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La crisi di borsa prodromo di una grande crisi storica
che travolgerà ad un tempo tutte le mostruose macchine produttive capitalistiche
dell’est e dell’ovest
(in Comunismo n. 25, 1988)
La storia non si ripete, dicono i borghesi, per farsi coraggio; noi
marxisti ne tiriamo la conclusione, ancora una volta, che niente è cambiato
sotto il capitalismo da quando Marx intraprese l’analisi delle sue leggi
economiche utilizzando l’esempio inglese dell’epoca vittoriana. La
ripetizione dei due avvenimenti, a 58 anni di distanza, segnando “La
fine delle illusioni” come titolano i giornali borghesi, conferma in
pieno quelle leggi. Ci basta Marx, in particolare la quinta Sezione del
terzo Libro del Capitale, per descrivere e comprendere il significato
del crac di borsa attuale.
Le tre fasi del processo ciclico
La frenesia speculativa da Wall Street si è diffusa a tutte le piazze finanziarie come un Maelstrom mondiale, in contrasto con il languire delle produzioni. Ma la contraddizione non è che apparente: per permettere alla produzione capitalistica, arrivata ad un massimo nel 1979-80, di uscire dalla recessione degli anni 1980-82, si è sviluppato il sistema di credito ad una scala fino ad oggi mai vista, consentendo di mantenere in funzione il processo della riproduzione oltre le sue possibilità storiche. Questo benché la speculazione di borsa non sia che un “castello di carte”, e costruito sulle sabbie mobili, ma parte di una speculazione ben già generale.
Marx distingue tre tappe del processo produttivo che precedono la crisi generale di sovrapproduzione (Libro terzo, capitolo 30, I).
1. «Quando il processo di riproduzione raggiunge ancora un volta quella fase di prosperità che precede la fase di eccessiva tensione, il credito commerciale si estende fortemente, il che ha ancora una volta una “sana” base costituita da riflussi e dalla espansione della produzione».Si tratta qui del momento del ciclo, che segue una grave crisi economica, dopo che si è avuto non solamente una forte caduta della produzione industriale, ma anche, attraverso la deflazione, una forte valorizzazione del capitale merci, come, per esempio, durante la crisi del 1847-1848, o, più vicina a noi, del 1930-1932. Questo momento corrisponde agli anni della ripresa economica, che in questo dopoguerra coincide con il periodo della ricostruzione e precede il secondo momento, in cui la produzione industriale ha già superato largamente il massimo raggiunto prima della crisi.
2. «Proprio in questo periodo cominciano a presentarsi in numero notevole i cavalieri d’industria, che trafficano senza capitale di riserva o del tutto senza capitale e che per le loro operazioni si fondano quindi esclusivamente sul credito monetario. Al che vengono ancora ad aggiungersi in questo periodo il forte sviluppo del capitale fisso in tutte le sue forme e la costituzione di numerose nuove imprese avanti un raggio d’azione molto vasto. Il saggio di interesse raggiunge ora il suo livello medio».3. Infine il momento che precede immediatamente la crisi e la crisi stessa.
3. «Il saggio di interesse tocca di nuovo il suo massimo quando sopravviene la nuova crisi e il credito viene interrotto di punto in bianco, mentre i pagamenti si arenano, il processo di riproduzione si paralizza, e a parte le eccezioni precedentemente ricordate, contemporaneamente ad una qualsiasi assoluta mancanza di capitale da prestito si ha una sovrabbondanza di capitale industriale inattivo».
Il credito, ci spiega Marx, è la base di tutto “il complesso del processo di riproduzione”. Senza di esso la produzione sarebbe asfittica se non paralizzata. Il commerciante che compera le merci dall’industriale non può pagargliele prima d’averle vendute, non ne possiede il capitale necessario, e nemmeno quando ha venduto tutto lo stock precedente, perché il volume della produzione si accresce costantemente e quindi anche il valore del capitale. Ma il capitalista industriale, o meglio l’impresa, non può fermare la produzione ed attendere la realizzazione del valore capitale merci per ricominciare un nuovo ciclo produttivo. Così anticipa al commerciante all’ingrosso il capitale in cambio di un titolo di credito, cioè una tratta o ricevuta pagabile alla scadenza. Questo stesso grossista anticipa ad altri commerciati le stesse merci contro ricevute bancarie. Per tutto questo tempo l’industriale, per acquisire le materie prime necessarie al processo di produzione, offrirà in pagamento gli effetti che ha ricevuto in cambio delle sue merci, ovvero si rivolgerà alla banca che li cambierà ad un certo tasso di sconto; il tasso di sconto è la percentuale che la banca chiede per trasformare gli effetti in denaro o in nuovo credito. Con questi l’industriale potrà pagare i salari ed acquistare le materie prime. Sarà allora alla banca che, a negoziazione avvenute, il commerciante pagherà la cambiale. Se nel frattempo la banca ha avuto bisogno di denaro contante, l’avrà rivenduta, ad un certo tasso di sconto, ad altra banca. E così che tutta una massa di cambiali si mette a circolare sul mercato, al posto delle monete, come mezzo di pagamento, il cui volume aumenta nella stessa misura in cui cresce la produzione.
A fianco di questo credito commerciale, che costituisce la base di tutto il sistema del credito, vengono ad aggiungersi altre forme, di cui le tre principali sono: le Obbligazioni, prestito a lungo o medio termine a tasso d’interesse fisso, emessi sotto forma di titoli di credito da parte di grandi imprese o dagli Stati (in quest’ultimo caso si parla di Buoni del Tesoro); le Azioni, che sono titoli di proprietà che danno diritto ad una parte del profitto in proporzione al loro valore; infine il credito diretto di una banca. Il credito, in particolare il credito commerciale, offre la possibilità di accelerare il processo della riproduzione del capitale, mentre l’intermediazione delle banche mette a disposizione dell’industria e del commercio l’insieme del capitale sociale, cioè del capitale che appartiene ad altri, ma che le banche e le industrie utilizzano come fosse loro. Questo meccanismo permette, sulla base della società borghese, di oltrepassare i limiti imposti dai rapporti di proprietà individuale, fino a che la produzione, forzata al massimo, fa saltare questi stessi rapporti provocandone la rottura generale, la crisi.
Di pari passo con l’incremento della produzione e il corrispondente gonfiarsi del credito, cresce la speculazione, particolarmente in occasione della creazione di nuovi rami industriali, che vantano saggi di crescita elevati e grassi profitti attirando così capitale monetario da tutti i paesi. Marx dà a questo proposito l’esempio delle ferrovie, Engels dei grandi lavori pubblici, come la costruzione del canale di Panama alla fine del secolo, il fallimento della quale l’impresa inghiottì i risparmi di una bella fetta della piccola borghesia (il che succede regolarmente).
La speculazione non si limita alla produzione, si sviluppa in proporzioni ancora più gigantesche nel commercio.
«Il capitale stesso che si possiede, in realtà oppure nell’opinione del pubblico, diventa soltanto la base della sovrastruttura creditizia. Ciò accade particolarmente nel commercio all’ingrosso, attraverso cui passa la maggior parte del prodotto sociale. Tutte le misure, tutte le spiegazioni ancora più o meno accettate all’interno del modo di produzione capitalistico, qui scompaiono. Ciò che il commerciante all’ingrosso rischia nelle sue speculazioni non è proprietà sua, ma della società».E Marx cita, fra gli altri, il caso dei commercianti che esportano in questi paesi lontani mettendo a profitto il tempo richiesto dai lunghi viaggi per scontare presso le banche delle merci delle quali rimane da realizzare il valore, merci che, fra l’altro, loro non appartengono avendole ricevute dai fabbricanti in cambio di ricevute bancarie. Il denaro così ottenuto è reinvestito nell’acquisto di altre merci, dalla vendita delle quali si spera ottenere un buon profitto, oppure può essere utilizzato ad altri scopi speculativi; per esempio in Borsa. Che le merci vengano a non essere vendute per un ingolfamento di mercato, che sopravvenga un forte ritardo ed è fallimento!
L’altra grande via di speculazione è quella che si fa sulle tratte, le obbligazioni, le azioni, ecc. L’ipertrofia smisurata del credito a seguito dei bisogni della produzione, conduce all’accumulazione di una massa gigantesca di titoli di ogni genere (tratte, obbligazioni, azioni, ecc.) che non sono altro che una montagna di carta il cui valore è puramente fittizio. Nella crisi il loro valore si sgonfia come un pallone, di cui ognuno cerca di sbarazzarsi contro denaro contante. Ma in quel momento il denaro è raro, cioè caro.
