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ELEMENTI DI ECONOMIA MARXISTA [1929 - Prometeo, 1947-1950] |
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It | En | ||
Merce | M | G | |
Denaro | D | M | |
Capitale anticipato | C+V | K | |
Capitale finale | C+V+S | K’ | |
Capitale costante | A+B+H | C | |
Capitale variabile | wgv | V | |
Plusvalore = Profitto | ez | S | |
Rendita | R | ||
Interesse | I | ||
Fatturato | F | ||
Quota ammortamento | A | ||
Materie prime | B | ||
Spese accessorie | H | ||
Prezzo di mercato | P | ||
Saggio del plusvalore | S/V | s | |
Saggio del profitto | S/(C+V) | p | |
Saggio dell’interesse | I/(C+V) | i | |
Composizione organica | C/V | o | |
Tempo di lavoro | n+e | t | |
Lavoro necessario | n | ||
Sopra-lavoro | e | ||
Valore prodotto orario | z | ||
Numero di operai | w | ||
Ore di lavoro annue | g | ||
Paga oraria | v |
Gli Elementi dell’economia
marxista
furono originariamente composti a Ponza nel 1929 come traccia di un
"corso" sul Libro I del Capitale
per militanti confinati. Erano gli anni in
cui,
sconfitta a Lione e poco dopo al VI Esecutivo Allargato
dell’Internazionale
Comunista, del 1926, la nostra corrente, nell’emigrazione o al confino,
in carcere o nella solitudine, sosteneva tuttavia l’ultima e veemente
battaglia
in difesa, contro ogni mistificazione, della dottrina e del programma
marxista.
Non da allora è caratteristica nostra, mille volte ripetuta in questo
testo, che il marxismo è un blocco unico ed invariante il quale non si
può ridurre a un semplice "metodo " d’interpretazione dei fatti via via
che si succedono, ma offre una visione globale del corso della storia
umana
e dello stesso divenire della natura. Non è un mosaico di cui si
possano
a piacere cambiare le tessere lasciando invariato il quadro d’insieme,
ma è una concezione scientifica e globale del mondo in cui tutto si
lega,
e a nessuno è concesso di accettarne o respingere a piacere questa o
quella
parte senza sfigurarne e quindi distruggerne la potenza rivoluzionaria.
Il testo, nella sua forma
originaria,
si proponeva «in un certo modo di sceverare e allineare la parte
economica»
del Capitale; ma da tutte le sue pagine, come da quelle della ciclopica
opera di Marx, si levano sia il grido di battaglia della classe operaia
in lotta per l’abbattimento del modo di produzione borghese, di cui
denunzia
le infamie nascoste dietro il paravento democratico e della sua
soprastruttura
statale, sia l’anticipata visione della società in cui il genere umano
uscirà finalmente dalla sua preistoria e, ricongiungendosi idealmente
ai primordi di una vita associata comunitaria, baserà tutti i
rapporti
di produzione e di convivenza umana su criteri non mercantili, non
individualistici,
non volgarmente contingenti, ma finalmente
umani e razionali.
È dunque insieme economia,
"filosofia",
politica: insomma guerra di classe.
Il lavoro che prendiamo a pubblicare è una esposizione, in forma in un certo senso diversa dall’originale, del Primo Libro del Capitale. Non è un riassunto e tanto meno una volgarizzazione. Lo studio dell’opera fondamentale di Marx esige una preparazione economica storica e filosofica i cui risultati vanno applicati di pari passo. Qui si è in un certo modo sceverata ed allineata la parte economica del testo.
Un analogo lavoro per la parte storica e filosofica può dare basi sufficienti al lavoro per una impostazione ed una conoscenza corretta della dottrina integrale del comunismo, nella sua classica enunciazione originale.
[Prometeo, n. 6, marzo-aprile 1947]
La prima parte di questo studio corrisponde alla Prima Sezione del Primo Libro intitolata dall’autore Merce e Denaro.
Al fine pratico di instaurare una nuova numerazione la
consideriamo
divisa in sette punti, che sono i seguenti.
1. Definizione della merce e delle sue
due proprietà: valore d’uso e valore di scambio.
2. Il valore di scambio. Concetto
quantitativo
e difficoltà di trovarne la misura.
3. La forma semplice del valore.
Ogniqualvolta
si parlerà di valore senz’altro si indica d’ora innanzi il valore di
scambio.
La forma semplice è l’enunciazione della equivalenza, ai fini dello
scambio,
tra due merci entrambe suscettibili d’uso (di consumo), per cui ad una
data quantità della merce A corrisponde una data quantità della merce
B.
4. Forma valore generale e forma equivalente.
Essa si presenta, quando consideriamo un dato numero di merci diverse e
conosciamo tutte le equivalenze tra coppie di esse. Con due merci
abbiamo
una equivalenza, la forma semplice. Con tre merci sei equivalenze, con
quattro dodici. Con dieci merci avremmo novanta equivalenze, sistema
troppo
complicato ai fini pratici e mnemonici. Per ricordare le novanta
relazioni
basta sapere quelle di nove merci ad una sola e quindi nove sole
relazioni
da cui le altre facilmente derivano. Una merce è stata scelta come
equivalente
di tutte. Siamo alla forma generale del valore.
5. Carattere storico-sociale di tutta la
quistione.
Abbiamo brevemente riassunto un capitolo, quello su "Il carattere
feticcio
della merce e il suo segreto" che compendia in uno scorcio magistrale
tutti
gli elementi della dottrina marxista, nel lato economico storico e
filosofico
insieme. Ne abbiamo riportato quanto basta chiarire che l’economia
marxista
non si spinge nelle sottigliezze sull’analisi della merce per trovare
leggi
immanenti ed immutabili del processo economico (le pretese leggi naturali
dell’economia) ma al fine di esporre con sviluppo rigoroso l’indagine
scientifica
sul divenire della società umana in tutta la sua complessità e nella
successione storica delle sue vicende, riferita ad epoche distinte da
una
diversa meccanica del mondo economico. Indaga quindi non i rapporti tra
il pezzo di tela e la libbra di ferro, ma il rapporto tra gli uomini
reali
nella produzione e nel consumo a dati svolti nella storia.
6. La circolazione. Valore e prezzo. A
questo punto viene studiato il mercato nel suo complesso, quando una
merce
scelta ad equivalente generale, come ad esempio il sale, viene
finalmente
sostituita dalla moneta, prima metallica indi anche cartacea e
convenzionale.
In questo sviluppo è messa innanzi la ipotesi che per avere una
misura del valore si possa adottare quella del tempo di lavoro umano
medio
che ogni merce richiede in generale per essere prodotta. La progressiva
applicazione di questa ipotesi (che come è noto non si trova
per
la prima volta in Marx ma si deve agli economisti della prima epoca
capitalistica
e in ispecie a Davide Ricardo (1772-1823) che pubblicò la sua opera
fondamentale,
Principii
dell’Economia Politica, a Londra nel 1821) a tutto il mondo
economico
presente nello sviluppo della ricerca deciderà sulla validità della
ipotesi stessa.
7. Cammino del denaro. La Seconda Sezione in cui viene finalmente sulla scena il Capitale,
tratta appunto della trasformazione del denaro in Capitale,
indagata
studiando la dinamica non più di chi fa ingresso sul mercato per
portarvi
merce o ritirarne per propria utilità, ma di chi vi discende come
portatore
di moneta. A premessa Marx ricorda quanto occorre stabilire circa il meccanismo monetario, essenziale nella economia borghese, prima di proseguire nella
esposizione
di tutto "Il processo della produzione capitalistica", tema del Primo
Libro
dell’Opera.
* * *
Detto questo come prologo alla Prima Sezione del Primo Libro, sarà bene dare qualche indicazione sulla partizione di tutta l’opera, che nel piano di Marx doveva comprendere quattro Libri o Volumi. Di essi è noto in italiano integralmente solo il Primo, mentre il Quarto non poté essere steso da Marx.
Il Secondo Libro tratta del processo di circolazione del Capitale, il Terzo degli aspetti che riveste il processo economico complessivo; il Quarto doveva esporre la storia della teoria, di cui però vi sono copiosissimi materiali nei primi Libri e nelle loro annotazioni.
Tra i compiti di Prometeo potrà essere quello della esposizione dei due successivi Libri del Capitale assai meno noti del Primo.
È bene però togliere di mezzo una convenzione corrente e molto adoperata a fini revisionistici, che cioè i due successivi Libri prendano in esame una parte del processo reale economico che nel Primo era omessa, e che tale analisi sia stata svolta dall’autore fino a condurlo a rettifiche importanti se non a rinunzie alle dottrine principali del Primo Libro come quelle del plusvalore, l’accumulazione del capitale, la miseria crescente, eccetera. Questa opinione, smentita dal contesto delle opere anche più recenti apparse fino alla morte di Marx (1883) e dopo, come dalle rielaborazioni postume ed esegesi dovute ad Engels, corrisponde ad una errata valutazione della ossatura costruttiva dell’opera. Il Primo Libro copre il campo completo della dottrina di Marx sul capitalismo e non è certo una trattazione astratta di rapporti che si stabiliscono nella sfera della produzione e che prescindano dai rapporti della circolazione delle merci e della moneta. Creder questo sarebbe considerare distrutto il contenuto sostanziale del metodo di Marx.
Ciò che definisce il rapporto tra il Primo Libro del Capitale ed il resto dell’Opera, è un criterio tutto diverso. Pure ricchissimo come è di materiale storico, critico, bibliografico, polemico, il Primo Libro conduce di getto lo studio economico di tutto il processo, dal primo scambio a tipo di baratto attraverso la nascita e l’accumulazione del capitale fino alla conclusione che al capitalismo succederà una economia sociale e non mercantile, tracciata lapidariamente nel penultimo capitolo, come a suo tempo vedremo. I dati, lo studio e le leggi della circolazione sono già pienamente compresi in questo sviluppo. Ma tutto il materiale viene ripreso e ristudiato nei libri successivi – e, spiegando meglio il concetto, ben possiamo dire in tutto il lavoro posteriore e anche futuro dei marxisti – a titolo di studio dei fenomeni particolari dello svolgimento capitalistico, da cui, dato il carattere del metodo, deve incessantemente trarsi la verifica ed il controllo della teoria generale e la prova della sua efficienza.
Il Primo Libro ci dà dunque lo sviluppo essenziale del processo capitalistico e delle sue caratteristiche sociali reali nel rapporto tra capitalista e salariati, che è improponibile ed inimmaginabile senza tener conto dei fenomeni della circolazione e del consumo, e trova le leggi di questo processo, pur non cristallizzandole nella statica di un mondo astratto ma verificandole in tutte le situazioni: di capitalismo nascente e messo in rapporto con tipi economici diversi, e poi nel corso del suo sviluppo e della sua conquista del mondo. Tiene dunque sempre conto dell’ambiente storico reale, poiché non si potrà mai dire di essere alla presenza di un "modello" d’economia capitalista allo stato "puro".
Ed, infatti, la famosa Prima Sezione del Primo Libro, sulla circolazione, è la pietra angolare su cui posa tutto lo studio della Produzione, e per le note avvertenze di Marx stesso e dei migliori commentatori riesce la più ostica specie a lettori non bene preparati, pure essendo la sua comprensione del tutto indispensabile al complesso.
Ma è anche stato detto più volte che un’opera come quella di Marx, da cui ogni apriorismo e ogni metafisica di principi sono stati espulsi, deve essere acquisita in tutte le sue parti, e la lettura dei primi capitoli presuppone una certa assimilazione delle tesi delle parti successive. Marx stesso suggerì ad alcuni lettori di cominciare a metà libro dai capitoli descrittivi e storici per venire poi a quelli decisivi dell’analisi scientifica.
Il Primo Libro sta dunque a tutto il resto come la traccia fondamentale, la linea direttrice di tutto il sistema, che ha una sua completezza ed un suo ciclo completo, ed è stato scritto dall’autore sulla base di tutti i materiali che la storia economica fino al suo tempo gli offriva, e di cui riservò la esposizione particolareggiata ai volumi seguenti.
Esso tiene il posto che nella fisica e nell’astronomia moderna tengono i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isacco Newton (1687). Di un getto solo, dalla verità dovuta a Galileo che la forza agente su di un corpo materiale in moto è la causa non della sua velocità ma della sua accelerazione (ossia ne aumenta o diminuisce la velocità stessa), il procedimento matematico, con i metodi del calcolo delle quantità piccolissime trovato dal Newton, conduce direttamente a stabilire le leggi del moto di un pianeta intorno al sole e trova deduttivamente le leggi che Keplero aveva desunte dalle osservazioni di Tycho Brahe sulle rivoluzioni dei pianeti. Il principio teorico riceve così una smagliante conferma. Vale la pena di notare che anche la prima parte dell’opera di Newton, che stabilisce sotto forma geometrica le proposizioni prime del calcolo infinitesimale, da Leibniz ritrovate contemporaneamente sotto altra forma più espressiva, è faticosa a studiare e noiosa, mentre la deduzione dei capitoli successivi nei quali è stabilità la celebre legge della gravitazione universale è grandiosa e brillante anche nella forma.
Le tre o quattro semplicissime enunciazioni di Galileo, Newton, Keplero danno piena ragione di tutti i moti dei corpi del sistema solare, pianeti e satelliti, e hanno valore definitivo nella storia della scienza. Ciò non toglie che esse derivano da un caso puro ed astratto, quello del moto centrale, che considera due soli corpi celesti, mentre nel sistema ve ne sono in numero grandissimo. L’effetto vero è quindi molto complicato. Già il problema dei tre corpi appare, analiticamente, in gran lunga più difficile. Eppure ammessa la celebre actio in distans di Newton ciascun corpo attira ciascun altro e ne deforma la traiettoria più o meno. Qualche cosa di simile al trapasso dal semplice baratto M → M’ di Marx al quadro generale del movimento economico odierno. Ai volumi successivi del Capitale paragoneremo dunque il gigantesco lavoro posteriore eseguito dagli astronomi nel dedurre i moti particolari dei vari corpi, ed in specie la fondamentale e classica Mécanique Céleste di Laplace, le applicazioni famose come la scoperta di Nettuno fatta dal Le Verrier mediante il calcolo delle perturbazioni dell’orbita di Saturno, individuandone la precisa posizione nel cielo, poi verificata con l’osservazione al telescopio.
La stessa teoria disciplina dunque lo studio di tante effettive deviazioni di dettaglio dalla legge tipo e dalle pure ellissi kepleriane, ma la legge di Newton ne rimane stabilita solidamente e riconfermata. Il processo tipo è assolutamente valido eppure non accade mai. Non solo i cieli non sono più immutabili e incorruttibili come per Aristotele e per Tommaso, e sono retti dalla stessa meccanica valida pel moto dei gravi terrestri studiato da Galileo, ma le orbite geometricamente squisite di Keplero non sono tracce immutabili al moto dei pianeti. Ognuno di essi non le ripercorre mai due volte, il fenomeno reale è sempre diverso dal teorico, ma ciò non fa che confermare la validità e la efficacia della legge scientifica.
Introdotte ulteriori considerazioni sui processi termici diviene possibile tentare una storia del sistema solare e Laplace avanza la sua ipotesi sulla origine dei pianeti dal sole e la loro ricaduta futura in esso. Ciò naturalmente nemmeno toglie validità alla conquista scientifica contenuta nella prima classica costruzione della legge generale del moto.
Al solo fine di evitare confusioni non sempre innocenti accenniamo un ultimo punto. Le questioni metodologiche qui ricordate non sono inficiate, nello sviluppo del confronto col problema cosmogonico, da recentissime acquisizioni e dottrine scientifiche che introducono nel bilancio oltre alle considerazioni termiche quelle dell’energia atomica, né dalle più vaste costruzioni come quelle della teoria relativistica che non hanno smentita (nel senso che qui ci interessa) la legge classica della gravitazione, ma la hanno inquadrata in una più vasta concezione come un "caso limite". Tutto ciò, come la questione del determinismo nella scienza della natura e in quella dell’uomo, va riservato ad ulteriori studî come quelli sul marxismo e la teoria conoscitiva.
Le note che andiamo pubblicando servono di avviamento alla lettura del Capitale, e meglio ancora al lavoro politico col maneggio di quel fondamentale e rivoluzionario strumento. Un libro è per noi come una macchina; di più, come un’arma.
Esse vorrebbero servire, siccome ogni lavoro d’indagine è oggi per noi socialisti collettivo e non personale, alla illustrazione del testo da parte di militanti già preparati.
Ad esempio il paragrafo quarto del primo capitolo sul carattere feticcio della merce contiene un materiale attualissimo di propaganda su punti che gli opportunisti del momento si pongono sotto i piedi almeno tre volte il giorno, mentre cianciano d’esseri scolari di Marx.
In poche pagine esso fornisce uno scorcio storico delle varie economie i cui, oltre a rifulgere l’impiego del metodo dialettico di cui tratteremo nel nostro corso ampiamente, è dimostrato che non tutte le economie passate furono mercantili, e che la economia socialista è definita, come prima condizione, dall’essere non mercantile e non monetaria. È contenuta la tesi che ogni apologetica del capitalismo in economia e dell’uguaglianza e libertà in politica, tendente a contrapporre la perfezione e dignità degli istituti borghesi alla "artificiosità" di quelli feudali, vale scientificamente tanto poco quanto la posizione di tutti i teologi, secondo cui le religioni degli altri sono artificiali, la loro sola è naturale. «Ogni religione che non è la loro è un’invenzione degli uomini, la loro è la rivelazione di Dio». Marx cita qui sé stesso nella risposta a Proudhon sulla Miseria della Filosofia. Per noi marxisti tutte le religioni sono "invenzioni" degli uomini.
Oggi di tutte le sfumature che si inseriscono, sotto la incredibile etichetta di marxismo, da Attlee a Stalin, da Saragat a Togliatti, nessuna prende a battere in breccia il mercantilismo, né il deismo. Tutte si sentono di andare in senso anticapitalistico senza infastidire il feticcio merce, la "bestia" (è Marx che cita l’Apocalisse di Giovanni) moneta, né il dio degli altari.
Nessuno di costoro ricorda di aver letto:
«Il mondo religioso non è che il riflesso del mondo reale. Una società in cui il prodotto del lavoro assume generalmente la forma di merce; dove di conseguenza il rapporto più comune tra i produttori consiste nel comprare i valori dei loro prodotti e, sotto questa semplice forma, nel paragonare gli uni cogli altri i loro lavori privati a titolo di uguale lavoro umano (tali caratteristiche restano integre nelle statizzazioni sia del laburismo che del totalitarismo russo - n.d.r.); una tale società trova nel cristianesimo col suo culto dell’uomo astratto, e soprattutto nel suo sviluppo borghese, protestantesimo, deismo, ecc., la forma più adeguata di religione.
«In generale, il riflesso religioso del mondo reale non potrà scomparire se non in quanto le condizioni del lavoro e della vita pratica presenteranno all’uomo dei rapporti chiari e ragionevoli coi suoi simili e colla natura.
«La vita sociale, di cui la produzione materiale ed i rapporti che questa implica formano la base, non strapperà il mistico velo di nebbia che ne cela l’aspetto, se non nel giorno in cui si manifesterà l’opera di uomini liberamente associati, agenti consapevolmente in conformità ad un piano determinato e padroni del loro proprio movimento sociale. Ma ciò richiede una base materiale della società o un assieme di condizioni di esistenza materiale, che alla loro volta non sono che il prodotto di un lungo e doloroso svolgimento storico».
Ma ora, allo scopo di non spaventare gli alleati dei movimenti fideisti, i "marxisti" non parlano più di questi problemi. Ai loro seguaci danno da bere che il silenzio non è che abile manovra temporanea.
Arrivano tutt’al più a dire che Lenin cita da Marx che la religione è l’oppio del popolo: frase di passaggio in cui i termini non sono nella luce del rigore teoretico. Serve un passo di Lenin, per tema che siamo noi ad inventare un Marx e un Lenin a nostro modo? Eccolo:
«Da materialisti noi diamo con Engels ai kantiani e ai seguaci di Hume la qualifica di agnostici, in quanto costoro negano la realtà oggettiva come fonte delle nostre sensazioni. L’agnostico dice: ignoro se esista una realtà oggettiva riflessa dalle nostre sensazioni e dichiaro che è impossibile saperlo. Di qui la negazione della verità oggettiva e la tolleranza piccolo-borghese, filistea, pusillanime, verso le credenze nei lupi mannari, negli spiriti, nei santi cattolici e in altre consimili cose» (Materialismo ed Empiriocriticismo, Cap. II, par. 4).
L’allusione ai lupi mannari e agli spiriti deriva da uno spunto polemico col sedicente marxista russo Bagdanov che, abbracciando la filosofia alla moda nel 1910 di Mach-Avenarius, rivendicava però la posizione antifideista. Ciò gli contesta Lenin e tra l’altro dice «Se la verità (compresa la verità scientifica) non è che una forma organizzatrice della esperienza umana, allora il postulato fondamentale del clericalismo è ammesso, la porta gli resta aperta, e viene fatto posto alle "forme organizzatrici" dell’esperienza religiosa».
Dove si vede che per il marxista i termini fideismo clericalismo religione cristianesimo deismo, sono parimenti espressione di una tesi nemica, e che gli stessi eterodossi come Bogdanov si vergognavano fino a ieri di avere tolleranze per essi.
Ma oggi si attende una edizione debitamente purgata di Marx e di
Lenin.
Visto che ci siete, non potreste includere la formazione della
commissione
nei Patti Lateranensi?
Merce è una cosa che possegga due proprietà: a) essere utile, ossia atta a soddisfare bisogni umani; b) essere suscettibile di venire permutata con altre merci.
Valore d’uso. Indichiamo con questa espressione la proprietà a). Corrisponde essa ad una grandezza suscettibile di misurazione quantitativa? No, perché il valore d’uso di una stessa merce è mutevole secondo circostanze di tempo, di luogo e di persona. Il valore d’uso è dunque una proprietà qualitativa, ma non può essere trattato come grandezza quantitativa (1).
Valore di scambio: indichiamo così la seconda proprietà della merce, ossia la sua permutabilità.
È il valore di scambio quantitativamente misurabile? E se sì, a quali grandezze note lo si deve ricondurre? Si risponde affermativamente alla prima domanda, perché sebbene a prima vista si presentino tanti scambi isolati tra una quantità d’altre merci, in tutte queste relazioni vi deve essere qualcosa di comune.
Quanto alla seconda domanda, non potremo riferire la misurazione del valore di scambio alle proprietà specifiche che definiscono quello d’uso, come colore, sapore, forma, composizione chimica, ecc., potendosi senza cambiare valore di scambio permutare la merce con altra di qualsivoglia qualità d’uso. Il carattere comune a varie merci indifferentemente permutabili può venire ricondotto solo al fatto che esse sono tutte prodotti del lavoro umano.
Ci proponiamo allora di misurare il valore di scambio riferendoci al lavoro, comune grandezza misurabile. Il lavoro umano è solo misurabile come tempo di lavoro.
Va subito inteso che non si tratta del tempo di lavoro occasionalmente occorso a produrre una data merce, ma può variare per mille circostanze, ma del tempo di lavoro medio occorrente a riprodurla sistematicamente, ossia del tempo di lavoro socialmente necessario.
Il valore di scambio è l’attitudine della merce ad essere scambiata con le altre in un dato rapporto, ed è grandezza misurabile.
Il numero che misurerà il valore di scambio rispetto ad un’unità di misura convenuta, è sempre proporzionale al tempo di lavoro sociale-medio occorrente a produrre una determinata merce, ossia il numero stesso è dato da questo tempo diviso per il tempo di lavoro occorrente a produrre l’unità convenuta del valore di scambio.
La forza produttiva del lavoro medio varia se variano i procedimenti della tecnica. Quando ciò avviene varia il valore di scambio delle merci di quel dato tipo. Ben inteso, varia anche per le merci ancora esistenti, prodotte col sistema non perfezionato e con più lungo tempo di lavoro.
Di qui si vede che è errata anche la formula che il valore sia lavoro cristallizzato ed occorre formulare la legge nei termini precisi prima detti.
Nella merce il lavoro è rappresentato in forma duplice: il valore d’uso è in rapporto alla qualità particolare del lavoro occorrente; il valore di scambio è in rapporto alla quantità di tempo di lavoro umano generico occorrente a riprodurlo.
Parlando di tempo e di forza di lavoro ci si riferisce al lavoro semplice da cui va distinto il lavoro complesso o qualificato. In tutta la trattazione si riduce sempre il lavoro complesso a quello semplice come si vedrà meglio in seguito.
Forme del valore. La merce ha due forme (ossia si presenta – può essere considerata – viene trattata in due modi, sotto due aspetti): la sua forma naturale, per lo più fisica e materiale, e la forma valore.
E sotto quale forma ci appare il valore? In pratica, empiricamente, come dato sperimentale, il valore ci viene sott’occhio nella forma denaro, che in fondo è il prezzo. Si tratta di arrivare a questo dato pratico, a tutti familiare, con un’analisi deduttiva che parta dalla semplice proprietà di scambiarsi che hanno le merci, poiché abbiamo stabilito che in quanto si scambiano in tanto valore (di scambio).
Si prendano le mosse dal fatto più semplice dello scambio tra due partite di merci:
Il valore appare qui in una prima forma che diremo semplice o
particolare.
Abbiamo una eguaglianza, con due membri. Sebbene noi possiamo
come
in qualunque eguaglianza quantitativa cambiarli di posto, tuttavia le
espressioni
x Merce A e y Merce B hanno diverso carattere.
Esprimono
le stesse quantità di valore; ma la quantità y della merce B
serve
a definire quanto vale la merce A. Perciò chiameremo il primo membro forma
relativa, il secondo forma equivalente.
Valore di x merce A | = | Valore di y merce B | = | Valore V | |
forma relativa | forma equivalente |
Se volessimo esprimere con un numero la grandezza assoluta del valore V, ossia esprimendo secondo una unità di misura generale applicabile a tutte le merci A-B-C-D, ecc., non potremo farlo partendo dai dati della formula semplice. Possiamo, infatti, dedurre da questa la relazione:
Valore di x merce A | = | Valore di y merce B | = | Valore V |
ma ciò non ci permette di dire quale è il valore di una unità (Kg., ecc.) di A perché esso dipende dal valore di B. Ora può mutare sia il valore di A che quello di B per mutamenti nel tempo di lavoro occorrente per A e per B, ed allora il rapporto y : x cambia e quindi avremmo diverse espressioni del valore cercato ossia non saremmo ancora giunti alla misura assoluta.
Con la forma semplice la merce che c’interessa non trova che un solo equivalente, e non giungiamo ad una misura generale del valore. Facendo un passo più innanzi, supponiamo di sapere tutti gli equivalenti dalla merce A espressi dalle altre merci che sono sul mercato.
Valore di x merce A | = | Valore di y merce B | = | Valore di z merce C | = | ecc... ecc... | = | Valore V |
Per avere un’idea di tutto il mercato (si pensi all’epoca del baratto in natura) dobbiamo saper scrivere per ogni merce la forma sviluppata suddetta. Se le merci sono n, questa si compone di n‑1 eguaglianze, e in tutto le eguaglianze sono n · (n‑1). Ad es.: per 10 merci dobbiamo conoscere 90 relazioni.
Le n · (n‑1), 90, relazioni non sono però tutte indipendenti, e sono tutte contenute nelle n‑1 o nelle 9 della forma sviluppata. Allora non abbiamo che da rovesciare questa e riferire il valore di tutte le altre n‑1 merci a quello della merce A divenuta unico equivalente o equivalente generale avendo:
y merce B = z merce C = m merce D... = x merce A.
In pratica ciò significa che, generalizzandosi il baratto in natura, per non ricordare 90 relazioni, ma solo 9, si elegge una merce ad equivalente comune di tutte le altre.
Non abbiamo ancora un’espressione assoluta nella misura o quantità di valore, ma ne abbiamo una misura per così dire ufficiale espressa dalla quantità della merce equivalente che corrisponde ad ogni merce speciale. Così i selvaggi ad es. commerciano bestie ed altro esprimendone il valore in libbre di sale.
Con lo svilupparsi del commercio la merce equivalente non solo ha un ufficio mnemonico, ma si scambia, di fatto, con tutte le altre merci, essendo sparito il contatto diretto tra i singoli barattatori. La forma semplice (ad es. una vacca = tre capre) non si realizza più, ma si ha lo scambio tra una vacca e 30 libbre di sale e poi tra 10 libbre di sale e una capra. Ossia il commerciante si interpone tra chi vende la vacca e chi compera la capra, che sono materialmente distanti; ed egli porta seco la merce o l’equivalente sale nell’avvicinare ognuno. Il sale circola non più solo per andare al suo consumo, ma molto più spesso per facilitare la circolazione di tutte le altre merci.
Occorre però che la merce equivalente sia facile a trasportare, di poco volume, assolutamente inalterabile. Tali requisiti furono trovati nell’oro che è divenuto l’equivalente generale, e siamo così passati alla forma denaro del valore.
A questo punto dell’analisi del valore Marx inserisce un capitolo sul “carattere feticcio della merce e il suo segreto”. Tale capitolo è d’indole storica e polemica ed esso presuppone una enunciazione della dottrina del determinismo economico che non forma l’oggetto del Capitale, ma è inseparabile dalle dottrine marxiste sul carattere dell’economia capitalistica.
L’inserzione di tale capitolo non è una digressione e non è il caso di riassumerlo, perché piuttosto andrebbe assai largamente sviluppato.
Nel fare l’analisi delle forme-valori abbiamo applicato alla questione il metodo scientifico positivo. Ma l’oggetto della ricerca non erano fatti di carattere assoluto ed immanente, come ad es.: la natura degli elementi chimici, scoperta nel 1800, ma valevole a discutere tanto le condizioni della nebulosa originaria quanto quelle del lontano futuro dell’universo. Abbiamo dovuto venire sul terreno storico per spiegare i passi della nostra ricerca, collegando la forma semplice del valore con l’epoca del baratto in natura, la forma generale con quella del commercio, ecc., ecc. Quindi i risultati cui tendiamo non hanno carattere immanente ma relativo alle varie epoche e gradi di sviluppo della società.
Non basta ravvisare nel lavoro e nel tempo di lavoro la misura delle quantità di valore senza un’analisi che applichi questa chiave alle varie e diverse economie.
Ciò che resta acquisito per la prima volta da una ricerca come quella marxista è che il valore di scambio non è una proprietà assoluta delle cose, ma il modo di presentarsi dei rapporti di organizzazione sociale. Le cose sono merci perché esiste un dato sistema dei rapporti tra gli uomini che le producono e consumano. È naturale poi che gli economisti che ci hanno preceduto vedano invece nella merce un dato da cui partire, perché essi scambiano per rapporti definitivi e naturali quegli ordinamenti che corrispondono alla società in cui vivono e agli interessi delle classi che rappresentano. E qui va svolta la dottrina della dipendenza delle opinioni dallo stadio di sviluppo economico sociale, e quella delle lotte di classe.
Pregiudizialmente la polemica con gli economisti tradizionali non si pone su un terreno comune ad entrambi, ed essi diventano oggetto passivo più che collaboratori, anche avversi, della ricerca. Ciò che addurranno essi ulteriormente, e magari per un lungo avvenire, non sarà da noi ascoltato, con lo stesso diritto con cui i fondatori della meccanica e dell’astronomia moderna non consideravano materiale di lavoro gli assunti o i procedimenti biblici o peripatetici. Non intendendo questo è inutile sperare di comprendere come l’analisi, partita dal fatto minimo della permuta tra due oggetti, giunga alla dottrina del plusvalore che deve fornire la chiave della interpretazione positiva e storica del meccanismo produttivo contemporaneo.
Noi dunque spogliamo la merce del suo carattere feticcio scoprendo le leggi, che le assegnano un valore e che ci danno modo di misurarlo, nelle relazioni tra gli uomini e i gruppi di uomini per i quali di merce e valore si tratta.
