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Federico Engels 1872 |
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Prefazione della seconda edizione riveduta (1887)
Lo scritto che segue è la ristampa di tre articoli da me scritti nel 1872 sul Volksstaat di Lipsia. Proprio allora si riversava sulla Germania la pioggia di miliardi francesi; furono pagati i debiti dello Stato, costruite fortezze e caserme, furono rinnovate le forze degli armamenti e gli effettivi militari; il capitale disponibile, non meno del volume monetario in circolazione, fu aumentato improvvisamente in misura enorme; tutto questo, proprio in un tempo in cui la Germania appariva sulla scena del mondo non solo come "impero unitario", bensì come grande paese industriale. I miliardi diedero alla giovane grande industria uno slancio possente; furono essi soprattutto a produrre un breve e illusorio periodo di prosperità conseguente alla guerra, e subito dopo, nel 1873-74, il grande Crollo, attraverso i quali la Germania si affermò come paese industriale a livello di mercato internazionale.
Il tempo in cui un vecchio paese agricolo compie un simile passaggio, per di più accelerato da simili favorevoli circostanze, dalla piccola industria e dall’attività manifatturiera, alla grande industria, è anche, e prevalentemente, il tempo della "penuria" di abitazioni. Da una parte le masse di lavoratori rurali sono attratte improvvisamente nelle grandi città che si sviluppano in centri industriali; dall’altra la situazione edilizia di queste vecchie città non corrisponde più alle condizioni della nuova grande industria né a quelle conseguenti del traffico; si ampliano strade e se ne aprono di nuove, si portano a compimento ferrovie che passano in mezzo alle città. Nello stesso momento in cui affluiscono masse di lavoratori, si ha una demolizione in massa delle abitazioni per loro. Di qui l’improvvisa penuria di case per i lavoratori e dei locali per il piccolo commercio e la piccola industria, che contano su una clientela operaia. In città sorte fin da subito come centri industriali questa miseria è pressoché ignota. Così a Manchester, Leeds, Bradford, Barmen-Elberfeld. Per contro a Londra, Parigi, Berlino, Vienna si presenta una forma acuta e perdura, facendosi per lo più cronica.
Fu appunto questo acuto bisogno di abitazioni, questo sintomo della rivoluzione industriale che si andava compiendo in Germania, che riempì la stampa di allora di articoli sulla "questione della casa" e offrì il destro a ciarlatanerie sociali d’ogni sorta. Una serie di articoli simili apparve anche nel Voksstaat. L’autore anonimo, che poi si diede a conoscere per il signor A. Mülberger, dottore in medicina del Württemberg, ritenne d’aver trovato l’occasione propizia per rendere plausibili in tale questione ai lavoratori tedeschi i ritrovati miracolosi dell’universale medicina sociale di Proudhon.
Allorché feci conoscere alla redazione la mia meraviglia per il suo avere accolto questi curiosi articoli, fui invitato ad entrare in polemica (cfr. il primo articolo: "In che modo il problema della casa viene risolto da Proudhon"). A questa serie di articoli ne feci seguire subito dopo una seconda, nella quale, sulla base di uno scritto del dottor Emil Sax, si analizzava la concezione filantropico-borghese del problema (secondo capitolo: "In che modo il problema della casa viene risolto dalla borghesia"). Trascorso un intervallo molto breve, il dottor Mülberger mi onorò di una replica al mio articolo, costringendomi ad una controreplica (terzo capitolo: "Appendice su Proudhon e il problema della casa"), con cui vennero a conclusione tanto la polemica quanto il mio specifico occuparmi di tale problema. Ecco dunque le genesi di queste tre serie di articoli, che apparvero altresì in estratto sotto forma di opuscolo.
Se ora si è resa necessaria una nuova ristampa, lo devo indubbiamente, ancora una volta, alle benevole cure dell’imperiale governo tedesco, che come sempre l’ha fatto andare a ruba colpendolo con la censura, e gli esprimo il mio devotissimo grazie.
Per questa nuova ristampa ho riveduto il testo, vi ho inserito alcune aggiunte e note, ed ho corretto un piccolo errore di natura economica sfuggitomi nel primo capitolo, che purtroppo il mio avversario dottor Mülberger non aveva rilevato.
Compiendo questa revisione mi son reso conto più che mai di quale gigantesco progresso il movimento internazionale dei lavoratori abbia compiuto negli ultimi quattordici anni. A quel tempo era ancora un fatto che «da vent’anni (...) i lavoratori di lingua neolatina non avessero per il loro intelletto quasi nessun altro nutrimento» che le opere di Proudhon e tutt’al più le ulteriori unilateralizzazioni che del proudhonismo dava il padre dell’"anarchismo", quel Bakunin, che Proudhon considerava "il maestro di noi tutti", notre maître à nous tous. In Francia i proudhoniani non erano che una piccola setta tra i lavoratori, eppure erano gli unici che avessero un programma distintamente formulato e che durante la Comune poterono assumere il comando in campo economico. In Belgio il proudhonismo dominava incontrastato tra i lavoratori valloni, e in Spagna e in Italia, fatte poche ed isolate eccezioni, tutto quel che nel movimento operaio non era anarchico era decisamente proudhoniano.