Come si arriva a questo stato di cose? Da un lato l’aumento della produzione crea un afflusso costante di capitale monetario, dall’altro l’aumento del tasso d’interesse rende sempre più difficile la valorizzazione dell’immensa massa di capitale gettata costantemente sul mercato, provocando alla fine la paralisi del commercio e dell’industria. La speculazione stessa, per di più, contribuisce potentemente alla crescita del saggio di interesse: i cavalieri del credito che si lanciano a corpo morto nella speculazione possono pagare interessi elevati, poiché lo fanno attingendo dalle tasche degli altri, come fa notare Marx.
Tutto questo processo, che sbocca in una accumulazione gigantesca di titoli, in parte speculativa e la cui massa supera di gran lunga la quantità del denaro in circolazione o tenuto in riserva nelle casseforti delle banche centrali (quelle che sono autorizzate a battere moneta), non è che l’espressione di una crescita industriale condotta sempre più sulla base del sistema del credito. Se il credito permette di forzare i limiti offerti dalla società borghese alla produzione, esso non può sopprimerli ed arriva il momento in cui bisogna saldare il conto. È l momento in cui sale il tasso di interesse e la sovrapproduzione generale si impone all’evidenza.
«In un sistema di produzione in cui tutto il meccanismo del processo di produzione riposa sul credito, deve evidentemente prodursi una crisi, una affannosa ricerca dei mezzi di pagamento, al momento in cui improvvisamente il credito viene a mancare e tutti i pagamenti devono essere fatti in contanti. A prima vista sembra quindi che la crisi nel suo complesso, sia unicamente una crisi creditizia e monetaria. Ed effettivamente si tratta in realtà unicamente della convertibilità delle cambiali in denaro. Ma queste cambiali rappresentano, per la maggior parte, acquisti e vendite reali che, avendo avuto un’estensione di gran lunga superiore al bisogno sociale, sono in definitiva la base di tutta la crisi. Inoltre una massa enorme di queste cambiali rappresenta soltanto affari truffaldini che vengono ora finalmente a galla e scoppiano; inoltre rappresentano speculazioni fatte con cambiali altrui e non riuscite; in fine capitali-merce deprezzati o del tutto invendibili, oppure riflussi che non possono più attuarsi. Tutto questo sistema artificiale di ampliamento violento del processo di riproduzione, non può naturalmente essere risanato per il fatto che una banca, ad esempio la Banca di Inghilterra, fornisce in carta a tutti gli speculatori il capitale che fa loro difetto ed acquista al loro antico valore nominale le merci ora deprezzate» (Cap. 30, I).
Se ci rifacciamo alle statistiche fornite dall’International Financial Statistics dell’ONU, si constata effettivamente questo aumento del saggio di interesse in ogni crisi.
Tre saggi di interesse sono significativi da seguire: il tasso di sconto delle banche centrali, che corrisponde al prezzo che si fanno pagare per prestare denaro alle altre banche, il saggio di mercato delle obbligazioni, che corrisponde ai prestiti al lungo termine e che negli Stati Uniti è ormai interamente accaparrato dal Tesoro pubblico; il saggio dei prestiti a breve e medio temine che le banche praticano con le imprese. Per motivi di spazio riportiamo qui il solo primo quadro.
Alle nostre statistiche dei sei paesi occidentali che seguiamo regolarmente aggiungiamo qui il Belgio, paese di antica industrializzazione e che ha una posizione cerniera del nord Europa, fra la Francia, la Germania e l’Inghilterra. Il Belgio fu separato dalla Francia dalla Santa Alleanza all’inizio del secolo scorso, proprio a causa della sua posizione geografica, affinché fungesse da sbarramento controrivoluzionario.
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È verificato che il tasso di interesse raggiunge il massimo nel 1974
(nel 1973-74 per i saggi di sconto) e nel 1980-81; minore nel periodo fra
due crisi, risale poco prima della successiva.
A partire dal 1982-83 si nota una diminuzione lenta, ma regolare dei
saggi di interesse, diminuzione che accompagna la ripresa economica euforica
negli Stati Uniti e nel Giappone a partire dal 1983. Tuttavia questa diminuzione
dei saggi di interesse non è così forte come sembra ed in valore reale
addirittura si inverte a partire dal 1985 per la diminuzione dell’inflazione
che ha fatto seguito alla ripresa industriale. Raggiungerà negli anni
più recenti livelli record, il che annuncia una nuovo recessione, questa
volta di dimensioni storiche!
Il prezzo della ripresa economica
1983-84
A partire dal 1983 si ha una netta ripresa industriale in America.
Ma ripresa di breve durata, che vede aumentare la produzione nel 1984 del
10% in un anno, rallentare nel 1985 a solo il +2,6% annuo e divenire negativa
nel 1986 con il modesto -0,8%. La curva industriale del Giappone è esattamente
parallela a quella degli Stati Uniti. In Europa la ripresa economica sarà
più tardiva non facendosi sentire che nel 1984 e di minore ampiezza: la
maggior parte dei paesi europei non raggiungono o non superano il loro
massimo precedente che nel 1985 e a fine 1986 per l’Italia. Il 1986 sarà
invece anno di stagnazione generale.
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Nell’insieme la ripresa economica non è stata gran cosa, si è avuta
a prezzo di un indebitamento fantastico ed è stata accompagnata da una
speculazione di dimensione ad oggi sconosciuta in questo dopoguerra. Inoltre,
se non ci fossero state le massicce importazioni americane di prodotti
industriali, il mondo sarebbe ancora oggi in piena recessione. Per convincersene
basta considerare le statistiche dall’ONU dell’andamento di queste
importazioni: 1983 +11%, 1984 +25%, 1985 +12%, 1986 +15%.
Le importazioni americane
tirano l’economia mondiale
Nessun altro paese industriale ha importato tanto. Al contrario, Giappone
e Germania in testa, tutti cercano di esportare più di quanto importino.
Nello stesso tempo, se gli Stati Uniti vedevano l’indice delle loro esportazioni
risalire leggermente a partire dal 1983, queste restano ancora nel 1986
sempre inferiori del 14% al loro massimo del 1980.
Ne è risultato un deficit commerciale record, che a sua volta ha implicato un debito crescente degli Stati Uniti di fronte al mondo esterno. La bilancia dei pagamenti, positiva fino al 1981, diventa deficitaria: -107 miliardi di dollari nel 1984 e -117,7 miliardi nel 1985. Dopo le cose si sono ulteriormente aggravate: gli Stati Uniti vivono sul credito degli altri imperialismi.
Il debito estero americano cresce al ritmo di 12 miliardi di dollari
ogni mese. Da 220 miliardi nel 1986 ha superato i 300 miliardi alla fine
1987, e si prevede che potrà uguagliare il prodotto nazionale di paesi
della taglia di Italia o Francia nel 1990. È evidente che tale situazione
non potrà durare. Le conseguenze sono la salita dei saggi di interesse
e la svalorizzazione del dollaro che dal 1985 non ha fatto che scendere.
Questo vuol dire che ci troviamo già in una situazione di sovrapproduzione
generale.
Si restringe il mercato mondiale
Si ritrovano le stesse condizioni precedenti alla crisi del 1975 e
del 1980-82: svalutazione del dollaro per salvare l’economia americana
ed innalzamento dei saggi di interesse. Ma in una situazione generale che
si è nettamente aggravata per il capitalismo: da un lato il mercato americano
tende a chiudersi alle esportazioni europee e giapponesi, dall’altro
i mercati che si erano aperti dopo la crisi del 1975 sono oggi in forte
contrazione.
I paesi dell’est ed i paesi “in via di sviluppo”, a causa del loro indebitamento crescente (126 miliardi di dollari per i paese dell’est e i 200 miliardi di dollari per gli altri, nel 1987), tendono ad importare il meno possibile e ad esportare il massimo; questi ultimi tendono anche ad aumentare i loro scambi reciproci riducendo il commercio con i paesi industrializzati. È ormai passato il tempo in cui questi paesi importavano in grande capitali e merci per industrializzarsi. Oggi, per poter pagare i debiti, non soltanto i paesi poveri hanno ridotto molto le loro importazioni, ma le loro fabbriche, giovani e competitive, esercitano una viva concorrenza di fronte a quelle dei paesi di vecchio capitalismo. Dal 1984 al 1986 la quota parte dei giovani industrialismi nell’importazione di prodotti industriali si è ridotta del 5%, rappresentando per i “vecchi” mancate entrate per 43 miliardi di dollari. Ecco cosa scrive Le Monde sulla situazione economica e sociale di questi paesi e sulle conseguenze della chiusura dei loro mercati:
«In quindici anni l’evoluzione è stata tale, con stupefacente diversificazione delle loro produzioni competitive, che dovrebbe colpire tutti coloro che dubitavano del decollo industriale del terzo mondo (...) Certo gli oneri fortemente maggiorati per l’aumento dei saggi di interesse e l’aumento del dollaro hanno contribuito all’eliminazione di alcuni concorrenti incomodi. In America latina si tratta di migliaia di chiusure di fabbriche, di arresto di cantieri, di milioni di uomini privati del lavoro, di una caduta del reddito per abitante del 10% in tre anni, con lunga sofferenza e regresso economico (...) All’immediato, i pagamenti richiesti non possono essere assicurati che con un’offensiva commerciale disperata da parte dei paesi indebitati, e con la chiusura dei loro mercati, con tutte le conseguenze e contraddizioni per le economie industrializzate».Come si vede questi paesi sono ben sfruttati e premuti dal capitale finanziario internazionale, ma questo non impedirà al capitalismo dei paesi sviluppati recessione e deflazione, come noi gli auguriamo.