(Il capitolo II, "Il processo di scambio", è implicitamente riassunto nelle considerazioni storiche accennate parallelamente al passaggio dalla forme semplice alla forma moneta).
Abbiamo cercato di definire il valore come quantità misurabile per trattarla col metodo scientifico e trovare le relative leggi. Abbiamo anticipato come ipotesi la conclusione che la quantità valore sia proporzionale al tempo di lavoro sociale medio. Procedendo quindi alla analisi dei fatti sperimentali siamo andati applicando e verificando l’ipotesi. Siano giunti fino alla merce equivalente generale e con un altro passo alla moneta.
Tralasciamo le osservazioni sul mono o bimetallismo.
L’oro con la sua quantità e col suo peso, espresso con la terminologia monetaria, indica dunque con una certa unità di misura il valore delle merci.
In conclusione abbiamo ricondotto la misura cercata al valore dell’oro, ossia, secondo la nostra ipotesi, al tempo di lavoro necessario a produrre l’oro. Sicché il termine di confronto è variabile e quindi possono avvenire oscillazioni generali di ovvia interpretazione.
Il prezzo esprime il rapporto tra il valore della merce considerata ed il valore dell’unità di oro (poniamo, secondo il rapporto originario: libbra = sterlina).
O, il che è lo stesso, il prezzo, secondo noi, esprime il rapporto tra il tempo di lavoro occorrente per la merce e il tempo di lavoro occorrente per la libbra d’oro.
Quando parliamo di tempo di lavoro occorrente, teniamo a distinguerlo dal tempo di lavoro occorso effettivamente per casi specifici, che può essere maggiore o minore per errori o per segreti espedienti del produttore. Inoltre per altre considerazioni il prezzo può esprimere più o meno del valore astratto della merce per le circostanze eccezionali dell’alienazione.
Se, per esempio, pure impiegando il tempo mediamente necessario, tutti i produttori forniscono un dato mercato di una quantità di merce X eccedente il consumo, poniamo, poniamo del 20%, essendovi stato un errore nella divisione sociale del lavoro, il 20% di questo andrà perduto, e ciò potrà anche accadere sotto forma di discesa provvisoria del prezzo al di sotto del valore, rimettendo ogni produttore il 20% del suo tempo di lavoro, come nel caso in cui per imperizia abbia impiegato 6 ore al posto di 5. Può avvenire, nel caso inverso, un beneficio, ossia salita del prezzo oltre il valore.
Non si confonda questo caso con quello di una discesa di prezzi per nuove invenzioni tecniche che diminuiscono il tempo di lavoro occorrente; perché in tal caso è proprio il valore che è disceso e che non risalirà più. Nei casi precedenti, noti fenomeni, provocanti l’apertura di nuove imprese o la chiusura di vecchie, tendono a ristabilire la livellazione tra prezzi e valori.
(Il cavallo vincitore del Derby ha un prezzo elevatissimo perché tra venti cavalli concorrenti i quali hanno assorbito eguali cure (tempo di lavoro) uno solo può raggiungere quel prezzo. Il beneficio di un allevatore pareggia le perdite d’altri 19, ma ciò non toglie che sussista una relazione tra il valore di un cavallo e il tempo di lavoro assorbito dall’allevamento. Soltanto si tratta di una produzione la quale per motivi tecnici non dà una serie d’oggetti eguali, ma prodotti assai diversi per circostanze non prevedibili quando si inizia l’impresa).
Si può dunque parlare di una quantità di valore che non coincide di necessità con la forma prezzo, ma che ne è la base, potendo il prezzo oscillare in più o in meno attorno ad essa. Una ricerca opportuna riuscirà a determinarla.
Così, nelle scienze fisiche, è difficile a prima vista stabilire la massa di un certo corpo, poniamo di una palla di legno. Si sente che essa tende a cadere, e se ne misura il peso: ma questo varia a seconda che siano al polo o all’equatore, a livello del mare o in montagna, nel vuoto o nell’aria, e infine diventa addirittura negativo se pongo la palla in acqua. Ciò non toglie che la quantità costante di massa sia presumibile, misurabile, e adoperabile nel formulare le leggi alla luce delle quali sarà chiara la ragione di tutte quelle variazioni di peso che prima offrivano una congerie di dati contraddittori. Un ulteriore affinamento delle risultanze scientifiche, per cui si stabilisca che la massa di un corpo in moto vari altresì con la sua velocità, non toglie che a buon diritto si sia introdotta a trattata questa grandezza nel campo di fenomeni considerati nella ricerca.
Nacque la scienza meccanica quando si seppe misurare la massa, dato in un certo senso non concreto e sensibile; nasce la scienza economica con la misura della grandezza valore, mentre non si fa scienza se si pretende di doversi limitare a conoscere e a registrare prezzi contingenti, col pretesto che solo questi in realtà si misurano e fissano in cifre.
Seguitiamo ora l’analisi del mercato, esaminando il cammino della merce. Il possessore la porta al mercato, la cede contro una certa quantità di denaro che non gli serve per suo uso, ma solo per acquistare altra merce. Il ciclo è: Merce-Denaro-Merce (M‑D‑M). La seconda parte di questo ciclo (D‑M) è, per il possessore dell’altra merce, la prima parte (M‑D) di un altro ciclo, e così indefinitamente. L’insieme di tutti questi cicli, ognuno dei quali ha una metà comune con un altro, rappresenta la circolazione, secondo lo schema:
M1 → D → M2 → D → M3 → D → M4 → ecc.
Nel movimento di circolazione della merce il denaro passa a sua volta di mano in mano, ma mentre ogni merce arriva sul mercato dall’esterno e subito ne esce, il denaro invece vi rimane sempre.
Non occorre evidentemente tanto denaro in circolazione quanta è la somma dei prezzi delle singole compra-vendite, in un dato periodo, bensì, circolando ogni pezzo d’oro più volte, una somma minore. Si chiama velocità di circolazione in un dato tempo il quoziente tra la somma di tutti i prezzi (cifra degli affari) praticati nel detto tempo e la massa di denaro disponibile.
Si noti, trattandosi di denaro, la transazione dalla pura forma della quantità d’oro alla forma della moneta aurea, che può scendere col suo peso al di sotto del valore teorico, poi alla moneta di spezzato di argento e metalli non nobili con valore in parte convenzionale, infine alla carta moneta con valore puramente figurativo: tutte forme che, in condizioni normali, non alterano i rapporti di circolazione fra denaro e merci.
Il denaro però può assumere altre funzioni oltre a quelle di pura misura del valore di merci o di veicolo per il loro scambio. Tali forme sono: la tesaurizzazione o accumulazione: il deposito per far fronte a pagamenti anticipati o ritardati rispetto al momento in cui la merce cambia di possessore (giuoco del debito e credito); la moneta universale o elemento di compenso per gli scambi fra nazioni, in cui i passaggi di oro appunto compensano gli squilibri delle bilance commerciali, essendo in questo senso l’oro l’unica moneta a validità effettivamente mondiale. Oggi, cosa che non si presentava al tempo dell’indagine di Marx, non più il solo oro, ma una moneta cartacea sta assumendo la validità mondiale, e circola senza cambiarsi con altre monete nazionali: il dollaro.
Lo studio dettagliato di questi fenomeni economici non è
indispensabile
prima di procedere a quello della trasformazione del denaro in
capitale,
che si riallaccia come punto di partenza alle leggi di circolazione, in
cui sono in gioco la merce e il denaro.
Sezione II
TRASFORMAZIONE DEL DENARO IN CAPITALE
La formula della circolazione monetaria della merce è dunque M‑D‑M, se si considera colui che porta merce per cambiarla con altro diverso valore d’uso ma avente, salvo circostanze secondarie, la stessa quantità di valore (di scambio). Per costui il denaro è solo segno di valore e veicolo di scambio. Ma nel complesso del sistema mercantile la moneta introduce subito nuovi rapporti e nuovi personaggi, il cui intervento rende possibile agli altri lo scambio dei valori d’uso. Costoro usano il denaro e con esso comprano merce che rivendono per altro denaro. La circolazione, da questo secondo punto di vista, è rappresentata dalla formula D‑M‑D. L’intervento di questa seconda schiera di personaggi non si spiega senza un movente.
Questo non è nella ricerca di valori d’uso, ché il loro denaro ritorna alla fine denaro, senza mutamenti qualitativi. Adunque non può esservi scopo e movente che in un mutamento quantitativo. Mentre nel caso M‑D‑M a valore costante si spiega l’opportunità del movimento, non lo si spiegherebbe più nel caso D‑M‑D se la somma di denaro rimanesse la stessa dopo la compra e la rivendita. Non potendo essere la filantropia o altra forza ideale il motore dei portatori di denaro, questo si determina nel fatto che in generale il denaro la seconda volta è in quantità maggiore che la prima. La formula diviene così D‑M‑D’ in cui D’ = D + ΔD, ossia al primitivo denaro D si è aggiunto un aumento o incremento ΔD (Delta D). Tale aumento riceve il nome plusvalore o sopravalore.
Lo scopo e la causa del movimento di denaro negli scambi per il possessore di denaro è la produzione di questo sopravalore, che immediatamente sommato al preesistente valore rientra nel ciclo per accrescersi a sua volta.
È così che il denaro, da semplice simbolo di valore e veicolo di scambio, diviene di necessità CAPITALE.
Il capitale è valore la cui caratteristica è di aumentarsi continuamente.
Un sistema mercantile, una volta superato lo stadio del baratto in natura, deve sboccare nel capitalismo.
In questa definizione compendiata nella formula D‑M‑D’ parrebbe considerato il solo capitale commerciale ossia quello che è nelle mani dei portatori di denaro che per professione soggiornano sul mercato offrendo merci acquistate dai produttori.
Ma anche per il capitale industriale vi è denaro che si trasforma in merce e che ritorna denaro con la con la vendita di questa ultima, ciò che formerà oggetto della trattazione ulteriore.
Marx all’inizio di questa Sezione stabilisce – in uno dei fondamentali riferimenti storici che fiancheggiano lo svolgimento illustrativo del processo capitalistico – che «il capitale appare soltanto laddove la produzione e la circolazione delle merci, il commercio, hanno raggiunto un certo sviluppo. La storia moderna del capitale data dalla creazione del commercio e del mercato mondiale nel sedicesimo secolo».
La forma pura D-D’ rappresenta poi l’usura, in cui non vi è passaggio attraverso la merce. Usura è detta qui nel senso d’ogni collocamento di denaro per interesse.
A D-D potremo ridurre la formula della tesaurizzazione che sottrae il denaro alla circolazione ma per ciò stesso gli toglie la possibilità di generare plusvalore, e quindi non è ancora forma capitale.
Il plusvalore, ossia l’aumento ΔD che ha subito la somma D nel divenire D’, non ha potuto né potrà mai essere spiegato nel campo della sola circolazione.
Tutti i tentativi fatti in tal senso cadono dinanzi al fatto elementare che la circolazione consta di una serie di scambi tra equivalenti.
Si possono indicare moltissime eccezioni a questa legge, ma esse non valgono a spiegare perché, non in via d’eccezione, ma in via regolare si verifica l’aumento da D a D’.
Se si attribuisce alla compera la virtù di arrecare uno squilibrio a favore di che reca il denaro, oppure tale virtù si attribuisce alla vendita, poiché sia nel semplice giro D‑M‑D, sia nel complesso della circolazione ogni interessato appare tante volte come venditore quante come compratore, le supposte differenze si compensano in una parità generale. Lo stesso se tutti i prezzi salissero o scendessero insieme.
La spiegazione che il permutante che compera per consumare paga più caro di quello che vende avendo prodotto non regge neppure perché il consumatore trae suo denaro dal fatto di essere stato a sua volta produttore. Si dovrebbero dunque supporre dei consumatori che traggono del valore da altro che non sia il lavoro produttivo ossia non attraverso lo scambio. Tale classe riceverebbe dunque il denaro non per atti della circolazione ma privando o estorcendo nel senso materiale la merce o il denaro altrui, spiegazione inadeguata all’epoca mercantile.
Non vale nemmeno il citare compre-vendite eccezionalmente sproporzionate o anche fraudolente perché così si spiegano bensì trapassi di valori speciali da una mano all’altra, ma non già la formazione della minima parte di plusvalore.
Inseriamo una parentesi per mostrare che nemmeno il regime di sindacato o addirittura di monopolio dei produttori può spiegare la genesi normale di plusvalore nella sfera circolatoria. Se in regime mercantile ordinario della libera concorrenza un produttore della merce A fosse padrone di elevarne il prezzo, ecco che egli avrebbe realizzato un plusvalore. Ma ciò non accade mai essendo evidente che i compratori lo abbandoneranno per rivolgersi agli altri venditori della stessa merce, sicché questo giuoco, a parte i fenomeni secondari, mantiene tutti i prezzi ad un livello minimo corrispondente al valore di scambio. Ora, potrebbe dirsi, tutti o parte i produttori della merce A s’intendono per elevare arbitrariamente il prezzo; ecco eluso il gioco della concorrenza e realizzato un plusvalore puramente circolatorio.
A tale obiezione si replica che se vogliamo al sistema generale e tipico della libera concorrenza sostituire nell’analisi un sistema stabile di monopoli e non uno stadio di trapasso che resterà sempre da esaminare ma che serve alla applicazione e non alla investigazione delle leggi generali, allora siamo condotti a considerare che tutti i gruppi di produttori finiranno per monopolizzarsi vendendosi reciprocamente le merci a prezzi sopraelevati ma che ricadranno in equilibrio di compenso. Ci troveremo così al medesimo punto. Gli accorti monopolizzatori avranno realizzato in uno stadio intermedio una appropriazione di valori a carico dei monopolizzatori ritardatari, non già prodotto del plusvalore.
In conclusione il problema si riduce in questi termini apparentemente contraddittorî: nella circolazione gli scambi avvengono solo tra equivalenti; il denaro circolante come capitale attraversando la circolazione ne esce aumentato.
Nel cercare la soluzione non si perda di vista che per una società economica capitalista in assetto stabile e normali entrambi gli enunciati hanno valore sistematico ossia si realizzano nella grande maggioranza dei casi, talché il citare casi particolari e momenti di instabilità non può servire ad eludere la necessità di dare una soluzione altrettanto generale al "sistema di equazioni" che possiamo scrivere:
Valore di D = valore di M Valore di M = valore di D’ Valore di D’ maggiore del valore di D. |
Vedremo perché le equazioni non sono incompatibili, come si constaterebbe se dessimo loro un senso puramente aritmetico – o, in altre parole, perché questa patente contraddizione alle regole logiche formali del sillogismo (contraddizione che, come Marx ricorda, Aristotele scorse, ma non seppe spiegare, né poteva con i dati del suo tempo spiegare) si attua nella realtà della vita economica, dacché in questa si genera il Capitale.
In quale stadio del processo può aver nascita l’aumento del valore? Non può venire dal denaro per sé stesso poiché una quantità di denaro resta materialmente inalterabile. Adunque l’aumento sorge dallo scambio di denaro con merce. Non può sorgere dal secondo atto M‑D’ come non può sorgere dal primo D‑M se sono scambî tra equivalenti.
La scoperta fondamentale di Marx è questa: l’aumento di valore non può sorgere dai due scambî; esso sorge, però dall’uso della merce, in quanto esiste sul mercato una merce il cui uso coincide con una sistematica elevazione del suo valore di scambio.
Se l’uso di una merce produce valore, e se il valore corrisponde a disponibilità di tempo di lavoro, la misteriosa merce in questione deve essere tale da porre a disposizione lavoro umano: tale merce è appunto il lavoro, o, più propriamente, la forza di lavoro.
Sotto certe condizioni storiche, mentre chi compera una qualunque merce la rivende in generale per la stessa somma di denaro (valore), chi compera forza lavoro la paga ad una certa cifra mentre la rivende sistematicamente per una cifra maggiore. Quelle che il compratore di forza lavoro rivende sono in realtà merci materiali alle quali ha fatto subire trasformazioni applicando loro la forza lavoro acquistata. Ciò avviene quando il lavoratore, o possessore di forza lavoro, per le condizioni giuridiche e sociali non può prendere contatto con la merce da trasformare (materia prima) sia perché, non essendo possessore di denaro, non può anticipare il valore della materia prima stessa, sia perché occorrono alla trasformazione lavorativa mezzi tecnici (strumenti di lavoro, concentramento di gran numero di lavoratori) che sono monopolio altrui (dei possessori di denaro o capitale).
Vi è un’altra condizione: cioè che il lavoratore sia libero, perché egli deve restare possessore della propria forza di lavoro per poterla vendere a porzioni (periodi di tempo). Qualora egli la potesse o dovesse vendere o cedere tutta in una volta diverrebbe egli stesso merce (schiavismo).
Dunque in certe condizioni storiche, che non sono sempre esistite, come non possono pretendere di dover sempre esistere nell’avvenire, condizioni che chiamiamo proprie dell’epoca capitalistica, si realizza la produzione di plusvalore, e l’accumulazione di esso al capitale, mediante la compra-vendita della forza lavoro, ossia mediante la organizzazione del salariato da parte di coloro che posseggono il denaro e gli strumenti tecnici del lavoro.
Il plusvalore e il capitale come fenomeni economici appaiono più tardi dello scambio e del valore di scambio, e anche più tardi della moneta.
Dapprima (ripercorrendo rapidamente le principalissime fasi storiche dell’economia) ciascuno consuma per se ciò che ha prodotto; i prodotti non sono ancora merci e non hanno altro valore che valore d’uso. Quindi appare, sia pure per una minima quota della merce dei prodotti, il baratto ossia un embrione di divisione del lavoro produttivo. Coll’aumentare del volume degli scambî compare la merce equivalente generale, e poi la moneta. Siamo in pieno dominio del valore di scambio e della mercatura, ma non è detto che siamo già in presenza di produzione di plusvalore e di capitalismo.
Sembrerebbe che il lucro realizzato dai commercianti di prodotti altrui, che compare con lo scambio e forse anche prima della moneta, fosse già un plusvalore realizzato da non produttori. Ciò è erroneo, perché il trasporto delle merci dal luogo di produzione al luogo di consumo è un atto produttivo in quanto esige tempo di lavoro umano. Il piccolo commerciante che lo esegue con i propri mezzi ha una figura sociale parallela a quella dell’artigiano che vende il suo prodotto più caro della materia prima, avendovi aggiunto lavoro e valore (di scambio), ma senza che possa parlarsi di plusvalore. Se anche il commerciante fa le cose in grande, grazie all’opera di schiavi, non vi è plusvalore ma semplice appropriazione di forza lavoro umana (come per quella degli animali domestici). Quando il commerciante impiegherà salariati agli atti del commercio, allora realizzerà plusvalore, ma non nelle sfera della circolazione, bensì in quella di una impresa organizzata capitalisticamente. Non bisogna confondere col plusvalore, fatto normale generale, fenomeno sempre a segno positivo, i benefici di accaparramento e speculazione che sono fenomeni a doppio segno compensati da una massa eguale di perdite nella sfera della circolazione.
Potremmo parlare, ripetiamo, di plusvalore allorché vi sarà sul mercato il libero lavoratore di fronte al capitalista possessore di mezzi di produzione.
Come viene stabilita la cifra di pagamento delle merce forza lavoro (salariato)? Come per ogni altra merce, chi la cerca la paga il minimo possibile ossia corre altrove se altrove gliela offrono a condizioni migliori; sicché il prezzo tende a raggiungere un minimo, determinato dal tempo di lavoro necessario a produrre quella merce.
La forza lavoro è merce anche in questo senso, poiché per produrla il lavoratore deve provvedere al dispendio del proprio organismo, ossia deve procurarsi:
1° i mezzi di sussistenza personali, come alimenti ed un minimo di soddisfazione d’altri bisogni;
2° i mezzi di sussistenza per la sua famiglia (senza di che si estinguerebbe la classe dei lavoratori);
3° l’educazione professionale, che anche comporta tempo e spese.
Questo minimo è riducibile ad una somma di merci che, richieste ai produttori, e comunque ai possessori, devono essere pagate ad un prezzo determinato dal tempo di lavoro necessario a produrle (giusta la nostra ipotesi fondamentale). Questo prezzo sarà richiesto dal lavoratore per alienare la sua forza lavoro (in condizioni medie, ossia prescindendo da interferenze di fenomeni eccezionali).
Avvenuta così la compra-vendita della forza lavoro, il capitalista divenutone padrone la impiega. (Trascuriamo qui l’altro beneficio di impiegarla prima di averla effettivamente pagata, grazie all’uso di pagare i salari a periodi posticipati).
L’impiego della forza lavoro, acquistata al giusto prezzo, viene fatto applicandola a materie prime egualmente acquistate a giusto prezzo.
Per comprendere come il giusto prezzo di vendita delle merci finite rimaste a disposizione del capitalista superi la somma dei
giusti prezzi pagati (nascita del plus-valore) occorre passare dal campo
della circolazione, dove tutto procede in nome della pura equivalenza e
della piena libertà, allo studio di quello della produzione, dove invece si scoprono le basi della disequivalenza o plus‑valenza e della divisione in classi.
Ogni processo di lavoro indipendentemente dal tipo di organizzazione sociale consta di tre elementi: attività personale dell’uomo, o forza lavoro; oggetto del lavoro, o materia prima (trovata in natura ma sempre con la aggiunta di un lavoro precedente); mezzo di lavoro, o strumenti di produzione.
Fin quando siamo in presenza di lavoratori autonomi (artigiani) essi posseggono la propria forza lavoro, la materia prima, gli strumenti di lavoro. Di conseguenza il risultato del processo lavorativo, o prodotto, appartiene ad essi.
Nel sistema capitalistico al lavoratore appartiene la sola forza lavoro; ma egli la vende, sicché ne diviene proprietario il capitalista. A costui appartengono anche materie prime e strumenti di lavoro: di pieno diritto gli appartengono i prodotti.
La trasformazione del denaro in capitale, la formazione del plusvalore appaiono insieme alla separazione del lavoratore dallo strumento di lavoro e dal prodotto del suo lavoro.
Consideriamo dunque il processo produttivo dal punto di vista del capitalista. Costui va sul mercato e ne ritorna avendo acquistato – al loro giusto prezzo e valore – tanto la materia prima, quanto gli strumenti di lavoro, quanto la forza lavoro.
Applica la forza di lavoro dei suoi operai, per mezzo degli strumenti di lavoro, alla materia prima e ne riceve una certa somma di prodotti. Ritorna al mercato e li vende.
Preoccupiamoci di esaminare quantitativamente un tale movimento di valore.
Chiamiamo con V il valore della forza lavoro (salari pagati), con A il valore di quella parte degli strumenti produttivi logorata nel gruppo di operazioni che consideriamo, con B il valore delle materie prime impiegate; infine con F il valore dei prodotti ricavati.
È chiaro che F contiene integralmente i valori di A e B ossia strumenti produttivi e materia prima acquistata al mercato. Secondo la nostra ipotesi fondamentale tali valori dipendono dal tempo di lavoro occorrente a produrre tali strumenti e materie.
Quanto al valore della forza lavoro V esso, come abbiamo visto, è in relazione al tempo di lavoro occorrente per i mezzi di sussistenza dei lavoratori.
Ogni merce, come le materie e gli strumenti, possiede un valore di scambio in quanto possiede a sua volta un valore d’uso, ma in maniera che i due valori non sono confrontabili, né comunicabili tra loro (ad es.: posso ridurre il valore di un chilo di zucchero a tre ore di lavoro, ma non posso riferire il suo valore d’uso come alimento ad un tempo di lavoro, ma solo a qualità chimiche, organolettiche ecc. dello zucchero). Invece per la speciale merce forza lavoro, se il valore di scambio, o prezzo di mercato, deriva come sempre da un tempo di lavoro (necessario ai mezzi di sussistenza come ora detto) anche il valore d’uso si presta ad essere misurato proprio in tempo di lavoro, perché l’uso di questa merce è proprio il lavoro: uso da parte del capitalista acquirente del lavoro del salariato venditore.
Dovendo poi il valore di F (prodotto) constare del tempo di lavoro necessario a mettere insieme completamente i prodotti considerati, è chiaro che avremo:
Una eguaglianza tra tempi di lavoro si traduce in una eguaglianza tra i rispettivi valori di scambio.
Ma per la merce forza lavoro dobbiamo considerare non più il suo valore di scambio (salario), ma quello di uso, riducendosi questo al tempo di lavoro.
Se, per fissare le idee, ogni ora di lavoro corrisponde al valore di £.3, il tempo di lavoro delle materie prime, poiché valgono B sterline, sarà B:3; degli strumenti produttivi A:3; del prodotto F:3. Se l’operaio ha lavorato 10 ore, la uguaglianza tra i tempi di lavoro prima scritta diviene:
F
£3 |
= | B
£3 |
+ | A
£3 |
+ | 10 (tutto espresso in ore) |
Tornando ai valori:
F = B + A + 10·£3 (espresso in sterline).
Ciò è quanto ricava il capitalista dalla vendita del prodotto. La cifra B e la cifra A le ha spese integralmente perché significano valore di scambio, ossia prezzi del mercato.
Ma la cifra 10·£3 non rappresenta il valore di scambio bensì il valore di uso della forza lavoro (10 ore di lavoro realmente prestato, per £.3, rapporto generale per misurare i valori in tempo lavoro).
Che cosa costano al capitalista quelle 10 ore di forza lavoro? Il loro costo l’abbiamo indicato con V che è il loro valore di scambio, il loro prezzo (salario). Ora, dipendendo tal valore dai mezzi di sussistenza e dal tempo da questi assorbito, esso è indipendente dal tempo 10 ore desunte dal consumo, e non dalla produzione, della forza lavoro. Se un’altra squadra di lavoranti fosse impiegata a procurare cibi, vestiari, ecc. agli operai del capitalista che lavorano 10 ore, è chiaro che basterebbe per ognuno e per ogni giornata un tempo minore di lavoro: poniamo 6 ore. A parte il nuovo plusvalore che ricadrebbe sui lavoranti suddetti, se a loro volta salariati, o supponendo questi lavoratori autonomi, il prezzo V sarà determinato da quelle 6 ore moltiplicato £.3.
Che il tempo di 6 ore ci sia risultato inferiore a quello di 10 non è una nostra supposizione, ma un fatto desumibile non solo da appositi calcoli, seppure laboriosi, ma dal dato stesso della esistenza del capitalismo e dei suoi profitti, che noi stiamo solo procurando di ritrovare, partendo dalla nostra ipotesi sul lavoro. Allora la spesa V per forza lavoro è 6·£3. La spesa totale risulta:
B + A + 6·£3
Il ricavato della vendita del prodotto era:
F = B+A+10·£3 = (B+A+6·£3)+(4·£3)
Abbiamo per il capitalista un beneficio di 4·£3 = £.12 che rappresenta il plusvalore nell’operazione produttiva considerata.
Il quesito che ci siamo posti sin dal principio è quello di rappresentare con leggi quantitative i fenomeni dell’economia presente.
L’esperienza ci fornisce dati di fatto:
a) abbiamo una economia mercantile, ossia i prodotti di lavoro divengono merci suscettibili di scambio, e lo scambio si fa a mezzo dell’equivalente generale detto moneta;
b) chi è possessore di denaro può servirsene per acquistare gli strumenti di produzione e trarre dalla produzione a mezzo di salariati un beneficio, un plusvalore (abbiamo una economia anche capitalista).
Accettando il dato di fatto che la misura del valore di scambio è espressa dalla quantità di moneta che si dà per una merce, ossia dal suo prezzo sul mercato, quando ci poniamo nelle condizioni medie, normali e generali, abbiamo enunciata l’ipotesi che tale valore sia proporzionale al tempo di lavoro occorrente a riprodurre quella merce, sempre in condizioni medie, normali e generali.
Esaminati analiticamente i fenomeni dello scambio, dal baratto alla introduzione della merce equivalente generale, alla funzione della moneta – eliminate tutte le obbiezioni relative a scambi speciali e a circostanze eccezionali e tutti quegli scarti dalla media che possono avvenire in più o meno – abbiamo dimostrato che nel campo circolatorio non hanno luogo altro che scambi tra equivalenti.
Tuttavia per spiegare il fatto che il possessore di denaro diventa possessore di capitale e realizza un beneficio che ha come punti di partenza e di arrivo scambi sul mercato, abbiamo scoperto ed enunciato che ciò si deve all’acquisto di una merce speciale, la forza lavoro, la quale, mentre per la sua produzione esige un tempo dato di lavoro, nel suo consumo pone a disposizione un tempo di lavoro maggiore.
Tale merce è pagata di fatto, ed in conformità alla nostra ipotesi, ad un prezzo (salario) proporzionale al suo tempo di lavoro di produzione (sussistenza). Essa però trasmette al prodotto un tempo di lavoro maggiore, e quindi un valore di scambio maggiore, da cui il plusvalore.
Il significato di tutto ciò nel campo sociale è il seguente: fin quando il lavoratore (artigiano) riesce a non separarsi dallo strumento di lavoro e dal prodotto del lavoro, e vende questo a suo totale beneficio, ricupera nel valore di scambio di questo l’intero suo tempo di lavoro.
Ma quando – per l’accumulazione del denaro da una parte (di cui per ora non discutiamo le origini: schiavismo, feudalismo terriero, ecc.) e dall’altra per la scoperta di mezzi tecnici, che diminuiscono il tempo di lavoro occorrente ad un dato prodotto con l’uso di macchine, e per il concentramento di molti operai – appare il capitalismo, il prezzo del prodotto dell’artigiano discende: infatti il suo valore di scambio si adegua al minimo tempo di lavoro necessario tecnicamente. Poco importa sul mercato che l’artigiano con procedimenti superati vi abbia impiegato un tempo maggiore.
Supponiamo che i prezzi scendano tanto da non compensare il minimo bisogno dell’artigiano, per es. dovendo questi cedere al prezzo di 3 ore di lavoro il prodotto di un lavoro di 12 ore, mentre i suoi mezzi di sussistenza valgono 6 ore. All’artigiano non resterà per vivere che vendere la sua forza lavoro, per il suo valore di scambio di 6 ore, lavorando 12 ore per il capitalista che, quadruplicando il rendimento del suo lavoro, è in grado di pagare 6 ore la forza lavoro che sul mercato non riusciva a tradursi che in 3 ore.
Abbiamo dunque soddisfacentemente spiegato il fenomeno fondamentale dell’economia capitalistica, in rapporto anche a quelle che l’hanno preceduta, formulando una importante conseguenza della teoria del valore (enunciata la prima volta da Ricardo): la dottrina del plusvalore (scoperta centrale di Marx) già contenuta nelle tesi: sul mercato si ha scambio tra equivalenti; tutto il profitto del capitale sorge dall’acquisto e dall’impiego della forza lavoro.
Di tale dottrina ci rimangono da formulare le leggi quantitative (3).
[Prometeo, n. 7, maggio-giugno 1947]
Come abbiamo veduto, il denaro anticipato dal capitalista per acquistare i mezzi di produzione, materie prime e strumenti di lavoro, ricompare integralmente nel prezzo del prodotto. È perciò che a tale parte del capitale diamo il nome di capitale costante.
Le materie prime sono di doppia specie: alcune ricompaiono nel prodotto, altre spariscono all’atto dell’impiego, come i combustibili, e si dicono ausiliarie; gli strumenti di lavoro, come macchine, impianti, edifizi, sono da considerare per la frazione di logorio, che risulta dal loro valore totale e dalla loro durata.
Il denaro anticipato invece per il salario degli operai, ossia per l’acquisto della forza lavoro, ricompare nella vendita dei prodotti aumentato del plusvalore e lo chiameremo capitale variabile.
Avevamo riassunto il bilancio dell’operazione capitalistica nelle due formule:
– spese:
B + A + V (materie prime + logorio strumenti + salari)
– entrate:
B + A + V + Plusvalore = F (valore dei prodotti)
Avremo: B + A = capitale costante, che indichiamo con C, e V = capitale variabile.