Ed oggi? In Francia Proudhon è completamente liquidato tra i lavoratori e non ha più seguaci che tra i borghesi e piccolo-borghesi radicali, che, in quanto proudhoniani, si proclamano anche "socialisti", ma che sono combattuti nel modo più accanito dai lavoratori socialisti. In Belgio i fiamminghi hanno spodestato i valloni nella guida del movimento, buttando a mare il proudhonismo e dando un possente impulso al movimento medesimo. In Spagna, così come in Italia, la marea socialista del Settanta è passata, spazzando via i residui del proudhonismo; se in Italia il nuovo partito è ancora in fase di chiarificazione e formazione, in Spagna il piccolo nucleo della Nueva Federacion Madrileña, che si è mantenuto fedele al Consiglio generale dell’Internazionale, si è sviluppato in un forte partito, che, come si può vedere dalla stessa stampa repubblicana, annienta l’influenza dei repubblicani borghesi sugli operai assai più efficientemente di quanto non abbiano potuto fare i suoi chiassosi predecessori anarchici. Il posto delle dimenticate opere di Proudhon, presso gli operai neolatini l’hanno preso Il Capitale, il Manifesto del Partito Comunista e una serie di altri scritti della scuola marxiana, e il postulato capitale di Marx, presa di possesso di tutti i mezzi di produzione in nome della società da parte del proletariato che assurge alla dittatura politica, è oggi l’obiettivo di tutta la classe operaia rivoluzionaria nei paesi di lingua romanza.
Se dunque il proudhonismo è respinto definitivamente dai lavoratori anche nei paesi neolatini, se, in coerenza alla sua vera destinazione, esso non serve più che ai radicali borghesi francesi, spagnoli, italiani e belgi, come espressione delle loro voglie borghesi e piccolo-borghesi, perché allora tornarvi su ancor oggi? Perché combattere di nuovo un nemico morto con la ristampa di questi articoli?
Anzitutto perché questi articoli non si limitano alla mera polemica contro Proudhon e i suoi sostenitori tedeschi. In conseguenza della ripartizione di lavoro che esisteva tra Marx e me, fu mio compito difendere le nostre opinioni nella stampa periodica, e quindi soprattutto nella polemica contro quelle degli avversari, affinché Marx potesse dedicarsi interamente all’elaborazione della sua grande opera capitale. Venni quindi a trovarmi nella condizione di esporre le nostre vedute per lo più in forma polemica, in antitesi ad altre vedute. E ciò anche in questo caso. I capitoli 1 e 3 contengono non solo una critica alla concezione proudhoniana del problema, ma altresì l’esposizione della nostra propria concezione.
In secondo luogo, però, nella storia del movimento operaio europeo, Proudhon ha avuto una parte così significativa che non lo si può lasciar cadere senz’altro nell’oblio. Liquidato teoricamente, praticamente messo da parte, egli conserva un interesse storico. Chiunque si occupi in una qualche misura esaustiva del socialismo moderno, deve conoscere anche i "punti di vista" superati del movimento. Miseria della filosofia di Marx apparve molti anni prima che Proudhon enunciasse le sue proposte pratiche per la riforma della società. A questo proposito Marx non poté far niente di più che criticare in germe la Banca di cambio proudhoniana. Per questo verso, quindi, il suo scritto viene integrato, da quello che ripropongo, purtroppo in maniera alquanto incompleta. Marx avrebbe condotto a termine tutto questo in modo assai migliore e convincente.
Ma, tutto sommato, il socialismo borghese e piccolo-borghese è difeso fortemente tuttora in Germania. E lo è per un verso dai socialisti della cattedra e da filantropi d’ogni genere, nei quali ha pur sempre una gran parte il desiderio di tramutare i lavoratori in proprietari della loro abitazione, e nei cui confronti, quindi, il mio lavoro conserva tuttora la sua attualità. Ma per un altro verso un certo socialismo piccolo-borghese trova la sua rappresentanza nello stesso partito socialdemocratico, fino nel gruppo parlamentare della Dieta imperiale. E la trova in modo tale che, si riconoscono bensì come giustificate le concezioni fondamentali del socialismo moderno e l’esigenza di tramutare tutti i mezzi di produzione in proprietà sociale, ma si dichiara che la realizzazione di tutto questo è possibile solo in un tempo ancora remoto, praticamente imprevedibile. Per il presente, quindi, non c’è da sperare che in una rattoppatura sociale e, a seconda delle circostanze, si può persino simpatizzare con gli sforzi più reazionari intesi alla cosiddetta "elevazione della classe lavoratrice".