La situazione nei paesi di nuovo capitalismo è ulteriormente aggravata dal ribasso del prezzo delle materie prime dovuto alla loro sovrapproduzione, tanto maggiore per il rallentamento generale dell’industria mondiale nel 1986. Nello stesso tempo il crollo delle quotazioni del petrolio ha svilito le importazioni dei paesi dell’OPEP (-24% nel 1986 e 22% nel 1987) e a risentire è soprattutto l’Europa il cui commercio è assai dipendente con i paesi dell’area.
Secondo gli stessi economisti borghesi gli scambi mondiali non avrebbero mai superato il livello del 1981 senza il contributo delle importazioni americane. Inoltre nel 1986 l’aumento dei profitti e dei redditi derivanti dalla diminuzione del prezzo del petrolio e delle materie prime, e dunque l’aumento del mercato interno che n’è risultato per i paesi industrializzati, non ha permesso di compensare la contrazione del mercato mondiale.
A questo proposito Le Monde riporta delle cifre interessanti sulla crescita industriale e le esportazioni in questo dopoguerra. Sarebbe più utile avere le stesse cifre per le importazioni, che esprimono l’estensione del mercato, le esportazioni riflettendo invece, come c’insegna Marx, la crescita industriale. In un lavoro successivo cercheremo di procurarci quei dati al fine di mettere a confronto, come abbiamo fatto in passato, la crescita del mercato mondiale con quella dell’industria, al fine di individuare il momento in cui le due curve si incontrano, indicando quello l’ora della crisi.
In breve, le esportazioni internazionali di merci sarebbero aumentate
del 9% fra il 1963 e il 1973; del 4% fra il 1973 e il 1979; del 2% fra
il 1979 ed il 1984, a fronte, rispettivamente, per la produzione industriale
del 6%, 3%, 1,5%. Queste due serie di cifre sono sensibilmente parallele,
come previsto e confermano la teoria della caduta tendenziale del saggio
del profitto, a conferma della quale abbiamo recentemente aggiornato un
nostro vasto quadro economico.
Indebitamento galoppante
Riassumendo. La ripresa economica, che ha fatto seguito alla recessione
del 1980-82, non è stata mirabolante e mostra i primi segni della sua
fine. La ripresa si è avuta a prezzo di un iperbolico indebitamento, tanto
degli Stati quanto delle imprese e degli individui.
Non disponiamo di tutti i dati statistici, ma alcune cifre che abbiamo per gli Stati Uniti sono sufficientemente eloquenti. Nel 1986, il totale del debito (pubblico e privato) ha superato i 7.000 miliardi di dollari, con un aumento in un anno di circa 1.000 miliardi, davvero colossale! Se ne apprezza meglio l’enormità rapportandone il valore a quello del Prodotto nazionale lordo, ottenendo la quota del 177%! che è il rapporto più elevato dagli anni Trenta. Il debito pubblico rappresenta circa un quarto in questa fantastica somma, cioè 2.000 miliardi di dollari nel 1986, contro i 1.000 miliardi nel 1981: il doppio, e partendo da una cifra già elevata. Secondo i giornali il deficit pubblico assorbirebbe i due terzi del risparmio nazionale.
Ma lo Stato americano non è il solo ad indebitarsi in tal modo. Come abbiamo mostrato nei nostri studi gli altri paesi scivolano sulla stessa china. Così per esempio in Francia ammettono che il debito pubblico potrebbe passare dal 22,6% del prodotto nazionale nel 1984 al 31% nel 1990.
Gli Stati Uniti possono pagarsi il lusso di un tale indebitamento solo perché vivono sul credito di tutto il mondo, tuttavia arriverà il momento in cui il fardello del debito estero diverrà intollerabile, momento tanto più vicino quanto più si accresce a ritmo esponenziale. Allora anche lo Stato americano sarà costretto a dichiararsi in fallimento, come avvenne per lo Stato inglese nella grande crisi del 1848.
Per il momento il risultato di un simile indebitamento è di spingere verso l’alto il saggio di interesse. In effetti il debito diviene così gigantesco e la domanda di denaro così grande che gli investitori esteri, in particolare i giapponesi, storcono la bocca sempre più acquistando i buoni del Tesoro americani; il ribasso del dollaro stesso aggraverà ancora di più la situazione, svalutando ulteriormente le obbligazioni già acquistate. Per questo fatto gli investitori non accettano di acquistare buoni del tesoro che a condizioni di aumento del premio di rischio, cioè del saggio di interesse.
Il debito americano, e in modo più generale l’indebitamento crescente
di tutti gli Stati, è stato uno dei fattori più importanti che hanno
contribuito all’aumento dell’interesse che ha condotto al crac di borsa
più fragoroso dal 1929.
Anima e corpo nella speculazione
La situazione economica d’oggi è la ripetizione di quella che ha
preceduto la grande depressione degli anni 1930-31; ma più grave. All’epoca
la produzione industriale americana era aumentata dell’11% da gennaio
1928 ad agosto 1929 (così aggravando la sovrapproduzione), il bilancio
federale statale era in parità e la bilancia commerciale in eccedenza.
Proprio come oggi gli anni 1928-29 avevano conosciuto una vera orgia speculativa. Questa era stata proceduta da una diminuzione del saggio di interesse della Banca Federale di New York, che era passato dal 4 al 3,5%. Di nuovo qui la somiglianza degli avvenimenti è stupefacente. Nel 1986, in uno sforzo disperato per drogare l’economia, gli americani hanno abbassato quattro volte il tasso di sconto.
A stesse cause stessi effetti. Nel contesto generale di sovrapproduzione, queste successive diminuzioni, invece di stimolare la crescita industriale, hanno stimolato la speculazione in Wall Street. Adolph Miller, della Banca Federale americana, e le cui proposte sono riportate dal Galbraith nel suo libro sulla crisi del 1929, definisce gli effetti della riduzione del tasso di sconto nel 1927: «uno degli errori più costosi commessi da quello o da non importa quale altro sistema bancario negli ultimi 75 anni». E Galbraith aggiunge:
«I fondi che la Riserva Federale rese disponibili erano sia investiti nell’acquisto di azioni in borsa, oppure (e molto di più) divenivano disponibili per aiutare il finanziamento di acquisto di azioni da parte di altri. Così provvista di fondi la gente si precipitò sul mercato». Un altro borghese citato da Galbraith conclude: «A partire da questo momento, secondo ogni evidenza, la situazione sfugge completamente a qualsiasi controllo».Gli stessi avvenimenti si ripetono nel 1986-87. L’indice Dow Jones, a partire da 1.200 all’inizio del 1985, era passato a 1.500-1.800 nei primi mesi del 1986, dove si ferma per qualche tempo nell’attesa di una riforma. Poi, a partire dall’inizio gennaio 1987 prende il volo, con più del 30% di incremento, passando da 1.900 a 2.722, record storico raggiunto il 22 agosto 1987. Troviamo una descrizione delle stesse scene, ma per il 1928, ripubblicate da Le Monde:
«Dall’inizio del 1928 monta una vera orgia speculativa, incoraggiata dalla pratica delle "vendite a riporto": gli acquirenti invece di pagare la totalità dei loro acquisti ne pagano solo il 10% in contanti e depositano dei titoli a garanzia del restante 90%, il quale è anticipato dagli agenti di cambio (brokers) a tassi molto superiori a quelli del mercato bancario. I prestiti dei brokers passarono da 1,5 miliardi di dollari dall’inizio degli anni venti, a 2,5 miliardi nel 1926 e a 7 miliardi alla fine del 1928, a testimonianza dell’ampiezza presa dalla speculazione».Ed è certo che i moderni yuppis, cioè le istituzioni finanziarie che li assoldano, non hanno fatto meglio dei loro nonni del 1929.