Chiamando K il capitale totale anticipato, S il plusvalore, K’ il capitale ricavato alla fine, avremo:
K = C + V K’ = C + V + S = K + S |
Più che conoscere caso per caso la quantità assoluta del plusvalore realizzato dal capitalista, interessa conoscere il rapporto in cui il plusvalore sta col capitale che lo ha prodotto.
È importantissimo rilevare che il capitale che effettivamente è suscettibile di produrre plusvalore è quello anticipato per la forza lavoro, ossia il capitale variabile V. Quanto al capitale costante C esso ricompare integralmente nel prodotto e di per sé stesso non dà luogo a nessun incremento.
È per ciò che volendo definire una quantità la cui misura ci dia l’idea della intensità di produzione di plusvalore, Marx assume come saggio del plusvalore non il rapporto di questo a tutto il capitale, ma il rapporto al solo capitale variabile.
Dunque, indicato con s il saggio del plusvalore,
s | = | S
V |
Nell’esempio quantitativo da noi dato V era 6·£.3 = £.18.
Il plusvalore era 10·£.3 - 6·£.3 = 4·£.3 = £.12.
Il saggio del plusvalore è s = £.12 / £.18 = 66,66%.
Passando ora ad esaminare il tempo di lavoro, e riferendoci per fissare le idee ad una sola giornata di un solo operaio e al numero di ore di cui si compone, che chiameremo t (nell’esempio 10 ore) si definisce una nuova quantità: il lavoro necessario ed il relativo tempo di lavoro necessario. Si intende per tale il tempo o numero d’ore che l’operaio dovrebbe lavorare per trasmettere al prodotto un valore esattamente uguale a quello che gli è stato pagato per la sua forza lavoro. Nel nostro caso l’operaio è stato pagato in ragione di £.18 ossia 6 ore di lavoro. Se egli lavorasse 6 ore riprodurrebbe esattamente il valore a lui pagato come salario, ossia quello equivalente alle sue sussistenze: in tal caso scomparirebbe il plusvalore e con esso la ragione di essere dell’impresa capitalistica.
Ma l’operaio lavora 10 ore in luogo di 6, e noi distinguiamo le 10 ore in 6 di lavoro necessario e 4 che chiameremo di pluslavoro, chiamando questo tempo anche tempo di sopralavoro.
Ripetiamo: tempo di lavoro necessario è quello che basterebbe a riprodurre il valore del salario; tempo di sopralavoro o pluslavoro quello in più che l’operaio lavora, e che produce la differenza di valore, o plusvalore, a beneficio del capitalista.
Se i valori sono proporzionali ai tempi di lavoro in cui vengono prodotti si ha:
Tempo di pluslavoro | Plusvalore | |
= | ||
Tempo di lavoro necessario | Capitale variabile o salario |
Questi due rapporti si riducono a quello già noto come saggio del plusvalore, da cui il teorema: il pluslavoro diviso per il lavoro necessario dà il saggio del plusvalore.
Nel nostro esempio la proporzione scritta sarà:
È possibile mostrare la cosa anche per altra via.
Riepiloghiamo le notazioni; ricordando che ci riferiamo ad un solo operaio e ad una sola giornata di lavoro:
V = capitale variabile o salario giornaliero S = plusvalore s = saggio del plusvalore, ossia S:V t = numero delle ore di lavoro n = ore di lavoro necessarie e = ore di pluslavoro z = produzione di valore oraria. |
L’operaio trasmette al prodotto il valore (fatta astrazione del capitale costante) V + S, lavorando t ore. Adunque in un’ora l’operaio produce il valore:
z | = | V + S
t |
Ora vogliamo calcolare il tempo di lavoro necessario n in cui l’operaio produce il valore V. Per definizione in n ore l’operaio produce il valore
V = n·z
n = V:z
Quindi, sapendo la produzione di valore oraria, basta una divisione:
n | = | t | V
V + S |
Abbiamo così trovato n.
Semplicissimo è il calcolo di e (pluslavoro):
e | = | t - n | = | t - | t V
V+S |
= | t V + t S - t V
V + S |
= | t | S
V + S |
Il problema era trovare il rapporto tra e (pluslavoro) e n (lavoro necessario); dividendo l’una per l’altra le rispettive formule, si ha:
e : n | = |
t S
V + S | : | t V
V + S |
= | S : V | = | s |
Resta quindi dimostrata la proporzione fondamentale che qui ripetiamo per chiarezza: il pluslavoro sta al lavoro necessario come il plusvalore sta al capitale salario; questo rapporto comune è il saggio del plusvalore.
Per dimostrare che il riferire il plusvalore al solo salario e non a tutto il capitale non è una convinzione arbitraria, facciamo l’esempio di una impresa nella quale venga a cambiare la proporzionale del capitale costante col capitale variabile, rimanendo inalterato il valore di scambio o prezzo dei prodotti, quello delle materie prime e strumenti di lavoro, singolarmente, nonché il salario e la giornata di lavoro.
Se il prezzo del lavoro finito deve restare lo stesso, rappresentando esso un tempo di lavoro, non dobbiamo immaginare un mutamento nei procedimenti tecnici di produzione: ma noi possiamo scegliere un esempio (probante del resto anche per chi non parte dalla nostra teoria del valore) in cui la impresa venga ad incorporare anche uno stadio precedente della lavorazione, producendo direttamente quanto prima acquistava sul mercato.
Così un’acciaieria che prima acquistava la ghisa per convertirla in acciaio, prenda a lavorare direttamente il minerale di ferro, da cui proviene la ghisa (vedi in simboli al §20).
È chiaro che il capitalista spenderà meno in materie prime, costando il minerale assai meno della ghisa, e, sebbene ci sia un relativo aumento degli strumenti di lavoro, diminuirà la quota di capitale costante rispetto al totale.
Anche volgarmente si riconosce che il capitalista realizzerà un profitto maggiore, in quanto cumulerà il profitto di due aziende preesistenti. Ma realizzerà un profitto maggiore anche a parità di capitale totale anticipato poiché, sebbene per ogni chilo di acciaio egli avrà anche l’onere del nuovo impianto producente ghisa, tale onere egli lo pagava anche prima nel prezzo di mercato della ghisa, anzi aumentato del profitto del produttore di ghisa.
In altri termini il capitale anticipato per una operazione lavorativa è sempre compreso nel prezzo di vendita del relativo stock di prodotto, quindi a parità di potenzialità finanziaria il capitalista potrà produrre lo stesso numero se non più di chilogrammi di acciaio.
Ma su tale cifra il suo guadagno è aumentato; e ciò perché il capitale investito per ottenere il chilo di acciaio contiene ora meno spese per materie prime e più spesa per acquisto di forza lavoro. Dunque è la quantità di capitale salario che, a parità di trattamento dei lavoratori, a parità di condizioni del mercato, varia proporzionalmente al guadagno del capitalista. Si deve quindi riferire il plusvalore alla massa del solo capitale salario e non a quella di tutto il capitale.
E ciò è valido anche socialmente parlando, poiché sulle varie quote di capitale costante vertono altre quote di plusvalore delle lavorazioni precedenti, ammesso che si siano effettuate col meccanismo capitalistico. Il capitale ghisa era, per la parte non rappresentata da minerale di ferro e logorio impianti, già affetto da plusvalore, incassato dal venditore di ghisa; il capitale minerale di ferro per il capitalista della miniera era affetto da plusvalore tratto dal pluslavoro dei minatori; e analogamente può dirsi per gli impianti meccanici dell’industria dell’acciaio, della ghisa, nella miniera, riuscendo finalmente soddisfacente – al di fuori delle piacevolezze sui pescatori di perle e simili – la nostra spiegazione che, sia qualitativamente che quantitativamente, scopre in ogni valore di scambio un tempo di lavoro, e in ogni profitto un pluslavoro.
Marx avverte di non cadere nel grossolano errore di confondere il saggio del plusvalore col saggio del profitto. L’economia volgare intende per saggio del profitto il rapporto tra il guadagno netto del capitalista (differenza tra le entrate e le spese di un certo periodo, per es. un anno, a condizione che resti inalterato il valore "patrimoniale" di tutti gli impianti e compensata ogni passività) e il valore totale del capitale investito negli impianti aumentato della somma di denaro necessaria per far fronte agli acquisti di materie prime, al pagamento dei salari, ecc.
L’economia volgare distingue anche nel profitto un interesse da pagare per i capitali investiti, e la ulteriore differenza, o profitto vero e proprio dell’imprenditore.
Non è ora il caso di spingere più innanzi il confronto fra tale computo e le calcolazioni da noi seguite. Basti considerare che il conteggio del tempo comprende l’aver noi tenuto presente un intero ciclo lavorativo, ad es.: quello per cui si perviene al chilo di acciaio. Più aumenta l’intensità nel tempo e l’estensione di tale atto produttivo, più aumenta il guadagno dell’imprenditore e in generale anche il saggio del profitto.
Il saggio del plusvalore dipende invece dal grado di sfruttamento della forza lavoro ed è sempre molto più alto; i facili esempi di Marx mostrano che a saggi di profitto, ad es. del 10-15%, può corrispondere un saggio del plusvalore anche del 100%.
Tuttavia come esercizio di applicazione di quanto precede si potrebbe istituire il calcolo sul profitto in una azienda che si trasformasse nella maniera indicata nell’esempio dell’acciaieria, supponendo cifre concrete per i prezzi e quantità di minerali, ghisa, acciaio, per i salari, le ore di lavoro, le giornate annue di lavoro ecc.
Abbiamo dato inizialmente l’esempio del prodotto di valore F il quale si componeva del valore di materie prime e strumenti logorati (B + A = C, capitale costante) e del valore generato nella giornata di 10 ore di lavoro. Facevamo corrispondere il valore di scambio di £.3 ad ogni ora di lavoro.
Supponiamo ora che il valore C sia di £.60. Avremmo allora:
F = C + 10·£.3 = £.60 + £.30 = £.90.
Delle £.30 di valore aggiunte dall’operaio, 18 = 6·£.3 rappresentavano il salario, il capitale variabile; 12 = 4·£.3 rappresentavano il plusvalore.
Supponiamo ora che il prodotto, del prezzo di £.90, pesi Kg.1.800.
Come abbiamo £.90 = £.60 + £.18 + £.12, possiamo porre: Kg.1.800 = Kg.1.200 + Kg.360 + Kg.240.
Allora avremmo rappresentato in parti proporzionali del prodotto gli elementi che ne costituiscono il valore.
Kg.1.200, ovvero £.60, rappresentano il capitale costante, Kg.360, ovvero £.18, rappresentano il capitale salario (o capitale variabile), Kg.240, ovvero £.12, rappresentano il plusvalore. Sommando queste ultime due parti, Kg.600, ovvero £.30, ovvero 10 ore di lavoro rappresenterebbero il valore totale prodotto dal lavoro (tanto del lavoro necessario quanto del pluslavoro).
Questa suddivisione è legittima, ma affatto convenzionale, essa non interpreta il processo produttivo. Le £.60, materia prima e usura macchina, in quanto parte del prodotto, preesistono all’applicazione del lavoro, ma né una sterlina né un grammo se ne può avere senza lavoro. Abbiamo qui una pura esercitazione convenzionale. Bisogna convincersi che di natura ben diversa è la nostra conclusione sulla ripartizione delle £.30 di valore in salario e plusvalore; ripartizione data da una legge che si attaglia esattamente ai caratteri tecnici, economici, storici e sociali del fenomeno studiato.
Con esercitazione analoga divideremo non più i chilogrammi 1.800, ma le 10 ore impiegate a produrli, in parti proporzionali agli elementi del valore. Come infatti sussiste, a parità d’altre condizioni, la proporzionalità tra quantità di prodotti e loro valori, sussiste quella tra valore del prodotto (e quantità) e tempo di lavorazione. In un’ora uscirebbero dalle mani dell’operaio grammi 180 di peso e £.9 di valore, ossia il decimo di grammi 1.800 e di £.90.
Adunque alla ripartizione:
£.90 = £.60 + £.18 + £.12,
corrisponde l’altra:
10h = 6,66h + 2h + 1,33h (10h = 6h40’ + 2h + 1h20’).
Adunque 6h40’ rappresenterebbero il capitale costante, 2h il capitale variabile e 1h20’ il plusvalore.
Questa rappresentazione può venire interpretata in modo capzioso (vedi in Marx "L’ultima ora di Senior") dicendo che delle 10 ore l’operaio lavora per il capitalista soltanto 1h20’. Con tale argomentazione si voleva dimostrare che la giornata di 8 ore avrebbe rovinato il capitalista. Tale argomento sarebbe stato uno di più a favore delle 8 ore! Ma l’esperienza ha dimostrato che le 8 ore sono perfettamente compatibili con la produzione del plusvalore.
Quell’argomentazione equivale a supporre che l’operaio produca anche le materie prime e gli strumenti, il cui valore rappresenta invece tempi di lavoro preesistenti.
La ripartizione esatta, giusta la nostra teoria, è la seguente:
£.90 = £.60 + £.18 + £.12 = valore del prodotto. 30 h. = 20 h. + 6 h. + 4 h. = valore espresso in ore di lavoro. 20 ore sono il lavoro contenuto come valore nel capitale costante acquistato dal capitalista, 6 ore di lavoro necessario (pagato), 4 ore il pluslavoro (non pagato). |
La riduzione della giornata ad 8 ore non toglierebbe che 2 delle 4 ore di pluslavoro, ammesso che fenomeni concomitanti (aumenti di produttività del lavoro) non riducano parallelamente il tempo di lavoro assorbito dai mezzi di sussistenza, ossia il lavoro necessario.
Trattazione generale del caso di una azienda 2 che assorba una lavorazione precedente 1, a dimostrazione della legittimità del riferimento del plusvalore al solo capitale salari.
L’azienda 2 ne ingloba una 1 per una lavorazione precedente delle sue materie prime. Tale azienda 1 produce in un anno esattamente la quantità B2 occorrente all’azienda 2: B2 = F1.
Azienda | Due Aziende separate | Azienda unificata | ||
1 | 2 | |||
Quota ammortamento | A1 | A2 | A1+A2 | |
Materie ausiliarie | H1 | H2 | H1+H2 | |
Materie prime | B1 | B2 | B1+B2 | B1 |
Capitale Costante | C1= A1+H1+B1 |
C2= A2+H2+B2 |
C1+C2= A1+H1+B1+A2+H2+B2 |
C1+C2-B2= A1+H1+B1+A2+H2 |
Capitale Variabile | V1 | V2 | V1+V2 | |
Capitale totale | K1 | K2 | K1 + K2 | K1 + K2 - B2 |
Profitto | S1 | S2 | S1+S2 | |
Fatturato | F1 | F2 | F1+F2 | F2 |
Distinguiamo per il capitale costante:
C1 = A1 + H1 + B1 C2 = A2 + H2 + B2 Ctot = A1 + H1 + B1 + A2 + H2 = C1 + C2 ‑ B2 |
Adunque si è verificato, nel passaggio dalle aziende separte a quella unificata:
il capitale variabile V1+V2 è rimasto uguale
il profitto S1+S2 è rimasto uguale
il saggio del plusvalore è quindi rimasto uguale
il capitale costante e il capitale totale sono diminuiti di B2
il saggio del profitto è quindi aumentato
il fatturato è diminuito di F1.
Il medesimo guadagno, o plusvalore, S1+S2, non può dunque essere effetto del capitale costante, che è diminuito. Quindi giustamente prendiamo come saggio del plusvalore il suo rapporto con il solo capitale variabile, che lo ha determinato. Se lo mettessimo in rapporto al capitale costante o al capitale totale avremmo l’assurdo di verificare tra i due termini del rapporto una proporzionalità diversa per il solo fatto del cambiamento di gestione delle due aziende. (4)
[Prometeo, n. 8, novembre 1947]
La durata della giornata di lavoro è variabile. Essa ha un minimo che in regime capitalistico non raggiungerà mai il tempo di lavoro necessario, ed ha un massimo che dipende dai limiti fisici della resistenza del lavoratore. Ponendoci pienamente sul terreno della economia capitalistica, di considerare la forza lavoro come una merce ed il salario come il suo equo prezzo, il lavoratore, come ogni altro venditore, ha diritto di essere tutelato dalle legge nello stabilire la quantità della merce che vende, ossia il tempo che si impegna a lavorare nella giornata.
Se così non fosse non solo sarebbe violato il canone di eguaglianza giuridica tra coloro che scendono sul mercato, ma menomandosi l’organismo dell’operaio diminuirebbe il numero degli anni nei quali avrà la forza di lavorare, sottraendogli così larga parte dell’unica sua proprietà privata: la forza lavoro. Menomando fisicamente la classe operaia ciò ritornerebbe inoltre a lunga scadenza a danno degli stessi capitalisti, sebbene ogni singolo imprenditore non scorga altro che la caccia al massimo di tempo di lavoro.
Di qui una lotta per la limitazione legale della giornata di lavoro, largamente descritta da Marx in capitoli che più che riassumere occorrerebbe aggiornare all’epoca attuale.
Piuttosto è interessante vedere a quali conclusioni teoriche perviene una tale esposizione. Lungi dal conchiudere nell’apologia della legge sociale, Marx ironizza la riduzione del pomposo catalogo dei diritti dell’uomo al meschino risultato, per il lavoratore, di sapere per quanto tempo si è "liberamente" venduto, e quanto tempo residuo gli appartiene.
Ma questo risultato, se impedisce l’annientamento fisico della classe operaia, non toglie che, come sappiamo, anche nel tempo legalmente venduto, una larga parte (il pluslavoro) sia tempo non pagato.
Ciò che occorre agli operai (Cap. VIII/7) non è di affermare un limite della giornata di lavoro, ma «di innalzare come classe una potente barriera che impedisca loro di vendere se stessi a le loro progenie in morte e schiavitù mediante un volontario contratto col capitale». Queste parole non s’interpretano nel senso banale dell’introduzione della giornata legale di lavoro o del contratto collettivo e magari del salario fissato per legge, ma nel senso della abolizione storica del principio che fa del lavoro una merce, e della possibilità di vendere liberamente anche un’ora sola di lavoro, ossia della abolizione del capitalismo.
Abbiamo detto che la produzione di plusvalore appare col regime capitalistico nel senso preciso in cui plusvalore è differenza di un valore di merci che compare dopo una serie di scambi sul mercato.
Ma anche prima che la forza lavoro fosse trattata come merce sui mercati (liberi), il lavoratore era costretto in forme diverse a fornire larghe parti del suo tempo gratuitamente (sopralavoro). Così nel caso dell’economia schiavistica, terriera, ecc., ecc. Però osserva Marx che quando la forma di una società non è mercantile, o lo è scarsamente, ossia le merci interessano più per il valore di uso che per quello di scambio, l’ordinamento sociale non dà luogo ad eccessiva fame di sopralavoro. Il proprietario di schiavi non ha interesse a farli lavorare al di là di un certo limite, perché in generale consuma e non vende prodotti dello schiavo, mentre dovrebbe pagare in denaro un nuovo schiavo se il primo muore o diviene invalido. Il proprietario feudale fa lavorare gratuitamente sul proprio fondo il contadino nei giorni di comandata; per quanto questo sistema appaia inumano pure esso produce un saggio del sopralavoro inferiore a quello del moderno capitalismo (Cap. VIII, 2).
Fino a questo punto l’analisi si fa immaginando che il capitalista paghi sempre allo stesso prezzo la forza lavoro (salario costante), e che questo prezzo ne esprima esattamente il valore.
A queste condizioni, ossia restando fermo il tempo di lavoro necessario, il capitale, per soddisfare al suo bisogno di ottenere il massimo plusvalore, poiché questo è dato da:
V·s,
non può che seguire una di queste vie:
1. accrescere il saggio del plusvalore, ossia il pluslavoro, ossia la giornata di lavoro – ma abbiamo già visto che storicamente si tende alla diminuzione;
2. aumentare il capitale variabile, e ciò si può fare aumentando il numero degli operai. In questo senso il capitale fa sempre nuovi passi innanzi trasformando in operai gli artigiani, i piccoli proprietari, ecc. sfruttando l’aumento della popolazione, l’urbanesimo, la colonizzazione. Tuttavia malgrado questa tendenza dell’aumento della massa del capitale variabile, solo mezzo per aumentare la massa del plusvalore, si vede che il capitale è sempre più costretto a prendere nella produzione moderna in larga parte la forma di capitale costante.
Ma la ulteriore analisi mostrerà che la contraddizione con la legge della dipendenza tra capitale variabile e plusvalore non è che apparente (5)
Fermo restando che la formazione di plusvalore è la caratteristica del capitalismo, va fatta qualche altra osservazione sulle condizioni iniziali perché appaia il fenomeno capitalistico.
Il neo-padrone deve avere mezzi finanziari bastevoli per occupare un numero minimo di operai, tali da garentirgli un plusvalore sufficiente, non solo a migliorare il suo tenore personale di vita, ma anche a porre da parte un margine di danaro da trasformare ulteriormente in capitale. Tali minimi sono molto variabili a seconda delle condizioni sociali; abbiamo qui un esempio di distinzione puramente quantitativa che dà luogo ad una differenza qualitativa (tra artigiano o maestro di bottega, e capitalista).
Non è però condizione indispensabile allo stabilirsi di rapporti di tipo capitalistico la trasformazione tecnica dei procedimenti di produzione. Il capitalismo è sorto utilizzando agli inizi la tecnica tradizionale. Più oltre sono venute le rivoluzioni nel campo della tecnica, il macchinismo e l’impiego delle forze meccaniche. Tali innovazioni, per noi, da una parte risultano suscitate con ritmo sempre più accelerato dalle necessità del capitalismo, d’altra parte significano le condizioni che rendono tecnicamente ed economicamente possibile l’abolizione di esso.
In ogni scienza, a scopo d’analisi di un fenomeno, poiché questo presenta in genere più grandezza variabili, si semplifica dapprima il problema facendone variare solamente alcune, e considerando le altre costanti. Così per es. la legge della caduta dei gravi assume una forma più semplice quando si supponga costante l’accelerazione della gravità, ossia l’intensità dell’attrazione terrestre. Ma facendo un passo innanzi, che diverrebbe indispensabile per l’esattezza ove il grave anziché cadere da piccola altezza partisse, poniamo, dall’orbita lunare, si deve osservare che mutando nella caduta la distanza tra il grave e il centro della Terra, la forza attrattiva e l’accelerazione vanno crescendo. Poiché si sa con quale legge, ossia inversamente ai quadrati delle distanze, si sa studiare anche la caduta ad accelerazione variabile come quella ad accelerazione costante, solo che i risultati saranno più complicati.
In modo perfettamente analogo, mentre noi abbiamo studiato finora la produzione di plusvalore nella ipotesi semplificatrice della costanza di tutti i valori, ossia delle merci, dell’oro, della forza lavoro (e ciò significa che noi immaginavamo immutato il quantum di lavoro medio occorrente a riprodurre le singole merci, l’oro, e i mezzi di sussistenza), ora ci spingeremo più innanzi e supporremo che possa variare il valore di scambio dei mezzi di sussistenza necessari al lavoratore, dunque il valore della forza lavoro e il salario.
Nell’analisi precedente erano variabili la quantità del capitale, il numero degli operai, la durata della giornata di lavoro e il tempo di pluslavoro, restando invariabile il lavoro necessario. Abbiamo visto che il saggio del plusvalore poteva crescere solo crescendo la giornata di lavoro, e la sua massa solo crescendo il saggio stesso o la massa del capitale salari, cosa possibile solo accrescendo il numero degli operai. Il plusvalore prodotto sotto tali ipotesi venne detto da Marx plusvalore assoluto.
Ora supporremo che possa variare il salario, essendo variati il valore di scambio dei mezzi di sussistenza, quindi il tempo di lavoro necessario. Chiameremo plusvalore relativo quello che trae origine non più dal semplice prolungamento della giornata di lavoro, ma dalla diminuzione del salario e del tempo di lavoro necessario.
Non si fa ancora qui l’ipotesi di una forzata riduzione del salario, fermo restando il valore della forza lavoro. Questo fatto non è raro ma presenta tuttavia carattere d’eccezione rispetto alla generalità della nostra indagine. Parliamo di una diminuzione di salario a parità di consumi del lavoratore, per il diminuito costo (valore) di quanto egli consuma. Ciò può accadere soltanto se aumenta la produttività del lavoro per quelle aziende che producono i mezzi di sussistenza. Perché sorga plusvalore relativo è dunque necessario che venga accresciuta la produttività del lavoro non di merci qualsiasi, ma delle merci che entrano nella sussistenza.
Sebbene il valore della merce prodotta nell’azienda capitalistica, per essere venduta, sia tuttora trattato da noi come una costante, poniamoci l’obiezione: come si spiega che il capitalista, che introduce una innovazione aumentante la produttività del lavoro, pur restando inalterato il salario e ogni tempo di lavoro, realizza un più alto profitto?
In tal caso, per un certo tempo il capitalista potrà vendere al vecchio prezzo, più alto (o a poco meno in quanto, riuscendo a produrre di più e dovendo accaparrarsi un mercato più esteso, dovrà eliminarne altri produttori con una relativa diminuzione di prezzi). Ma tale beneficio sarà transitorio perché ben presto la concorrenza costringerà i suoi rivali a introdurre il nuovo metodo di produzione e lo costringerà ad adottare il prezzo diminuito.
Perché si possa abbreviare il tempo di lavoro socialmente necessario, l’aumento di produttività dovrà investire quelle merci che fanno parte dei mezzi di sussistenza del lavoratore, avendosi allora un aumento definitivo del plusvalore. Ciò a meno che la classe operaia non pervenga ad elevare il suo tenore di vita, ossia la massa dei suoi consumi, altra variazione di grandezze ancora estranea al nostro esame.
In ogni modo, nel nostro caso del capitalista che ha trasformato la sua tecnica, anche nel periodo transitorio egli non ha fatto che elevare il valore di uso della forza lavoro dei suoi operai rispetto alla media sociale: essi gli danno non lavoro semplice ma complesso, quindi valore maggiore per ogni ora di applicazione. Ecco come, senza cambiare il salario, si è diminuito il tempo di lavoro necessario, che sarebbe quello in cui il lavoratore riprodurrebbe il suo salario se potesse vendere lui i prodotti ricevendo il beneficio dell’avvenuto perfezionamento (dedotte s’intende le quote di capitale costante). Perciò anche in quel periodo transitorio il maggiore plusvalore discende da maggiore pluslavoro.
Le tappe attraverso le quali il capitalismo realizza sempre maggiore plusvalore relativo, aumentando la produttività del lavoro oltre il limite che poteva raggiungere il lavoratore indipendente artigiano, si possono ridurre alle seguenti: collaborazione fra operai, manifattura, macchinismo.
Prendendo i mestieri così come sono in regime di produzione artigiana, con la stessa ripartizione e con le stesse capacità lavorative e strumenti o utensili del lavoratore di ciascun mestiere, si può tuttavia realizzare un aumento di produttività con l’affiancare durante il tempo di lavoro gran numero di operai. Per tal modo non solo si compensano gli scarti individuali in più e in meno dalla media potenzialità lavorativa, ma si permette effettivamente di eseguire le stesse operazioni in una somma minore di tempi.
Abbiamo così la semplice collaborazione, la quale accetta senza ancora modificarla la stessa divisione tecnica del lavoro raggiunta in regime artigiano. Tuttavia per il fatto della collaborazione viene innalzato il rendimento medio del lavoro umano. Questo è un beneficio sociale, il primo di cui bisogna attribuire il merito storico al capitalismo. Esso però non realizza la collaborazione sotto questo impulso sociale, ma solo allo scopo di intensificare la produzione di plusvalore.
D’altra parte non bisogna credere che sia indispensabile l’ordinamento capitalistico alla società che intenda godere dei benefici della collaborazione. Esempi di collaborazione su vasta scala hanno dato antichi regimi in cui capi militari dinastici o sacerdoti potevano disporre di grandi masse di forze lavoro (Assiri, Egizi, ecc.). Analogamente devesi presumere che se non può prodursi plusvalore senza collaborazione, si potrà conservare la conquista sociale della collaborazione anche superando lo stadio della produzione di plusvalore.
Quando si passa alla manifattura si constata un cambiamento radicale: la tecnica produttiva degli artigiani non è sostanzialmente cambiata, ma la vecchia divisione del lavoro viene rivoluzionata nel senso di una più grande produttività.
La manifattura realizza questo in due modi. 1) Per produrre oggetti a cui debbono lavorare operai di diversi mestieri (esempio della carrozza cui occorre il fabbro, il falegname, il sarto, il pittore ecc.) questi operai vengono tutti riuniti nello stesso laboratorio ove eserciteranno sempre non tutto il loro mestiere ma solo quella particolare attività che occorre per l’oggetto in questione. In questo primo caso la manifattura riunisce vari mestieri separati, restringendo grandemente però la sfera di applicazione di ognuno. Ciascun operaio acquista così maggiore abilità e produttività nella speciale funzione su cui si concentra. 2) Per produrre un oggetto che prima abbisognava dell’opera di un solo mestiere, (es. produzione di spilli) la manifattura fraziona le singole operazioni successive di tale mestiere affidandole a operai che in quella sola cosa si specializzano. Così un mestiere viene spezzettato in tanti altri.
Nell’uno e nell’altro caso, parallelamente alla specializzazione dell’operaio, si specializza l’utensile che, dovendo servire a una sola operazione, assume la forma che permette di compierla più rapidamente.
Queste due forme si chiamano forma eterogenea e forma organica della manifattura.
La manifattura diminuisce il tempo di lavoro richiesto non solo per le dette ragioni, ma perché crea una distinzione, che il regime artigiano medioevale tentava di respingere: quella tra operai specializzati e operai manovali, che compiono meccanicamente sempre gli stessi gesti. Per questa seconda categoria, eliminandosi o diminuendosi le spese per il periodo d’apprendistato, si ha una diminuzione del valore della forza lavoro e un aumento del plusvalore.
La manifattura rappresenta un passo innanzi nella divisione del lavoro. Ma questo è un processo cominciato assai prima della manifattura e che si può esaminare in riguardo al complesso della società.
La base fondamentale di una divisione sociale del lavoro, accompagnata necessariamente dallo scambio delle merci, è il fatto fondamentale della separazione tra città e campagna. Tale fatto è già avanzato nell’economia feudale: mentre i contadini restano disseminati nel territorio in cui è arbitro il feudatario, gli artigiani si concentrano nelle città con ben altro sistema di vita materiale intellettuale e politica.
Mentre la divisione del lavoro artigiano suppone una grande disseminazione dei mezzi produttivi tra moltissimi produttori-mercanti indipendenti, la divisione del lavoro di tipo manifatturiero esige la concentrazione di molti mezzi di produzione nelle mani di singoli capitalisti.
Sarebbe possibile conciliare il gran vantaggio della divisione sociale del lavoro con una organizzazione sociale generale senza capitalismo? Non solo questo è possibile come programma per l’avvenire, ma vi sono esempi nel passato di comunità viventi sulla base di una divisione del lavoro organizzata tra i mestieri e del possesso comune della terra (India antica, ecc.). Perciò dice Marx che, mentre la divisione sociale del lavoro trovasi nelle forme più differenti di società, quella manifatturiera è creazione del capitalismo, ma i suoi benefizi reali sopravvivranno al capitalismo stesso.
Gli antichi scrittori d’economia esaltano la divisione sociale del lavoro perché aumenta il rendimento dell’attività umana: essi hanno più in vista la qualità e il valore d’uso che la quantità e il valore di scambio.
Con l’epoca manifatturiera appare l’economia politica come scienza speciale. I suoi scrittori vedono le questioni sotto l’angolo visuale capitalistico, ossia considerano la divisione del lavoro come un mezzo per produrre di più, aumentare il plusvalore e l’accumulazione del capitale, ciò che chiamano elevamento della ricchezza nazionale.