L’esistenza di una tendenza simile è del tutto inevitabile in Germania, la patria della borghesia filistea per eccellenza, e in un epoca in cui lo sviluppo industriale sradica violentemente e in massa questa piccola-borghesia che ha radici così antiche. Ed è anche del tutto immune da pericoli per il movimento, considerati i sentimenti mirabilmente sani dei nostri lavoratori, che hanno fatto così stupenda prova di sé proprio negli ultimi otto anni di lotta contro leggi antisocialiste, polizia e giudici. Ma è necessario rendersi conto chiaramente che una simile tendenza esiste. E se, come è necessario e persino auspicabile, tale tendenza assumerà in seguito una forma più stabile e contorni più precisi, essa dovrà tornare, per la formulazione del suo programma, ai suoi antesignani, e fra questi è difficile che sia dimenticato Proudhon.
Il nocciolo della soluzione che sia la grande sia la piccola borghesia danno alla "questione della casa", è che il lavoratore sia proprietario della sua abitazione. Ma questo è un punto che negli ultimi vent’anni è stato messo in una luce del tutto peculiare dallo sviluppo industriale della Germania: in nessun altro paese esistono tanti lavoratori salariati che siano proprietari non solo della loro abitazione, ma bensì anche di un orto o d’un campo; e, oltre ad essi, ve ne sono numerosi altri che hanno una casa o un orto o un campo come affittuari, godendone un possesso che in effetti è abbastanza assicurato. L’industria domestica rurale, esercitata insieme all’orticoltura o alla piccola agricoltura, costituisce l’esteso fondamento della giovane grande industria tedesca; nella Germania occidentale i lavoratori sono prevalentemente proprietari; nell’orientale prevalentemente affittuari della loro casetta con giardino.
Questo fatto di un’industria domestica accoppiata all’orticoltura e all’agricoltura, e quindi ad un’abitazione assicurata, lo troviamo non solo ovunque la tessitura a mano oppone ancora resistenza al telaio meccanico, come nel Basso Reno e nella Westfalia, nell’Erzgebirge sassone e nella Slesia; lo troviamo altresì ovunque l’industria domestica di qualsiasi tipo sia penetrata come attività produttiva rurale, ad esempio nella Foresta Turingia e nella Rhön. In occasione delle trattative sul monopolio del tabacco è risultato anche in quale misura la confezione dei sigari sia esercitata come lavoro domestico di tipo rurale; e ovunque si presenti una qualche situazione di emergenza tra i lavoratori diretti, come qualche anno fa nell’Eifel, la stampa borghese lancia subito il richiamo alla introduzione d’una conveniente industria domestica come unico rimedio.
Di fatto, sia la situazione di crescente difficoltà in cui si trovano i coltivatori tedeschi di piccoli appezzamenti, sia la condizione generale dell’industria tedesca, spingono a una sempre più ampia diffusione dell’industria domestica rurale. È, questo, un fenomeno peculiare della Germania. Qualcosa di simile lo troviamo solo in modo del tutto eccezionale in Francia, ad esempio nelle regioni in cui si esercita la sericoltura; in Inghilterra, dove non esistono coltivatori diretti, l’industria domestica rurale si basa sul lavoro delle mogli e dei figli dei braccianti giornalieri; solo in Irlanda troviamo l’industria domestica dell’abbigliamento, così come in Germania, esercitata da vere famiglie contadine. Naturalmente non parliamo qui della Russia né di altri paesi non rappresentati sul mercato industriale mondiale.
In vaste zone della Germania, dunque, si ha oggi un assetto industriale che è a prima vista simile a quello che era generalmente dominante prima dell’introduzione delle macchine.
Ma solo a prima vista. L’industria domestica agricola dei tempi andati, collegata con l’orticoltura e l’agricoltura, era, almeno nei paesi industrialmente progrediti, il fondamento di una situazione materialmente sopportabile e qua e là agiata della classe lavoratrice, ma anche della sua nullità intellettuale e politica. Il prodotto manuale ed i suoi costi determinavano il prezzo di mercato, e, di fronte alla produttività del lavoro, oggi infinitamente ridotta, di regola i mercati di sbocco crescevano più velocemente dell’offerta. Ciò vale, verso la metà del secolo scorso, per l’Inghilterra ed in parte per la Francia, e soprattutto per l’industria tessile.
Nella Germania, che proprio allora cominciava a riprendersi lavorando, e nelle condizioni più sfavorevoli, dalle devastazioni della Guerra dei Trent’anni, le cose apparivano però del tutto diverse. L’unica industria domestica che vi lavorasse per il mercato mondiale, la tessitura del lino, era così oppressa da imposte e balzelli da non essere capace di porre il contadino tessitore al di sopra dell’infimo livello della restante classe contadina. Ciò nondimeno, però, a quei tempi il lavoratore d’industria rurale godeva d’una certa sicurezza d’esistenza.
Con l’introduzione delle macchine cambiò tutto. Il prezzo fu il prodotto della macchina a fissarlo, il salario del lavoratore industriale domestico cadde insieme ad esso. Il lavoratore dovette accettarlo, oppure cercarsi un altro lavoro, e non poteva farlo senza diventare proletario, cioè senza disfarsi della sua casetta, del suo orticello e del suo campicello, fossero essi di sua proprietà o in affitto. E ciò egli volle solo in casi rarissimi. Avvenne così che l’orticoltura e l’agricoltura dei vecchi tessitori rurali fosse la causa per cui la lotta del telaio a mano contro il telaio meccanico si protrasse ovunque così a lungo, e in Germania non è stata ancora condotta a termine.