Quando il capitale arriva alla fine del ciclo la speculazione è inevitabile. Essa esprime semplicemente il fatto che: «L’espansione industriale è condotta sempre più sulla base del sistema del credito» e per conservarsi esige sempre più la facilità dei pagamenti. Il credito, nel permettere alla produzione di superare i limiti imposti dai rapporti di proprietà, permette anche, come abbiamo visto, la speculazione. Più la società vive a credito più la speculazione si sviluppa. Speculazione industriale e commerciale all’inizio, senza parlare della speculazione immobiliare sui terreni e sulle costruzioni; poi, quando la produzione si è gonfiata smisuratamente, in modo tale che si avvisa già la sovrapproduzione e la crisi, speculazione in borsa. Nessun borghese, in queste condizioni, resiste alla prospettiva di guadagno facile e immediato. Tentazione che si trova inoltre rinforzata per il rallentamento generale della produzione.
Fenomeno notevole, e per la prima volta verificatosi in questo dopoguerra, è che la diminuzione della crescita produttiva si accompagna ora ad un allentamento dell’inflazione, mentre che fino ad oggi aumentava molto con la crescita produttiva e persisteva anche durante le crisi economiche. Secondo le statistiche per la zona OCDE, essa si è mantenuta al ritmo dell’1% al 2% annuo in media fra il 1952 e il 1965, passa poi al 5% annuo medio fra il 1965 e il 1972, per accelerare e raggiungere il massimo nel 1980 con saggi oltrepassanti il 10% nella maggior parte dei paesi. Poi il processo si è invertito: 4,5% nel 1985, 2,7% nel 1986. Non disponiamo ancora delle cifre per il 1987 ma si sa che l’inflazione è leggermente superiore a quella del 1986 a causa di una certa accelerazione della produzione negli Stati Uniti, nel Giappone e in alcuni paesi dell’Europa, fra cui l’Inghilterra, che ha raggiunto e superato il massimo del 1979 solo nel 1985. La Germania al contrario vede la sua crescita industriale continuare a rallentare a causa della stagnazione delle sue esportazioni, ed anche delle loro regressioni in volume. Tuttavia l’inflazione ha ricominciato a diminuire in questi ultimi mesi, battendo anche alcuni record al ribasso.
Questa “disinflazione”, come la chiama la stampa borghese, non va che esprimere lo stato di ingolfamento nel quale si trovano i mercati, e quindi la concorrenza esasperata che si fanno i capitalisti fra loro, i quali non esitano, per mantenere la loro quota di mercato, a diminuire i margini di profitto, finché non saranno costretti a vendere in perdita.
In queste condizioni è evidentemente più vantaggioso speculare piuttosto che investire. Citiamo qui le dichiarazioni, molto eloquenti, di un industriale francese riportata da Le Monde:
«La totalità dei forti profitti che abbiamo incassato l’anno scorso proveniva dai nostri investimenti sul mercato finanziario, mi diceva recentemente il presidente della filiale argentina di un importante gruppo francese». E il giornalista commenta: «In effetti i produttori di beni reali (prodotti industriali ed agricoli, materie prime, servizi) si fanno concorrenza disperata che pesa sui prezzi, contribuendo a mantenere il saggio di inflazione relativamente basso. Il risultato è che è divenuto più remunerativo acquistare titoli che precedere ad investimenti materiali (attrezzature, fabbriche, ecc.)».Perché investire quando non è garantito di vendere?
Il nostro giornalista, e con lui molti borghesi e tutta la piccola borghesia, crede che basti fermare la speculazione perché gli investimenti riprendano e la produzione torni più sana di prima. Non comprende che l’accumulazione del capitale è divenuta così smisurata che può realizzare il suo valore solo a credito. Così i borghesi si gettano anima e corpo nella speculazione con una frenesia proporzionata alla formidabile accumulazione di capitale di questo dopoguerra. I capitali del mondo intero (reali o fittizi) affluiscono sulle diverse piazze borsistiche, e principalmente su Wall Street, la City e a Tokyo. In merito si legge su Le Monde:
«Per il primo trimestre le collocazioni estere in valori mobiliari americani si sono fatte a un ritmo annuale di 37,2 miliardi di dollari, cioè due volte il totale netto dell’andamento delle collocazioni registrate l’anno precedente e sette volte quello del 1985».Il rastrellamento di imprese o la partecipazione ad esse spesso, non avendo fine economico ma soltanto speculativo, obbliga le imprese ad indebitarsi per riacquistare ad alto prezzo parte delle proprie azioni al fine di non perdere il controllo su se stesse, i famosi OPA (offerte pubbliche di acquisto) di cui tanto parla la stampa.
«La più grande ondata di acquisti e vendite di interi gruppi industriali nella storia americana comincia a diffondere allarme generale. La ricerca del profitto fa salire il prezzo delle azioni a livelli che nessuno avrebbe mai previsto per il 1985. Ma nel processo le imprese industriali e commerciali americane si sono pesantemente indebitate al fine di pagare i miliardi di dollari necessari per mantenere il loro controllo (...) La Riserva Federale (la banca centrale americana) afferma che il rapporto fra il debito delle imprese e il loro valore di mercato equivale a 71,4%, livello alto e in certi casi un record. Ciò che rende questo rapporto allarmante, secondo gli economisti, è che tanto il valore delle imprese quanto il livello del loro indebitamento sono straordinariamente elevati; benché dal 1981 si assista ad una vasta accumulazione di debiti in seguito all’onda di profitti speculativi, l’incremento di valore delle imprese ha grosso modo segnato il passo con quello dell’indebitamento, principalmente a causa dell’aumento dei valori di borsa e dell’espansione economica generale. Ma molti temono che il peso del servizio del debito possa colpire gravemente l’industria americana in caso di profonda recessione e caduta dei profitti (...) Un nuovo tipo di controllo è apparso da cinque anni; acquisto non in vista di un’espansione e di una diversificazione ma soltanto per liquidare una compagnia per trarne un profitto immediato» (The Herald Tribune).
Dopo aver raggiunto il massimo della crisi del 1980-82 il saggio di interesse, sempre mantenendosi a livelli elevati, è poi nominalmente diminuito. Tuttavia al netto dell’inflazione il processo è opposto: in valore reale l’interesse ha raggiunto ormai vertici storici. A partire da fine marzo 1987, tanto a causa della speculazione che quest’anno ha battuto tutti i record, quanto a causa della domanda insaziabile di denaro da parte del Tesoro americano, tutti i saggi di interesse a medio e lungo termine si sono messi a salire.
Gli economisti borghesi hanno diretto le loro critiche sul tesoro americano e sul deficit record del bilancio federale degli Stati Uniti. Questi ultimi hanno effettivamente un peso incomparabile nell’economia mondiale, tuttavia tutti gli Stati sono oggi super indebitati e tutti entrano in concorrenza con le imprese per i prestiti sul mercato dei capitali a lungo termine.
Non è meno vero che dalla fine di marzo il rendimento dei prestiti
del Tesoro americano aumenta regolarmente sotto la pressione dei prestatori,
in particolare dei giapponesi, poco rassicurati sulla situazione economica
americana e sullo scivolamento del dollaro che svalorizza di altrettanto
le obbligazioni già negoziate. In particolare il tasso delle obbligazioni
a trent’anni, considerato prestito campione, si innalza regolarmente,
prendendo vigore ad ogni appello trimestrale di un Tesoro sempre più ingordo.
Dal 7,5% supera la soglia dell’8, poi del 9% e infine del 10% per raggiungere
il massimo del 10,44% giusto innanzi il crac di borsa. Se prendiamo il
“prime rate”, che corrisponde ai prestiti concessi dalle banche alle
migliori imprese, troviamo lo stesso fenomeno:
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In queste condizioni il tasso di sconto delle diverse banche centrali non poteva che salire a sua volta. È questo movimento generale al rialzo dei saggi che provoca il crac di borsa.
Marx fa notare che il valore delle azioni sale e scende in ragione inversa al saggio di interesse. Quando il valore dei titoli di borsa si eleva il loro rendimento (cioè l’interesse rapportata al loro valore) diminuisce di altrettanto. È quello che è accaduto nello scorso ottobre. D’altra parte il rincaro del credito ha costretto un certo numero di istituzioni e di imprese a disfarsi dei loro titoli per procurarsi il denaro.