La manifattura, sorta sulla ristretta base dei vecchi mestieri, riesce ben presto insufficiente e si ha il trapasso alla tappa del macchinismo, la quale s’inizia col sorgere di opifici meccanici ove si impiegano gli utensili e i primi apparecchi più complessi già adottati in singole manifatture.
L’introduzione della macchina – mentre a sua volta (come le altre due prime tappe: collaborazione e manifattura) rappresenta un decisivo passo innanzi per il rendimento del lavoro umano, sociale – si determina sotto la spinta della tendenza capitalistica a diminuire il prezzo delle merci e a produrre altro plusvalore relativo.
Per macchina nel senso economico non si può intendere ciò che è macchina in meccanica e in fisica, cioè ogni dispositivo che modifica la intensità, la direzione o il punto di applicazione della forza che vi agisce. Il cuneo, la leva, ecc. sono fisicamente macchine ma economicamente semplici utensili. Neppure si può definire macchina un apparecchio mosso non dall’uomo ma da altri agenti: l’animale, l’acqua, il vapore, ecc. Parlando di macchine distingueremo tra macchine utensili e macchine motrici. Queste trasformano, per mezzo di agenti meccanici, energia calorifica, chimica, elettrica ecc. in un dato movimento che, trasmesso opportunamente, fa agire la macchina utensile o operatrice in modo che questa esegua atti e movimenti precedentemente affidati alla mano dell’uomo, munita di un utensile relativamente semplice.
Ma anche macchine utensili che hanno come forza motrice quella umana meritano economicamente il nome di macchine in quanto l’uomo compie un movimento semplice e continuo. Qui l’intervento umano diviene puramente accidentale potendo essere sostituito da un motore meccanico, come si può ad una macchina per cucire applicare un motorino elettrico.
S’intende bene che, a secondo dei casi, l’operaio interviene sempre, o per guidare e rettificare il moto della macchina utensile o per avviare la motrice, come guidando la stoffa da cucire sotto l’ago della macchina o azionando l’interruttore del motorino.
Le prime macchine erano operatrici e l’operaio doveva fornire l’energia fisica per muoverle. Si cominciò a sostituire all’uomo la bestia, si seguitò la antichissima pratica di attingere l’energia dai corsi d’acqua e dal vento. Ma la vera rivoluzione meccanica si realizzò con l’invenzione della macchina a vapore, capace di azionare contemporaneamente gran numero di macchine utensili. È seguita poi l’applicazione industriale dell’elettricità che permette di utilizzare a distanza l’energia idrica.
Si pone la questione se la nostra teoria del valore, effetto di lavoro, e del plusvalore, effetto di pluslavoro, si presenti a tradurre bene il fatto economico dell’impiego di macchine e se spieghi come esso sia una fonte di plusvalore relativo.
La macchina prende posto tra gli elementi del capitale costante. Ossia essa trasmette al prodotto una parte del valore suo proprio. Questo valore è tanto più piccolo quanto maggiore è la durata e resistenza al logorio della macchina; è tanto maggiore quanto più essa consuma combustibile, lubrificante, ecc. (Noi computeremo il valore dei combustibili e dei lubrificanti tra quelli delle materie prime, indirette che, pure come capitale costante, vanno ad incorporarsi nel prodotto). Adunque la macchina sembrerebbe aggiungere qualche cosa al valore e al prezzo del prodotto.
Il valore della macchina dipende per noi dal lavoro sociale medio occorso nella sua produzione. Meno costosa è la macchina, meno consuma energia, più essa risulta produttiva, nel senso che meno aggiunge della sua quota al valore del prodotto.
È indubitato che la macchina contiene più lavoro ed è assai più costosa dei semplici utensili dell’artigiano o anche della manifattura. Quindi nel macchinismo il mezzo di lavoro sembrerebbe apportare maggior valore alla formazione del valore del prodotto. In compenso però si verifica che la macchina sostituisce – a parità di prodotto – un numero elevato di lavoratori, diminuendo la spesa salari, cosicché nel complesso si può avere diminuzione del valore prodotto. Quindi, sebbene, in rapporto allo stesso valore di prodotti, gli impianti produttivi del meccanismo importino una spesa maggiore di quelli della manifattura, il rendimento del macchinismo è tale che risulta diminuito il valore dei prodotti (somma di lavoro occorrente).
Si tratta di domandarsi se la macchina faccia risparmiare spese-lavoro in proporzione maggiore di quanto aumenti la spesa per la sua conservazione. Questo benefizio può aversi anche se, come avviene sempre, la macchina costa assai più dell’utensile.
Riprendendo i simboli già noti ricordiamo il Profitto dell’azienda:
ossia,
- le entrate: valore F del prodotto,
- meno le spese: ammortamento
annuo degli impianti fissi A; più materie prime B; più
materie ausiliarie H; più il capitale variabile
V = wgv (numero w di operai per g giorni
lavorativi annui per salario giornaliero v).
Ricordiamo anche che il saggio del plusvalore è
In quest’azienda si introduce una macchina con la quota annua d’ammortamento A’. Tale macchina consuma materie ausiliarie di valore H’. Essa permette di eliminare w’ operai. Il capitalista spende in più A’ + H’. Spende però in meno w’gv.
Egli troverà convenienza ad applicare la macchina non appena si avrà
Anche quando vi sia pareggio tra le due partite e il capitalista non è ancora spinto ad introdurre la macchina, vi sarebbe beneficio sociale ad adoperarla. Infatti, mentre la partita w’gv rappresenta salari pagati, ossia valore di forze lavoro, la partita A’ + H’ rappresenta prezzo pagato sul mercato ossia valore corrispondente al lavoro totalmente pagato (lavoro necessario pagato ad operai e pluslavoro usufruito dagli altri capitalisti produttori di macchine e materie ausiliarie). Socialmente converrebbe la sostituzione perché nelle macchine e materie ausiliarie sono state investite assai meno giornate di lavoro delle w’g risparmiate, a parità di prodotto.
Vediamo ora che cosa accade del plusvalore. Ammesso anche che il capitalista introduca la macchina in puro pareggio di spese, il capitale variabile sarà disceso da wgv a (w‑w’)gv.
Anche nella ipotesi che il plusvalore resti costante, il saggio del plusvalore sarà cresciuto
da | S
wgv |
a | S
(w-w’)gv |
Per esempio: se gli operai da 100 sono diventati 50, il saggio del plusvalore sarà raddoppiato. Abbiamo quindi plusvalore relativo, ossia plusvalore aumentato (per ora solo nel saggio) senza prolungare la giornata di lavoro.
Può sembrare che ciò non interessi nulla al capitalista, una volta che egli ha soltanto spostato parte dei suoi investimenti da capitale variabile a capitale costante senza che (per ora) crescesse il profitto. Ma ciò non è che apparenza. Noi cercheremo più in là di ridurre a qualche formuletta il completo confronto tra l’analisi marxista e il sistema di contabilità capitalistico, riservato da Marx al Terzo Libro. La somma di capitale costante A’ + H’ che il nostro capitalista, restando immutata la massa del plusvalore S, ha sostituito a una eguale spesa salario, è a sua volta prodotto di lavoro, che prima non veniva eseguito (prima cioè che occorressero le macchine e il carbone). Su tale somma di prodotto un altro capitale (altro come possessore, ma in realtà lo stesso che prima si investiva nel salario degli w’ operai) ha realizzato un altro plusvalore, quindi il plusvalore totale è aumentato.
Consideriamo adesso che vi sia un largo beneficio nella sostituzione della spesa per la macchina a una parte della spesa in salari, come corrisponde in realtà al diffondersi del macchinismo. Il profitto S, se rimanesse lo stesso il prezzo dei prodotti venduti, salirebbe grandemente, e il saggio del plusvalore (profitto diviso spesa salari) crescerà per due motivi, per l’aumento del dividendo e per la diminuzione del divisore.
In realtà l’effetto del macchinismo, quando esso sia sufficientemente generalizzato, è di far produrre le merci a minor costo, ossia con minor somma di lavoro. E infatti – raggiunto l’equilibrio e ritornati nelle condizioni generali della nostra ipotesi d’indagine, che sul mercato si paghi tutto al giusto valore generato da tempo di lavoro – i prodotti dell’azienda in esame scenderanno di prezzo in proporzione al minor lavoro totale che essi contengono. Dovranno scendere obbligatoriamente non certo perché tale fosse lo scopo del capitalista, ma perché la concorrenza ve lo obbligherà.
Egli non avrà tuttavia a pentirsi dell’innovazione, ed ecco perché. Nel prodotto figurava del lavoro, che ora è diminuito di w’g giornate lavorative. È vero che vi figurano le giornate lavorative contenute in A’ + H’, ma queste sono molto meno, a) per effetto del pluslavoro che figura in A’ + H’; b) perché abbiamo supposto A’ + H’ inferiore a w’g.
Adunque il prodotto si pagherà a un prezzo inferiore. I diminuiti costi di produzione faranno ribassare il costo unitario di produzione nel rapporto
A+H+M+A’+H’+(w-w’)gv
A + H + M + wgv |
= | (nuovo costo di produzione)
(costo di produzione anteriore) |
A | B | C | D | E | |
Cap. Costante | 100 | 120 | 120 | 108 | 108 |
Cap. Variabile | 100 | 60 | 60 | 60 | 54 |
Costo | 200 | 180 | 180 | 168 | 162 |
Plusvalore | 100 | 100 | 100 | 100 | 106 |
Sovraprofitto | 0 | 20 | 0 | 0 | 0 |
Prodotto | 300 | 300 | 280 | 268 | 268 |
Saggio del plusvalore % | 100 | 166 | 166 | 166 | 196 |
Saggio del profitto % | 50 | 66 | 55 | 59 | 65 |
Costo unitario | 1 | 1 | 0,90 | 0,84 | 0,81 |
Prezzo unitario | 1 | 1 | 0,93 | 0,89 | 0,89 |
Si presumono plusvalore e volume della produzione costanti, così come la giornata lavorativa e il valore del salario. Costo e prezzo unitario sono fatti 1 nel caso A. A - Azienda prima dell’adozione della macchina. B - Dopo l’introduzione della macchina: - Costo delle macchina 20, - Licenziati 4 operai su 10, con minore spesa salari di 40, - Vendendo al prezzo di mercato c’è un Sovraprofitto di 20, - Crescono i saggi del plusvalore e del profitto. C - Meccanizzazione estesa a tutte le aziende del settore: - Scende il prezzo di mercato e sparisce il sovraprofitto, - Scende il saggio del profitto. D - Meccanizzazione estesa ai settori che producono il capitale costante: - Torna a crescere il saggio del profitto, - Diminiusce ancora il costo e il prezzo di mercato. E - Meccanizzazione anche al settore dei beni di consumo degli operai: - Si riduce il capitale variabile e il lavoro necessario, - Aumentano il plusvalore e il suo saggio, - Crescono ancora il profitto e il saggio del profitto. |
Sembrerebbe dunque che il profitto anche nel secondo caso ridiscenda al valore S.
Ma se noi facciamo l’ipotesi di un equilibrio generale succeduto alla diffusione del macchinismo, abbiamo per conseguenza che gli stessi fenomeni considerati per il ramo d’azienda che ci occupa sono avvenuti in tutti gli altri, con conseguente riduzione anche del prezzo non solo dei nuovi prodotti A’ (macchina) H’ (carbone) ma anche dei vecchi acquisti per A ed H, e altresì nei mezzi di sussistenza e quindi nei salari v. Per effetto di tale compenso generale la discesa dei prezzi si farà senza diminuire il profitto e né invertire l’aumento ad esso apportato dall’introduzione delle macchine. La massa di plusvalore resterà dunque accresciuta malgrado la diminuzione del prezzo dei prodotti, il saggio del plusvalore sarà anche aumentato e la produzione di plusvalore relativo avrà raggiunto il suo apice.
Tutto ciò senza ancora considerare gli effetti storico sociali del macchinismo, nell’aumento generale della massa dei consumi e in quello del numero dei lavoratori assorbiti dall’industria.
Effetti secondari della macchina, tutti concorrenti ad accrescere il plusvalore, sono: a) la possibilità di utilizzare il lavoro delle donne e dei ragazzi; b) la possibilità di prolungare la giornata di lavoro esigendo il lavoro stesso meno sforzi e meno attenzioni; c) la intensificazione del lavoro ossia l’aumentato suo rendimento a parità di forza di impegno dell’operaio, cosa che può anche compensare la forzata riduzione delle ore di lavoro giornaliere.
Una delle conseguenze dell’introduzione delle macchine fu il licenziamento immediato di gran numero d’operai, che causò vere rivolte seguite da distruzione delle macchine a furore di popolo. Esempio classico è il movimento dei luddisti al principio del secolo XIX in Inghilterra, represso dal governo con straordinaria violenza.
L’apparizione della manifattura capitalistica non aveva prodotto conflitti analoghi, perché, se opposizione veniva ai nuovi opifici delle corporazioni artigiane, non si ebbe un conflitto tra salariati e capitalisti.
Ben diverse sono le conseguenze dell’introduzione delle macchine, che dette luogo a vere tragedie della miseria. Gli operai non potevano comprendere che quegli inconvenienti non derivassero dalla tecnica del macchinismo, ma dal suo impiego sociale.
Molti economisti borghesi dell’epoca dell’introduzione delle macchine si preoccupavano di giustificare e difendere il sistema meccanico malgrado tutti i suoi inconvenienti, ma naturalmente tentavano di farlo senza confessare che tali inconvenienti risalivano alla gestione capitalistica del macchinismo. Tra l’altro essi enunciarono la cosiddetta teoria della compensazione secondo la quale la diminuzione di spese per operai (salari) ottenuta mediante la macchina è una liberazione di capitale che può essere adoperato altrove “dando lavoro” ad altri operai. Tale ragionamento ricorda quello volgare secondo cui i capitalisti, consumando larga parte del prodotto collettivo del lavoro umano, danno ai lavoratori maggiori occasioni di lavorare e così guadagnarsi da vivere. Quasi che si proponesse non di consumare egualmente quel prodotto in più in un più equo sistema di distribuzione, ma di rinunziare a produrlo.
Tornando alla teoria della compensazione basta notare che, come abbiamo visto, anche se la spesa salari diminuita è maggiore del valore della macchina acquistata, la prima rappresenta un numero di giornate di lavoro molto superiore, mentre nel valore della macchina e in quello della differenza risparmiata o comunque investita dal capitalista, compaiono spese salari solo per una frazione, essendo il rimanente coperto da investimenti in altro capitale costante e da plusvalore.
Ma gli economisti in questione si pongono sul terreno della ripercussione sul mercato del lavoro e delle sussistenze, dal punto di vista della loro legge dell’offerta e della domanda. Anche su questo terreno si potrebbe però farne una critica. Diminuendo la spesa salari e l’acquisto di sussistenze da parte degli operai disoccupati, vi sarà una eccedenza di offerta di sussistenze e scenderanno di prezzo. Ma ci sarà eccedenza anche nell’offerta delle forze lavoro e scenderanno i salari. E nelle aziende che producono sussistenze la minor richiesta produrrà altri licenziamenti.
L’enigma delle contraddizioni del macchinismo non può risolversi che condannandone l’applicazione sociale capitalistica. La società dovrebbe risparmiare con le macchine una gran quantità di lavoro, restando la massa degli alimenti la stessa, nella peggiore ipotesi. Ma più probabilmente crescendo anche questa. Il risultato medio sarebbe: minori sforzi e maggiori alimenti. Ma il macchinismo, generando plusvalore relativo, separa il lavoratore dai suoi alimenti e ne sottrae più larga quota a benefizio dei non lavoratori.
In realtà anche in regime capitalistico sono succeduti all’introduzione del meccanismo, e alle sue brusche ripercussioni, fenomeni che hanno permesso – salva sempre la prelevazione intensificata del plusvalore – di estendere tuttavia la richiesta di lavoratori col sorgere di nuove industrie prima sconosciute e correlative alla produzione di macchine o ad altre esigenze dei sistema meccanico (ferrovie, navigazione a motore, automobilismo, illuminazione e riscaldamento a gas ed elettrici, fotografia e cinematografia, telegrafia e radiotelegrafia e fonia, navigazione aerea, ecc. ecc.).
Non è il caso qui di proseguire un’analisi della rivoluzione apportata dal macchinismo nella produzione. I rapporti tra i vari mercati vengono sconvolti, i paesi ove prima si sviluppa l’industria possono inondare dei loro prodotti a basso prezzo i mercati esteri, e gli altri paesi devono ridursi a produrre materie prime e sussistenze per quelli industrializzati. La mano d’opera resa disponibile dalle macchine dà grande impulso all’emigrazione e alla colonizzazione. All’epoca in cui Marx scriveva gli Stati Uniti erano in tale rapporto con l’Inghilterra, ossia assorbivano popolazione e prodotti dell’industria, restituendo prodotti agricoli e materie prime. Questo rapporto oggi è del tutto cambiato, e, se non è proprio invertito, crea però nell’industria americana una concorrente capace di sopraffare quella europea.
Così pure non è il caso qui di trattare la teoria delle crisi di superproduzione, e i fenomeni strettamente connessi a tutto ciò dell’imperialismo industriale e coloniale-militare.
La grande industria, in una parola, fin dal suo apparire sconvolge da capo a fondo la divisione sociale del lavoro.
Egualmente trascuriamo di riassumere qui i noti problemi sollevati dal regime di fabbrica e che formano oggetto delle rivendicazioni delle organizzazioni professionali e della cosiddetta legislazione sociale (disciplina, trattamento igienico, protezione contro gli accidenti, invalidità, disoccupazione, lavoro notturno, lavoro delle donne e dei fanciulli, etc.).
Nel testo di Marx infine vi è un accenno ai riflessi della grande industria sull’agricoltura, tema la cui trattazione ha posto altrove. Marx sottolinea che si ripete accentuato il danno che i nuovi metodi arrecano al produttore a causa dell’applicazione capitalistica delle nuove risorse tecniche; ma vi aggiunge la tesi che lo sfruttamento intensivo esaurisce altresì la fertilità accumulata nella terra. Questo processo è evitato dalla successiva scoperta della concimazione chimica, che permette di reintegrare artificialmente le perdite del terreno, tuttavia l’argomento sociale di Marx conserva il suo valore in quanto vuol dire che l’applicazione del macchinismo alla terra difficilmente riuscirà attuabile da parte del capitalismo, se anche questo ha potuto superare relativamente le contraddizioni della sua applicazione all’industria. È necessario per realizzare la rivoluzione tecnica agraria che l’applicazione della tecnica meccanica sia fatta su una base sociale e con direttive centrali anziché private. Questo punto di vista è confermato dal contrasto tra la marcia in avanti dell’industria e lo stato tuttora arretrato di gran parte dell’agricoltura mondiale, e con esso concorda anche l’orientamento programmatico della socializzazione del capitale industriale come tappa nettamente anticipata sulla industrializzazione della agricoltura.
Riepilogando il cammino fatto, abbiamo analizzato lo scambio delle merci, ravvisando nella merce un prodotto del lavoro umano il quale, anziché esser consumato da quello stesso che lo ha prodotto, viene da lui offerto in cambio di altro prodotto che gli occorre; qualunque ne sia il meccanismo o l’intermediario, la regola di questo scambio è che esso avviene tra oggetti che costano in media lo stesso tempo di lavoro.
Il complesso di coloro che lavorano e scambiano presenta rapporti sempre più intricati e, a un certo momento, dopo che lo scambio si è generalizzato, la divisione del lavoro estesa, la moneta introdotta, sembra di assistere al fallimento della nostra regola in quanto attraverso gli scambi emergono differenze di valore ossia plusvalore. Vi sono taluni (tra i possessori di denaro) che vengono al mercato e ne ripartono avendoci “guadagnato”, ossia con una somma di prodotti superiori a quella che avevano apportata.
Anche prima dell’epoca mercantile e anche su altri terreni che non sia il mercato vi era (e vi è) chi realizzava simile beneficio in prodotti non suoi; ma in tal caso gli venivano direttamente consegnati senza corrispettivo materiale e in forza di rapporti sociali che rivelavano all’evidenza il carattere di rapporti di forza; si trattasse di tribù predatrici, di capi militari jeratici o feudali, di padroni di schiavi e simili.
Ma da che il plusvalore appare sul terreno mercantile e sembra realizzato attraverso rapporti pacifici e legittimi noi ravvisiamo la comparsa del capitalismo. Tale plusvalore non sembrerebbe una appropriazione di prodotti altrui, e quindi di lavoro altrui.
In ogni epoca il plusvalore ha permesso a taluni privati e anche a comunità di evitare che tutto quanto era prodotto fosse consumato, consentendo quella accumulazione di cose materiali necessarie alla vita di società sempre più progredite, che è definita comunemente ricchezza.
Nelle epoche dell’antichità appariva evidente ai primi tentativi di teorizzare i fatti economici che ogni plusvalore sorgeva da lavoro appropriato senza spesa (noi diciamo da pluslavoro) e si riconosceva l’origine delle ricchezze nel lavoro.
Naturalmente vi sono ricchezze non prodotte dall’uomo ma offerte dalla natura. Ma solo per popolazioni ancora poco addensate e di bisogni primitivi esse possono essere usufruite senza lavoro. Quando però l’economia si basò non sul lavoro degli schiavi o dei vinti in guerra ma su quello dei contadini, che, per il cristiano signore feudale erano moralmente uomini come lui, si teorizzò la produzione della ricchezza come dono della natura, volendo dissimulare il rapporto di forza per cui il proprietario terriero obbligava il contadino, oltre che a lavorare per il consumo proprio, a fornire un sopralavoro e un sopraprodotto per il feudatario.
Questa concezione che sia solo la produzione agraria a dare un plusvalore sopravvive nella scuola dei fisiocrati.
Quando alla economia terriera viene a sovrapporsi, dopo le grandi scoperte geografiche, la diffusione mondiale dei commerci, la scuola mercantilista sorge a sostenere l’assurdo che non la natura né il lavoro, ma il semplice scambio produce la ricchezza; il plusvalore sorge in ogni scambio; la legge fondamentale è la negazione della nostra: ogni scambio avviene tra non equivalenti.
Ma appare il capitalismo e con esso nuove dottrine economiche e nuove spiegazioni del plusvalore e dell’origine delle ricchezze. La grande attività degli opifici manifatturieri e industriali spinge a constatare la verità che ogni ricchezza nasce dal lavoro. Ricardo fa trionfare questa teoria e la sua scuola proclama che il plusvalore emerge dalla forza produttiva del lavoro (Economia politica classica).
A questo punto i teorici della classe capitalistica non sono più quelli di un ceto rivoluzionatore ma quelli di un ceto conservatore. Essi non possono procedere oltre nella indagine scientifica della verità. Se la nuova società mercantile e industriale ha spezzato definitivamente ogni freno feudale e teocratico allo sviluppo moderno delle scienze della natura, è lungi dal convenirle il togliere i freni allo svolgimento delle scienze della società.
Ricardo e i suoi sanno che il valore viene dal lavoro, ma non oseranno concludere che il plusvalore viene dal pluslavoro, perché allora il profitto capitalistico avrebbe la sua causa non in una proprietà immediata del lavoro organizzato moderno, ma solo nella sovrapposizione ad esso di una costrizione.
Quindi, mentre gli economisti ufficiali contemporanei di Marx sosteranno con ogni sorta di ragionamenti che il plusvalore è un fatto “naturale” e “necessario”, inerente al lavoro produttivo, e quindi la società si svolgerà senza mai abolirlo, le molteplici scuole successive andranno, sotto pretesto di obiettività e di vero senso scientifico positivo, raccogliendo una congerie di materiale, ma rifiutando di trarne sintesi semplificatrici. Il profitto diverrà una constatazione di cassa, una differenza aritmetica tra le due partite, ma le sue cause si potranno con saggia elasticità ravvisare dappertutto, nello sfruttamento delle risorse naturali, nel lavoro, nelle vicende dello scambio e così via. Si sosterrà che l’economia non è suscettibile della enunciazione si leggi scientifiche, o anche di ipotesi causali, col famoso argomento che vi ha gioco il fatto imponderabile dell’azione umana, e si vorrà ridurla a una semplice statistica. Analogamente si potranno impugnare le costruzioni della meccanica e della chimica perché, pur tra innumeri osservazioni ed esperienze, nessuno ha visto mai la realizzazione pura della legge d’inerzia (che sarebbe nell’assurdo pratico del moto perpetuo), o un pezzo di materia reale i rapporti dei cui componenti traducessero matematicamente senza errori quelli dati dalla teoria molecolare.
Cristallina è invece la soluzione marxista: il valore e la ricchezza originano dal lavoro, gli scambi avvengono solo tra equivalenti; il plusvalore non avviene necessariamente dove sia lavoro produttivo e scambi di prodotti, e non è carattere necessario di una alta divisione sociale del lavoro: esso rappresenta pluslavoro, ossia lavoro non pagato, e perché esso sia prodotto la condizione necessaria è un rapporto sociale di forza che separa il lavoratore dallo strumento di produzione e dal prodotto, e che lo costringe ad alienare la sua forza lavoro come unico mezzo per procacciarsi le sussistenze.
La causa e la misura del profitto capitalistico risiedono in una appropriazione di pluslavoro. È falsa la tesi che non possa esservi lavoro produttivo se non dove si produce plusvalore. Marx procede con metodo che i critici volgari definiscono come fredda analisi del capitalismo, aliena da approvazione o condanna, che si concluda nel prevedere l’ulteriore evoluzione graduale del capitalismo stesso. Lo stesso fatto che il Capitale non è un manifesto programmatico o un memoriale di rivendicazioni li induce a credere che vi faccia da programma la tolleranza di lunghe ulteriori vicende del regime capitalistico e vi figurino come rivendicazioni soddisfacenti e desiderabili da parte della classe operaia le misure legislative inglesi e di altri paesi. Queste sono esposte nel fare la cronaca delle fasi dello sviluppo borghese e analizzate allo scopo di dimostrare che ben vi si applica la teoria economica, la cui enunciazione e dimostrazione forma l’oggetto dell’autore. Il grossolano o voluto equivoco si basa sul fatto che il libro procede con metodo scientifico, e il metodo scientifico applicato ad esso e dalla scuola a cui ha dato luogo alla economia, alla sociologia e alla storia, consiste nello scartare come privi di ogni valore tutti i preconcetti ideologici di natura morale. Si tratta, nel lavoro d’indagine, di accertare i fatti come sono, estrarne le leggi e, sulla scorta di queste, seguirne e prevederne l’andamento. Non è il caso di dire ora come e perché questo compito non contraddice minimamente a quello integratore di un intervento attivo, non di forze ideali e di individualità ispirate e creatrici, ma di collettività operanti in un campo ampio o ristretto secondo il succedersi delle situazioni (7).
Diciamo ciò perché abbiamo nel Capitolo 16 della Sezione V un esempio di come si debba intendere e leggere l’opera di Marx.
Il fatto del plusvalore viene dapprima indagato secondo i metodi della scienza sperimentale, in base a una ipotesi che spiega e misura bene i dati di fatto accertati. Quindi si esamina la tesi ora ricordata, che pretende il plusvalore inseparabile dal lavoro produttivo. La si confronta dapprima coi dati del passato. Non è vero che apparso il lavoro produttivo sia apparso con esso il plusvalore. Fino a quando il produttore rimane in possesso del suo strumento di lavoro, è in grado di procurarsi le materie prime, e resta arbitro di alienare o meno i propri prodotti, o in ogni caso li aliena a suo esclusivo beneficio, egli lavora tanto quanto basta a procurargli le cose di cui ha bisogno, ossia per il solo tempo di lavoro necessario. Sui primordi della società, se le forze di lavoro acquisite sono minime, sono minimi anche i bisogni, e specie laddove il clima e la fertilità del suolo sono favorevoli, il tempo di lavoro necessario è basso. Occorre un intervento di forza che sottoponga l’un all’altro i membri della società, per imporre a taluni di lavorare un tempo supplementare a beneficio altrui. Se dunque è vero che occorre un certo grado di produttività del lavoro perché appaia il fatto del plusvalore, non è vero che questo abbia la sua causa immediata nel lavoro, perché storicamente troviamo esempi di lavoro senza plusvalore.
Eseguito così il confronto con i dati della storia, che bastano a smentire la pretesa e metafisica necessità del plusvalore e del profitto, il terzo punto della deduzione è un corollario evidente: sarà possibile che il plusvalore sparisca e con esso il capitalismo, conservandosi la produttività del lavoro coi formidabili incrementi ricevuti attraverso la varie fasi analizzate.
Non si tratta dunque di proporre mitigazioni o preconizzare piccoli
mutamenti secondari dell’assetto economico, ma si tratta della
posizione
più radicale che possa pensarsi, ossia della soppressione del
capitalismo
stesso, togliendo di mezzo le pretese dimostrazioni della necessità ed
immanenza sociale dei cardini su cui si regge. In altro luogo è
trattato
il punto successivo, ossia che tale trapasso è non solo possibile ma
necessario,
e in altro punto ancora, quando si affrontano problemi non più di sola
scienza ma d’azione, sarà dimostrato come e con quali forze si
eserciterà
in tale senso un’azione positiva, la cui esigenza non contraddice
affatto
all’assodata determinazione storica.
Ora che abbiamo seguito per sommi capi la variazione storica della durata della giornata di lavoro, e della produttività tecnica di esso, consideriamo quantitativamente le leggi di queste variazioni. In tutto quanto segue consideriamo costante il valore del denaro che si assume come misura di valore di ogni altra merce: supponiamo cioè che il procurarsi un chilo di oro costi sempre lo stesso tempo di lavoro medio e che il chilo di oro rappresenti sempre lo stesso numero di unità monetaria. Riprendendo l’esempio precedente, resti così fissa l’equivalenza di un’ora di lavoro con £.3.
Alle quantità prima considerate aggiungiamone una nuova, la produttività del lavoro, ossia la sua capacità a produrre nell’unità di tempo più o meno prodotti. Chiamiamo tale quantità con m, intendendo di riferirci con essa al grado di produttività medio sociale del lavoro. Chiamiamo invece intensità del lavoro la sua produttività in un’azienda singola, in quanto possa essere più o meno alta della produttività generale media, e chiameremo i tale intensità. Così, mentre la produttività media di un’ora di lavoro può equivalere ad x grammi di ferro, y grammi di cotone, 2 grammi di oro, 3 sterline, se invece un operaio in una data azienda è in grado, per sua abilità o per mezzi produttivi superiori, di produrre 2x grammi di ferro, 2y grammi di cotone ecc. ossia 2 ore di lavoro medio, diremo che la intensità è doppia di quella media.
Ponendo a parte completamente il capitale costante il cui valore passa inalterato nel prodotto, consideriamo la parte di valore dei prodotti dovuta a lavoro, composta al solito dal capitale variabile, o spesa salari o compenso del lavoratore (V), e dal plusvalore, o appropriazione del capitalista (S). Abbiamo chiamato saggio del plusvalore il rapporto s = S:V.
Chiamiamo sempre t il numero di ore di lavoro. Chiamiamo ora L la quantità del prodotto non più annua ma giornaliera, ed f il suo prezzo unitario, non più totale ma per la parte che rappresenta il lavoro e il pluslavoro (non il prezzo totale, comprendente anche il capitale costante).
Avremo allora
1°) (Caso 3° del cap. XVI) – Varia la durata del lavoro. Invece di t ore di lavoro t’ ore.
Posto t’ = αt, la quantità di prodotti L diverrà αL e il loro valore fαL = αt · £3. È cioè variata la somma del salario e del plusvalore. Quale sarà stata la variazione di ciascuno di essi? In generale il salario rimarrà costante, e tutto l’aumento ricadrà sul plusvalore (supposto che la variazione sia un aumento). Però, entro certi limiti, se i lavoratori danno più ore di attività consumeranno maggiori sussistenze, e sarà giocoforza accrescere i salari se non si vuole veder diminuita l’intensità e la produttività del lavoro, che per ora supponiamo costanti.
Quindi a un aumento della giornata corrisponde un aumento del valore prodotto, un certo aumento del salario e un aumento corrispondente di plusvalore.