In questa lotta si palesò per la prima volta, specialmente in Inghilterra, che lo stesso fatto a cui si era dovuto in passato un relativo benessere dei lavoratori, cioè la proprietà che questi ultimi avevano dei loro mezzi di produzione, ora era divenuto un ostacolo e una sciagura. Nell’industria il telaio meccanico sgominava il loro telaio a mano, nella coltura dei campi la grande agricoltura sgominava la loro piccola conduzione aziendale. Ma mentre in entrambi i settori della produzione il lavoro associato di molti e l’uso dei macchinari e della scienza applicata diventavano regola sociale, la loro casetta, il loro orticello, il loro campicello e il loro telaio a mano li incatenavano al metodo antiquato della produzione individuale e del lavoro manuale. La proprietà della casa e dell’orto aveva ora meno valore dell’assoluta libertà di movimento. Nessun operaio di fabbrica avrebbe fatto il cambio con il tessitore a mano delle campagne, che moriva lentamente ma certamente di fame.
La Germania fece tardi la sua comparsa sul mercato mondiale. La nostra grande industria risale al Quaranta, ricevette il suo primo impulso dalla rivoluzione del 1848 e poté svilupparsi pienamente solo quando le rivoluzioni del 1866 e del 1870 le sgomberarono il campo almeno dagli ostacoli politici peggiori. Ma essa trovò il mercato mondiale in gran parte già occupato. Gli articoli di largo consumo li forniva l’Inghilterra, gli articoli di lusso e gli oggetti di buon gusto la Francia. La Germania non poteva battere gli uni per il prezzo, gli altri per la qualità. Non restava nient’altro, così, sulle prime, che, continuando sul binario seguito fino allora dalla produzione tedesca, inserirsi nel mercato mondiale con articoli che per gli inglesi erano troppo minuti e per i francesi troppo meschini. La prassi consueta dei tedeschi, l’imbroglio di mandare prima buoni campioni e dopo merce scadente, indubbiamente si punì ben presto da se stessa e abbastanza duramente sul mercato mondiale, per cui declinò alquanto; d’altra parte la concorrenza della sovrapproduzione spinse a poco a poco anche gli onesti inglesi sul ripido pendio del peggioramento della qualità, offrendo così vantaggio ai tedeschi, che in questo campo sono inarrivabili.
Ed eccoci così finalmente arrivati a possedere una grande industria e un ruolo sul mercato mondiale. Ma la nostra grande industria lavora quasi esclusivamente per il mercato interno (fatta eccezione di quella siderurgica, che produce assai più del fabbisogno interno), e le nostre massicce esportazioni si compongono di un enorme quantità di piccoli articoli, per i quali la grande industria fornisce tutt’al più i semilavorati necessari, che però sono forniti in gran parte anche dall’industria domestica rurale.
E poi si palesa in tutto il suo splendore la "fortuna" che per i lavoratori moderni sta nel possedere una propria casa e un proprio podere. In nessun altro luogo, non eccettuata nemmeno quasi l’industria domestica irlandese, sono pagati salari così vergognosamente bassi così come nell’industria domestica tedesca. Quel che la famiglia ricava dal suo orticello o campicello, la concorrenza permette al capitalista di detrarlo dal prezzo della forza lavoro; i lavoratori non possono che accettare qualsiasi accordo salariale, poiché altrimenti non intascano assolutamente nulla e non possono vivere unicamente del prodotto del loro lavoro agricolo, e, poiché d’altro canto proprio questo lavoro agricolo e il possesso del campo li inchiodano al luogo, essi sono impediti dal cercarsi un’altra occupazione.
E qui sta la ragione per cui, in tutta una serie di articoli minuti, la Germania mantiene la sua capacità concorrenziale sul mercato mondiale. Si spreme tutto il profitto del capitale da una detrazione fatta dal salario normale e si può regalare tutto il plusvalore al compratore. Questo è il segreto dello stupefacente buon mercato della maggior parte degli articoli tedeschi d’esportazione.
Ed è questo fatto, più di qualsiasi altro, a tenere, anche in altri settori industriali, i salari e il tenore di vita degli operai in Germania sotto il livello dei paesi dell’Europa occidentale. L’enorme peso di tale prezzo del lavoro, tenuto tradizionalmente al di sotto del valore della forza lavoro, deprime anche i salari degli operai delle città e perfino delle metropoli al di sotto del valore della forza lavoro, e ciò tanto più, in quanto anche nelle città la mal ricompensata industria domestica è subentrata al posto del vecchio artigianato, abbassando anche in esse il livello generale dei salari.
Lo vediamo qui chiaramente: tutto quel che in uno stadio storico precedente era il fondamento d’una relativa agiatezza dei lavoratori (la combinazione fra agricoltura e industria, la proprietà della casa, del giardino e del campo, la garanzia dell’abitazione), oggi, sotto il dominio della grande industria, diventa la catena più pesante per i lavoratori e la maggiore sciagura per l’intera classe lavoratrice, il fondamento di una depressione senza esempio del salario al di sotto del suo livello normale; e ciò non per singoli rami economici o singole regioni, ma per tutto il territorio nazionale.
