sociale, comporta il passaggio ad un modo di produzione nuovo, ad un modo di concepire l’interno e l’esterno come due volti che guardano ciascuno da un’altra parte, senza ricomposizione soddisfacente. In fin dei conti la nozione di Oriente ed Occidente data a quelle circostanze, che la Bibbia definisce nella cacciata dal giardino felice, chiuso alle spalle dell’Uomo e custodito dai due Cherubini.
Dovremmo dunque rinunciare alla cultura dell’eresia della differenza, dell’individualità, e del principio di realtà che ne discende, in nome d’una nuova forma di vita organica? Certamente la nostra concezione è capace di riconoscere alla nascita della coscienza un valore propulsivo in senso dialettico, ma non è disposta a considerarlo insuperabile, definitivo o eterno.
Il buddismo propone di portare l’uomo in uno stato nel quale non si distingue tra interno ed esterno, per il quale la coscienza è un male, la liberazione dagli enti che affollano la nostra mente un’igiene necessaria per assaporare il vacuo, quello che forse noi immaginiamo con la parola "testa sgombra da pensieri e da preoccupazioni".
Si può riprendere contatto con Madre Gea, con la comunità degli uomini solidali, secondo un sentimento che ci accompagna anche dopo l’affermazione dell’eresia, ma non ci illudiamo che nelle condizioni storiche del nostro tempo si possa fare con un balzo all’indietro. Questo atteggiamento è tipico delle "utopie", appunto, che sanno vedere i guasti del presente, ma non individuare le loro cause.
L’illusione che viene seminata a piene mani attraverso la merce di
moda, la religione esoterica o esotica, parte dal presupposto errato che
si possa raggiungere una nuova dimensione organica aderendo a "idee", o
riti, indipendentemente dalla liberazione dalle condizioni materiali che
le hanno determinate.
Nell’accezione comune, volgare ed ideologica, della borghesia mistica equivale, generalmente, a confusione. Il termine fa storcere la bocca perché richiama, nel residuo bagaglio positivistico della borghesia, il Medioevo e le sue ubbie religiose. Oppure, come oggi sempre più accade, viene morbosamente reintrodotto dalle correnti esoterico-revisionistiche, che tendono a negare le differenze e le divisioni che non riescono a colmare con la buona volontà, che in ultima istanza corrisponde alla loro cattiva coscienza. Nel linguaggio della Sinistra e nostro (che rivendichiamo non come superamento dello storico materialista dialettico ma come scolpimento che le circostanze storiche sfavorevoli ci hanno messo nella condizione di tramandare per la riscossa storica del proletariato) al contrario, la mistica allude ad una certezza pre-razionale e pre-scientifica nella Utopia comunista, nel possibile superamento, nella pratica e nella teoria rivoluzionaria, di tutte le antitesi che per la borghesia sono, con mistica certezza ma di opposto segno di classe, altrettanto impossibili. Ne è nota la serie, tanto più sofferta quanto più relegata ormai nella soffitta, come ci si sognò alla fine del secolo scorso, quando già si blaterava di smentita e di sterilità del marxismo rivoluzionario, in nome delle riforme e del coinvolgimento della classe del nullatenenti nella cosa pubblica e nella gestione dello Stato: l’opposizione tra città e campagna, tra lavoro manuale ed intellettuale, l’esclusione tra studio e lavoro, la contraddizione tra mezzi di produzione sociali e distribuzione privata dei prodotti. Non parliamo dell’inestricabile garbuglio del concetto borghese di sovranità e di democrazia. Nell’accezione borghese ormai mistica ed utopia vengono sarcasticamente messe insieme, esempio massimo del sentimentalismo cieco dei rivoluzionari, rovinoso e impraticabile, specie dopo la presunta definitiva sconfitta del “comunismo”.
Una delle caratteristiche del pensiero filosofico-religioso più antico consiste nel non conoscere il distacco tra pensiero e pratica di vita. Le parole si traducono in azione, ed hanno il potere di cambiare l’esistenza dell’individuo e della comunità.
Questa nozione, abbastanza diffusa, del pensiero proveniente da Oriente e che avrebbe trovato nella cultura dell’Occidente il suo tramonto, è un topos ormai soggetto ad una serie interminabile di generalizzazioni abusive, ma in realtà anche sintomatiche. Nella cultura occidentale, anche moderna, l’identità di pensiero e di azione ha avuto una fortuna ed una storia molto controversa. Si pensi alla formula di Mazzini, nel Risorgimento italiano, di «pensiero ed azione», appunto, come mistica che respinge ogni tentativo di separare la teoria dalla pratica. In generale tutti i movimenti rivoluzionari sono stati affascinati da questa formula a causa della loro inevitabile esigenza di trovare il rapporto giusto tra "necessità" e "libertà", tra possibilità di trasformazione dello status quo e le difficoltà oggettive da superare per poterlo fare in realtà.