2°) (Caso 2° del cap. XVI) – Varii l’intensità del lavoro ma la
giornata sia costante.
In una data azienda, senza prolungare le ore di lavoro, si riesca ad ottenere più prodotti nello stesso tempo, sicché l’intensità del lavoro, prima corrispondente alla produttività media m, diventi αm. Anche questa volta otterremo più prodotti, ossia L’ = αL. Non essendoci ragioni che il loro prezzo cambi sul mercato, si incasserà di più ossia: fαL = αt · £3 = α·(V + S) = V’ + S’.
Questo aumento del complesso V’ + S’ deve ripartirsi sul salario e sul plusvalore. Vi sarà un certo aumento di salario perché il lavoratore. lavorando lo stesso tempo ma più intensamente, consuma di più e può sempre offrirsi ad altri padroni sostituendo altro operaio che produca meno. Se però l’aumentata intensità dipendesse tutta da un segreto di lavoro del capitalista, esso potrebbe anche lasciare inalterato il salario (V’ = V) e riportare tutta la differenza sul plusvalore.
3°) (Caso 1° del cap. XVI) – Rimanendo costante la giornata di
lavoro e, ignorando variazioni particolari della intensità, varii la produttività media del lavoro in tutti i settori della produzione.
Come sempre la quantità dei prodotti da L diviene αL = L’ pur essendo sempre il risultato di t ore di lavoro medio. Ma poiché tale variazione per ipotesi interessa tutte le merci, comprese le materie prime, gli strumenti produttivi e le sussistenze, scenderanno tutti i prezzi, e con essi quello della forza lavoro. Il prezzo f diviene f’ = f/α, la spesa salari V’ = V/α.
Allora il ricavato della vendita del prodotto L’ sarà f’·L’ = LF. Perciò la giornata di lavoro produce maggior prodotto, ma lo stesso valore:
La somma del plusvalore e del salario resta invariata. Ma abbiamo visto che il salario è diminuito da V a V’, con V’ = V/α. Per conseguenza il plusvalore è aumentato:
Come sarà variato il saggio del plusvalore? Sarà aumentato a più forte ragione essendo S’ maggiore di S e V’ minore di V. Quindi diminuisce il valore della forza lavoro, cresce il plusvalore, cresce il saggio del plusvalore.
Il saggio diviene:
Essendo α più dell’unità, noi abbiamo che il saggio del plusvalore ha variato più che proporzionalmente alla produttività perché, oltre a corrispondere al vecchio saggio s moltiplicato per α, si deve aggiungere la ulteriore quantità positiva (α ‑ 1). L’errore di Ricardo fu, pur scorgendo l’aumento del saggio del plusvalore, di crederlo proporzionalmente all’aumento della produttività e alla riduzione del salario.
Esempio numerico chiarificatore. Posto il salario V di £.18, il plusvalore di £.12, e il prodotto totale di £.30 (6 ore, 4 ore, 10 ore), aumenti la produttività del 100%. Otterremo sempre £.30 perché mentre il prodotto sarà raddoppiato, poniamo 20 chili al posto di 10, il prezzo sarà £.1,50 invece di £.3 al chilogrammo. Il salario scenderà parallelamente da £.18 a £.9, il plusvalore salirà da £.12 a £.21, ossia crescerà meno del 100%. Il saggio del plusvalore era prima 12/18 = 66%, diviene ora 21/9 = 233%. Il saggio è aumentato nella proporzione 233/66, ossia del 350%, in corrispondenza di un aumento di produttività del 100%.
I tre casi esaminati possono cambinarsi con variazioni simultanee di tutte le grandezze (4° caso).
Quando, come nel primo caso, i prezzi generali non mutano, il
salario
o prezzo della forza lavoro non varia che per conseguenza di un maggior
pluslavoro, ossia con un consumo maggiore della forza lavoro. Se invece variano i prezzi pel
variare
della produttività generale, è la variazione dei salari che causa
direttamente
la variazione inversa del plusvalore. Il capitalismo fa sì che la
cresciuta
forza produttiva non si risolve in diminuito lavoro medio
ma in una aumentata proporzione tra il prelevamento di una classe privilegiata e il compenso del lavoro. Ciò oltre alle altre enormi "passività" sociali provocate per mantenere un tale stato di cose.
Sezione VI
IL SALARIO
In questo argomento ricordiamo soltanto che l’espressione esatta che designa nella nostra teoria il salario, ossia la somma di denaro versata del capitalista all’operaio per una giornata di lavoro è: prezzo della forza lavoro, ossia valore della forza lavoro. L’economia classica si affanna a cercare il valore del lavoro analogamente a quello di ogni altra merce. Con ciò si cade nell’equivoco di definire come valore della giornata di lavoro il valore trasmesso ai prodotti dell’attività giornaliera del lavoratore. Ora sappiamo che tale valore, corrispondente al consumo della merce "forza lavoro", è molto superiore al valore di essa (id est: valore d’acquisto, valore di mercato, dunque prezzo di essa forza lavoro).
Invano si cercò di risolvere la contraddizione sfuggendo alla constatazione che vi è una parte di lavoro non pagato, col riferirsi alle possibili oscillazioni del prezzo del salario analoghe alle oscillazioni di ogni altro prezzo per effetto della domanda e dell’offerta. Tale legge provoca oscillazioni o scarti in più o in meno rispetto ad una quantità media che è il valore di scambio. Ammesso che l’abbondanza di una merce rispetto al fabbisogno obblighi gli incauti o disgraziati produttori a venderla a prezzo ribassato, tale fenomeno, accompagnato alla riduzione della produzione, oppure il fenomeno inverso, sono fenomeni che riconducono all’equilibrio, ed è appunto la cifra di equilibrio del prezzo che chiamiamo valore e che cerchiamo di spiegare.
Così per la merce forza lavoro e per il salario. Indipendentemente
dal giuoco della domanda e della offerta (come indipendente da
ulteriori
fenomeni da studiarsi più oltre, quale sarebbe la resistenza sindacata
operaia e padronale) in regime di equilibrio esso salario è sempre
fortemente al disotto della quantità di valore fornito dal lavoro.
Invano
quindi l’economia classica cerca di far credere che in ogni acquisto
sul
mercato possa esservi un beneficio (sovrapprezzo) e così
occasionalmente
nell’acquisto della forza lavoro, restando il plusvalore un prodotto
miracoloso
del capitale. Sulla scorta di queste direttive generali possono
studiarsi
le varie forme di salario (paghe orarie o a cottimo), le oscillazioni
dei
salari da paese a paese e da epoca ad epoca (capitoli XVII-XX).
A conclusione del primo studio sul procedimento della produzione capitalistica svolto negli appunti che precedono, ricorderemo ancora una volta l’espressione della legge fondamentale scoperta da Marx
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«Il capitale non è soltanto potere di disporre del lavoro; è essenzialmente potere di disporre di lavoro non retribuito. Ogni plusvalore, sotto qualunque forma particolare di profitto, interesse, rendita ecc. si cristallizzi in seguito, è per essenza materializzazione di tempo di lavoro non pagato».
«L’arcano dell’autovalorizzazione del capitale si risolve nel suo
potere
di disporre di una data quantità di lavoro altrui non retribuito».
Il processo capitalistico si realizza in tre fasi: la prima avviene sul mercato, conversione del denaro in merci di produzione e forza lavoro; la seconda è la produzione propriamente detta. La terza, che si svolge anch’essa sul mercato, è la trasformazione dei prodotti ottenuti in denaro. L’insieme di queste fasi, che si ripetono indefinitamente, chiamasi circolazione del capitale (come già parlammo di circolazione delle merci e della circolazione del denaro).
Attraverso questo processo ritorna nelle mani del capitalista il capitale primitivo più un plusvalore. Questo può avere diverse destinazioni. Anzitutto, in dati casi, il capitalista imprenditore deve dividerlo con altri capitalisti, col proprietario fondiario ecc. In secondo luogo il plusvalore può essere o consumato dal capitalista o impiegato di nuovo come capitale.
Per ora si parlerà semplicemente della accumulazione del capitale, ovvero della sua formazione iniziale, della sua conservazione e del suo accrescimento a mezzo di parte del plusvalore. Chiamiamo accumulazione primitiva la prima formazione del capitale; riproduzione semplice la sua conservazione in quantità costante; riproduzione progressiva il suo continuo incremento per l’aggiungersi di parte di plusvalore.
Supponiamo che il capitalista impieghi come fondo di consumo personale e per la propria famiglia tutto il plusvalore fornitogli ad ogni atto di circolazione, riacquistando mezzi di produzione e forza lavoro sempre nella stessa quantità. Si dice allora che egli vive con la rendita del proprio capitale (benché con la parola rendita si indichi talora il capitale del plusvalore, anche se non tutto viene consumato dal capitalista).
Suol dirsi che il capitalista ha anticipato le spese per la produzione e tra esse il salario che permette agli operai di vivere e di conservare le proprie forze lavoro. Ma la spesa salari o capitale variabile non è che un aspetto storico particolare del cosiddetto fondo di mantenimento del lavoro che in ogni sistema economico assicura il perpetuarsi della produzione. Ciò, pur essendo una necessità sociale, si faceva in forme non ancora capitalistiche, come ad es. dal piccolo contadino o dell’artigiano, il quale ogni giorno lavorava tanto da disporre dei prodotti occorrenti al suo mantenimento. Il capitale, in realtà, avendo separato i lavoratori dai mezzi di produzione, si appropria di tutti i loro prodotti e non solo non anticipa, bensì rende ad essi a ciclo compiuto una parte sola dei prodotti medesimi convertendo l’altra in plusvalore. Quando noi consideriamo la circolazione del capitale nel caso della riproduzione semplice, e quando abbia raggiunto un regime costante, sparisce ogni anticipazione che possa da teorie morali o giuridiche essere accampata come giustificazione del plusvalore.
Certo che se, invece del regime ormai stabilito, consideriamo il periodo iniziale, un’anticipazione di valore deve essere constatata. Questa anticipazione di valore doveva rappresentare lavoro senza plusvalore; si asserisce, quindi, che sia lavoro degli stessi capitalisti in altri tempi. Si può accettare questa spiegazione salvo a discuterla parlando dell’accumulazione primitiva.
Un capitale di £.100 dia ora ad ogni ciclo un plusvalore di £.20. Ammesso che le £.100 rappresentino lavoro del capitalista e suo diritto a consumare altrettanto senza che si parli di plusvalore sorto da lavoro altrui non pagato, ne segue che si spiega come il capitalista possa, ripetendo cinque cicli produttivi, volgere in rendita cinque volte il plusvalore di £.20. Egli avrebbe allora consumato le primitive sue £.100 di valore lavoro. Ma dopo tale consumo non solo sussistono ancora le £.100 di capitale che egli potrebbe consumare a suo capriccio, ma di più queste sono suscettibili di produrre indefinitamente altro plusvalore. Adunque ammesso che le £.100 siano state effettivamente anticipate una volta come lavoro fornito o consumo risparmiato del capitalista, ciò non spiega come tale anticipo venga ritirato non già una volta sola, ma due, tre, quattro e mille e in teoria infinite volte. Quindi l’anticipazione, in quanto implica una restituzione, non può spiegare il fatto del plusvalore o rendita.
In altri termini la semplice riproduzione, per poco che il capitalista voglia consumare, basta per trasformare presto o tardi qualsiasi capitale anticipato in capitale accumulato. Quindi tutto il capitale è plusvalore capitalizzato, come tutto il plusvalore è lavoro non pagato. Il lavoro iniziale dei membri della classe capitalistica, volendo ammetterlo, è coperto dalle poche prime annualità di rendita (plusvalore volto a consumo). Adunque il meccanismo capitalistico, creatore di plusvalore, non è sorto per il semplice fatto che a taluno è riuscito di lavorare e non consumare. Ben altro è occorso perché la produzione di plusvalore si iniziasse; è occorsa la separazione forzata del lavoratore dai mezzi di produzione e dai prodotti, che lo obbligò a trasformarsi in salariato. La pretesa trasformazione del lavoratore artigiano, vincolato dai mille regolamenti medioevali, in lavoratore libero di contrattare la vendita della sua forza lavoro, significa in realtà una condizione di dominio della classe capitalistica su quella operaia, espressione cui noi diamo un significato materiale in quanto produce una sottrazione materiale di lavoro e di produzione come ogni altra forma storica di appropriazione di sopra lavoro. Nella riproduzione semplice il capitale riproduce sé stesso ma, soprattutto, lasciando all’operaio solo quanto basta alla stretta sussistenza, ed escludendolo salvo casi eccezionalissimi dalla possibilità di accumulare, anticipare a sua volta lavoro e valore, esso riproduce ossia conserva e difende (col solo fatto della semplice riproduzione, e col solo rispetto delle leggi statali che garantiscono lo scambio tra privati possessori lasciando teoricamente a tutti uguale diritto) i rapporti sociali di forza propri del regime capitalistico.
Se invece di spendere il plusvalore lo si impiega ancora in aggiunta al capitale, si ha un capitale aumentato che darà un plusvalore maggiore. Se per es. si sono anticipati in un ciclo produttivo £.250.000 di cui £.200.000 di capitale costante e £.50.000 di salari, e se il saggio di plusvalore è del 100% si ricaveranno £.50.000 di plusvalore e il capitale salirà a £.300.000. Impiegandolo in altro ciclo, [nella ipotesi che] il capitale variabile [rimanga] di £.50.000 e di altrettante il nuovo plusvalore, la prossima volta il capitale potrà essere di £.350.000 e così via.
In generale perciò bisogna domandarsi, passando ad esaminare il quadro totale della produzione, come il plusvalore realizzato in denaro troverà da convertirsi in capitale, dovendo perciò trovarsi sul mercato forze lavoro addizionali e materie prime e strumenti elaborati in altri atti produttivi. Quanto alla prima esigenza abbiamo già visto come il meccanismo capitalistico assicuri la produzione e l’incremento numerico dei lavoratori. Quanto ai prodotti atti a convertirsi in capitale (cioè non destinati né al consumo di capitalisti né alle sussistenze dei lavoratori) occorre che essi figurino in eccedenza nella produzione totale. Consideriamo per chiarezza il periodo di un anno: essa produzione totale relativa deve così comporsi: una parte che ricostituisce intatto il capitale costante (C), una parte che rappresenta sussistenze scambiate contro la somma dei salari o capitale variabile (V), infine il plusvalore (S) o prodotto netto. Di questo una parte va a consumo personale dei capitalisti, un’altra parte, che deve potersi trasformare in capitale, deve essere realizzata materialmente in sussistenze addizionali, in materie prime da lavorare, in strumenti di lavoro e macchine.
Così se le £.250.000 fossero tutte il capitale mondiale, £.200.000 di prodotti riformerebbero il capitale constante; £.50.000 sarebbero sussistenza (salari). Se delle 50 mila di plusvalore, £.10.000 fossero consumate dai capitalisti, £.40.000 andrebbero a nuovo capitale, a condizione che del prodotto totale annuo, del valore di £.300.000, esistessero materialmente per £.32.000 di mezzi produttivi, e 8.000 di sussistenze, in più.
Se si domanda donde il capitalista ha tratto le primitive £.250.000, si risponde che vengono dal suo lavoro o da quello dei suoi avi. Ammesso ciò per un momento, le cose non cambiano, però, per il capitale addizionale di 40.000. Esso non è che plusvalore, ossia lavoro non pagato, e le stesse forze di lavoro e i mezzi di produzione in cui si investono le 40.000, sono prelevati dal prodotto netto, ossia da quanto resta previa restituzione al capitale di tutte le sue anticipazioni, dunque dal plusvalore e dal lavoro tolto senza corrispettivo alla classe operaia.
Siamo venuti alla conclusione che quanto più lavoro non pagato il capitale ha preso tanto più ne prenderà. Ciò sembra contraddire alla legge fondamentale dello scambio tra equivalenti, che esigerebbe la formula opposta: più si è preso più si deve restituire. Inutile notare che la soluzione della contraddizione sta nella scoperta del plusvalore per cui la speciale merce lavoro, scambiata al suo valore, dà a chi la usa un valore superiore.
Ciò spiega perché lo stesso diritto di proprietà regoli l’economia mercantile fino a quando ogni produttore dispone del suo prodotto e lo reca al mercato, e seguita a regolarlo anche dopo il sorgere del capitalismo ha separato il produttore dai suoi prodotti. Sarebbe errore poi credere che la produzione mercantile potesse fare a meno di evolversi in senso capitalistico e che l’appropriazione di plusvalore possa cessare conservandosi il regime mercantile di scambio e di distribuzione (libero commercio).
Ciò perché soltanto a partire dal momento in cui la forza lavoro diviene merce la produzione mercantile diviene dominante nell’economia e ogni ricchezza circola sul mercato. Il diritto della proprietà privata viene ad identificarsi con quello dell’appropriazione capitalistica, non solo in quanto è diritto di proprietà privata sui mezzi di produzione, ma anche in quanto lo è sugli oggetti di consumo. La frase del testo «grande illusione è quella di talune scuole socialiste che si immaginano di poter infrangere il regime del capitale applicando ad esso le eterne leggi della produzione mercantile», avrebbe bisogno di lungo commento, se invece di esporre la teoria e la critica della economia capitalistica si esponessero e discutessero programmi sociali. Il socialismo non è solo la economia in cui i mezzi di produzione da privati diventano collettivi, ma è soprattutto quella in cui tutti i prodotti sono collettivi e collettivamente distribuiti; ogni circolazione con scambi di salari tra privati è abolita e sostituita da un meccanismo distributivo centrale che, parallelamente a quello che distribuisce il lavoro tra i produttori, fa giungere tutti i prodotti al consumatore immediato, a meno che non ne realizzi addirittura la disponibilità illimitata (servizi gratuiti dei trasporti, telefoni, poste, elettricità e via via di tutti gli altri consumi).
Nell’anzidetta frase è implicita la condanna di tutte le scuole corporative, sindacaliste, libertarie preconizzanti associazioni autonome di produttori professionali o locali (corporazioni, sindacato, comune, cooperativa) ed anche di quelli che ammettono un socialismo centralizzato nella produzione ma lasciante sussistere la distribuzione mercantile (8).
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La parte di rendita che il capitale consuma gli serve a comprare merci le quali evidentemente sono oggetti di consumo e non mezzi di produzione. L’economia borghese chiama lavoratori improduttivi quelli che hanno prodotto tali merci, lavoratori produttivi quelli che producono merci acquistate come capitale.
Essa ha insistito nel raccomandare al capitalista di consumare poco e di accumulare molto: beninteso per la produzione capitalistica accumulare non significa tesaurizzare denaro e merce, ma investire il valore in capitale cioè in mezzi produttivi. L’economia classica ha sostenuto sempre che carattere dell’accumulazione è il far consumare il prodotto netto (plusvalore) da lavoratori produttivi anziché improduttivi.
È erronea però la tesi di Smith e Ricardo che tutto il prodotto netto destinato ad accumulazione è consumato da lavoratori produttivi. Ciò vorrebbe dire che tutto il plusvalore viene anticipato come spesa salari; abbiamo visto che invece occorre anticiparlo parte come capitale costante e parte come capitale salari. È vero che anche la parte di prodotto netto investita in materie prime corrisponde a prodotti di altre lavorazioni che contengono altra parte di capitale salari; ma allora essi contengono anche altra parte di plusvalore, consumato da altri capitalisti.
Non si può quindi menar per buona ai capitalisti la tesi che «ogni parte di prodotto netto volto a capitale è consumato dai lavoratori».
Né è ancora il caso di tentare di riprodurre il quadro generale della circolazione della ricchezza, problema oltremodo complesso e difficile.
Chiamiamo grandezza dell’accumulazione il rapporto tra le parti di plusvalore accumulato come capitale e quello destinato al consumo del capitalista. D’altra parte l’accumulare parte del plusvalore è una necessità a cui il capitalista non può sottrarsi perché è una necessità dell’istesso capitale in lui personificato e della concorrenza delle aziende rivali. Quindi i primi capitalisti predicavano energicamente l’astinenza da eccessivo consumo personale che ritraesse capitale dell’accumulazione.
Tuttavia, per effetto dell’accumulazione stessa e del cresciuto volume del plusvalore, i capitalisti si permisero di consumare in sempre più larga misura.
Il concetto dell’astinenza fu elevato a teoria pretendendosi di far passare ogni capitale come valore che il capitalista si è astenuto dal consumare, ed ogni accumulazione come prodotto dell’astinenza capitalistica. Per rispondere a questa obiezione che vorrebbe dimostrare necessaria l’esistenza del capitalista se si vuole ottenere l’incremento della ricchezza sociale, si mostra anzitutto storicamente che società precapitalistiche presentavano la riproduzione semplice e anche quella allargata senza che vi fosse plusvalore capitalistico, ed accumulazione di capitale, come nelle Indie ove i contadini erano piccoli proprietari autonomi versanti un annuo tributo ai signori locali.
Anche in una economia di questo genere una parte del prodotto è volta a nuove e maggiori produzioni, senza che intervenga il capitalista ad astenersi dal mangiarla.
Tale ragionamento si completa (anche quando ciò nel testo non è esplicito) con la conclusione: si potrà benissimo destinare parte del prodotto sociale (per fissare le idee, poniamo il 20%) a mezzi di produzione addizionali, senza alcun bisogno di attribuirne una quantità assai superiore (poniamo il 40%) al capitalista, perché questi abbia a farsi il merito di essersi astenuto da consumare la parte primitiva, pur consumando liberamente la differenza.
Ammesso che una aliquota sempre costante di plusvalore venga consumata, ed il resto capitalizzata, (ad es. il 20% e l’80% rispettivamente) la quantità del capitale accumulato dipenderà dalla quantità o massa di plusvalore. Influiscono quindi sulla quantità dell’accumulazione le stesse cause che influiscono sulla quantità del plusvalore. Queste cause sono già state esaminate. Sempre a parità del valore di denaro ecc. esse sono:
a) Grado di sfruttamento della forza operaia ovvero saggio di plusvalore, ovvero rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario. Osserviamo a tal proposito che qualora il capitalista riesca a prolungare il pluslavoro (diminuendo il salario o prolungando la giornata) egli non sarà obbligato, per accrescere la forza lavoro adoperata, ad accrescere contemporaneamente il capitale costante, come avverrebbe se senza poter modificare il pluslavoro ingaggiasse nuovi operai alle stesse condizioni dei vecchi. Quindi tutto l’aumento di capitale genererà aumento di prodotto netto, di plusvalore, di accumulazione.
Se lo sfruttamento del lavoro avesse inizio nelle industrie estrattive e minerarie, che non abbisognano di materie prime, l’intensificato sfruttamento della forza lavoro fornirà maggiore slancio all’accumulazione. Nell’agricoltura l’effetto è quasi analogo, a parte la necessità di investire capitale in concimi, oggi d’altronde forniti da industrie estrattive o chimiche. Infine nelle manifatture e nelle fabbriche l’aumento della spesa in lavoro non presuppone, quando derivi da aumentato pluslavoro, aumento di capitale costante per impianti, ma solo per acquisto di materie prime, e se queste provengono dall’aumentato margine di prodotto netto delle industrie estrattive e dell’agricoltura avremo come risultato finale un impulso poderoso dell’accumulazione.
b) Produttività del lavoro – L’aumento di produttività del lavoro arreca come abbiamo mostrato, se anche non cambi la giornata di lavoro, un amento di plusvalore. Inoltre, sebbene il valore totale del prodotto non muti, varia la sua quantità materiale sicché alla stessa cifra di denaro corrisponde più valore d’uso e soddisfazione di maggiori bisogni. Quindi da un lato abbiamo che cresciuto il plusvalore cresce l’accumulazione, dall’altro una rendita minore può soddisfare gli stessi bisogni del capitalista; quindi questi può accrescere la percentuale di capitalizzazione. Il nuovo capitale accumulato nominalmente conserva lo stesso valore, ma rappresenta maggiore massa di prodotti, siano essi materie prime o strumenti o sussistenze destinate a compensare il lavoratore. Di qui maggiore potenza accumulatrice di questo capitale.
Chiamando capitale addizionale quello derivato dal plusvalore, abbiamo che per i progressi scientifici e tecnici la parte di esso investita in strumenti di lavoro (impianti, macchine) si concreta in tipi più efficienti di quelli corrispondenti all’antico capitale. Questo rimane con ciò deprezzato, ma poiché occorre periodicamente rinnovarlo e tale anticipazione è già prevista in tutte le nostre deduzioni e calcoli, esso viene ben presto rinnovato.
Meno sensibile ancora è tale fenomeno per le materie prime, il cui consumo e rinnovamento è annuale se provengono dell’agricoltura, e mediamente molto più rapido se vengono dall’industria. La chimica scoprendo sempre nuove materie utili, talune delle quali erano rifiuti o non valori, le trasforma in elementi addizionali per l’accumulazione. A misura quindi che la potenza del lavoro favorisce una accelerata accumulazione, essa conserva e ravviva un primitivo valore capitale. Tale proprietà, inerente al lavoro umano socialmente diviso ed alle conquiste della scienza, presentasi falsamente come un attributo del capitale che ne giustifichi la incessante appropriazione di pluslavoro (9).
c) Rapporto tra il consumo del capitale impianti e la sua importanza – È chiaro che il capitale investito in impianti (fabbriche, strade, ponti, ferrovie, macchine, navi, miglioramenti fondiari, canali, impianti elettrici ecc. ecc.) aumenta continuamente, mentre tende a diminuire la produzione di esso che si consuma poniamo in un anno. Quel valore enorme, mantenuto con sforzi relativamente lievi, equivale ad un servizio gratuito fornito dal lavoro delle generazioni passate. Mentre il senso di questo processo dovrebbe far intravedere la tendenza alla soddisfazione di tutti i bisogni con un minimo di lavoro sociale, tale contributo viene dall’economia ufficiale attribuito non al lavoro passato ma al capitale attuale per cui il plusvalore (profitto o interesse) apparirebbe come compenso non più dell’astinenza, ma del lavoro di altri tempi. È chiaro invece che tutti questi processi d’incremento della ricchezza collettiva non sono condizionati ma anzi, a partire da una data epoca storica che stiamo vivendo, gravemente intralciati dal sistema capitalistico.
d) Grandezza del capitale anticipato – Altra causa che influisce sull’accumulazione a parità di saggio del plusvalore, è la quantità del capitale anticipato che determina corrispondente plusvalore ed accumulazione.
Tutte queste cause di accumulazione non agiscono dunque in modo uniforme ma con ritmo crescente ed accelerato (analogamente al crescere degli interessi composti). La linea che può dare un diagramma della intensità del capitalismo non è una retta ma una curva che piega sempre più verso l’alto fino a tendere alla direzione verticale. Ciò dà una idea del fatto che il capitalismo non può avere durata indefinita ma corre con ritmo accelerato alla sua fine.
Taluni economisti borghesi pretendevano che, sebbene la massa totale
del capitale varii aumentando continuamente, la frazione di esso che si
investe in sussistenza dei lavoratori resti costante, essendovi un
limite
quasi naturale (!) per cui malgrado il loro sforzo i lavoratori non
possono
che contendersi tra loro questo totale. Tale teoria non merita alcuna
critica
essendo senz’altro smentita dagli stessi dati di fatto del sistema
capitalistico.
[Prometeo, n. 11, novembre-dicembre 1948]
Sappiamo che il capitale si compone di una parte costante (valore dei mezzi di produzione) e di una parte variabile (somma dei salari). Chiameremo ciò, "composizione rispetto al valore" o composizione organica, chiameremo poi "composizione tecnica", la divisione materiale in mezzi di produzione e in forza operai. Benché la composizione dei capitali varii molto a seconda dei tipi di industria e varii anche da azienda ad azienda della stessa industria, si può parlare di composizione media del capitale sociale riferendosi alla proporzione tra tutto il capitale variabile e tutto il capitale costante (in un paese o in tutto il mondo capitalistico).
L’accumulazione accresce di continuo il capitale, e ciò tanto per la parte costante che per la parte variabile. Aumenta dunque la spesa totale di salari e ciò – esigendo maggior numero di lavoratori – dà luogo alla cosiddetta domanda di lavoro. Ogni anno lavora un numero di salariati maggiore del precedente. Ma il numero di salariati disponibili od offerta di lavoro non è illimitato, e ciò in generale produce un elevamento del saggio dei salari. Di qui la legge generale: l’accumulazione tende a far salire il saggio dei salari.
Questo punto importantissimo esige alcune osservazioni. Anzitutto, mentre non ci siamo ancora occupati del giuoco della domanda e della offerta rispetto ad una merce qualunque, si potrebbe domandare perché la consideriamo rispetto alla forza lavoro. Ora, se è vero che il prezzo di una merce allorché essa scarseggia sul mercato cresce per effetto della concorrenza tra molti compratori che ne abbisognano, e viceversa, tale fenomeno ha uguale probabilità di accadere in un senso e nell’altro e viene equilibrato assai facilmente dalla elasticità della produzione e della moderna efficienza dei mezzi di trasporto. Il diagramma dei prezzi di una merce registra oscillazioni sopra e sotto una "linea di compenso" che noi consideriamo come rappresentante del valore. Ben diverso è il caso della forza lavoro. Anzitutto il suo prezzo-salario, pure oscillando intorno al valore determinato dalla somma delle sussistenze, ha la possibilità teorica di salire per tutto lo spazio del pluslavoro, rimanendo al consumatore e domandatore di tale merce, il capitalista, un margine di benefici rappresentato dal plusvalore maggiore o minore. Quindi l’alzare il salario non significa pagare un premio in pura perdita perché una merce necessaria scarseggia, ma solo subire, per non perdere tutto il profitto, una relativa diminuzione dello stesso. Inoltre non è una cosa altrettanto facile equilibrare l’eccesso o difetto di forza lavoro quanto quello di una merce materiale, trattandosi di numero maggiore o minore di uomini atti al lavoro che dipende da circostanze in parte non controllabili. Quindi la possibilità di oscillazioni del salario è di ben altra importanza economica di quella di un qualunque prezzo del listino.
In secondo luogo non deve stupire la constatazione che lo sviluppo generale del capitalismo sia nel senso dell’accumulazione e dell’elevamento dei salari. Ciò è avvenuto storicamente dal principio del XV secolo fino all’epoca del nostro testo ed ha seguitato ad avvenire dopo, pretendendosi da critici ignoranti che ciò smentisca le leggi della dottrina che esponiamo. Si confonde infatti da costoro un movimento di ribasso dei salari che mai Marx ha teorizzato con la dottrina della miseria crescente la quale si riferisce alla successiva espropriazione di artigiani, piccoli rentiers, piccoli proprietari fondiari e piccoli capitalisti, ed anche alla caduta di categorie di operai non specializzati (unskilled workers) in un sottoproletariato.
Dunque, l’aumento del saggio dei salari era formalmente previsto, ma altri polemizzatori e deformatori hanno voluto asserire che tale fenomeno significa la evoluzione del capitalismo nel senso di divenire più tollerabile e civile. Anche tale tendenziosa tesi è in contraddizione col testo: «le circostanze più o meno favorevoli in mezzo alle quali la classe operaia si riproduce non cambiano nulla al carattere fondamentale della riproduzione capitalistica». Ciò viene spiegato col dire che la riproduzione semplice lascerebbe inalterato il rapporto sociale tra capitale e salario e i termini di esso; l’accumulazione aumenta entrambi i termini nelle stesse proporzioni; dà luogo a più capitale e ad una classe capitalistica più potente, e dà luogo a maggiore massa di salario e a più numeroso proletariato, sicché il rapporto dei due termini resta lo stesso, e lo stesso il loro contrasto. Accumulandosi, il capitale fa accumulare il proletariato. Ristabilita la interpretazione giusta non è il caso di proseguire l’analisi della quistione se le condizioni della lotta sociale siano bene o male influenzate da un più basso trattamento dei lavoratori. Se un regime molto depresso riesce intollerabile e prepara una esplosione, una maggiore sfera di bisogni per la classe operaia nel momento in cui il capitalismo rivela bruscamente la incapacità a ulteriormente soddisfarla può produrre una controreazione più profonda e più efficace.