«In periodi di difficoltà per il mercato monetario, questi titoli subiranno una duplice riduzione del prezzo: innanzi tutto perché il saggio dell’interesse aumenta, e in secondo luogo perché essi vengono gettati sul mercato in massa, per essere convertiti in denaro» (Il Capitale, III, cap. 29).Tutti i borghesi, dopo aver conosciuto le delizie e il delirio della salita delle quotazioni, sono allora assaliti dal terrore e ciascuno si affretta a vendere al meglio.
«Quando c’è panico l’uomo d’affari non si domanda a quale saggio egli può investire le sue banconote, né se egli perderà l’1 o il 2% vendendo suoi buoni del tesoro o quelli al tre per cento. Non appena si trova in preda al panico, non si preoccupa di perdere o guadagnare, egli mette sé stesso in salvo, il resto del mondo faccia quello che vuole» (Il Capitale, III, cap.25).Ne conosciamo il risultato: milioni e milioni di titoli venduti in una sola giornata. Tutta la stampa ha in quell’occasione parlato di perdite favolose; 1.000 miliardi di dollari a Wall Street, 405 miliardi alla borsa di Tokyo, ecc. Tutte queste cifre mirabolanti non sono nient’altro che sciocchezze. La montagna di carta che questi titoli rappresentano non ha alcun valore per se stessa. Il capitale denaro che è stato versato al suo acquisto è stato consumato da lungo tempo, vuoi nella produzione da parte dell’industria, vuoi in modo sterile in affari torbidi e speculativi, vuoi improduttivamente per i bisogni dello Stato. In ogni caso non c’è creazione di valore in borsa, né, se il crac di borsa non annuncia la recessione generale, le nazioni si ritrovano più povere di prima.
Come indica Engels in una lettera che abbiamo letto in una nostra riunione di partito, la borsa è prima di tutto il luogo ove i borghesi si sfruttano a vicenda, e il crac di borsa ha per effetto di concentrare i titoli nelle tasche di alcuni a detrimento degli altri.
«Il deprezzamento (dei titoli) durante la crisi agisce come mezzo efficace per l’accentramento dei patrimoni monetari. In quanto la diminuzione o l’aumento di valore di questi titoli sono indipendenti dal movimento di valore del capitale reale che essi rappresentano, la ricchezza di una nazione non varia in conseguenza di tale diminuzione o aumento (...) In quanto la loro svalorizzazione non esprimeva un effettivo arresto della produzione e del traffico sulle ferrovie e sui canali, né l’interruzione di imprese in corso, o lo sperpero di capitale in imprese assolutamente senza valore, la nazione non risultava impoverita di un centesimo in seguito allo scoppio di queste bolle di sapone di capitale monetario nominale» (Il Capitale, III, cap. 29).Quelli che ci rimettono le penne, oltre a pochi speculatori e grandi borghesi, sono più che altro i piccoli borghesi, ma ben inteso non verseremo una lacrima su questi ceti coglioni che ben meritano i calci e le bastonate del grande capitale.
I gazzettieri, che presentano il crac come una catastrofe generale che avrebbe impoverito le nazioni e potrebbe provocare una recessione, attraverso la conseguente riduzione del mercato, essendo incapaci, per ragioni di classe, di comprendere l’origine del valore, capovolgono la realtà delle cose prendendo l’effetto per la causa.
In conclusione daremo l’analisi che Marx ed Engels fecero nel 1850, nella Neue Rheinische Zeitung, degli avvenimenti economici che precedettero la grande crisi del 1847-48:
«Quelli dal 1843 al 1845 furono gli anni della prosperità industriale e commerciale, conseguenza necessaria della depressione quasi ininterrotta dell’industria negli anni 1837-42. Come sempre, con la prosperità si sviluppò molto rapidamente la speculazione. La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. Non la sovrapproduzione, ma la sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò agli occhi dell’osservatore superficiale come causa delle crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua stessa precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione» (Fascicolo V-VI, maggio-ottobre 1850).
Non si è avuta nel 1975 la grande crisi di interguerra che il partito attendeva. Evidentemente il capitalismo, nei grandi paesi industrializzati, non aveva ancora bruciato tutte le sue riserve e disponeva ancora di sufficienti margini di manovra e risorse per evitare che la crisi di sovrapproduzione si diffondesse in tutte le sue conseguenze: forte caduta della produzione coniugata alla massiccia svalorizzazione del capitale-merce, compresa quella massa enorme di carta che sono i titoli di ogni genere, col suo seguito di fallimenti di imprese industriali, commerciali e bancarie.
Si è avuto è vero una caduta netta della produzione industriale, con fallimenti clamorosi, ma non fu sufficiente e durò per un tempo troppo breve per determinare la svalorizzazione generale del capitale. In luogo della deflazione si mantenne l’inflazione, che invece, con la ripresa economica che seguì, si amplificò per raggiungere il massimo durante la crisi 1980-82.
Nei settori più colpiti, come la produzione di acciaio, di cemento, i cantieri navali, le costruzioni, gli Stati intervennero a colpi di sovvenzioni per sostenere le industrie ed obbligarono gli industriali di uno stesso ramo ad accordarsi al fine della riduzione della produzione per il sostegno dei prezzi. Questo permise di risollevare il tasso del profitto, caduto a livello zero, a scapito degli operai che furono ben torchiati.
Parallelamente si aprirono nuovi mercati: il rialzo considerevole del prezzo del petrolio permise un trasferimento notevole di ricchezza verso i paesi dell’OPEP, che offrivano in contropartita un esteso blocco alle merci occidentali. Sotto l’aspetto del trasferimento di tecnologia i paesi detti del terzo mondo (soprattutto l’America Latina e l’Asia), ribattezzati “paesi in via di sviluppo”, furono oggetto di moltiplicate attenzioni, cioè di un maggiore sfruttamento: esportazione di capitale denaro (a credito, ben inteso) per permettere l’esportazione della sovrapproduzione delle nazioni imperialiste.
Nello stesso tempo assunse proporzioni mai viste l’indebitamento degli stessi Stati imperialisti allo scopo di stimolare la produzione.
Oggi il capitalismo ha sparato tutte le cartucce. I mercati che si erano aperti dopo la crisi del 1975 si sono richiusi, sia a causa del peso di un indebitamento divenuto intollerabile, che spinge i paesi poveri ad esportare il più possibile e ridurre al massimo le importazioni, sia a causa del ribasso del prezzo del petrolio, dovuto a sovrapproduzione per la moltiplicazione dei pozzi e ad una intensa speculazione in un settore divenuto molto lucrativo, il che obbliga anche i paesi dell’OPEP a ridurre drasticamente le importazioni.
Il mercato americano, che tira l’economia dopo la crisi del 1980-82, si chiude a sua volta alle importazioni europee e giapponesi, intanto utilizzando come barriera doganale di fatto la svalutazione del dollaro, quasi del 100% contro il marco e lo yen. I consumi interni e l’attività economica stessa, in particolare le costruzioni, diminuiscono regolarmente negli ultimi mesi negli Stati Uniti e la crescita industriale confida ormai molto sulle esportazioni. In questo contesto la concorrenza sul mercato mondiale diviene sempre più accanita, rendendo sempre più difficile ogni intesa anche nel seno delle diverse branche industriali. L’incapacità del paesi dell’OPEP di intendersi ne è la prova.
L’indebitamento degli Stati e la speculazione frenetica di questi ultimi anni, dopo aver concesso una tregua alla riproduzione capitalistica, oggi producono gli effetti opposti: spingendo verso l’alto i saggi di interesse precipitano la crisi, come fece a suo tempo l’aumento del prezzo del petrolio.
Anche nei paesi dell’est la situazione economica non brilla. La “nuova” politica economica e sociale del governo Gorbaciov è identica a quella degli Stati occidentali, “deregolamentazione” per far funzionare più inesorabilmente le leggi del mercato, chiusura delle imprese non redditizie, licenziamento del personale di troppo, trasparenza dei prezzi, ed è espressione soltanto delle difficoltà del capitalismo russo. In Le Monde si legge una descrizione “trasparente” dello stato dell’economia sovietica riferita da un funzionario di Stato:
«Quel che occorrerebbe è un certo volano di disoccupazione, un minimo di insicurezza nell’impiego perché la gente faccia uno sforzo nel lavoro (...) Secondo uno dei consiglieri di Gorbaciov per gli affari economici, la produzione agricola è oggi inferiore a quella del 1978; non si è avuta nessuna crescita economica in URSS dal 1979 al 1985; la produzione del 40% dei beni industriali è diminuita, la produttività è bassa, come il rendimento degli investimenti (...) Per le imprese l’autonomia significa che devono equilibrare il loro bilancio e che, in una certa misura, le unità deficitarie non potranno più contare sulle sovvenzioni di Stato per mantenere artificialmente delle produzioni inutili e obsolete». E il giornalista si interroga: «Come potranno le autorità praticare una politica di verità dei prezzi e dei salari e nello stesso tempo difendere il livello di vita, come proclamano? Permettere alle imprese di licenziare i lavoratori in soprannumero e continuare a mantenere artificialmente il pieno impiego quando la produttività è già drammaticamente bassa?».