Il problema si è posto inevitabilmente anche al partito rivoluzionario dei lavoratori: il materialismo dialettico ha trovato nella sua stessa definizione l’equilibrio necessario tra la rivendicazione d’un sano materialismo sul quale fondare l’azione, il riconoscimento che la volontà non può tutto, se non parte da elementi oggettivi, identificabili, a loro volta suscettibili di trasformazione attraverso il lavoro e l’azione. Così, di fronte agli spiritualismi di maniera degli avversari politici ed ideologici, ha rivendicato una sua distinta teoria, per non cadere vittima delle manipolazioni del nemico e, nello stesso tempo, in una forma piatta e volgare di materialismo primitivo. In realtà, al di là dei nominalismi, il materialismo storico e dialettico si è trovato a sviluppare le sue posizioni teoriche non in un astratto iperuranio, ma nell’ambito d’una tensione storica e sociale che non è certamente estranea alle formulazioni anche più sofisticate e scientificamente complesse, dalla teoria del plusvalore alla stessa nozione di "comunismo" in termini filosofici.
Nessuna concezione teorica è nata nella testa di Giove, cosicché Mito e Logos rispecchiano dialetticamente le condizioni nelle quali la storia ha prodotto le sue contraddizioni. Ciò comporta che, ad essere esigenti, un astratto "materialismo" contrapposto ad un altrettanto fumoso "spiritualismo" finirebbero per diventare vuote parole ed vuoti concetti, se non altro perché ogni "ismo", notoriamente, esprime punti di vista polarizzati ed unilaterali. Marx nelle tesi su Feuerbach si è preoccupato molto sinteticamente di sottolinearlo. Prendiamo ad esempio la classica e molto citata tesi 3: «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva non è una questione teorica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica».
È sufficiente per rimarcare che lo stesso materialismo dialettico non può essere risolto e ridotto a pura "questione scolastica", come è successo nella degenerazione opportunistico-staliniana con la nefasta esperienza del DiaMat. Non è il materialismo storico una questione da dirimere a livello accademico. Quello che noi facciamo, ed abbiamo sempre rivendicato, è non tanto una difesa astratta dell’ortodossia, quanto la rivendicazione di un modulo di vita partitica, sociale e politica che non si chiuda all’interno dell’oggettività o soggettività del pensiero, che sia coerente espressione dell’unità di teoria e pratica, in modo tale che la difesa della teoria non diventi idolo, verità in sé, ma guida per l’azione, come mille volte rivendicava Lenin. E nello stesso tempo che la pratica non divenga "cieca" e senza fine, secondo la formula bernsteiniana, «il movimento è tutto, il fine nulla»!
Ci si potrebbe obiettare: una sorta di "giusto mezzo" tra il materialismo volgare, ancora oggi circolante in forme le più strane all’interno stesso dell’ideologia borghese, ed uno spiritualismo-idealismo in qualche modo mascherato. Poiché la questione non è "scolastica", come dice Marx, non c’è saggio o formulazione capace in sé di risolvere la difficoltà.
Ancora una volta, la nostra tradizione di Sinistra si è segnalata storicamente proprio in questo: di fronte alla chiara separazione tra l’enunciazione dei principi, in sé corretta, e una pratica fetida e traditrice, noi abbiamo rivendicato una pratica coerente. Facendo il bilancio della Comune di Parigi, Marx, rimarcati gli errori, rivendica la sana prassi istaurata: quella dell’unificazione dei tre astratti poteri, propri del tanto decantato ed inesistente Stato di diritto, e la soluzione dello Stato proletario in un organismo di lavoro complesso, nel quale la funzione legislativa, esecutiva e giudiziaria non vengono esercitate per compartimenti stagni, o casse di compensazione dei poteri, ma come attività coerente dello Stato dei lavoratori insorti per la rivoluzione. Ecco un esempio concreto di "mistica pratica".
Quando nella pratica opportunista i "rivoluzionari di professione" sono stati scoperti volgarmente impiegati da retribuire secondo le forme di corruzione proprie dello Stato borghese che li aveva attratti nella sua orbita, noi abbiamo rivendicato per i delegati operai al Parlamento il medio salario operaio come misura pratica contro ogni omologazione al mestiere di traditori della classe. Come si vede risposte pratiche, non vane enunciazioni, che senza una pratica conseguente non sono che giaculatorie.