Avviene dunque un giuoco tra la domanda di lavoro del nuovo capitale accumulato e l’offerta di lavoro limitata dal numero della popolazione dal cui seno escono gli operai.
Il capitale col suo trionfo politico nella rivoluzione borghese tende a lanciare braccia sul mercato del lavoro per pagarle di meno. Esso "libera" perciò i servi della gleba e predica l’aumento della popolazione. I ceti feudali e aristocratici che contrastano tale movimento trovano rappresentanti nella oligarchia fondiaria inglese centro della lotta contro la rivoluzione francese, e rappresentante di essi è Malthus il quale ostentando pietà per la miseria degli innumerevoli lavoratori ridotti a dividersi in porzioni sempre più piccole il capitale salari disponibile, ma attaccando il capitalismo da un lato reazionario e diametralmente opposto a quello di Marx, predica che mentre i mezzi di sussistenza crescono in progressione aritmetica, la popolazione tende a crescere in proporzione geometrica, da cui sempre maggiore miseria. Il rimedio preconizzato è l’astensione sessuale per limitare le nascite. Non occorre dire che invece secondo la nostra scuola l’aumento della popolazione viene compensato dall’aumento della potenza produttiva sociale, ma che questa deve venire svincolata dal dominio del capitalismo perché possa razionalmente soddisfare i bisogni di tutti.
Adunque si ha un movimento di miglioramento del salario, ma ciò "non abolisce le catene del salariato". Inoltre tale movimento generale non è continuo e senza scosse. Anche quando i salari continuano ad aumentare per l’accumulazione di sempre più grandi capitali, pur essendo ridotto il saggio di profitto, non per questo rallenta l’accumulazione e l’aumento della potenza capitalistica. Può avvenire però che l’aumento dei salari sia tale da scoraggiare nuovi investimenti di capitali e rallentare l’accumulazione. Si stabilisce così l’equilibrio poiché i salari tornano a diminuire relativamente e l’accumulazione riprende la sua marcia. Queste oscillazioni sono analoghe alle "crisi" che attraversa la produzione capitalistica. Non è a credere che questi periodi di squilibrio dipendano dall’andamento della popolazione; non è il variare dell’offerta di lavoro che fa variare i salari e influenza l’accumulazione, ma è l’andamento dell’accumulazione che con la domanda di lavoro fa variare il saggio dei salari e quindi il rapporto tra il lavoro pagato e il lavoro gratuito della popolazione operaia disponibile. «Il prezzo del lavoro non può mai elevarsi se non entro limiti che lascino intatte le basi del capitalismo e ne assicurino la riproduzione in proporzioni progressive». Chi non capisce ciò non capisce il principio stesso e il carattere specifico della produzione capitalistica (dice due volte il testo) cioè che vi sarà lavoro per l’operaio solo quando vi sarà stato plusvalore per il capitalista. Ciò basta a mostrare come abbiano tenuto fede al testo di cui ci occupiamo quelli che hanno designato la previsione di un aumento graduale dei salari corrispondente ad una diminuzione graduale dei profitti e ad una eliminazione evoluzionistica del capitalismo.
Nello stabilire che l’accumulazione fa elevare il saggio dei salari supponevamo che la composizione del capitale rimanesse costante.
In realtà non è così poiché parallelamente al crescere dei capitali per effetto dell’accumulazione si verifica il progresso tecnico nella produttività del lavoro che fa sì da rendere necessari strumenti e macchine più complessi e costosi. Tende cioè a crescere la produzione del capitale costante rispetto a quello variabile. Il capitale costante cresce per due motivi: perché a parità di lavoro umano si utilizzano macchine ed impianti di maggiore valore, e perché a parità di lavoro avendosi più prodotto si elaborano più materie prime. Tuttavia l’incremento del capitale costante rispetto a quello variabile non è così rapido dal punto di vista del valore come da quello tecnico.
Infatti l’accumulazione va di pari passo con l’incremento dei mezzi di produzione a parità di forza lavoro impiegata, ma mentre con l’accumulazione il prezzo della forza lavoro tende a crescere, tende invece a diminuire, per essere cresciuta la produttività del lavoro, il valore delle macchine e delle materie prime. Il fenomeno in esame ne resta non annullato ma rallentato. Inoltre va notato che anche decrescendo il capitale salari per rapporto a quello costante, esso capitale salari può aumentare in grandezza assoluta se è stato forte l’aumento della massa totale del capitale.
In conclusione per aversi lo specifico tipo di produzione capitalistico occorre all’inizio una certa accumulazione di denaro convertibile in capitale tra le mani di taluni individui (accumulazione primitiva di cui vedremo la genesi). Ma se l’accumulazione genera capitalismo, il capitalismo non può che generare altra accumulazione, dilatandosi sempre più la proporzione delle imprese.
Il primitivo formarsi di capitale è il concentrarsi nelle mani di un individuo non semplicemente di una somma di denaro, ma (a mezzo di questa) di una somma di mezzi produttivi e sussistenze operaie che prima erano a disposizione in modo sparpagliato di molti piccoli produttori indipendenti. Adunque la prima accumulazione è un concentramento di capitale. L’ulteriore accumulazione fa ulteriormente avanzare il concentramento dei capitali in poche mani, tendendo ogni singolo capitale a diventare più grande. Tuttavia accanto a questa tendenza dei capitali ad ingrandire, vi è una tendenza in senso opposto al formarsi di nuovi piccoli capitali, sia perché si ripetono i fenomeni di accumulazione iniziale, sia perché grandi capitali vengono non di rado a frazionarsi, ad es. per successioni ereditarie.
Ad un certo punto dello sviluppo del capitalismo la tendenza alla concentrazione piglia decisamente il sopravvento rispetto a quella della dispersione. Abbiamo la fondamentale legge della concentrazione del capitale non più nel senso determinato puramente dall’accumulazione, ma in un senso più spiccato in quanto centri diversi di accumulazione e di concentramento si attraggono e si riuniscono tra loro.
Ecco come si svolge tale fenomeno. Tra capitalista e capitalista si svolge la guerra della concorrenza a colpi di bassi prezzi. Ma il basso prezzo si raggiunge normalmente aumentando la produttività del lavoro, e ciò non può farsi, per un certo grado di sfruttamento della forza operaia, che perfezionando i rinnovando i mezzi di produzione. Ciò è possibile purché possano investirsi nuovi grandi capitali. Di qui il successo dei grandi capitalisti e la rovina dei piccoli i cui capitali dapprima tentano di passare a sfere di produzione ancora non modernizzate, quindi o si disperdono o passano nelle mani dei vincitori. In più col capitalismo fiorente può svilupparsi il credito, meccanismo che consente a chi ha forti capitali di far fronte ad anticipazioni anche maggiori del totale dei capitali stessi, mentre non lascia tale facoltà e tiene sotto pressioni implacabili i piccoli imprenditori. Concorrenza e credito concorrono all’accentramento del capitale, chiamando accentramento questo secondo fenomeno per distinguerlo dal concentramento, effetto immediato dell’accumulazione. Il concentramento può avvenire di pari passo per tutte le imprese, l’accentramento avviene a beneficio di alcune e a scapito di altre.
L’accentramento ha permesso di far sorgere gigantesche imprese capitalistiche assai prima di quanto avrebbe potuto farlo il concentramento semplice dei capitali individuali. La costituzione di società per azioni è una forma di accentramento, poiché ciò che è indice di maturità del capitalismo è la riunione tecnica di grandi masse di mezzi produttivi e non la riunione giuridica di grandi valori nelle mani di un solo privato, fenomeno offerto copiosamente anche da altre economie (Ciro, Crasso, India, ecc.). Il cenno alle società per azioni è nel testo e mostra quanto valga la banale critica che il diffondersi delle società per azioni sia una smentita alla teoria dell’accentramento.
L’accentramento comunque ottenuto accelera la riproduzione del capitale in nuovi investimenti e perfezionamenti produttivi. Parallelamente prosegue il fenomeno accennato del crescere del capitale costante rispetto a quello variabile, cosicché se la domanda di lavoro da una parte aumenta perché aumenta la massa totale del capitale, dall’altra parte tende a diminuire perché diminuisce la proporzione del capitale salari col totale, non solo per i nuovi capitali investiti in impianti più moderni, ma anche per i vecchi che non tardano a porsi al corrente di tali innovazioni.
Posta la questione dell’amento di capitale accompagnato del diminuito rapporto della parte variabile a quella costante, si chiede se il capitale variabile in quantità assoluta, e con esso la domanda di lavoro, tendono ad aumentare o a diminuire. In generale, il mutamento della composizione del capitale può far sì che si abbia aumento, stazionarietà, o diminuzione del fondo salari.
Il fenomeno può assumere aspetti diversi per i vari rami di industria, come può avvenire una compensazione della domanda di lavoro tra di essi. Parlando dell’introduzione del macchinismo abbiamo già esaminato una questione di questo genere. In una impresa viene introdotta la macchina licenziando un certo numero di operai, quindi si avrebbe una diminuita domanda di lavoro. Ma l’analisi non si ferma qui. Le macchine per essere fabbricate abbisognano di mano d’opera, inoltre con le macchine si lavorano più materie prime, da cui richiesta di lavoro in industria di altri rami. È vero che il macchinismo a poco a poco conquista anche queste ma l’aumento generale della produttività del lavoro consente ottenimento di prodotti e sussistenze a più buon mercato, disponibilità di maggiore plusvalore e quindi nuovi investimenti di capitali. In conclusione la tendenza generale è l’aumento del numero dei salariati in conseguenza del progresso dell’accumulazione, e strati sempre più larghi della popolazione vengono ad ingrossare la classe operaia industriale.
Tale svolgimento però non è affatto continuo. Quando l’eccessivo desiderio di investire plusvalore in nuove imprese ha spinto al massimo il numero degli operai, i prodotti diventano sovrabbondanti. Appena la loro distribuzione trova difficoltà non essendo essi più richiesti dal consumo, si verificano le cosiddette crisi di sovraproduzione. Grandi masse di merci restano invendute, i capitalisti fermano o riducono l’attività dei loro opifici e un grande numero di operai viene licenziato. Per uscire dalla crisi il capitalismo si sforza di produrre a più basso costo, utilizzando al massimo tutti i perfezionamenti tecnici. All’uscita della crisi si è stabilito un certo rapporto, più basso del precedente, tra capitale variabile e capitale totale. Produzione ed accumulazione ricominciano, e con l’aumento del capitale totale per un certo tempo aumenta anche il capitale salari e la domanda di lavoro. Durante questo intervallo normale il numero dei salariati riprende ad aumentare, domanda ed offerta di lavoro sono presso a poco equilibrate. Ma un’altra crisi non tarda ad avvicinarsi sicché gli operai attirati in numero sempre maggiore vengono bruscamente respinti nella disoccupazione. Il succedersi di queste alternative e la creazione di questa eccedenza di salariati rispetto alla esigenza del capitale accumulato caratterizza la produzione capitalistica. Gli economisti hanno variamente interpretato questo processo, scorgendone le cause dell’aumento della popolazione e formulando le famose leggi di popolazione.
La vera legge di popolazione dell’epoca capitalista è però solo questa: che l’accumulazione del capitale producendo un’eccedenza di popolazione operaia o un esercito industriale di riserva crea una ulteriore condizione di esistenza e di sviluppo per il capitalismo stesso. Questa riserva viene successivamente utilizzata nei periodi di produzione crescente, quindi allo scoppio della crisi viene buttata fuori. Il succedersi di queste crisi si è presentato durante il secolo XIX a periodi di 10-11 anni circa, con tendenza all’abbreviamento dei periodi.
Accenniamo soltanto che la prima che la prima guerra mondiale, mentre a sua volta fu un effetto della corsa alla sovraproduzione industriale, che si sforzava di evitare le crisi rovesciandosi sui mercati esteri e coloniali ("L’imperialismo come più recente fase del capitalismo"), ha rappresentato sia l’esplosione della crisi che il mezzo di inghiottire una pletorica attività industriale. Le sue conseguenze presentarono un incalzarsi di crisi parziali o addirittura le vicende di una crisi generale più profonda (10).
È costante preoccupazione del capitalismo e dei suoi teorici quella della formazione e conservazione dell’esercito industriale di riserva favorita col lanciare nel lavoro artigiani, contadini, donne, fanciulli, neri, cinesi ecc. oppure con la campagna per l’intensa prolificazione dei lavoratori indigeni. Perfino il reazionario Malthus si preoccupava della eccessiva riduzione delle nascite in seno al proletariato in un paese industriale.
Non è dunque possibile far dipendere il movimento del capitale e il saggio del salario dall’aumento delle cifre assolute della popolazione come pretendono gli economisti borghesi.
Essi credevano che il saggio dei salari dipendesse dalla offerta di lavoro corrispondente al crescere delle generazioni successive e che il diminuire dei salari, allorché il capitale più non poteva occupare tutte le braccia, decimasse con le privazioni il proletariato riducendone la fecondità.
Invece le variazioni demografiche sono fenomeni a lunga ripercussione rispetto alle frequenti vicende del saggio dei salari che come abbiamo detto dipendono dalla espansione e contrazione dell’attività del capitale.
In conclusione è assurdo sperare che la soluzione delle crisi e dei contrasti del capitalismo possa sorgere dal giuoco della provvidenziale legge della offerta e della domanda applicata al salario. Il giuoco del fenomeno è sempre a vantaggio della classe capitalistica.
Naturalmente gli economisti borghesi hanno gridato allo scandalo e alla violazione della sacra legge dell’offerta e della domanda allorché i lavoratori per mezzo dell’organizzazione economica hanno cercato di attenuare gli effetti della reciproca concorrenza realizzando l’azione comune tra quelli che hanno lavoro e quelli che non ne hanno.
Non è questo il luogo di mostrare che tuttavia anche l’organizzazione sindacale non può impedire lo svolgimento generale del capitalismo né superare i suoi principi. La sua importanza sta nell’attrarre nel movimento di classe strati sempre più larghi, come da altro ben noto testo.
Il testo chiama forma fluttuante quella in cui i lavoratori in soprannumero, respinti per il perfezionamento tecnico degli opifici, sono riassorbiti per l’aumentata potenzialità e produzione di essi. Chiama forma latente quella per cui in distretti rurali i perfezionamenti tecnici rendono disponibili un gran numero di lavoratori che sono costretti a riversarsi nelle città offrendosi ai padroni industriali (fenomeno dell’urbanesimo). Chiama forma stagnante quella per cui si forma un eccesso nel numero dei lavoratori sia dell’industria che nell’agricoltura, respinti dai perfezionamenti, e che si offrono per lavori ad alto grado di sfruttamento come il cosiddetto lavoro a domicilio (sweating system). Infine l’ultimo residuo dell’eccedenza di popolazione operaia costituisce il pauperismo, da non confondersi ancora con i vagabondi, delinquenti, mendicanti, prostitute, costituenti i ceti non lavoratori (malavita, teppa, ecc.) che hanno grande importanza numerica soprattutto nelle moderne metropoli. Tornando alla parte di eccedenza operaia pauperistica essa comprende tre categorie: operai atti a lavorare ma disoccupati, orfani e figli di assistiti dalla carità pubblica (queste due categorie sono a disposizione del capitalismo per rientrare in servizio attivo nei momenti di grande richiesta) infine gli operai che per età, invalidità, o superamento del loro mestiere sono per sempre inabilitati.
Quindi se è vero che col progresso dell’accumulazione il saggio dei salari tende in generale ad elevarsi per i lavoratori che trovano occupazione, e se anche è vero che il capitale salari totale e il numero dei lavoratori tendono a crescere, contemporaneamente si verifica la creazione di un sempre più vasto esercito di riserva, composto di antichi artigiani e piccoli proprietari rovinati o espropriati per la trasformazione in salariati, ma esposti coi loro discendenti ai rischi della disoccupazione e quindi della miseria più nera malgrado le misure sia della carità sia della legislazione sociale sia della solidarietà operaia.
Più aumenta il capitale totale e quindi la ricchezza nazionale e sociale (in realtà ricchezza della classe capitalistica), più aumenta la ricchezza industriale e con essa il dominio del pauperismo (veggansi le enormi masse disoccupate nei paesi capitalisti nel dopoguerra). Tutto ciò costituisce la legge della crescente miseria del proletariato contrapposta alla crescente ricchezza capitalistica, non contraddetta affatto dal crescere – alla scala storica – dei salari per i lavoratori occupati ed anche del migliorato tenore di vita per talune categorie privilegiate, né scongiurata da misure legislative sociali, nel quadro dell’ordinamento capitalistico.
Gli scrittori borghesi dapprima esortavano i lavoratori a ridurre il loro numero, se volevano non eccedere i bisogni del capitale, ben sapendo che mai la riduzione sarebbe stata tale da provocare il loro allarme. In seguito ammisero cinicamente che questa povertà nelle classi inferiori era la condizione migliore per la prosperità della nazione. Oggi, e dopo Marx, non si trovano più tali affermazioni, dominando la ipocrita filantropia sociale, la demagogia e il decantare rimedi illusori affidati all’associazione e allo Stato.
Ma la legge fondamentale dell’accumulazione capitalistica seguita ad
essere la stessa: tutti i mezzi per moltiplicare le forze collettive
del
lavoro che dovrebbero concorrere ad elevare il tenore di vita media, si
applicano a danno del lavoratore individuale e diventano mezzi per
sottometterlo
al dominio del capitale privato. Qualunque sia il saggio dei salari, il
progresso dell’accumulazione comporta l’aumento dell’eccedenza relativa
di popolazione operaia; a misura che il capitale si accumula la
condizione della classe operaia peggiora.
Il denaro diviene capitale, il capitale produce plusvalore, questo diviene capitale addizionale, dunque il capitale si produce dal meccanismo stesso del capitalismo. Tuttavia perché questo facesse la sua comparsa nella storia un primo capitale ha dovuto formarsi in ambiente non capitalistico.
L’economia classica considerando il capitale come valore accumulato ossia prodotto di lavoro accumulato afferma che i primi capitali si formarono col lavoro e col risparmio dei loro possessori.
Ora se è vero che ogni valore sorge da lavoro umano, non è vero però che il valore prodotto dal lavoro resti nelle mani di chi ha lavorato. In generale nelle epoche storiche fin qui svoltesi il frutto del lavoro è stato sempre tolto dalle mani del lavoratore e la sua accumulazione da parte del proprio diretto artefice è sempre stata un caso affatto eccezionale.
Contro l’idillio che dovrebbe regnare nei manuali di economia, nella storia vera regna la conquista, la tirannia, la rapina, ossia la forza bruta.
L’esistenza di un potere statale e delle forme giuridiche, anche facendo astrazione dalle palesi ed occulte violazioni, non ha mai significato la garanzia che il prodotto rimanesse attribuito al produttore. Anzitutto epoche di convulsioni sociali e politiche costituiscono bruschi trapassi tra un regime legislativo e l’altro, e le guerre civili o nazionali rappresentano o comportano sempre vaste espropriazioni, ma escludendo pure queste parentesi al diritto nel senso storico come abbiamo escluso quelle nel senso personale (delinquenza), noi non riconosciamo affatto ai vari sistemi giuridici che hanno finora dominato il carattere di assicurare al produttore il pacifico godimento di tutto il frutto del lavoro.
Il diritto è garantito nella sua applicazione dalla forza materiale dello Stato. Noi non vediamo nello Stato il rappresentante imparziale di interessi collettivi, ma invece l’organo del dominio di una parte della società, ossia di una classe.
Per conseguenza il diritto è volta a volta la codificazione delle norme che valgono a far rispettare gl’interessi di quella classe. Esistono quindi lo Stato e la legge proprio quando una classe ha bisogno di esercitare sulle altre una continua pressione coattiva, e poiché alla base di tali rapporti stanno gli interessi economici, di realizzare appunto la sistematica espropriazione in parte più o meno larga delle energie produttive delle classi sottomesse. Stato e diritto, dunque, significano appunto un sistema che vale a trasmettere il frutto del lavoro dai lavoratori ai non lavoratori.
Per intendere la struttura sociale e le vicende politiche di una data epoca noi ci domandiamo quali sono le classi in contrasto, quale di esse detiene il potere ossia lo Stato, e prima ancora ci domandiamo quali rapporti o forme della proprietà stabilisce e conserva il sistema in vigore. A loro volta i rapporti di proprietà si spiegano analizzando le forze di produzione, ossia le risorse tecniche di cui il lavoro dispone e la sua organizzazione e ripartizione fra gli uomini. Le forze produttive sono in ogni epoca le risorse materiali e fisiche utilizzate e i gruppi di uomini adibiti al lavoro. Queste forze produttive sono contenute in un determinato schema di rapporti di proprietà di cui stanno a guardia la legge e la forza statale. Ma per complessi motivi, come il crescere delle popolazioni, il trasformarsi della tecnica produttiva, per effetto di nuove invenzioni, per l’aprirsi di vie di comunicazioni e così via si creano delle condizioni per cui le forze produttive, e, prima tra esse, la classe che fornisce il lavoro, vengono in urto con le vigenti forme di proprietà. Di qui un’epoca di rivoluzione sociale, con la lotta tra la classe che beneficiava del vecchio sistema ed una classe fino ad allora dominata, la infrazione delle forme di proprietà, cioè l’abbattimento dello Stato, e il sorgere di un nuovo Stato con un diritto diverso.
Ritornando al quesito della prima accumulazione capitalistica, è attraverso un’analisi di tal genere che ne va cercata la soluzione, e non già nell’ingenua e tendenziosa asserzione che il lavoro e l’astinenza crearono il capitale originario. Tuttavia sarà bene prima ricapitolare l’applicazione più elementare di quanto abbiamo detto alla storia della società.
Agli inizi dell’attività lavorativa e della vita economica e sociale gli uomini sono pochi, mentre la terra disponibile è vastissima. I popoli sono divisi in piccole tribù vaganti che esercitano un’agricoltura e pastorizia primitiva, coltivando in comune una zona di terra occupata sotto la direzione di un capo che è dapprima il padre di famiglia. La proprietà individuale e la divisione in classi non fanno ancora la loro apparizione in questo periodo di comunismo primitivo.
La mobilità stessa delle tribù comporta il loro incontro, l’estendersi delle risorse produttive e dei bisogni, i conflitti, e l’imprigionamento dei vinti. Appaiono caste militari e sacerdotali; attraverso un lungo processo che siamo ben lungi dal trattare passiamo all’epoca della schiavitù. Una classe di uomini viene obbligata a lavorare al servizio di altri, senza possibilità di rifiutarsi o allontanarsi, e può essere posseduta ed alienata come bene privato, essendo ormai avvenuta la suddivisione della terra, del bestiame e di ogni altro bene tra i membri della classe dominatrice, o uomini liberi.
Tuttavia nelle stesse società antiche non tutti gli uomini liberi sono proprietari di terre o di schiavi; solo una minoranza di essi finisce con l’avere tale proprietà da poter vivere senza fare nessun lavoro, gli altri sono possessori di poco suolo che coltivano con le proprie mani e senza schiavi, o sono piccoli artigiani che producono e vendono oggetti manufatti. A questa epoca la legge e con essa l’ideologia filosofica e morale giustificano lo sfruttamento del lavoro degli schiavi, la loro vendita e perfino la loro uccisione. La classe dei grandi proprietari (patriziato) detiene per lo più lo Stato, in lotta con la classe dei piccoli coltivatori ed artigiani (democrazia greca - plebe romana). Il fondamento della produzione resta l’agricoltura malgrado il diffondersi della navigazione e dei commerci e l’apparizione di possessori di denaro e perfino di un embrione di capitalismo.
Con le nuove condizioni succedute alla caduta dell’Impero Romano al cristianesimo e alla abolizione della schiavitù, la base della produzione resta quella agraria e la terra resta divisa a grandi proprietari feudali.
Gli antichi schiavi sono liberati agli effetti del diritto e della nuova morale cristiana e non possono essere venduti. Tuttavia sono trasformati in servi della gleba ossia in lavoratori agricoli che non possono abbandonare il luogo, mentre il signore feudale usufruisce in larga parte dei prodotti del loro lavoro. Scompaiono però in gran parte, ridotti anche essi a servi della gleba, i piccoli coltivatori liberi e soltanto alcuni nuclei di artigiani cittadini possono darsi un regime di relativa indipendenza dalla nobiltà feudale organizzandosi in corporazioni professionali nei cosiddetti comuni.
In questo quadro della società feudale la classe dominante è quella della nobiltà terriera, suoi alleati e suoi strumenti sono il clero, l’esercito e lo Stato monarchico assoluto (malgrado i conflitti che hanno condotto dal decentramento feudale primitivo alla formazione di grandi unità statali).
In queste varie forme sociali non solo non troviamo in vigore lo stesso diritto e la stessa ideologia morale, ma nemmeno potremmo stabilire alcuni principi giuridico-morali comuni a tutte che costituirebbero il preteso diritto naturale. Gli stessi rapporti fra gli uomini sono a volta protetti a volta condannati sia dalla legge scritta che dal senso morale. Adunque non rinveniamo in vigore il famoso principio che ad ognuno appartiene il prodotto del suo lavoro, principio che dovrebbe spiegare in maniera onesta e pacifica la prima accumulazione di capitale.
Quasi sempre troviamo il lavoratore posto in condizione di non poter disporre dei mezzi di produzione che adopera e del suo prodotto. Ne è separato per effetto della forza legale tanto lo schiavo antico che il servo della gleba medioevale che l’operaio moderno. Troviamo il lavoratore non separato da strumenti e prodotti solo nel comunismo primitivo e nell’artigianato delle varie epoche come nel piccolo coltivatore proprietario; il che non esclude che anche questi ceti sociali sotto forme varie di tributi, tasse, usura, diritti diversi non debbano cedere ad altri parte del proprio prodotto subendo una estorsione di plusvalore.
È alla società feudale terriera che succede direttamente l’ordine capitalistico. Perché questo possa funzionare occorre che da una parte vi sia accumulazione di denaro (e questa condizione è realizzata da antico tempo nelle mani di proprietari terrieri, commercianti, usurai, finanzieri, negrieri, ecc.) e dall’altra parte che vi sia una massa di lavoratori separati dagli strumenti di produzione e quindi obbligati alla vendita della forza lavoro.
La chiave dell’accumulazione primitiva è dunque il movimento storico che ha creato questa separazione. L’ordine feudale la impediva doppiamente: con la servitù della gleba che vietava al contadino e ai suoi figli di lasciare il feudo di origine; col sistema corporativo che obbligava con regolamenti complicatissimi e apposite magistrature gli artigiani e i loro figli a lavorare in una determinata arte e in piccole botteghe con un limitato numero di garzoni apprendisti. Le leggi dello Stato feudale sancivano questa situazione ed impedivano il prorompere dell’economia capitalistica, vessando inoltre la nascente classe borghese, formata di commercianti e banchieri della città o da antichi contadini divenuti artigiani emancipandosi dalla servitù e creando nei "borghi" contrapposti al castello del signore piccoli opifici per la produzione di manufatti. Questa classe formò una ideologia rivoluzionaria che condannò i vincoli e le restrizioni feudali in nome di tutta una teoria filosofica sulla libertà e l’eguaglianza giuridica, ma questa campagna per la liberazione del popolo rappresenta solo l’equivalente ideologico della necessità economica di mettere a disposizione della produzione una massa di venditori "liberi" di forza lavoro. D’altra parte le esigenze produttive premevano in modo irresistibile per le intensificate comunicazioni mondiali, il cresciuto commercio ed il crescente bisogno di prodotti sempre più complessi del lavoro. I capitalisti imprenditori ebbero non solo a prendere il posto dei maestri d’arte corporativi ma altresì dei detentori feudali delle sorgenti di ricchezza; il loro avvento si presenta come il risultato di una lotta vittoriosa contro il potere dei signori e le sue esorbitanti prerogative, contro il regime corporativo e gli ostacoli che esso poneva al libero sviluppo della produzione e alla libera speculazione dell’uomo sull’uomo. I cavalieri dell’industria hanno soppiantato i cavalieri della spada, essi hanno vinto con mezzi altrettanto vili (il testo vuol dire: conducendo alla lotta rivoluzionaria le nascenti masse del proletariato inconsce che il tempo della democrazia e del regime rappresentativo politico significasse trionfo del regime libero sfruttamento dei salariati) di quelli cui si servì il liberto romano per farsi padrone del proprio signore (Cap. XXIV, 1). «Lo sviluppo che ci spiega la genesi del capitale e quella del salariato ha per punto di partenza il servaggio dei lavoratori; il progresso che compie consiste nel cambiare la forma della schiavitù, nel sostituire alla speculazione feudale la speculazione capitalistica».
Naturalmente vi è anche il progresso sostanziale di aver spezzato i vincoli che si opponevano all’introduzione del lavoro collettivo e avere introdotto un’alta divisione tecnica del lavoro.
La nostra critica butta da lato tutta l’apologia democratica della rivoluzione borghese, e questo ne è aspetto fondamentale; tuttavia negando la presentazione filosofica e giuridica di tale ideologia essa non nega il valore storico e il carattere rivoluzionario della introduzione del capitalismo, creatrice delle condizioni per gli ulteriore sviluppi. «Quantunque i primi passi della produzione capitalistica siano stati fatti fin dai secoli XIV e XV in alcune città del Mediterraneo, l’era capitalistica non data tuttavia che dal XVI secolo; ovunque essa nasce l’abolizione della servitù della gleba è da lungo tempo un fatto compiuto e il regime dei comuni è di già in piena decadenza».
In questo periodo ogni rivoluzione politica rispecchia l’avanzarsi del capitalismo. È una vittoria di questo ogni atto che espropria masse di piccoli produttori, siano essi artigiani o contadini.
Il processo assume due aspetti. In generale l’abolizione della servitù della gleba permette la formazione di una diffusa piccola proprietà rurale. Ma il capitalismo ha bisogno che gli antichi servi feudali divengano non produttori indipendenti, bensì salariati, e quindi appoggia ogni misura che privi della terra i piccoli contadini.
In Italia il processo assume forme speciali. All’uscita dal medioevo
l’Italia settentrionale e parte della centrale è all’avanguardia in
fatto
di tecnica produttiva (come di scienza e cultura). Il capitalismo non
solo
bancario e commerciale ma anche manifatturiero vi si sviluppa prima che
altrove soprattutto a Firenze, Genova, Venezia, Pisa ecc. Il
feudalesimo
quindi vi scompare più presto e i servi della gleba sono attirati nelle
fiorenti città. Gli artigiani maestri d’arte sono divenuti veri
borghesi
(popolo grasso) e i numerosi garzoni si trasformano in vere maestranze
proletarie, tanto che la lotta fra le due classi suddette fa la sua
apparizione
(tumulto dei Ciompi ecc.). Poi le scoperte geografiche della fine del
XV
secolo cambiano completamente le correnti del mercato universale, le
manifatture
capitalistiche decadono, la classe borghese è fiaccata sul nascere,
quella
feudale manca di energie capaci di confluire in una creazione politica
unitaria, i lavoratori rifluiscono nelle campagne ove si diffonde la
piccola
coltura, il paese cade in uno stato prolungato di marasma sociale e
politico.