Nessuna meraviglia, quindi, che la borghesia, grande e piccola, che vive e s’arricchisce di queste abnormi detrazioni salariali, sia infatuata dell’industria campagnola, del lavoratore padrone della sua casetta, e veda l’unico rimedio di tutte le miserie della gente di campagna nell’introduzione di nuove industrie domestiche!
Questa è una delle facce della medaglia; ma vi è anche il rovescio. L’industria domestica è diventata l’ampia base del commercio estero tedesco e quindi di tutta la grande industria. Perciò si è estesa su vaste zone della Germania e si diffonde ogni giorno di più. La rovina del piccolo coltivatore – fattasi inevitabile dal momento in cui il lavoro industriale domestico, destinato ai consumi personali, fu annientato dal prodotto a buon mercato di confezione e di fattura meccanica, e il suo patrimonio zootecnico, e quindi la sua produzione di concime, lo furono dalla distruzione dell’ordinamento delle marche, della marca comune e del Flurzwang [antica associazione di villaggio che coltivava in comune campi o pascoli] – questa rovina spinge con forza irresistibile verso l’industria domestica moderna i piccoli contadini caduti preda dell’usuraio.
Come in Irlanda la rendita fondiaria del proprietario terriero, così in Germania gli interessi dello strozzino ipotecario li si può pagare non coi proventi del terreno, ma solo col salario del contadino industriale. Sennonché, con l’estendersi dell’industria domestica, le regioni agricole vengono coltivate, l’una dopo l’altra, nel movimento industriale odierno. È questo rivoluzionamento dei distretti rurali, da parte dell’industria domestica a diffondere in Germania la rivoluzione industriale su un’area ben più vasta di quanto non si abbia in Inghilterra e in Francia; è il grado relativamente basso della nostra industria a rendere tanto più necessario il diffondersi in estensione.
Ciò spiega perché, al contrario di quanto avviene in Inghilterra e in Francia, in Germania il movimento operaio rivoluzionario abbia avuto una così imponente diffusione nella massima parte del paese, invece di limitarsi esclusivamente ai centri urbani. E spiega altresì il processo placido, sicuro, inarrestabile del movimento stesso. In Germania è di ovvia evidenza che una sollevazione vittoriosa sarà possibile nella capitale e nelle altre città maggiori solo allorché anche la maggior parte delle città minori e una gran parte dei distretti rurali saranno mature per il rivolgimento. Con un’evoluzione in certo qual modo normale non potremo mai giungere a riportare vittorie come quelle parigine del 1848 e del 1871, ma, proprio per questo, nemmeno a subire sconfitte della capitale rivoluzionaria da parte della provincia reazionaria, come quella che Parigi subì in entrambi i casi. In Francia il movimento è iniziato sempre nella capitale, in Germania dalle zone della grande industria, delle manifatture e dell’industria domestica, e la capitale è stata conquistata solo più tardi. Perciò forse anche in futuro il ruolo dell’iniziativa rimarrà riservato ai francesi, ma le sorti della lotta potranno essere decise solo in Germania.
Sennonché, queste industrie domestiche e manifatture rurali, che col loro diffondersi sono divenute il ramo decisivo della produzione in Germania e che pertanto rivoluzionano in misura sempre crescente la classe contadina tedesca, non sono che il preludio di una rivoluzione più vasta. Come ha già mostrato Marx [cfr. Il Capitale, libro I, capitolo 13], suonerà anche per esse, in un certo stadio della loro evoluzione, l’ora di tramontare, e a suonarla saranno le macchine e le aziende industriali. Quest’ora sembra imminente. Ma l’annientamento dell’industria domestica e della manifattura rurale, da parte delle macchine e delle aziende industriali, significa, in Germania, l’annientamento dell’esistenza di milioni di produttori rurali, l’espropriazione di quasi la metà dei piccoli coltivatori tedeschi, la trasformazione non solo dell’industria domestica in aziende industriali, ma altresì dell’economia contadina in una grande agricoltura capitalistica e della piccola proprietà fondiaria in gran latifondo: una rivoluzione industriale e agraria a favore del capitale e della grande proprietà fondiaria a spese dei contadini.
Se è destinato che la Germania compia anche questa trasformazione nelle vecchie condizioni sociali in cui si trova, in ogni caso tale trasformazione costituirà la svolta decisiva. Se finora la classe operaia di nessun altro paese ha preso l’iniziativa, l’attacco muoverà incondizionatamente dalla Germania, e vi avranno valorosamente parte i figli dei contadini dell’ "esercito splendido in guerra".