L’intervento delle banche centrali ha permesso quindi di frenare il parossismo, ma a credito. Questo movimento è rinforzato dal fatto che fin dall’inizio della caduta dei corsi gli investitori si sono portati in massa sui titoli a reddito fisso, cioè sul mercato delle obbligazioni, considerate, date le circostanze, più sicure. Ma come sottolinea Le Monde:
«In termini pratici, ciò significa che l’Istituto di emissione americano si è messo ad acquistare senza far conti i titoli del debito pubblico di cui la banche cercano di sbarazzarsi per procurarsi contanti. Nell’immediato questo solleva le banche, ma ha anche per effetto di aumentare la massa dei Buoni del Tesoro praticamente congelati nel loro attivo, questa volta della banca centrale degli Stati Uniti».Si, hanno momentaneamente spento l’incendio ma col petrolio! Sui diversi mercati la massa dei titoli è divenuta colossale, il governo americano, inondando trimestralmente il mercato delle obbligazioni per soddisfare i suoi bisogni di tesoreria non fa che aumentare questa massa. Ora, in periodo di crisi, quel di cui c’è bisogno non è di titoli ma di denaro! Le banche centrali stesse, la cui funzione è di rispondere alla domanda di liquidità costituendo le riserve monetarie, hanno immobilizzato una buona parte delle loro riserve in simili titoli.
Dopo gli accordi del Louvre le diverse banche centrali sono intervenute attivamente per sostenere il corso del dollaro. Lo fanno acquistando massicciamente dollari che riciclano oltre atlantico acquistando Buoni del Tesoro americano, che tesaurizzano nelle loro casseforti perché invendibili. Nel 1987 hanno speso fra i 110 e i 140 miliardi di dollari per sostenere il corso della divisa americana e fra i 32 e i 37 miliardi il solo Giappone. Nello stesso articolo il giornalista notava:
«Non siamo più lontani dal momento in cui, in primo luogo la liquidità del sistema nel suo insieme rischia di non essere più assicurata, e in secondo luogo i vantaggi della semplice negoziabilità – possibilità di vendere, ma con rischio di prezzo – saranno essi stessi rimessi in forse (ciò che già succede per alcuni tipi di prestiti sull’euromercato)».Un grande borghese inglese, citato davanti ad una commissione di inchiesta parlamentare a seguito della crisi 1847, già notava:
«Il nostro sistema è il seguente: abbiamo obbligazioni per 300 milioni di sterline il cui pagamento nella moneta corrente del paese può essere richiesto in ogni singolo momento, e questa moneta del paese, se noi la usiamo tutta per questo scopo, ammonta a 23 milioni di sterline, o qualcosa di simile; non è questa una situazione che ci può far venire le convulsioni in ogni momento?».E Marx commenta:
«Da qui, nelle crisi, l’improvviso capovolgimento del sistema creditizio nel sistema monetario».
«La quantità delle cambiali in circolazione è quindi, al pari delle banconote, determinata unicamente dai bisogni del commercio; in periodi normali, dopo il 1850, circolavano nel Regno Unito, accanto a 39 milioni di banconote, circa 300 milioni di cambiali, di cui 100-120 milioni scontato a Londra. Il volume della circolazione delle cambiali non esercita alcuna influenza sul volume della circolazione delle banconote e viene influenzata da quest’ultima soltanto in periodi di ristrettezza monetaria, quando la quantità delle cambiali si accresce, mentre la loro qualità peggiora. Infine, al momento della crisi, la circolazione delle cambiali viene meno completamente alla sua funzione; nessuno sa più che farsene di promesse di pagamento, ognuno accettando solo pagamenti in contanti; la banconota soltanto, almeno fino ad ora in Inghilterra, conserva la capacità di circolare, perché dietro la Banca di Inghilterra sta la nazione con tutta la sua ricchezza» (Il Capitale, III, cap. 33).
Non conosciamo il rapporto oggi esistente fra la massa delle tratte
in circolazione, ed in modo più generale tutto il castello di carta che
sono le obbligazioni, i Buoni del Tesoro, le azioni, ecc., che rappresentano
capitale fittizio, e la massa monetaria reale, in circolazione o chiusa
nelle casseforti delle banche, in particolare centrali. Ma si può immaginare
che questo rapporto debba essere vertiginoso e ben superiore a quello che
aveva corso in Inghilterra del 1847.
In Russia la penuria di mezzi di pagamento potrebbe trovarsi aggravata
da una caduta nella produzione dei cereali, come avvenne nel 1975, quando
crollò del 20%! Il carattere ciclico delle crisi in Russia e la penuria
attuale sembra ben confortare una simile prospettiva. In questo caso lo
Stato russo sarebbe costretto ad immobilizzare grandi fondi in divise per
acquistare cereali. Di questo sborso, purtroppo, approfitterebbe il compare
e concorrente americano, mille volte più vampiro, che si vedrebbe sbarazzato
di altrettanto della sua sovrapproduzione agricola.
1847, prototipo di ogni crisi
Quando arriverà la crisi, travolgendo sul suo passaggio tutti i castelli
di carta del capitale finanziario, imponendo il fallimento di migliaia
di imprese commerciali ed industriali, così come la svalorizzazione massiccia
della pletora di capitale produttivo e mercantile, spazzando via i miraggi
e le illusioni della società borghese, e, non ultimo, scuotendo dal suo
torpore il Proletariato storico col riportare in vita la lotta fra le classi,
l’accoglieremo allora con tutti gli onori, esclamando le parole di Marx:
ben scavato, vecchia talpa!
«Tutte le fabbriche di nuova costruzione, le macchine a vapore, le filatrici e i telai non erano sufficienti ad assorbire il torrente di plusvalore che affluiva dal Lancashire. Con la stessa passione con cui si accresceva la produzione ci si buttò sulla costruzione delle ferrovie; qui il fervore speculativo dei fabbricanti e dei commercianti fu finalmente soddisfatto e precisamente a partire dall’estate del 1844. Si sottoscrivevano delle azioni, quante si poteva, ossia nella misura in cui il denaro bastava per coprire i primi versamenti; il resto si sarebbe accomodato con il tempo! Quando venne in seguito il momento degli ulteriori versamenti, si dovette far ricorso al credito e l’effettiva attività delle ditte dovette per lo più soffrirne anch’essa.
«Inoltre questa attività effettiva era nella maggioranza dei casi già oberata. La prospettiva di profitti elevati aveva spinto le operazioni di gran lunga più estese di quanto non lo giustificassero i mezzi liquidi disponibili. Ma il credito era là, facile ad ottenere e per di più a buon mercato. Lo sconto bancario era basso: 1¾ - 2¾% nel 1844, sotto il 3% fino all’ottobre 1845, poi un breve periodo di aumento fino al 5% (febbraio 1846), per cadere di nuovo al 3¼% nel dicembre 1846. La banca aveva nei sotterranei una riserva d’oro di un aumentare inaudito. Tutti i valori interni di borsa avevano raggiunto un’altezza come mai prima di allora. Perché dunque lasciarsi sfuggire questa bella occasione, perché non entrare spensieratamente nella danza? Perché non spedire ai mercati stranieri, che sospiravano i prodotti inglesi, tutte le merci che si potevano produrre? E perché il fabbricante non avrebbe dovuto intascare egli stesso il duplice guadagno proveniente dalla vendita dei filati e dei tessuti nell’Estremo Oriente e dalla vendita in Inghilterra del carico ricevuto in cambio?
«Così si sviluppava il sistema delle spedizioni in massa di merci contro anticipo verso le Indie e la Cina, che molto presto degenerava in un sistema di spedizione fatte unicamente al fine di ottenere degli anticipi, come viene descritto nei particolari nelle note seguenti e che necessariamente doveva finire nella completa saturazione dei mercati e nella crisi.