[Prometeo, n. 15, agosto 1949]
Ben diverso è l’esempio dell’Inghilterra. Ivi la servitù della gleba scompare di fatto verso la fine del XIV secolo, la grande maggioranza della popolazione si trasforma in piccoli contadini indipendenti, benché il loro possesso giuridico della terra sia giustificato sotto vincoli feudali. Ai feudatari rimane bensì molta terra ma essi la gestiscono a mezzo di un fittavolo indipendente (in questo caso uno dei primi tipi di capitalisti a cui fanno da salariati gli antichi servi della gleba, parte giornalieri nullatenenti, parte piccoli proprietari cui rimane tempo libero dalla cultura del proprio terreno). Ma agli stessi giornalieri si concedevano in uso campi di quattro acri con una piccola casa rustica, inoltre costoro partecipavano al godimento di vasti beni di proprietà comunale e talvolta demaniale. Intanto prosperavano le città e si formava il capitalismo manifatturiero e industriale; questo aveva fame di braccia e non tardò ad ottenerne. La rivoluzione politica fece del potere regio uno strumento borghese e la nuova borghesia fu alleata ad una nuova aristocrazia fondiaria (landlords) la quale, appoggiata in ciò dal capitalismo, intraprese la espropriazione dei piccoli coltivatori, riversando braccia nelle città. Con l’ausilio della legge i grandi proprietari rivendicavano gli antichi feudi, espellendone i contadini, e trasformandoli in aziende per l’allevamento dei montoni, cui bastava poco personale salariato. Successivamente i lords usurpavano anche immensi parchi di caccia ove prima erano terreni coltivati. Tutto ciò aveva per conseguenza la sparizione della piccola proprietà rurale e la trasformazione dei contadini in proletari. Nella parte montagnosa della Scozia si conservò lungamente il possesso in comune della terra (fino alla fine del XVIII secolo). Anche qui i signori, dapprima capi puramente nominali, con la complicità dello Stato borghese espropriano e scacciano i disgraziati montanari. La spoliazione dei beni della chiesa, l’alienazione fraudolenta dei domini dello Stato, il saccheggio dei terreni comunali, la trasformazione usurpatrice e terrorista della proprietà feudale e patriarcale in proprietà moderna e privata, la guerra alle capanne, ecco i processi idilliaci dell’accumulazione primitiva. Essi hanno conquistato la terra all’agricoltura capitalistica, incorporato il suolo al capitale ed abbandonato alla industria della città le docili braccia di un proletariato senza fuoco e senza tetto (cap. XXIII).
Momenti caratteristici dell’intervento dello Stato a favore della borghesia nascente, oltre alle misure espropriatici dei contadini, sono la legislazione ferocissima contro i mendicanti e vagabondi che non volessero darsi al lavoro, a base di torture, fustigazioni, marchi col ferro rovente e simili; e la legislazione sul salario che ne fissa un massimo vietando assolutamente le coalizioni operaie. Tutto questo processo si svolse in Inghilterra anche prima della rivoluzione politica borghese; i primi editti sono del 1350, le ultime leggi sul salario durano fino al 1813, le atroci leggi contro le coalizioni sindacali cadono nel 1825 ma qualche traccia ne resta fino al 1859; il riconoscimento legale delle "Trade Unions" è del 29 giugno 1871. Ma non è che a malincuore e sotto la minacciosa pressione delle masse che i due grandi partiti del parlamento inglese rinunciano alle leggi contro le coalizioni, dopo che il parlamento ha fatto esso stesso per ben cinque secoli l’ufficio di una Trade Unions di capitalisti contro gli operai (Cap. XXIV, 3).
In Francia troviamo ugualmente ferocissime leggi contro i vagabondi. Quivi è più lenta la sparizione dei diritti feudali, e molto tardi riesce a prepararsi una diffusa piccola proprietà rurale più resistente di quella inglese anche per le diversissime caratteristiche tecniche dell’agricoltura. Assai interessante però è notare come subito dopo la bufera rivoluzionaria che sembrava liberare con la borghesia anche il quarto stato proletario suo alleato, siano vietate le associazioni operaie. Una legge del 14 giugno 1791 punisce ogni accordo fra lavoratori allo scopo di migliorare le loro condizioni di ingaggio come «lesivo della libertà e della dichiarazione dei diritti dell’uomo». È chiara per noi la ragione di questa opposizione borghese all’associazione operaia; si tratta di permettere il libero giuoco della concorrenza per ottenere a minor prezzo la forza lavoro. Il relatore all’assemblea è coerente nel dire che le associazioni di persone della stessa professione «tendono a resuscitare le corporazioni abolite dalla rivoluzione» perché all’uno e all’altro caso, malgrado la profonda diversità storica del fenomeno, si tratta di vincoli alla libera incetta di braccia da parte del capitale. Nel quadro della teoria liberale il divieto dei sindacati operai non è meno a posto; lo Stato rappresentativo è l’unico organismo che comprende e tutela allo stesso titolo di eguaglianza tutti i cittadini. Ogni individuo gode della libertà rimanendo isolato di fronte soltanto al suo legame con lo Stato unitario. I privilegi di classe sono giuridicamente scomparsi; ogni associazione di membri dello stesso ceto sociale tende a formare uno Stato nello Stato, una casta nell’uguaglianza giuridica generale e deve essere vietata. In economia il liberalismo vuole il gioco illimitato dei singoli privati interessi; lo Stato tutela generalmente i contratti tra privati, ma non può tollerare azioni e contratti collettivi. Il decreto del 1791 viene infatti rispettato dal Terrore e dai Girondini, da Bonaparte e dalla restaurazione. Se in epoca assai tarda la democrazia parlamentare ha ceduto al riconoscimento dei sindacati, lo ha fatto contraddicendo alla sua dottrina pura, come vi contraddice tutta la legislazione di intervento statale nei rapporti economico-sociali. La contraddizione coi principi è conferma della inanità di questi, fatti per la "mobilitazione ideologica" delle masse che vanno illuse di essere libere e sovrane; contraddizione però non vi è con gli interessi e la politica di classe del capitale: nella prima epoca questo ha da temere solo la reazione e non ha freni per procurarsi le migliori condizioni economiche per l’accumulazione, ma in epoca successiva la formazione di una forte classe operaia pone al capitalismo il problema dei rapporti non solo economici ma anche politici col proletariato: malgrado che vietando le coalizioni si possa deprimere il salario e crescere il plusvalore e l’accumulazione, la classe capitalistica calcola che ciò può condurre più presto ad una lotta sociale in cui soccomba il principio stesso del plusvalore e dell’accumulazione; ad essa conviene perciò generalmente consentire i sindacati come prescrivere per legge alcuni sacrifici ai singoli capitalisti che rendano meno intollerabile il regime salariato.
Ma la grande rivoluzione democratica francese non fu meno coerente quando privò gli operai del diritto di associazione sindacale, di quando istituì la coscrizione militare obbligatoria; ciò malgrado il banale errore odierno per cui si considera la democrazia avanzata come antitesi della reazione antioperaia e del militarismo!
Abbiamo esaminato le condizioni che permisero l’accumulazione primitiva con la formazione di una classe salariata. Vediamo ora come apparvero i primi capitalisti. In Inghilterra apparve prima il capitalista agrario, ossia il grande fittavolo, che il capitalista industriale; parliamo dunque del primo.
Una proprietà agricola può essere gestita in vari modi dal suo possessore giuridico. In regime schiavistico egli vi fa lavorare schiavi che sono sua proprietà; altra sua proprietà è la terra. Quelli sono diretti tecnicamente o da un altro schiavo o da un libero schiavo emancipato agli stipendi del padrone. In regime feudale la terra è lavorata dai servi della gleba, ma raramente il padrone si preoccupa di organizzare la gestione. Per lo più ogni famiglia di contadini ha un piccolo campo di cui passa al padrone una frazione del prodotto (decima); inoltre il padrone tiene per sé dei pezzi di terra migliore su cui i contadini sono obbligati a lavorare un certo tempo (comandata).
Avvenuta l’emancipazione dei servi della gleba divengono possibili diversi casi. L’amministrazione diretta o in economia è possibile allorché il proprietario non possiede la sola terra ma anche il capitale scorte (bestiame, sementi, concimi, attrezzi, più tardi macchine, ecc.) nonché un capitale in denaro per anticipare salari ai contadini giornalieri, ed essi sono diretti da un fattore stipendiato dal padrone. Questa fu la prima forma introdotta dai landlords inglesi, per quanto gli ex servi non fossero solo giornalieri ma dapprima anche piccoli proprietari ed usufruttuari di piccoli campi.
Ben presto, però, il fattore divenne mezzadro. La mezzadria, o meglio colonìa parziaria, è quella forma di gestione in cui il proprietario apporta la terra e parte del capitale mobile, il colono parziario apporta il resto delle scorte, fornisce il lavoro ingaggiando salariati ed infine il prodotto viene diviso in proporzioni convenute tra proprietario e colono. Qui parliamo della grande colonìa applicata a vaste tenute unitarie nelle quali il colono non lavora ma assume giornalieri, distinta dalla piccola colonia in cui la terra è sminuzzata, anche se trattasi di un unico grande possesso, in molte piccole aziende lavorate personalmente del colono e dalla sua famiglia.
I grossi coloni inglesi non tardarono ad arricchire man mano che impoverivano, per le ragioni già viste, i piccoli coltivatori indipendenti e i giornalieri prima possessori anch’essi di un po’ di terra. Quindi si passò dalla colonìa parziaria alla vera e propria affittanza. L’affitto è quella forma di gestione in cui il proprietario non apporta che la terra e le costruzioni rurali; tutto il capitale mobile è del fittavolo e questi assume i lavoratori tenendo per suo conto tutto il prodotto. Egli paga al proprietario un affitto in denaro, quindi il suo reddito si suddivide in rendita fondiaria del proprietario e profitto capitalistico di esso imprenditore fittavolo. Va notato che tanto la rendita quanto il profitto dell’impresa sono parimenti sorti da pluslavoro diviso tra proprietario e capitalista in virtù di una alleanza di classe all’ombra dello Stato, negando noi che la terra nuda e non il lavoro possa essere fonte di ricchezza.
Distinguiamo anche qui tra grande e piccolo affitto. Questo secondo non ha carattere capitalistico trattandosi di piccole estensioni di terra lavorata direttamente dal piccolo fittavolo possessore di pochi e miseri strumenti produttivi analogamente all’artigiano, ma privo di terra. Notiamo che anche ad una tecnica agricola avanzata corrisponde la gestione unitaria di grandi tenute, trattasi di amministrazione diretta o di grande affitto secondo che coincidano o meno le personalità giuridiche del proprietario e del capitalista. Su queste basi può essere realizzato il lavoro in grandi masse, la divisione del lavoro, l’industrializzazione meccanica dell’agricoltura. Sono invece forme arretrate, in genere, la piccola proprietà (salvo il caso di terre eccezionalmente fertili per la piccola coltura) ed anche quando vi sia un grande possesso fondiario, la gestione di questo in più particelle condotte a piccoli affitti e piccole mezzadrie. Detto di passaggio, una situazione del secondo tipo era quella della grande proprietà russa dopo la emancipazione dei servi e la soppressione delle comunità patriarcali. In questi casi l’azienda piccola accompagna la grande proprietà: il trapasso alla grande azienda è compito di lungo progresso tecnico economico: lo svincolo giuridico della piccola azienda dallo sfruttamento della grande proprietà può essere un fatto immediato: in realtà la terra non viene spartita ma resta tecnicamente divisa come prima mentre almeno una forma di estorsione di pluslavoro (quello che era rendita fondiaria) viene subito soppressa.
Tornando all’Inghilterra, i primi grandi fittavoli rapidamente
arricchirono,
anche perché nel XVI secolo l’oro, l’argento e quindi il denaro
diminuirono
in valore, tutte le merci rincararono, ma i salari si rialzarono con
molto
ritardo. I contratti d’affitto essendo a lunghissima scadenza, il
fittavolo
vide crescere l’entrata per vendita dei prodotti, diminuire in realtà
la spesa salari e diminuire l’affitto, sicché arricchì a danno dei
salariati
e dei proprietari.
[Prometeo, n. 14, febbraio 1950]
L’espropriazione dei piccoli coltivatori e la sostituzione ad essi di grandi aziende agricole non solo permise all’industria capitalistica nascente di trovare masse di salariati non provenienti dall’artigianato corporativo, ma inoltre pose a disposizione del processo di accumulazione primitiva i suoi elementi materiali ed economici; infatti, poiché il diminuito numero dei coltivatori non fece scemare la produzione di derrate agricole, in quanto compensato dal maggiore sfruttamento dei giornalieri, da perfezionamenti tecnici, dal maggiore rendimento del lavoro in grande, si rese disponibile una larga massa di sussistenze, ed una quantità di prodotti agricoli aventi carattere di materie prime per la industria (filatura e tessitura di lino, cotone, lana, ecc.) Dopo la espropriazione le materie gregge sono acquistate dal capitalista manifatturiero e con esse le sussistenze disponibili sotto forma di salari pagati agli operai ingaggiati. La trasformazione dell’agricoltura, dunque, non ha soltanto offerto e fornito la nuova classe proletaria e il nuovo capitalista fittavolo, ma altresì a posto a disposizione del neo-capitalista cittadino il suo capitale costante (materie prime da lavorare) e il suo capitale variabile (sussistenze). Questo non accade solo in Inghilterra ma anche in molte parti dell’Europa Centrale, come nella Vestfalia all’epoca di Federico II dove i contadini filatori di lino vennero espropriati del suolo, e se vollero avere il lino da lavorare e sussistenze da consumare dovettero passare nei grandi opifici manifatturieri come salariati. In altri termini l’espropriazione dei rurali determinando offerta di materie gregge e sussistenze crea al capitale il suo mercato interno di acquisto. Ma questa distruzione di ogni industria domestica agricola, non è completa alla epoca della manifattura, poiché questa lascia sempre certe lavorazioni iniziali a piccoli artigiani o a piccoli lavoratori parzialmente coltivatori sparsi per la campagna. È solo la introduzione del macchinismo che estirpa definitivamente questa produzione primitiva e sparpagliata assorbendo tutte le operazioni della fabbrica e conquistando al capitale tutto il mercato interno dei manufatti.
Veniamo ora al punto centrale: l’apparizione del primo capitalista industriale o di fabbrica (parlando propriamente è industriale anche il fittavolo).
Non negheremo che in alcuni casi il piccolo capitale iniziale siasi formato col frutto del lavoro accumulato di artigiani indipendenti ed anche di qualche operaio salariato; molto più spesso però diveniva capitalista il capo di corporazione o maestro d’arte che aveva naturalmente più mezzi leciti ed illeciti di mettere da parte denaro.
Essendo ormai disponibili i lavoratori da ingaggiare e le materie prime da acquistare, alla genesi del capitalista non occorreva altro che il possesso di una somma di denaro per le prime anticipazioni. Ora fin dalle epoche precedenti vi erano privati che disponevano di denaro accumulato in proporzioni ben più alte di quelle raggiungibili con i frutti del lavoro; esistevano cioè due specie di capitale non aventi ancora il carattere di quello industriale, ossia il capitale usurario e il capitale commerciale.
Abbiamo già detto che anche il beneficio realizzato da chi investe denaro nell’usura (intendendo con tal parola ogni prestito fruttifero) e nel commercio è sempre in misura più o meno diretta l’equivalente di un pluslavoro e quindi è un plusvalore. Tuttavia manca ancora la forma caratteristica della produzione capitalista ossia la compravendita diretta della forza lavoro, restando la produzione affidata a lavoratori non separati dallo strumento di produzione e dal prodotto. Costoro, non avendo abbastanza denaro per le anticipazioni della loro piccola lavorazione in materie prime ed altro, né per attendere il tempo e raggiungere il luogo più conveniente allo scambio del loro prodotto, devono cedere parte del loro utile all’accumulatore di denaro che fa per loro questi servizi; e cedendo il loro utile cedono parte del loro lavoro
Usuraio e commerciante disponevano dunque il denaro ma non potevano trasformarlo in capitale industriale per la costituzione feudale delle campagne e per quella corporativa delle città. Le vecchie società lottano contro il formarsi di capitali con le leggi severissime sull’usura e con la compagna morale a carico di chi vive di usura ed anche di mercanzia; è ritenuto più rispettabile del commerciante non solo il signore guerriero ma lo stesso avventuriero la cui figura confina con quella del brigante. Come sia gravemente colpita l’usura nel quadro etico della coscienza medioevale può dimostrarlo tra l’altro il posto che essa prende nel sistema dantesco delle pene. L’usura fa parte della violenza (benché il rapporto tra il prestatore di denaro e il pagatore di interessi appaia materialmente pacifico). Come il bestemmiatore è considerato violento contro natura perché spezza la legge della natura, insieme ad esso l’usuraio è chiamato violento contro l’arte ossia contro il lavoro umano perché spezza la legge morale secondo cui nessuno andrebbe privato di parte del frutto del suo lavoro. A noi non stupisce che la morale dantesca non veda lo stesso delitto della rendita del signore feudale e nemmeno mostri di sentire una pari indignazione contro lo schiavismo dell’antichità classica, benché lo ripudi in nome del principio cristiano. A quell’epoca storica appare moralmente ripugnante che il denaro frutti denaro a chi non lavora, fatto oggi che viene invece affermato conforme alla religione, alla natura, alla sana sociologia. E nei versi finali dell’11° canto dell’Inferno che Virgilio spiega a Dante l’indegnità dell’usuraio, invocando la Fisica di Aristotele secondo cui l’arte umana deve essere la fonte della vita (il lavoro fonte del valore) e la Genesi (guadagnerai il tuo pane col sudore della fronte) mentre l’usuriere altra via tiene e quindi offende la natura nella sua seguace, l’Arte (lavoro). È curioso che non offenda tutto ciò il ricco che ha ereditato i suoi beni e che anzi viene punito nel girone precedente quale violento in sé stesso e nei suoi averi, se li ha dilapidati, anziché trasmetterli agli eredi. La contraddizione potrebbe essere spiegata teoricamente con qualche sottigliezza della scolastica, essa però, come abbiamo notato, è subito chiarita per il nostro metodo critico dalle circostanze storiche e sociali. La inalienabilità del patrimonio immobiliare è uno dei cardini del sistema feudale.
Cadute le barriere che impediscono al capitale usuraio e commerciale di ingaggiare forze di lavoro e divenire capitale moderno, continua la resistenza; gli artigiani chiedono che si vieti al mercante di divenire fabbricante; le nuove manifatture si costituiscono in centri nuovi e non nelle vecchie città rette dalle corporazioni, sorgendo nei porti di esportazione e talvolta entro una frontiera speciale fissata dal monarca.
Dunque non il lavoro ma le antiche accumulazioni mercantili ed usuraie spiegano sostanzialmente l’accumulazione primitiva. Quello che però le diede un formidabile impulso furono lo sfruttamento delle nuove terre scoperte e delle vie di comunicazione, la scoperta dei giacimenti di metalli preziosi, le conquiste e depredazioni delle Indie Orientali, la tratta dei negri e simili... poemi idilliaci. Iniziata appena l’epoca capitalistica scoppiano le grandi guerre per il predominio commerciale e coloniale e l’egemonia passa dal Portogallo, alla Spagna, all’Olanda, alla Francia, all’Inghilterra (la minaccia di una egemonia germanica o russa fu eliminata dalla guerra mondiale, ma altri formidabili concorrenti si levarono a contrastare il campo dell’Inghilterra: il Giappone e soprattutto gli Stati Uniti; la seconda guerra ha condotto questi la primo posto).
Vediamo i metodi dell’accumulazione primitiva già in pieno sviluppo tra le mani dell’Inghilterra al tempo della sua crociata contro la rivoluzione francese: tra essi sono il regime coloniale, il debito dello Stato, il moderno sistema bancario e il protezionismo doganale. Alcuni di questi metodi sono basati sull’uso della forza brutale, ma tutti senza eccezione si valgono del potere dello Stato, la forza concentrata ed organizzata della società (a beneficio della classe dominante) per precipitare violentemente il passaggio dall’ordine economico feudale all’ordine economico capitalistico ed abbreviare le fasi di transizione, nonché per contrastare l’opposta forza nascente della classe proletaria tendente a rovesciare l’ordine economico e statale capitalistico. Di vero, la forza è destinata a facilitare il cammino di tutte le vecchie società che sono sul punto di trasformarsi, la forza è un agente economico.
Interminabile sarebbe la storia delle atrocità consumate dai bianchi nelle colonie e dei mezzi con cui arricchivano le famose compagnie delle Indie ed i loro alti funzionari. È noto che cattolici e riformati negarono agli indigeni americana l’anima perché non mentovati della Bibbia. I coloni puritani e protestanti d’America misero a prezzo le capigliature scotennate degli Indiani; tutti conoscono i metodi di incetta, di trasporto e di utilizzazione degli schiavi negri, tutti ricordano la guerre dell’oppio e l’avvelenamento premeditato di intere popolazioni di antica civiltà a beneficio del capitale inglese.
Il regime coloniale dette grande sviluppo alla navigazione e al commercio e produsse le compagnie mercantili protette dai governi che favorivano l’accumulazione e concentrazione del capitale. La conquista delle colonie assicurò gli sbocchi ai prodotti delle nascenti manifatture, mentre i tesori estorti agli indigeni col lavoro forzato e tutti gli altri mezzi affluivano in Europa come capitali. Mentre oggi la supremazia industriale implica quella commerciale essendo concorrenza sui mari esteri libera da vincoli politici, in quell’epoca avveniva il contrario sicché la più potente nazione coloniale, l’Olanda (secolo XVII), fu quella che ebbe i più vasti capitali e corse innanzi sulla via dell’accumulazione.
Il credito pubblico, cioè il sistema per cui lo Stato si fa prestare denaro dai privati, corrispondendo loro un interesse, ebbe inizio nelle città commerciali italiane del medioevo. È naturale come tale sistema favorisca l’accumulazione in quanto piccoli e grandi capitali privati di natura usuraia o commerciale ed eccezionalmente risparmi di artigiani che non troverebbero altra via per produrre plusvalore, diventano capitali industriale nelle mani dello Stato che dispone di ben altri mezzi per ingaggiare salariati (lavori marittimi e portuari, arsenali, armamento di naviglio, opere pubbliche in genere, ecc. ecc.). Inoltre il debito pubblico rappresenta l’impronta capitalistica sullo Stato: il re di Francia è tuttora l’inviato di Dio e dispone della vita e della morte di ogni suddito ma deve temere pochi finanzieri e strozzini di Parigi, cui la legge nega il minimo privilegio. È naturale che i primi economisti borghesi levino al cielo il debito pubblico per l’impulso dato a tutte le forme capitalistiche; ha anticipato la creazione di vaste imprese che avrebbero dovuto attendere una lenta concentrazione, ha aperto la via alla società per azioni, al commerciante dei titoli negoziabili che pur rappresentando, sull’esempio delle cartelle del debito statale, ricevute di denaro prestato, circolano a loro volta come denaro. Poiché al credito pubblico fece seguito il credito privato.
Il sistema bancario prese nascita dal credito statale. La Banca è un istituto attraverso il quale i privati si prestano il loro capitale. Molte piccole somme di denaro non trovano imprese in cui investirsi, ed allora sono versate ad una banca. La banca disponendo di forti somme le presta a sua volta a pochi grandi imprenditori che hanno scarso capitale ma buone occasioni di trovare lavoro salariato e mercati di sbocco dei prodotti. Costoro passano al banchiere parte del plusvalore, questi a sua volta ne passa una parte minore ai vari depositari. La spartizione del plusvalore predato alla classe operaia in variabili proporzioni viene spiegata col maggiore o minore rischio che corre colui che ha anticipato. Lo Stato, secondo la teoria del rischio, offre grande sicurezza di restituzione e quindi paga interessi minimi, le grandi banche semistatali interessi più forti, le piccole banche interessi ancora maggiori, l’imprenditore, specie se poco provvisto di impianti di valore e lanciato in imprese nuove, pagherà a saggi fortissimi; infine lo strozzino cui mancano mezzi decenti e comodi per ritogliere il denaro alle sue vittime, esige tassi favolosi. In realtà tutti questi debiti sono frazioni del plusvalore uscito dallo scambio strozzinesco tra lavoro e salario. Il meccanismo però della banca e dei titoli fruttiferi a prezzi oscillanti sul mercato permette lo sviluppo della lotta speculativa tra i capitalisti per la rendita totale disponibile sulla produzione sociale.
Nelle lotte della speculazione l’arma decisiva essendo non tanto la mancanza di scrupolo che è a portata di ogni imbecille, quanto la disponibilità di grandi masse di valori, tutto il fenomeno, oltre a spronare gli investimenti e l’accumulazione iniziale, favoriva grandemente l’alta concentrazione dei capitali.
Col debito pubblico e le banche nasce il credito internazionale, che permette l’accumulazione primitiva in nuovi paesi forniti di lavoratori disponibili ma mancanti di sussistenza, di materie prime, e del denaro per acquistarle altrove. Venezia prestò vaste somme all’Olanda, questa nella sua decadenza ne prestò all’Inghilterra; nel secolo XIX l’Inghilterra ne prestò agli Stati Uniti. Ma il capitale prestato riproducendosi progressivamente è presto in grado di rimborsare la prima anticipazione e rendersi autonomo. Dalla fine della prima guerra mondiale, gli Stati Uniti sono creditori del mondo intero.
Il credito pubblico essendo basato sulle entrate statali con cui si devono pagare gli interessi, dette luogo al moderno sistema di imposte. Questo divenne un altro elemento formidabile della accumulazione primitiva sia rovinando fino alla espropriazione piccoli contadini ed artigiani, sia stornando dai consumi delle classi povere forti masse di valore trasmesse ai capitalisti prestanti allo Stato.
Abbiamo infine il sistema protezionista, mediante il quale una industria la cui formazione incontra difficoltà viene favorita dallo Stato in vari modi, colpendo con forti diritti doganali i prodotti analoghi fabbricati all’estero ed importati nel paese, in maniera da elevarne il prezzo all’interno permettendo ai fabbricanti nazionali più alto profitto, pagando premi di esportazione per i prodotti di quelle industrie inviati all’estero, talvolta vietando addirittura la importazione dei prodotti di altri paesi ecc. Esso «è il mezzo artificiale di fabbricare dei fabbricanti, di espropriare dei lavoratori indipendenti, di trasformare in capitale gli strumenti, e le condizioni materiali del lavoro, di accelerare a viva forza la transizione dal sistema tradizionale di produzione al sistema moderno» (cap. XXIV, 6).
L’accumulazione primitiva e la genesi del capitalista industriale prendono dunque gran forza dal debito pubblico e dalla fiscalità, dal regime coloniale, dalla finanza bancaria, dal protezionismo. Talvolta i governi prestarono direttamente i capitali ai manifatturieri. Tutti questi fenomeni giganteggiarono all’epoca del nascere della grande industria. Questa si giovò pure senza ritegno della incetta dei fanciulli, una vera tratta di piccoli bianchi, parallela a quella dei negri. Con la pace di Utrecht l’Inghilterra si riservò il privilegio della tratta tra l’Africa e l’America Spagnuola; da questo commercio uscì la grandezza di Liverpool: «per questa città ortodossa il traffico di carne umana costituì il metodo specifico di accumulazione primitiva». «Ecco a quale prezzo abbiamo pagato le nostre conquiste, ecco quanto ci è voluto per sviluppare le leggi eterne e naturali della produzione capitalistica, per consumare il divorzio dell’operaio dalla condizioni di lavoro, per trasformare queste in capitale e la massa del popolo in salariati, in poveri che lavorano». «Se, il denaro, come dice Augier, viene al mondo con una voglia di sangue sulla guancia, il capitale trasuda sangue e fango da tutti i pori».
(Questo capitolo XXV è preceduto dal XXIV, che però riassumeremo dopo, considerato il suo carattere conclusivo e anche programmatico).
La situazione economica creatasi al capitalismo nelle colonie di prima occupazione è molto interessante – a parte uno studio completo del fenomeno dell’imperialismo – perché vale a mostrare una flagrante contraddizione dell’economia borghese. Questa nel definire la proprietà privata come originatasi dal lavoro, dal risparmio e dall’astinenza, confonde a bella posta la proprietà privata dei mezzi personali di lavoro con la proprietà capitalistica basata sul lavoro altrui. Fa comodo al teorico dell’economia borghese applicare alla società capitalistica gli stessi concetti di diritto, la stessa definizione della proprietà ereditati da una società pre-capitalistica. Abbiamo visto tutte le assurdità di questa maniera di vedere. Nelle colonie però la stessa economia borghese è costretta ad ammettere e ad invocare la distruzione violenta della piccola proprietà privata per far posto alla produzione capitalistica.
Dopo aver utilizzato le colonie come semplici depositi di tesori accumulati da depredare, come luoghi di acquisto di mercanzie richieste in Europa e soprattutto come mercato di sbocco dei manufatti della madrepatria, il capitalismo volle naturalmente trasportarvi le stesse macchine da plusvalore, i suoi stabilimenti industriali.
Il denaro capitale ormai non mancava per acquistare e trasformare sul posto strumenti di lavoro e magari materie prime e sussistenze: occorreva soltanto il lavoro salariato. Ma gli indigeni delle colonie o vivevano bene in base alla piccola produzione personale, o erano stati precedentemente fugati nell’interno o addirittura sterminati; quindi non era facile trasformarli in liberi salariati, quanto era stato facile ridurli a schiavi. Quanto ai coloni giunti dalla madrepatria, costoro trovavano dinanzi a sé immense estensioni di terra non occupata da utilizzare per l’agricoltura e spesso per l’industria estrattiva. Quando esiste terra libera ossia ve ne è un’offerta illimitata, ognuno ne ottiene quasi gratuitamente e per diritto di occupazione. Quindi la stessa legge "sacra e naturale" della offerta e della domanda che forza il nullatenente a vendere in Europa la sua forza lavoro, gli dà nelle colonie l’agio di procurarsi facilmente mezzi di lavoro per una libera azienda personale. Per di più nelle nascenti fattorie non vi fu soltanto lavoro agricolo e pastorizio, ma si esercitavano piccole industrie domestiche; il "farmer" americano si fabbricava da sé gli attrezzi, i mobili, la casa stessa. Il volenteroso capitalista restando operai e senza acquirenti poteva astenersi anche totalmente da ogni consumo, che non avrebbe accumulato lo stesso un soldo di plusvalore. Porge infinito sollazzo il caso dell’egregio signor Peel che portò seco dall’Inghilterra in America per 50.000 sterline di viveri e mezzi di produzione, e fu inoltre così accorto da condurre anche 3.000 membri della classe operaia tra uomini, donne fanciulli. Ma non solo il signor Peel non aprì alcun opificio, bensì fu crudelmente abbandonata da tutti, tanto che restò senza un domestico per fargli il letto o attingergli l’acqua. «Sventurato Peel che tutto aveva previsto! Solamente aveva dimenticato di esportare i rapporti di produzione inglesi».
Che cosa fanno i teorici della "naturalezza" del capitalismo? Essi fanno anzitutto l’apologia della schiavitù o lavoro forzato degli indigeni (tema fino a dopo la prima guerra mondiale di dibattito per la Società delle Nazioni) poco curandosi di prendere così a calci la legge della libera offerta o domanda; e per quanto riguarda i coloni bianchì, non potendo osare di sostenere la schiavizzazione, danno un secondo calcio alla legge stessa col proporre che lo Stato ponga un prezzo fortissimo quanto artificiale alle concessioni di terra libera, così l’immigrante non potendo acquistarne sarà costretto a lavorare come salariato. Il governo inglese mise in atto questo piano per favorire l’accumulazione capitalistica nelle colonie: ma allora il flusso degli emigranti si volse agli Stati Uniti fino a tutto il secolo XIX insufficientemente popolati e ricchi di terra libera, verso l’ovest. Tuttavia, dopo aver forzato gli economisti borghesi a sconfessare se stessi, lo sviluppo capitalistico ha reso inutili le loro panacee.
L’accumulazione capitalistica in America, dalla guerra civile del 1861, che produsse un enorme debito statale, le imposte, la nascita della più vile aristocrazia finanziaria, fino alla guerra mondiale e al periodo successivo, raggiunse altezze vertiginose; gli Stati Uniti saturi di proletariato e minacciati da una immane disoccupazione presero a respingere gli immigranti asiatici ed europei. Dovendo ineluttabilmente rovesciare oltremare masse gigantesche di prodotti, e forse domani per motivi di politica interna una parte del pletorico esercito industriale di riserva che ivi sta formandosi, essendo giunti troppo tardi nella spartizione del dominio coloniale, tenteranno certamente di colonizzare l’Europa stessa rovesciandone l’apparato produttivo e provocando così un nuovo e più grande conflitto.