Nella polemica politica ed ideologica la Sinistra comunista è stata vittima di incomprensioni quanto meno "fanatiche". Si pensi alla definizione di nullismo rivoluzionario degli anni ’20, all’accostamento a preistorici iguanodonti da parte dell’opportunismo togliattiano, fino all’accusa di "determinismo meccanicistico". Non citiamo le più pesanti accuse di combutta col nemico fascista, perché di queste è piena la storia dell’astio nei confronti dei veri rivoluzionari da parte d’una tradizione opportunistica che ha alzato bandiera bianca riconoscendo il proprio fallimento storico e passando armi e bagagli dalla parte del nemico.
La sindrome opposta potrebbe essere quella del "complesso della vittima".
La Sinistra, anche nel suo linguaggio polemico, in realtà nelle condizioni
difficili dell’isolamento necessario, ha mantenuto lucidità ed ironia.
Il rivoluzionario non può indulgere al vittimismo, che è un atteggiamento
pessimistico e pericoloso quanto e forse più, come è noto, della tendenza
opposta dell’aggressività. Si dimentica facilmente che la Sinistra ha
sottoscritto sempre le staffilate polemiche di Lenin contro la malattia
infantilista dell’estremismo parolaio. Lenin aveva perfettamente compreso
che le semplificazioni degli estremisti erano sintomo di un fanatismo dovuto
a mancata crescita sia nei termini di una lotta di lungo periodo, sia
di debolezze strutturali di tipo teorico. Il "fanatico", letteralmente
da
Fanum, Tempio, allude a luminosità ed evidenza, che nel significato
deteriore porterebbe alla tendenza visionaria, propria di soggetti «misticheggianti,
portati a ipercompensare il proprio dubbio latente e la propria insicurezza
di fondo con intransigenza semplificatoria e manifestazioni di rigidità
eccessiva» (Jung).
Penso, dunque esisto, ebbe a sostenere Cartesio alle origini della moderna società razionalistico-borghese. Ci rendiamo conto delle "ragioni" della sua tesi, ma noi ci permettiamo di rovesciare la sua proposizione: nella nostra concezione l’evidenza e il primato dell’Essere sociale comporta che pensiamo, tra le altre funzioni del corpo, in quanto siamo. La consapevolezza critica della nostra esistenza è il risultato dell’azione, della vita nella sua dinamica, che non è riconducibile soltanto alla "coscienza vigile". Essa è il prodotto della cultura, dell’affinamento che è stato possibile in virtù di complesse esperienze, di conquiste sociali ed individuali.
«L’essere precede la coscienza», sostiene Marx ne L’Ideologia tedesca, come contrappunto evidente al razionalismo borghese, riattingendo alle radici dell’Essere primario, naturale e sociale. La concezione comunista con ciò non disdegna di riconoscere il valore della coscienza e delle sue forme, prodotte dallo sviluppo storico e dalle sue contraddizioni, che ad un certo grado diventano contraddizioni di classe: alla condizione però di ristabilire le basi di partenza della cultura nel suo nesso intrinseco con la Natura, con le condizioni materiali della vita, tanto in senso biologico quanto in senso economico.
Lo sviluppo della società moderna ha trovato motore e spinta nell’assunto
cartesiano, fino all’affermazione del primato della Ragione nella sua
forma trascendentale e disincarnata. Nella nostra versione il rovesciamento
del
cogito nel primato dell’Essere non comporta soltanto
un ristabilimento o una restaurazione dell’antico sentimento primario
della realtà, ma una spinta rivoluzionaria che la critica della critica
determina per il rivoluzionamento della società di classe. Il valore astratto
della Ragione viene ricondotto alla sua inevitabile natura di "ragione
sociale" e dunque di classe. Per noi non esiste una Ragione al di sopra
delle classi, e così, mentre la borghesia ha illuso e si illude che la
"Coscienza muove il Mondo", nella concezione materialistica della storia
la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, e come tale subisce
le trasformazioni che essa contribuisce a determinare nel corso dell’azione.
Rifugge così da una visione della realtà che oscilla tra realismo ingenuo
ed idealismo asettico. Sia questo – indifferente ed anzi ostile al "cinismo"
proprio della decadenza borghese, che ha esasperato il coscienzialismo
fino ai limiti estremi del
nichilismo, del cupio dissolvi
– sia quello – "filosofie dello stupore" che fingono una falsa ingenuità
ed illudono ad una apertura all’Essere di tipo estetizzante – contribuiscono
a disarmare la necessaria lotta rivoluzionaria, che rivendica senza mezzi
termini che senza teoria non c’è azione.