Ed ora assume questa forma del tutto diversa l’utopia borghese e piccolo-borghese, che vuol dare a ciascun lavoratore una casetta tutta sua e incatenarlo così al suo capitalista in modo semifeudale. Ne appaiono l’attuazione la trasformazione di tutti i piccoli padroni di casa rurali in lavoratori industriali a domicilio; l’abolizione dell’antico isolamento e quindi della nullità politica dei piccoli coltivatori, che vengono trascinati nel "vortice sociale"; il diffondersi della rivoluzione industriale nella campagna, e la conseguente trasformazione della classe più stabile, più conservatrice della popolazione in un vivaio rivoluzionario; e, a conclusione di tutto, l’espropriazione dei contadini che lavorano industrialmente a domicilio da parte delle macchine, che li spingono violentemente alla sollevazione.
Ai filantropi socialisti borghesi possiamo concedere volentieri il godimento privato del loro ideale, finché essi continuano, nella loro funzione pubblica di capitalisti, a realizzarlo, come si è detto, alla rovescia, a profitto e giovamento della rivoluzione sociale.
Londra, 10 gennaio 1887
Friedrich Engels
Come Proudhon risolve il problema della casa
Nel numero 10 e seguenti di Volksstaat si trova una serie di sei articoli sulla questione dell’abitazione, che merita d’essere letta attentamente per l’unica ragione che – a prescindere da certi relitti degli anni Quaranta, passati di moda da un pezzo – rappresenta il primo tentativo di trapiantare in Germania la scuola di Proudhon. È in questo un regresso così enorme rispetto a tutto il processo evolutivo del socialismo tedesco (che già venticinque anni or sono fu proprio esso a dare il colpo di grazia alle fantasie proudhoniane) che vale la pena di controbattere immediatamente questo tentativo.
La cosiddetta carestia di alloggi, di cui oggigiorno si fa un così gran discorrere sulla stampa, non sta nel fatto che la classe operaia viva per lo più in abitazioni scadenti, strapiene e malsane. Questa carestia non è qualcosa che sia peculiare del presente; non è neppure una delle pene che siano peculiari del proletariato moderno e lo distinguono da tutte le classi oppresse d’altri tempi: al contrario, ha colpito in misura abbastanza uniforme tutte le classi oppresse d’ogni tempo. Per mettere fine a questo tipo di penuria di abitazioni, non vi è che un mezzo: eliminare lo sfruttamento e l’oppressione della classe lavoratrice da parte della classe dominante.
Quel che oggi s’intende per crisi degli alloggi non è che un particolare acutizzarsi delle già cattive condizioni abitative dei lavoratori, provocato dall’improvviso afflusso demografico verso le grandi città: un enorme aumento dei canoni d’affitto, un ancor più pronunciato pigiarsi di inquilini in ogni singolo caseggiato, e per taluni l’impossibilità di trovare un alloggio qualsiasi. E questa penuria di abitazioni fa parlare tanto di sé per la sola ragione che non è limitata alla classe operaia, ma colpisce altresì la piccola borghesia.
La scarsezza di alloggi di cui soffrono i lavoratori e una parte dei piccoli borghesi delle nostre città moderne è uno degli inconvenienti minori, secondari, che derivano dall’odierno modo di produzione capitalistico. Non è affatto una conseguenza diretta dello sfruttamento del lavoratore in quanto lavoratore da parte dei capitalisti. Questo sfruttamento è il male radicale, che la rivoluzione sociale intende eliminare eliminando il sistema capitalistico di produzione. La pietra angolare di quest’ultimo è il fatto per cui il nostro attuale ordinamento sociale mette i capitalisti in condizione di comperare la forza lavoro dell’operaio al suo valore, e di ricavarne però più del suo valore, facendo lavorare l’operaio più a lungo di quanto non sia necessario per riprodurre il prezzo pagato per la forza lavoro. Il plusvalore prodotto in tal modo viene ripartito nell’ambito dell’intera classe dei capitalisti e dei proprietari, è inoltre tra i loro servi prezzolati, dal Papa e dall’Imperatore fino all’ultima guardia notturna e più in giù ancora.
Come si effettui questa ripartizione non ci interessa in questa sede; una cosa è certa: tutti coloro che non lavorano possono vivere, appunto, solo dei ritagli di questo plusvalore, che affluisce loro in un modo o nell’altro (cfr. Marx, Il Capitale, là dove per la prima volta se ne è parlato).
Il plusvalore prodotto dalla classe lavoratrice viene tolto a quest’ultima senza che le sia pagato e viene ripartito fra le classi che non lavorano, e questa ripartizione si effettua tra litigi assai edificanti e imbrogli reciproci; svolgendosi essa per via di compravendita, uno dei suoi precipui punti di forza è l’abbindolamento dei compratori da parte del venditore, e nel commercio al minuto, soprattutto nelle grandi città, questo è diventato attualmente una vera e propria condizione di vita per i rivenditori.
Ma quando il lavoratore viene imbrogliato dal suo bottegaio o dal suo fornaio sul prezzo o sulla bontà della merce, ciò gli capita non per la sua specifica qualità di lavoratore. Al contrario, non appena una certa misura media di turlupinatura diviene la regola sociale in un dato luogo, a lungo andare dovrà trovare necessariamente la sua compensazione in un corrispondente aumento di salario. Il lavoratore si pone di fronte al merciaio come compratore, cioè come un possessore di denaro o di credito, e quindi per niente affatto nella sua qualità di lavoratore, cioè come venditore di forza lavoro. La turlupinatura può colpirlo, come in generale colpisce la classe più povera, più duramente di quanto non faccia con le classi sociali più ricche, ma non è un male che lo colpisca in esclusiva, che sia peculiare della sua classe.