(Lasciamo immutato questo periodo conclusivo nella forma
contenuta
nelle stesura di questo riassunto, preparato da alcuni compagni a Ponza
nell’anno 1929. N.d.R.).
Abbiamo visto che ciò che caratterizza l’accumulazione primitiva, ossia la formazione storica del capitalismo, è la espropriazione del produttore immediato ossia del produttore che possiede tanto di mezzi produttivi da permettergli di svolgere il suo lavoro personale, e restar possessore dei prodotti, che scambierà per procurarsi quanto gli occorre.
Anche in questo forma si tratta di proprietà privata, ma è erroneo dire che il piccolo produttore abbia in proprietà un capitale. La proprietà privata capitalistica si ha soltanto quando i mezzi di produzione e i prodotti appartengono ai non lavoratori, e i veri lavoratori ne sono stati espropriati. Adunque, abbiamo due tipi distinti di proprietà privata: proprietà privata del lavoratore (epoca artigiana e contadina), proprietà privata del non lavoratore (epoca capitalistica).
La proprietà privata del lavoratore sui mezzi della sua attività produttiva corrisponde alla produzione per piccole aziende, ossia alla piccola impresa agricola o manifatturiera in cui il personale lavorativo, oltre il lavoratore libero, comprende la sua famiglia e al più qualche garzone apprendista. Tale stadio di produzione è primitivo, tuttavia ha la sua giustificazione nel corso dello sviluppo della tecnica, è giustificata la sua sostituzione alla proprietà collettiva preistorica, nella quale con un minimo di atti e procedimenti lavorativi si sfruttavano i prodotti quasi immediati della natura. Il sistema della piccola azienda «costituisce il vivaio della produzione sociale, la scuola in cui si elabora l’abilità manuale, l’ingegnosa destrezza e la libera individualità del lavoratore». Questo tipo di tecnica e di impresa può accompagnare diverse forme giuridiche della proprietà, e diversi tipi di società: lo si riscontra nella schiavitù (accanto cioè alla proprietà privata del non lavoratore sul suolo, sulla persona del lavoratore, sul prodotto) e nel regime feudale (accanto alla proprietà privata terriera e alla servitù della gleba) ma la sua forma vera e propria accompagna quel tipo di produzione in cui il lavoratore è libero proprietario delle condizioni di lavoro, ossia il contadino del suolo, l’artigiano dell’utensile. Tale regime di piccoli produttori indipendenti presuppone lo sminuzzamento del suolo e lo sparpagliamento degli altri mezzi di produzione. Dopo aver reso i suoi servigi, se si perpetuasse diverrebbe una forza contrastante l’ulteriore sviluppo, il quale si fa nel senso della concentrazione dei mezzi di produzione, con le più moderne risorse come la collaborazione di gran numero di industrie, la divisione del lavoro, il macchinismo, tutto ciò che consente a spingere al massimo la «sapiente dominazione dell’uomo sulla natura, il libero sviluppo delle potenze sociali del lavoro, l’accordo e l’unità nei fini, nei mezzi e negli sforzi dell’attività collettiva».
L’ordinamento, quindi, della piccola produzione diviene ad un certo punto incompatibile con le forze nuove suscitate dalle nuove possibilità e necessità tecniche nel seno della società. La sua eliminazione deve avvenire perché sia permessa la trasformazione dei mezzi produttivi sparpagliati in mezzi produttivi concentrati. Ma lo stadio ulteriore è ancora uno stadio di proprietà privata: una classe sociale profitterà dell’inevitabile concentramento della proprietà privata per farne il suo monopolio e basarvi il suo dominio. L’attuazione di tutto ciò costituisce l’accumulazione primitiva e la conseguente espropriazione violenta e crudele del popolo lavoratore, di cui abbiamo posto in evidenza l’atrocità. È in mezzo ad una vera tragedia sociale che la proprietà privata fondata sul lavoro personale viene soppiantata dalla proprietà capitalistica; che avviene il divorzio definitivo tra lavoro e proprietà. Questa tragedia espropriatrice forma la preistoria del Capitale.
Questo trapasso è per noi, ossia per i risultati della nostra indagine scientifica sul gioco delle forze economiche e sullo sviluppo storico della società, del tutto inevitabile; inoltre esso è una condizione indispensabile all’utile sviluppo della forza e della tecnica produttiva umana. Quindi il suo svolgimento è svolgimento rivoluzionario, e se esso dipendesse per assurda ipotesi dalla nostra approvazione e da quella di una pretesa "coscienza morale" non bisognerebbe negargliela. Annunziandone l’atrocità non ci siamo affatto contraddetti, ma abbiamo sbugiardate e demolite le tendenziose teorie apologetiche della proprietà capitalistica che, pretendendo di dimostrarla eterna, non si contentano di porre in evidenza la necessità storica della sua apparizione e il suo contributo alla liberazione di ulteriori prorompenti forze produttive, ma vogliono prospettarne la formazione come pacifica, idilliaca, giovevole e piacevole alle stesse masse umane coinvolte negli ingranaggi implacabili di quella vicenda.
Quanto al nostro metodo i giudizi morali non vi hanno parte, tanto più finché trattasi di stabilire le leggi oggettive di sviluppo della società. Di essi ci occuperemo agli effetti della distruzione di ideologie errate, e quando si tratterà di risolvere il problema dell’intervento consapevole e volontario di collettività umane (partiti) nelle fasi dello sviluppo; perché anche allora le determinanti programmatiche non saranno apportate da valutazioni di ordine morale. Trattandosi della indagine, noi la svolgiamo con un metodo che è quello di tutte le scienze moderne della natura da cui esulano i giudizi sentimentali dell’osservatore. Chiedendo a questi di dirci se e in che misura l’ossigeno favorisce la vita e l’anidride carbonica la distrugge, non ci interesserà nulla che un fatto o l’altro gli facciano piacere o gli arrechino contrarietà. Assodato positivamente che per attuare la concentrazione produttiva il capitalismo doveva straziare le moltitudini di piccoli produttori tal fatto resta da noi ugualmente accettato. Ciò che però non possiamo lasciare passare nemmeno scientificamente è la pretesa capitalistica di avere apportato a quelle moltitudini delizia e benessere, limitandosi a tagliare soltanto alcune teste di despoti e signorotti. Tale asserzione urta più contro i fatti che contro presupposti morali; mentre vale a stabilire quale bassa base abbiano i presupposti morali del pensiero borghese e di ogni altro.
Abbiamo così cercate ed esposte le leggi del funzionamento della produzione capitalistica e quelle della sua formazione storica. Ma quale sarà l’ulteriore sviluppo?
Non si può obiettare che il porre tale domanda esorbiti dal metodo rigorosamente scientifico: tutte le scienze dopo essersi posto il problema del funzionamento dell’universo e del suo processo evolutivo del passato, si pongono quello dello sviluppo avvenire; noi siamo dunque coerenti facendo altrettanto per la scienza della società umana.
Nel risolvere la questione di ciò che avverrà del tipo sociale di proprietà privata capitalistica, noi non partiamo a nostra volta da un processo preconcetto di carattere morale o finalistico, quale sarebbe la indefinita perfettibilità umana, il Progresso, il trionfo della Giustizia, della Eguaglianza, della Libertà. Tali parole prese per se stesse per noi non significano nulla, ben sapendo che esse hanno valore variabile secondo le epoche e le classi. Anzitutto non ci basiamo sul cammino già percorso dalla società per riconoscere le leggi effettive dello sviluppo. Inoltre la nostra ipotesi che la tecnica produttiva tenda a divenire sempre più efficiente e complessa, e si risolva in una organizzazione sempre migliore della lotta dell’umanità contro le difficoltà dell’ambiente naturale, non è per noi una verità misteriosa e assoluta né una intenzione incontrollabile o una aspirazione irresistibile del nostro sentimento. Essa è una conclusione scientifica con alto grado di probabilità sia perché i dati storici finora lo confermano, sia perché conducono ad essa le stesse leggi biologiche della adattabilità all’ambiente e della evoluzione della specie. Se la abbiamo chiamato soltanto una ipotesi è per fugare ogni residuo d’interpretazione mistica o idealistica, e perché le vicende della lotta dell’uomo contro la natura potrebbero essere lentamente o anche bruscamente invertite da fatti di ordine fisico contro cui la società umana mancherebbe di possibilità, come un mutamento di temperatura, umidità, composizione dell’atmosfera, una collisione di astri, ecc., fatti, però, assai poco probabili. Anche fattori d’ordine sociale potrebbero invertire la direzione dello sviluppo, come ad es. una guerra chimica che avvelenasse stabilmente vari strati dell’atmosfera terrestre e qualche cosa di simile (11). Supponendo però che tali imprevisti non si verifichino, si può basarsi sulla sicurezza del progresso produttivo, del complicarsi della tecnica, e con essa delle attività e dei bisogni umani. La nostra conclusione dunque sull’ulteriore avanzata degli sforzi umani contro le difficoltà naturali non abbisogna per reggersi di voli lirici o di apriorismi idealistici, né della fede in una missione della intelligenza umana (e tanto meno in una intelligenza sopraumana), senza di cui il mondo diverrebbe inutile ed impossibile!
Riprendiamo adunque il processo di trasformazione sociale. Decomposta da capo a fondo la vecchia società della piccola impresa, cambiati i produttori in proletari e le loro condizioni di lavoro in Capitale, la socializzazione del lavoro e la trasformazione ulteriore del suolo e degli altri attrezzi di produzione in strumenti socialmente gestiti si spingono sempre innanzi. Noi vediamo proseguire questa concentrazione sotto i nostri occhi grazie ancora ad una espropriazione. Non è più il piccolo produttore ad essere espropriato, ma sono i capitalisti più piccoli che sono espropriati dai grandi. La piccola azienda di una volta è sparita, ma le nuove aziende collettive divengono sempre troppo piccole rispetto alle risorse della tecnica e cedono il passo a nuove aziende più perfette e più grandi. Si sviluppano in proporzioni sempre crescente la applicazione della scienza ai mezzi tecnici nel senso di sempre maggiore collegamento tra i vari centri produttivi, tra le varie sfere di attività, tra i vari paesi del mondo. Macchinismo, telegrafia e radiotelegrafia, ferrovie, navigazione, aviazione, ecc. rendono sempre più necessaria tecnicamente la risoluzione dei problemi produttivi su scala non solo nazionale ma mondiale. Al perfezionamento tecnico ostava una volta la piccolezza delle aziende, oggi vi osta la loro autonomia privata, anche se sono aziende vaste e poderose. La sviluppo era ieri inceppato dalla proprietà privata personale, oggi lo e di nuovo dalla proprietà privata capitalistica.
Le nuove necessità che sorgono nel seno del capitalismo creano nuove situazioni alle classi sociali e sviluppano così nuove forze mal rattenute dalle forme giuridiche della proprietà attuate dal potere del capitalistico sulle rovine dei precedenti regimi sociali e statali.
«A misura che diminuisce il numero dei magnati del capitale, che usurpano e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione sociale, cresce la massa della miseria (12), dell’oppressione, della schiavitù, della degradazione, dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che sempre più si ingrossa, ed è disciplinata, unita e organizzata dello stesso meccanismo del processo di produzione capitalistico». I piccoli produttori vivevano isolati, erano rivali economici l’uno dell’altro. Gli stessi capitalisti pur ponendosi insieme alla testa della società sono l’uno rispetto all’altro implacabili concorrenti. A ragione essi dicono che la concorrenza è molla indispensabile alla produzione e solo dovrebbero aggiungere: alla produzione su base capitalistica. Quindi è difficile ai capitalisti fare a meno della concorrenza e identificare i loro interessi sociali su un piano mondiale. Ma i proletari vivono in grandi masse; la rivoluzione borghese li ha resi liberi ossia li ha forzati a correre di paese in paese e di continente in continente per trovare lavoro, la concorrenza tra essi si mostra all’evidenza come il danno di tutti: le condizioni materiali di tale classe (e non movente mistico) suscitano in essa un senso di solidarietà e di associazione su basi sempre più vaste. Non è un imperativo morale o il grido di un apostolo, ma il risultato diretto delle forze messe in moto dal capitalismo, che forma la spinta reale nel senso del grido programmatico: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!».
«Il monopolio del capitale diventa una pastoia per il modo di produzione che con esso e sotto di esso si è rigogliosamente sviluppato. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro giungono ad un punto tale, che il loro involucro capitalistico non li può più contenere. Esso viene infranto. È suonata l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati».
L’opera di Marx maturo, pretesa fredda critica descrittiva esteriore del mondo economico, chiude col grido che è invito alla guerra sociale, premessa sicura della vittoria rivoluzionaria.
Quale è l’aspetto economico di questo nuovo rivoluzionario contrasto tra le forze produttive e le forme di proprietà? È questo: il movimento generale tecnico-produttivo continua nel senso della socializzazione del lavoro e dell’accentramento dei suoi mezzi materiali. La espropriazione dei minori possessori privati continua pure e superando ogni limite nessuna proprietà privata è più conciliabile con le esigenze del nuovo vasto impianto sociale dell’attività produttiva. Un trapasso deve avvenire. La proprietà capitalistica e la formazione di plusvalore che la caratterizza dovettero sorgere per rendere possibile l’iniziarsi della socializzazione, ma devono sparire perché questa possa continuare. Però non si tratterà certo di ripetere alla rovescia il processo già avvenuto, non si avrà una controrivoluzione ma un’altra rivoluzione nei rapporti economici.
Il lavoratore fu privato dello strumento di lavoro personale e non ne diventerà più possessore isolato. Tuttavia il ricongiungimento tra il lavoratore e le condizioni di lavoro avverrà nel solo modo conciliabile con le trasformazioni della tecnica, ossia la collettività lavorativa acquisterà il controllo e la gestione dell’insieme dei mezzi di produzione e dell’insieme dei prodotti.
«La forma capitalistica di appropriazione sorta dal sistema di produzione capitalistica, e quindi la proprietà privata capitalistica, è la prima negazione della proprietà privata individuale che era fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera, con la necessità di un processo naturale, la sua stessa negazione. È la negazione della negazione. Essa ristabilisce di nuovo non la proprietà privata del lavoratore, ma la proprietà "individuale" sulla base delle acquisizioni suscitate dall’era capitalistica: ossia sulla base del lavoro collettivo e del possesso comune della terra e dei mezzi di produttivi dal lavoro stesso creati».
Questo penultimo capoverso dell’Opera richiama le classiche espressioni della dialettica, si collega a quanto Marx scrive nella seconda prefazione, del 1873, a proposito della dialettica hegeliana, di cui egli dichiara di avere già da trenta anni criticato il lato mistificante (non mistico, signori traduttori!) pur riconoscendo che Hegel per primo espose il metodo dialettico. Questo è da Marx capovolto; in Hegel poggiava sulla testa, il processo del pensiero creava la realtà; in Marx all’opposto «esso non è altro che il Materiale trasportato e tradotto nella testa dell’uomo». Su questo punto sarà pubblicata una breve appendice al presente lavoro col titolo "Il metodo dialettico di Marx".
Appare chiaro che la espressione di proprietà "individuale" riferita alla negazione della sua negazione, ossia al sistema di distribuzione collettivistica che succede al capitalismo, vuol dire che ciascun partecipe alla produzione sociale potrà partecipare al godimento dei prodotti sociali senza che s’interponga alcuna forza e diritto di privata altrui usurpazione, come già faceva nel suo piccolo cerchio privato il produttore indipendente, pei prodotti del personale suo lavoro.
E il Capitale chiude col richiamo del passo del Manifesto riguardante la funzione rivoluzionaria del proletariato, perché con questo collegamento volle l’autore ribadire la continuità costruttiva della sua dottrina dalle enunciazioni del 1847 fino al completamento della sua opera monumentale.
Luminosa evidenza questa, che resisterà nella storia del movimento ai ripetuti instancabili attentati della menzogna, dell’inganno, del tradimento.
«L’irrefrenabile progresso dell’industria di cui la borghesia è l’agente involontario sostituisce all’isolamento dei lavoratori nato dalla concorrenza la loro unione rivoluzionaria a mezzo dell’associazione. A misura che la grande industria si sviluppa la stessa base sulla quale la borghesia ha stabilito la sua produzione le sfugge di sotto i piedi.
«La borghesia produce dunque innanzi tutto i propri becchini. Il suo
tramonto e il trionfo del proletariato sono del pari inevitabili».
(1) - È di
particolare
importanza trattare grandezze quantitative misurabili nella ricerca
scientifica.
Scopo d’ogni scienza è l’esposizione organica di un dato gruppo di
fatti
o fenomeni acquisiti alla nostra esperienza, in maniera da porre in
evidenza
le relazioni che costantemente corrono tra i fatti stessi. La
esperienza
scientifica di tale relazione dicesi legge. La forma più completa e
soddisfacente
di una legge scientifica è quella di una relazione tra quantità
misurabili
(formula matematica). Perché le grandezze siano misurabili occorre
poterle
riferire ad altre grandezze già note, e in tale riferimento sta in
fondo
la legge stessa. Esempio: si sa misurare lo spazio (lunghezza) in
metri,
il tempo in secondi, si misura la velocità prendendo per unità quella
di un metro in un secondo; e si applica la legge
velocità = spazio / tempo.
Alcune leggi traducono relazioni,
corrispondenti alle esperienze, tra grandezze già tutte note, abbiamo
allora una vera nuova scoperta; altre, come quella data in esempio, si
riducono ad introdurre deduttivamente una nuova grandezza, e hanno
valore
di convenzioni teoriche; tuttavia la applicazione ai fenomeni delle
loro
conseguenze logiche deciderà della loro validità o meno. Non tutte
quindi
le convenzioni, che definiscono grandezze dando il modo di misurarle di
riferirle ad altre, sono ad arbitrio possibili, ma, anche se dapprima
assunte
quali ipotesi, sono infine o confermate o respinte dall’applicazione ai
fatti sperimentali. Così ad esempio colla ipotesi atomica si
introduceva
la nozione della grandezza "peso atomico" e mentre per lungo tempo si
pensò
che fosse un espediente di comodo per far quadrare le formole chimiche,
gli studi ulteriori sui dati sperimentali permisero di accertare la
reale
esistenza degli atomi e di determinare il loro peso tanto assoluto come
relativo a quello unità dell’idrogeno.
Anticipando una conclusione che
potrà
far parte di ricerche sulla "teoria della conoscenza" nel sistema
marxista,
rileviamo anche che il trattare le entità su cui si indaga con misure
numeriche e relazioni matematiche tra le loro misure quantitative
conduce
a rendere le nozioni e le relazioni e il loro possesso e maneggio meno
individuali, più impersonali e valevoli collettivamente. Il puro
apprezzamento
qualitativo contenuto in giudizi e indagini comunicati in parole del
linguaggio
comune, serba l’impronta personale in quanto le parole e i loro
rapporti
assumono valore diverso ad a uomo a uomo secondo le precedenti tendenze
e predisposizioni materiali emotive e conoscitive. Sono quindi
personali
e soggettivi tutti i giudizi e i principii morali estetici religiosi
filosofici
politici comunicati e diffusi a voce e per iscritto. I sistemi di cifre
e le relazioni di simboli matematici (algoritmi) con cui hanno poca
famigliarità
anche molte persone che si affermano colte, tendono a stabilire
risultati
validi per tutti i ricercatori, o almeno trasferibili in campi più
vasti
senza che siano deformati facilmente da particolari interpretazioni.
Il passaggio, nella storia della
società
e delle sue conoscenze, non è certo semplice; è duro e difficile e non
privo di ritorni e di errori, ma in questo senso si costituisce il
metodo
scientifico moderno.
Di alto interesse a tal uopo, a al
fine di dare un valore oggettivo reale e materiale alla conoscenza
umana,
sarà l’esame di "algoritmi " moderni che hanno raggiunto tale potenza
da lavorare e camminare "per conto loro" in certo senso fuori della
coscienza e dell’intelligenza, e come vere "macchine" per
conoscere.
La loro scienza diviene non più fatto dell’io, ma fatto sociale.
L’io teoretico, come quello economico e giuridico, deve essere
infranto!
Volle Marx trattare con metodo
scientifico
anche i fatti economici umani, analogamente a quanto scienza e
filosofia
borghese avevano fatto per i fenomeni della natura fisica.
Non usò semplicemente un algoritmo
perché pensava e lavorava, esponeva e combatteva al tempo stesso; ed
oltre
alle armi del tempo nuovo doveva e seppe usare quelle con cui resisteva
il nemico: la polemica l’eloquenza l’invettiva il sarcasmo sotto di cui
prostrò tante volte i contraddittori.
È nel fragore di questa battaglia
che si è costruita la scienza nuova della società e della storia.
Ora è da superare un primo punto:
per fare scienza del valore, piaccia e non piaccia agli economisti
ideologisti
e filosofanti, occorre introdurne una misura, come Galileo e Newton
poterono
fare scienza della gravità misurando masse accelerazioni e forze. La
fecondità
del nuovo metodo, pur dando soluzioni suscettibili di futuri più
grandiosi
sviluppi e non conducendo ad "assoluti veri" estranei alla scienza,
sbaragliò
e seppellì per sempre le impostazioni sbagliate del passato su tali
problemi.
(2) - I titoli nell’opera originale sono invece: La produzione del plusvalore assoluto per la sezione III e La produzione del plusvalore relativo per la sezione IV.
Facciamo più uso di formulette matematiche che non l’originale. Non si tratta infatti solo di fare afferrare le tesi di Marx con fatica minore, ma soprattutto di ristabilirne, in modo impugnabile dai falsificatori e dagli avversari, l’esatto significato. Nel testo solo con gran perizia si perviene a ben intendere quando si trattano scientificamente modelli necessariamente teoretici del fenomeno, e quando si viene ad ampie esposizioni storiche-narrative.
(3) - Tutta questa prima enunciazione della formazione del plusvalore nell’opera di Marx è fiancheggiata e ravvivata da una suggestiva descrizione del rapporto tra padrone ed operaio, attraverso una polemica con la economia ufficiale borghese e con i vacui concetti etici e giuridici che stanno a base delle presenti istituzioni, o meglio della apologetica di esse. Marx sottolinea passo per passo quali delle sue constatazioni e dei suoi postulati sono ritenuti pacifici in ammissioni degli economisti comuni, e dove stanno le insidie e i trucchi che li conducono ad evitare le sue rigorose e scientifiche conclusioni, per pregiudizio ed interesse di scuola e di classe.
Nei riferimenti storici Marx con efficacia incomparabile sottolinea le tesi, che ritroveremo in seguito e che sono
essenziali nel marxismo, che non in tutte le epoche sociali è esistita la estorsione di plusvalore, in quanto essa manca nelle primitive
comunità come nella produzione autonoma individuale e familiare del piccolo artigiano e del piccolo contadino proprietario libero, ossia non soggetto a
decime e comandate. Si avvera all’opposto in diverse forme nella schiavitù, nella servitù feudale, nel salariato. Tali capisaldi preparano alla dimostrazione che il fatto del pluslavoro e del plusvalore, e quindi dello sfruttamento, non essendo inseparabile da ogni tipo d’economia, come il teorico
borghese pretende, potrà scomparire nell’economia futura.
Nella brillante critica di tipo etico giuridico, in cui l’autore dialetticamente e sottilmente finge di prendere sul serio le norme morali della filosofia borghese e quelle del diritto odierno, riducendole all’assurdo e al ridicolo, è mostrata la perfetta equità legale ed etica e cristiana di tutto quanto avviene sul mercato, con scambi in cui ciascuno vende al giusto prezzo ciò che gli compete di diritto, ed è infine svelata la “fregatura” coperta nel segreto del processo produttivo.
Al fine di porre i materiali per il giudizio sulle sovrastrutture filosofiche religiose morali politiche del mondo capitalistico, è sottolineato in squarci possenti che due sono le condizioni perché il “gioco” della appropriazione del plusvalore sia possibile ogni volta che il capitalista viene in contatto col lavoratore, e si applichi su scala sempre più vasta nel processo storico. Esse consistono nella libertà del lavoratore, in doppio senso. Esso deve essere libero di alienare la propria forza di lavoro, e perciò deve essere spezzata dal nuovo diritto (per cui tutti i cittadini sono uguali innanzi alla legge) la servitù feudale che legava gli uomini alla terra, e l’ordinamento corporativo che li legava al mestiere e alla bottega; in secondo luogo deve essere liberato da ogni impaccio di possedere per suo conto strumenti di lavoro e piccoli approvvigionamenti di materie prime come quando era artigiano o contadino, e ciò attraverso la espropriazione iniziale dei piccoli produttori, da cui è ferocemente nato il capitalismo.
Nel tempo stesso è mostrato che tale processo, per quanto infame, era necessario per condurre alle forme di produzione di maggiore intensità e rendimento imposte dai moderni mezzi tecnici. Ma tutta la acquisizione di questi elementi descrittivi e critici dell’attuale modo di produzione, e della via per cui si è attuato, serve di base alla tesi che i suoi lati attivi, come la applicazione delle scoperte scientifiche e del macchinismo, e il principio del lavoro associato e coordinato di un numero sempre maggiore di produttori, non sono separabili dalla estorsione di plusvalore e dal monopolio dei mezzi di produzione e di scambio da parte della classe capitalistica.
Lo studio dell’opera di Marx e il suo uso come argomento e mezzo di propaganda e di lotta di classe e di partito può farsi dopo avere acquisito la linea centrale della indagine e della deduzione di cui abbiamo cercato di porgere lo schema, sia pure arido, ma chiaro, e seguendo poi lo sviluppo della “narrazione” di Marx, fermandosi a tutte quelle che paiono digressioni ma che sono sintesi e anticipi delle posizioni programmatiche e politiche dei comunisti.
Ciò a smentire l’assunzione idiota che il vero “spirito” del marxismo sia una fredda descrizione dei fenomeni economici del mondo sociale d’oggi, guardandosi bene da arrischiare previsioni e propositi per rovesciarlo.
(4) - Non si trovi troppo arida questa successione di formulette. Essa vuole essere una dimostrazione della validità della legge generale del plusvalore data da Marx, nella rappresentazione dell’azienda economica di tipo capitalistico.
Siamo qui alla fine della Sezione III che stabilisce la definizione di plusvalore. In fine della V e prima di passare alla trattazione dell’accumulazione del capitale, in un capitoletto riassuntivo sulle varie formule del plusvalore, Marx contrappone i due gruppi di formule che caratterizzano la economia classica borghese e la economia marxista (cap. XVI del testo originale).
Entrambe si fondano sull’ammissione che il valore sia dato dal lavoro. Ma presentano la cosa assai differentemente quando si tratta di rispondere alla domanda: quanta parte della giornata di lavoro l’operaio fa per sé, e quanta per il padrone dell’azienda?
In entrambi i casi possiamo parlare di lavoro necessario per la prima parte, che è quella retribuita in pieno, e di pluslavoro per la seconda parte (del tempo di lavoro) che è quella il cui equivalente va a formare il profitto del possessore dell’azienda.
Secondo l’economista borghese le formule sono:
Pluslavoro
Lavoro necessario |
= | Plusvalore
Costo del prodotto |
Pluslavoro
Lavoro necessario |
= | Plusvalore
Capitale variabile |
= | Plusvalore
Spesa salari |
(5) - Poiché il plusvalore accumulato diviene nuovo capitale, ed il plusvalore sorge da capitale
investito in lavoro, vi è un limite alla accumulazione dato dalla dimensione della popolazione lavoratrice, che tende a salire col numero degli abitanti della terra, dalla parte di essa in cui è diffusa la “civiltà” capitalistica, e dalla proporzione di proletari sui cittadini per la progressiva espropriazione delle classi medie.
Ma non può sembrare che l’enorme massa dei capitali costanti, ossia capitali dati da impianti e da riserve di merci (prodotti), sia nel mondo moderno cresciuta in modo più imponente ancora della massa di giornate lavorative a disposizione? E ciò non contraddice alla costruzione marxista?
Non vogliamo ora rispondere certo ad un tale quesito, dovendosi prima esporre e intendere tutta la dottrina dell’accumulazione (sezione VII), e oltre ancora la dottrina della scuola marxista sull’imperialismo. Ma è interessante considerare come una soluzione “conservatrice”, che cioè prolunga i tempi del ciclo capitalistico,
consiste nella “distruzione” del capitale costante prodotto, ossia impianti e scorte, e nella riduzione di paesi già ricchi e progrediti nel senso industriale a paesi disattrezzati, col devastarne gli impianti (fabbriche, ferrovie, navi, macchinari, costruzioni d’ogni genere, etc.).
Così la ricostituzione di quell’enorme massa di capitale morto consente una ulteriore folle rincorsa all’investimento di capitale variabile ossia di vivente lavoro umano sfruttato.
Le guerre attuano quella eliminazione d’impianti e di scorte di merci, mentre la distruzione di braccia lavorative non raggiunge la loro proporzione per l’incremento del prolifico animale uomo.
Si campa poi nella civilissima ricostruzione (il più grande affare del secolo, per i borghesi: un aspetto ancora più criminale della barbarie capitalistica che non sia la stessa distruzione bellica, per noi allievi di Marx) sulla insaziata generazione di nuovo
plusvalore.
(6) - Abbiamo preferito alla parola italiana cooperazione, che poteva far equivocare con le organizzazioni cooperative di produzione – fenomeni più che secondari in mezzo alle innumerevoli aziende capitalistiche private – la parola collaborazione, sperando che non si equivochi ancora col significato della nota espressione di collaborazione di classe.
(7) - Abbiamo qui alluso ai problemi del determinismo e della libertà di iniziativa, da trattarsi
nello studio sulla parte teorico-filosofica del marxismo, e a quelli sulla funzione e la tattica del partito trattati in tesi e testi di natura politica.
(8) - Tale cenno
sostenuto
nella stesura originale di questo lavoretto vecchio di oltre venti
anni,
basta a mostrare la sostanziale identità della nostra critica alle
soluzioni
economiche "costruttive" vecchie, nuove e nuovissime di cristiani
sociali,
mazziniani, fascisti, nazionalcomunisti, staliniani e marshalliani.
(9) - Le enormi
possibilità
sociali che si inseriscono sulla utilizzazione, dopo le varie forme di
energia naturale termica e meccanica, della energia infratomica, non
mancano
di essere captate nel girone dell’accumulazione capitalistica, sotto le
formule dello spietato controllo e monopolio che giunge alla
schiavizzazione
e disumanazione del fisico scopritore e sperimentatore, oltre che di
tutti
quanti lavorano nel nuovo campo.
(10) - Per la
seconda
guerra mondiale basti il cenno che essa ha accentuato le sue
conseguenze
economiche non solo nelle distruzioni per fatti militari estese in
profondità
oltre i fronti di contatto, ma anche nel sistematico disattrezzaggio
industriale
di paesi vinti e occupati. Si apre quindi una nuova corsa mondiale alla
riaccumulazione, si forma un gigantesco esercito di riserva di
affamati,
si copre questa forma massima di barbarie colla apologetica della
"ricostruzione"
di cui Attila o Gengis Kan avrebbero arrossito.
(11) - Fin qui
alla
data della prima redazione (1929). Oggi va aggiunta le eventualità
delle
conseguenze dell’impiego di armi a disintegrazione atomica.
(12) - Tradotto così letteralmente, a rettifica delle correnti versioni: ciò che cresce è "die Masse des Elends" – la massa delle miseria – non la miseria della classe operaia. I traduttori "a braccio" non capiscono che Marx si sarebbe banalmente contraddetto, ove avesse fatto crescere di pari passo la "degradazione" e la "organizzazione" della classe operaia. Di questa, disciplinata (geschulten) avanguardia delle masse oppresse e schiacciate, cresce die Empörung (soggetto della proposizione avversativa) ossia non la semplice resistenza, come si leggeva nelle edizioni Avanti! ma la Ribellione.