«Questa crisi scoppiò in seguito al cattivo raccolto del 1846. L’Inghilterra e particolarmente l’Irlanda ebbero bisogno di importare quantità enormi di prodotti alimentari, soprattutto di grano e di patate. Ma i paesi che fornivano queste derrate potevano essere pagati solo in minima parte in prodotti della industria inglese: si dovette dare in pagamento metallo prezioso; almeno nove milioni d’oro andarono all’estero. Di questo oro, 7 milioni e mezzo provenivano dalla riserva metallica della Banca di Inghilterra, la cui libertà di movimento sul mercato interno fu, in conseguenza di ciò, sensibilmente paralizzata; le altre banche le cui riserve sono depositate alla Banca di Inghilterra e si identificano in realtà con la riserva di questa banca, dovettero parimenti ridurre il loro movimento monetario; il flusso dei pagamenti, che fino a questo momento scorreva rapidamente e facilmente, cominciò ad arrestarsi dapprima qua e là, poi dappertutto. Lo sconto bancario, che era ancora 3 - 3½% nel gennaio 1847, salì al 7% in aprile, quando si manifestarono i primi sintomi del panico; poi in estate si ebbe ancora una volta un piccolo alleggerimento di breve durata (6,5 - 6%), ma il panico scoppiò di nuovo e più violento quando anche il nuovo raccolto fu cattivo. Lo sconto ufficiale minimo della banca salì, in ottobre del 7, in novembre del 10%, ossia la più gran parte delle cambiali non era più scontabile che a saggi di usura spaventosi o non era scontabile affatto; il generale arresto dei pagamenti portò una serie di ditte in primo piano e molte altre medie e piccole alla bancarotta» (Il Capitale, III, cap. 25).
La causa della sovrapproduzione non è esterna al processo della produzione capitalistica, ma si trova in quel processo stesso. Riportiamo qui lo schema che Engels fa del meccanismo delle crisi nel suo Evoluzione del socialismo dall’Utopia alla Scienza.
«L’enorme forza espansiva della grande industria, di fronte alla quale quella dei gas è un vero gioco da bambini, si presenta ora ai nostri occhi come un bisogno di espansione sia qualitativa sia quantitativa che si fa beffa di ogni pressione contraria. Questa pressione contraria è formata dal consumo, dallo smercio, dai mercati per i prodotti della grande industria. Ma la capacità di espansione dei mercati, sia estensiva che intensiva, è dominata anzitutto da leggi affatto diverse, che agiscono in modo molto meno energico. L’espansione dei mercati non può andare di pari passo con quella della produzione. La collisione diviene inevitabile e poiché non può presentare nessuna soluzione sino a che non manda a pezzi lo stesso modo di produzione capitalista, diventa periodica. La produzione capitalistica genera un nuovo "circolo vizioso".Non era proprio necessario dare tutta la lunga citazione, ma era difficile resistervi. Cosa dice Engels: che all’enorme forza di espansione delle forze produttive si oppone la contro pressione esercitata dal mercato. Essendo diverse le leggi dello sviluppo del mercato e quelle della produzione si produce un urto che porta alla crisi, poi l’esplosione sociale in caso di rivoluzione. La crisi risulta dalla contraddizione esistente fra il mercato e le forze di espansione dell’industria, che travolge qualsiasi ostacolo.
«In effetti, dal 1825, anno in cui scoppiò la prima crisi generale, tutto il mondo industriale e commerciale, la produzione e lo scambio di tutti i popoli civili e delle loro appendici più o meno barbariche, si sfasciano una volta ogni dieci anni circa. Il commercio langue, i mercati sono ingombri, si accumulano i prodotti tanto numerosi quanto inesitabili, il denaro contante diventa invisibile, il credito scompare, le fabbriche si fermano, le masse operaie, per aver prodotto troppi mezzi di sussistenza, mancano dei mezzi di sussistenza: fallimenti e vendite all’asta si susseguono. La stagnazione dura per anni, forze produttive e prodotti vengono dilapidati e distrutti in gran copia, sino a che finalmente le masse di merce accumulate defluiscono grazie ad una svalutazione più o meno grande e produzione e scambio a poco a poco riprendono il loro cammino. Gradualmente la loro andatura si accelera, passa al trotto, il trotto dell’industria si fa galoppo e questo accelera sino ad assumere l’andatura sfrenata di una vera corsa ad ostacoli industriale, commerciale, creditizia e speculativa, per ricadere in fine, dopo salti da rompersi il collo... nella fossa del crac. E così sempre da capo. Tutto questo dal 1825 lo abbiamo sperimentato per ben cinque volte e in questo momento (1877) lo stiamo sperimentando per la sesta volta. E il carattere di queste crisi è così nettamente marcato, che Fourier la inquadrate tutte chiamando la prima crise pletorique, crisi di abbondanza.
«Nelle crisi la contraddizione fra produzione sociale e appropriazione capitalista perviene allo scoppio violento. La circolazione delle merci è momentaneamente annientata; il mezzo di circolazione, il denaro, diventa un ostacolo alla circolazione; tutte le leggi della produzione e della circolazione delle merci vengono sovvertite. La collisione economica raggiunge il suo punto culminante: il modo della produzione si ribella contro il modo dello scambio. Le forze produttive si ribellano contro il modo di produzione per il quale sono divenute troppo grandi».
Engels non si ferma qui, prosegue indicando che la crisi proviene dalla contraddizione fra “produzione sociale e appropriazione capitalista”, conducendo ad una ribellione del modo di produzione contro il modo di scambio e delle forze produttive contro il modo di produzione per il quale sono divenute troppo grandi. La contraddizione è quindi doppia; in effetti si tratta di una sola e medesima contraddizione vista sotto due aspetti diversi: la contraddizione fra il carattere sociale delle forze produttive e l’appropriazione privata dei mezzi di produzione e di consumo. Questa contraddizione si manifesta immediatamente nell’antagonismo esistente fra la produzione, con le proprie leggi di sviluppo, ed il mercato, le cui leggi di espansione sono differenti.
Tuttavia se ci si ferma a questo aspetto delle cose, la contraddizione fondamentale, inerente al capitalismo resterebbe esterna al modo di produzione.
«Esiste anzitutto un limite, non inerente alla produzione generale, ma alla produzione basata sul capitale. Questo limite è duplice, o piuttosto è un medesimo limite considerato secondo due direzioni. È sufficiente qui mostrare che il capitale implica una particolare limitazione della produzione – contraddice la sua tendenza generale a sormontare ogni ostacolo posto alla produzione – per scoprire il fondamento della sovrapproduzione, la contraddizione fondamentale del capitale sviluppato; per scoprire soprattutto che esso non è, come pensano gli economisti, la forma assoluta per lo sviluppo delle forze produttive – forma assoluta per questo sviluppo, come anche forma della ricchezza che coinciderebbe assolutamente con lo sviluppo delle forze produttive» (Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, quaderno IV, 22).Marx enumera questi differenti limiti che tutti sono legati alla creazione di valore e quindi al carattere privato dell’appropriazione. Tutte le contraddizioni che il capitale nel suo movimento deve costantemente superare possono ricondursi a questo: il capitale nella sua fame di lavoro vivente, o più esattamente di pluslavoro, cioè di plusvalore, è costretto ad accrescere costantemente la potenza del lavoro al fine di ridurre il lavoro necessario. Ne segue che il lavoro relativamente si riduce di fronte all’apporto tecnologico e alla produttività dei mezzi di produzione. Facendo questo il capitale genera la propria negazione: da un lato, al fine di soddisfare il suo appetito insaziabile di plusvalore, socializza il lavoro e lo concentra, dall’altro riduce relativamente la parte del capitale variabile rispetto al capitale costante; così sviluppa ad una scala sempre più larga le basi tecniche produttive della società comunista mentre mina le proprie basi come produttore ed accumulatore di plusvalore. Da qui la crisi di sovrapproduzione dopo ogni ciclo di accumulazione, che divengono ogni volta sempre più terrificanti.
«Lo scambio del lavoro vivo col lavoro oggettivato, cioè la posizione del lavoro sociale nella forma dell’opposizione di capitale e lavoro salariato, è l’ultimo sviluppo del rapporto di valore e della produzione basata sul valore. La premessa di questa è e rimane la quantità di tempo di lavoro immediato, la quantità di lavoro impiegato, come fattore decisivo della produzione della ricchezza. Ma, nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione di ricchezza viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questa loro potenza efficace – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione (...)E questa contraddizione fondamentale – che è l’altro aspetto dell’antagonismo fra il carattere sociale delle forze produttive e l’appropriazione privata, appropriazione il cui carattere privato è determinato dai rapporti di produzione che sono il salariato e il capitale – si manifesta con la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto.
«In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il suo dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte di ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così che il non lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione fondata sul valore di scambio crolla, e il processo materiale immediato viene a perdere anche la forma delle miseria e dell’antagonismo. È il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc... degli individui grazie al tempo libero e ai mezzi creati per loro tutti. Il capitale è esso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura a fonte delle ricchezza» (Quaderno VII, 3).