Esattamente lo stesso avviene per la penuria di abitazioni. In certe zone, specie in quelle site al centro, l’estendersi delle grandi città moderne conferisce alla proprietà fondiaria un valore artificiale, che spesso aumenta sino a livelli vertiginosi; gli edifici che vi sono costruiti sopra, invece di elevare tale valore, lo abbassano, giacché non corrispondono più alle mutate condizioni; li si demolisce e li si sostituisce con altri. Ciò avviene soprattutto nelle abitazioni di operai site nel centro urbano, il cui affitto, nemmeno in condizioni di massimo sovraffollamento, può superare un certo massimale, o lo supera solo con estrema lentezza. Le si demolisce e al loro posto si costruiscono negozi, depositi di merci, edifici di interesse pubblico. Per mezzo del suo Haussmann di Parigi, il bonapartismo ha sfruttato al massimo questa tendenza a favore la speculazione e l’arricchimento privati; ma lo spirito di Haussmann è passato anche per Londra, Manchester e Liverpool, e sembra sentirsi a casa sua anche a Berlino e a Vienna.
Ne risulta che dal centro delle città gli operai sono scacciati verso la periferia, che le abitazioni per operai, o comunque piccole, si fanno rare e care e spesso addirittura introvabili; in condizioni del genere, infatti, l’industria edilizia, a cui abitazioni più care offrono un campo di speculazione di gran lunga migliore, costituirà solo per eccezione case per i lavoratori. È indubbio, quindi, che la crisi dei fitti colpisce i lavoratori più duramente di qualsiasi classe più agiata; ma né più né meno degli imbrogli del merciaio, essa costituisce un male che non opprime esclusivamente la classe operaia e, per quanto riguarda quest’ultima, a certe condizioni di intensità e durata, deve trovare una certa quale compensazione economica.
È di queste pene comuni alla classe operaia e alle altre, e segnatamente alla piccola borghesia, che si occupa di preferenza il socialismo piccolo-borghese, al quale appartiene anche Proudhon. Non è quindi un caso che il nostro proudhoniano tedesco si sia impadronito soprattutto della questione della casa che, come s’è visto, non è affatto esclusiva degli operai, e che, al contrario, egli la dichiari per una vera ed esclusiva questione operaia.
«Quel che il salariato è di fronte al capitalista, lo è l’inquilino di fronte al padrone di casa».
Ciò è completamente falso.
Nella questione delle abitazioni abbiamo due parti che si fronteggiano: l’inquilino ed il locatore (o proprietario della casa). Il primo intende acquistare dall’altro il temporaneo uso di un’abitazione; egli ha denaro o credito, anche se questo credito deve acquistarlo a prezzo d’usura dal proprietario stesso dell’immobile con un aumento d’affitto. Si tratta di una semplice vendita di merce; non è un negozio tra proletario e borghese, fra lavoratore e capitalista; l’inquilino, anche se lavoratore, si presenta come persona dotata di mezzi, uno che deve aver già venduto la sua propria merce, cioè la forza lavoro, per potersi presentare, con il ricavato di questa, quale compratore dell’usufrutto di un’abitazione, oppure deve poter offrire garanzie dell’imminente vendita della sua forza lavoro.
Qui mancano del tutto i risultati peculiari che la vendita della forza lavoro ha sui capitalisti. Il capitalista fa produrre in primo luogo il valore della forza lavoro acquistata, ma in secondo anche un plusvalore, che resta provvisoriamente nelle sue mani, con la riserva di essere ripartito fra la classe dei capitalisti. Qui, dunque, si produce un valore eccedente, per cui viene aumentato il totale complessivo del valore a disposizione. Tutt’altro avviene nel negozio di locazione. Quale che sia l’entità della truffa che il locatore voglia compiere ai danni dell’inquilino, si ha pur sempre un trasferimento di valore già esistente, prodotto in precedenza, e il totale del valore in possesso comune dell’inquilino e del locatore resta lo stesso di prima.
Il lavoratore, gli paghi il capitalista del lavoro compiuto al di sotto, al di sopra o al giusto prezzo del suo valore, viene sempre truffato di una parte del prodotto del suo lavoro; l’inquilino, invece lo è solo se deve pagare l’abitazione al di sopra del suo valore reale. Significa, quindi, stravolgere totalmente il rapporto fra inquilino e locatore il pretendere di equipararlo a quello tra lavoratori e capitalisti. Al contrario, abbiamo a che fare con un negozio di mercato del tutto comune fra due cittadini, e questo negozio si svolge secondo le leggi economiche che regolano in generale la vendita di merci, e in specie la vendita di quella merce che è la proprietà fondiaria.