Mistica comunista misticismo borghese
La domenica mattina riprendevamo con l’importante rintraccio della massima motivazione del nostro movimento. Nel bozzolo originario del comunismo primitivo le funzioni indifferenziate della comune essenza umana non permettono un dominio delle attività vitali secondo la distinzione razionale o dialettica di soggetto e di oggetto. Le condizioni delle origini sono evocate dalla teoria comunista non come da restaurare, secondo i sogni e le nostalgie tipiche dei movimenti reazionari, ma rivendicate perché il sentimento comunista trae una sua giustificazione da queste lontane esperienze, nel corso delle quali non vige l’assoggettamento di un gruppo umano sull’altro ma la vita organica di relazione e di scambio con la natura. Nessuna idealizzazione dunque, ma la rivendicazione d’una esperienza che sanziona alcuni principi base ancora oggi innegabili: 1) l’uomo è un essere sociale; 2) l’individuo isolato è una pura astrazione; 3) la perdita di questa condizione ha portato alla lotta ed alla guerra intraspecifica; 4) vita e lavoro sono inscindibili e determinano lo sviluppo delle possibilità produttive, culturali e spirituali della specie. L’adesione a questi sentimenti dell’essere umano non afflitto ancora dalla lotta delle classi rimane un riferimento costante in tutta la storia del moderno movimento operaio che per converso ha saputo riconoscere nella sua condizione il culmine, la perdita totale della sua essenza umana. Questa potrà essere ritrovata solo nella negazione delle cause che hanno rotto la solidarietà di specie.
«Innanzi tutto ogni produttore è un distruttore», ha recentemente ricordato E. Severino. Una volta che s’indaghi sui sentimenti fondamentali dell’amore e dell’odio, si rimprovera l’ideologia comunista (illudendosi che sia definitivamente "caduta"...) perché pretende di dar vita alla «comunità felice degli uomini in questo mondo», ma poi si ammette che i due sentimenti sono strettamente e dialetticamente uniti.
L’estetismo di moda tende a rivitalizzare il "misticismo magico", la Rationelle Mystik di cui si occupò Feuerbach contro Hegel, in un abbraccio promiscuo ed equivoco. Al contrario la concezione materialistica si preoccupa, come direbbe il saggio terapeuta, di evitare l’implosione autolesionistica sia alla società, nel suo interno antagonismo, sia all’individuo, comunque legato al suo ambiente sociale di classe. È necessario mantenere aperta la nozione di nemico principale ed esterno. La borghesia, dopo le prove di forza delle sue punte avanzate fasciste e naziste, ripropone come facciata ipocrita il Sentimento e la Ragione dell’Umanità, parla di "avversari" e non di "nemici" illudendosi di aggiustare con le parole una realtà sempre più solcata dalle contraddizioni.
Come possono andare d’accordo le simultanee esigenze della difesa della vita quotidiana con l’aspirazione e la tensione necessaria verso il comunismo? Chi può mandarle d’accordo? La Volontà, l’Istinto, la Ragione? Nella versione comunista la "mistica" non è speculativa, ma attiva: il proletariato è votato al lavoro non per sua scelta ma perché determinato alla vendita della sua forza lavoro dalle condizioni generali del modo di produzione capitalistico. In questo senso il suo lavoro è prassi necessaria e coatta, cioè determinata da una forza esterna, proprio come l’immagina Calvino nella sua interpretazione della "coazione all’azione". Questa è la sua morale eteronoma, che gli proviene dall’esterno. Egli non può sottrarsi a questa potente determinazione, se vuole continuare ad essere nell’ambito sociale. In quanto costretto a vendere la forza lavoro, si trova a reagire alla pressione del Capitale, ed in determinate circostanze, ad opporre la sua volontà, non puramente individuale, ma di classe, nella resistenza all’oppressione, fino alla possibilità, niente affatto generalizzata, di aderire e di incontrarsi col programma rivoluzionario, una forza anch’essa esterna, che tende ad accoglierlo, come una guida attiva nel percorso che conduce al comunismo.
Se ne deduce che la "morale rivoluzionaria" si trova a rispondere a pressioni di classe che ne unificano il "costume", il modo di atteggiarsi, il modo e possibilità di individuare fini più larghi della pura difesa del salario, all’interno della quale l’interesse del Capitale tende a circoscrivere la sua azione. L’uomo proletario, diviso e coatto dal Capitale, nella classe e nel Partito diventa un tipo d’uomo che contribuisce a decidere per il futuro suo e della specie umana in generale. Così la sua morale è nello stesso tempo particolare ed universale. Non è necessario per questo una "falsa coscienza", astratta, essendo l’azione e l’entusiasmo capacità di reazione e di azione rivoluzionaria.