«È questa, sotto ogni rispetto, la legge più importante della moderna economia politica, e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili. Dal punto di vista storico è la legge più importante. È una legge, che ad onta della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa consapevolmente. Se è vero che questa diminuzione del saggio del profitto è sintomo:
1) della produttività già prodotta e della base materiale che essa forma per la nuova produzione; il che presuppone contemporaneamente un enorme sviluppo del potenziale scientifico;
2) della diminuzione della parte di capitale già prodotto che deve essere scambiata con lavoro immediato, vale a dire della diminuzione del lavoro immediato richiesto per la produzione di un valore immenso, il quale si esprime in una maggiore massa di prodotti (...);
3) della dimensione del capitale in generale, anche della porzione di esso che non è capitale fisso; e quindi di un grandioso sviluppo commerciale, di una grande massa di operazioni di scambio, di vastità del mercato e universalità del lavoro simultaneo; di mezzi di comunicazioni ecc., di disponibilità di fondi di consumo necessari ad intraprendere questo processo grandioso (gli operai mangiano, hanno una casa ecc.);
«se è vero questo, allora si vede (...) che lo sviluppo delle forze produttive che il capitale stesso arreca nel suo sviluppo storico, giunto ad un certo punto sopprime l’autovalorizzazione del capitale invece di crearla. Al di là di un certo punto, lo sviluppo delle forze produttive diventa un ostacolo per il capitale, ossia il rapporto del capitale diventa un ostacolo per lo sviluppo delle forze produttive del lavoro. Giunto a questo punto, il capitale, ossia il lavoro salariato, si pone, rispetto allo sviluppo della ricchezza sociale e delle forze produttive, nello stesso rapporto del sistema corporativo, della servitù della gleba, della schiavitù, e poiché rappresenta una catena, viene necessariamente eliminato. L’ultimo aspetto servile che l’attività umana assume, quella del lavoro salariato da una parte, del capitale dall’altra, subisce con ciò una muta radicale, e questa stessa muta radicale è il risultato del modo di produzione corrispondente al capitale; le condizioni materiali e spirituali della negazione del lavoro salariato e del capitale, che a loro volta sono già la negazione di precedenti forme di produzione sociale non libera, sono esse stesse risultati del processo di produzione del capitale. Nelle contraddizioni, delle crisi, nelle convulsioni acute, si esprime la crescente inadeguatezza dello sviluppo produttivo della società rispetto ai rapporti di produzione che ha avuto finora. La violenta distruzione di capitale, non per circostanze esterne ad esso, ma come condizione della sua autoconservazione, è la forma più incisiva in cui gli si notifica il suo fallimento e la necessità di far posto ad una superiore condizione di produzione sociale» (Quaderno VII, 16).
Se i borghesi e i piccoli borghesi si disperano per l’approssimarsi della crisi, noi, al contrario, l’accogliamo con gioia, traendone nuova forza e vigore. Essa annuncia la fine di quest’incubo che è la società borghese. Come un terremoto abbatterà tutto l’edificio sociale fino alle fondamenta, spazzando miraggi ed illusioni, demistificando la propaganda dell’opportunismo e della borghesia. Essa rovinerà quelle ignobili paludi della pace sociale che sono le classi medie e l’aristocrazia operaia; esproprierà in massa e ferocemente questi strati debilitati e rincretiniti, condizione indispensabile per la rivoluzione. Scuoterà il proletariato dal suo torpore e dal suo letargo, facendolo uscire dallo stato di abbrutimento al quale l’ha ridotto la società borghese, portandolo di nuovo pronto all’azione.
Scriveva Engels all’amico Marx nel settembre 1852:
«Pare che après tout gli operai si siano perfettamente imborghesiti per la momentanea prosperità e per le prospettive della gloire de l’empire. Ci sarà bisogno di una dura lezione a forza di crisi, se devono riesser presto capaci di qualche cosa».Si, lo stato di crisi economica cronica nella quale si trova la nostra società borghese da 13 anni avrà “preparato il terreno”. La frazione del proletariato che si separerà dalla massa per aderire al partito sarà allora più estesa di quanto avrebbe potuto esserlo se la grande crisi interguerra, che il partito ha previsto ed atteso da lungo tempo, fosse venuta all’improvviso nel 1975, dopo trenta anni di “prosperity” e di rincoglinimento generale. Al contrario, è stata annunciata da due recessioni che hanno in parte preparato le masse, crisi che insidiosamente esercitano un lavoro di lima sull’influenza morale della borghesia e dei suoi agenti nel seno del proletariato.
«Sarà bello quando verrà la crisi, e c’è soltanto da augurarsi che essa si trascini ancora un po’, perché divenga una situazione altrettanto cronica e con episodi acuti come nel 1837-42».Se la storia ristabilirà il legame che la controrivoluzione ha rotto fra il partito e le masse, con processo di anni, seguendo una curva che non sarà solo ascendente, dopo un lungo lavoro di agitazione, di organizzazione e di propaganda, si preparerà l’assalto finale contro la borghesia. Contro la crisi il proletariato non sorgerà da sè armato di tutto punto, come un sol uomo, pronto a rovesciare la borghesia, tali illusioni spontaneiste ed anarchiche non sono nostre; la preparazione oggettiva del proletariato alla presa del potere richiede anni di intervento del partito al fine di conquistarne la fiducia e il seguito.
La crisi economica, con gli scioperi e le sollevazioni che provoca, potrà creare le condizioni di una prova generale della rivoluzione, come il 1905 fu la prova generale della Rivoluzione del 1917. Durante il periodo di ripresa economica, che seguirà la crisi e precederà la terza guerra mondiale, la lotta economica e l’organizzazione sindacale saranno allora di grande importanza. Con la ripresa economica il rapporto di forze sul terreno delle lotte economiche sarà in effetti favorevole al proletariato. Il partito cercherà allora di generalizzare e di organizzare i sindacati di classe, che saranno sorti o andranno sorgendo, cercando di prenderne la direzione.
In un tempo che è impossibile prevedere si presenterà ineluttabile lo scoppio della terza guerra mondiale. A differenza di quanto non fece il 4 agosto 1914, si tratterà per il proletariato di afferrare la grande occasione storica che gli sarà offerta, di battersi, non per fermare la guerra con la pace, ma per rovesciare con la forza delle armi la borghesia, trasformando, con le parole di Lenin, la guerra imperialista in guerra civile. O passa la guerra, o passa la Rivoluzione!
La nostra prospettiva per questo fine di secolo rimane quella delineata dal partito ormai da tre decenni e che ripetiamo con queste parole del nostro Programma Comunista numero 9 del 1958.
«Crisi 1929 ed America d’oggi.
«(...) Il quesito è quello se si presenterà nell’avvenire una crisi mondiale con la stessa profondità di quelle di allora. La nostra risposta deriva dalla fedeltà alla tradizionale originaria dottrina marxista, ed è nel senso che una tale crisi verrà, e che essa precederà di molto una terza guerra mondiale e porrà prima di essa l’eventualità di una ripresa internazionale della lotta di classe e della possibile guerra sociale, sola alternativa alla catastrofe del conflitto imperialista.
«Se i prodromi di oggi non sono ancora quelli di una tale grande crisi, essi vengono però a confermare la fallacia di tutte le scuole del benessere, e a ridimostrare la classica tesi marxista che nell’economia mercantile ogni elemento della produzione, che solo consente un fittizio salire del tenore di vita, e di simulare un livellamento sociale, non fa che preparare l’inversione del processo di avanzata e la vera propria crisi.
«La vera e propria crisi che si porrà storicamente tra seconda e terza guerra mondiale sarà, più ancora di quelle tra prima e seconda, internazionale, e ne è una prova quanto andiamo sottolineando sulla collaborazione del capitalismo di Stato russo alle “misure anticrisi”; collaborazione che culminando nella terapia dell’estensione del commercio mondiale tra i due pretesi blocchi, anche con la sola presentazione ideologia sta invece a provare, con forza dialettica, che la prossima autentica crisi di sovrapproduzione colpirà ad un tempo tutte le mostruose macchine produttive del mondo, sarà la crisi della follia superproduttrice che accomuna America e Russia nella vantata, da entrambe, competizioni emulativa.
«E questa crisi metterà il mondo alla vigilia di un’altra guerra generale, se non lo metterà alla vigilia della rivoluzione, una delle cui condizioni è lo sviluppo, richiedente decenni, di un partito, il cui programma sia distruttivo del “mito de produrre” e del “mito del consumare”, legati dal “mito mercantile”».