Nel computo entrano in primo luogo i costi di costruzione e di manutenzione della casa o della parte di essa in questione; viene in secondo luogo il valore del suolo, condizionato dalla posizione più o meno vantaggiosa dell’edificio; a decidere in modo definitivo è lo stato attuale del rapporto fra domanda e offerta. Nella testa del nostro proudhoniano questo semplice rapporto economico si esprime come segue:
«Una volta costruita, la casa serve come titolo perenne di diritto a una determinata frazione del lavoro sociale, che permane anche qualora già da tempo il valore reale della casa sia pagato in misura più che sufficiente al proprietario sotto forma di canone d’affitto. Avviene quindi che una casa, fabbricata ad esempio cinquant’anni fa, durante questo tempo abbia coperto con i proventi delle sue pigioni il prezzo di costo originario due, tre, cinque, dieci volte».Qui abbiamo subito davanti Proudhon tutto intero. In primo luogo si dimentica che la pigione deve non solo ammortizzare i costi di costruzione dell’edificio, bensì anche coprire le spese di riparazione, l’importo di pesanti debiti, di affitti non pagati, come pure l’eventuale onere dell’appartamento sfitto, e infine scontare a rate annuali un capitale di costruzione impiegato in un edificio che deperisce e col tempo diviene inabitabile e privo di valore. Si dimentica, in secondo luogo, che la pigione deve indennizzare altresì l’aumento del valore dell’area su cui sorge l’edificio, e quindi una parte di essa consiste in rendita fondiaria.
È pur vero che il nostro proudhoniano dichiara subito che, verificandosi senza concorso del proprietario dell’area, quest’aumento di valore spetta per diritto non a lui, bensì alla società; ma egli non si rende conto che in tal modo postula in realtà l’abolizione della proprietà terriera: un punto sul quale non possiamo entrare in merito ora, perché il farlo ci porterebbe troppo lontano.
Non si rende conto, infine, che in tutto il negozio non si tratta minimamente di acquistare la casa, bensì solo l’usufrutto di essa per un tempo determinato. Proudhon, il quale non si è mai curato delle condizioni reali, effettive, in cui si svolge un qualsiasi fenomeno economico, è naturale che non sappia spiegarsi come in certi casi il prezzo di costo originario di una casa sia pagato, sotto forma di pigione, dieci volte nel giro di cinquant’anni.
Anziché studiare la questione sul piano economico, tutt’altro che difficile, e accertare se essa sia realmente in contraddizione con le leggi economiche, e come, se la cava con un audace salto dall’economia alla giurisprudenza: «una volta costruita, la casa serve come titolo perenne di diritto» a un determinato pagamento annuo. Sul come ciò avvenga, come la casa diventi un titolo giuridico, Proudhon tace completamente. Ed è invece proprio ciò che avrebbe dovuto spiegare. Se avesse studiato la questione, avrebbe trovato che tutti i titoli giuridici di questo mondo, per perenni che vogliano essere, non conferiscono ad una casa la capacità di ricevere, come pagamenti di pigione, più di dieci volte il suo prezzo di costo nel giro di cinquant’anni, ma che sono capaci di tanto solo per condizioni puramente economiche, che possono essere socialmente riconosciute sotto forma di titoli giuridici. Ed ecco, quindi, che egli è tanto lontano dalla soluzione quanto lo era all’inizio.
Tutta la dottrina proudhoniana poggia su questo salto dalla realtà economica alle frasette giuridiche. Ogni qual volta al buon Proudhon scappa di mano il contesto economico – e ciò gli capita in ogni questione di una certa serietà – egli si rifugia nel campo del diritto e si appella alla giustizia eterna.
«Il Proudhon inizia con l’attingere il suo ideale di Giustizia, la justice éternelle, dai rapporti giuridici corrispondenti alla produzione delle merci, con il che, sia detto di passata, vien fornita anche la dimostrazione, così consolante per tutti i borghesucci, che la forma della produzione delle merci è eterna come la giustizia. Poi, viceversa, vuole rimodellare la produzione reale delle merci e il diritto reale ad essa corrispondente in conformità di quell’ideale. Che cosa si penserebbe di un chimico che, invece di studiare le leggi reali del ricambio organico e di risolvere determinati problemi sulla base di esse, volesse rimodellare il ricambio organico per mezzo delle "idee eterne" della naturalité e della affinité? Quando si dice che l’usura contraddice alla justice éternelle e ad altre vérités éternelles, si aggiunge forse su di essa qualcosa in più di quel che ne sapessero i Padri della Chiesa, quando dicevano che essa contraddiceva alla grace éternelle, alla foi éternelle, alla volonté éternelle de Dieu?» (Marx, Il Capitale, [libro I, capitolo I, sezione II, nota]).Al nostro proudhoniano le cose non vanno meglio che al suo maestro:
«Il contratto di pigione è uno di quei mille scambi che nella vita della società moderna sono tanto necessari quanto la circolazione del sangue nel corpo degli animali. Sarebbe naturalmente nell’interesse di questa società che tutti questi scambi fossero pervasi da un’idea di diritto, cioè che venissero attuati ovunque secondo le esigenze della giustizia. In una parola, la vita economica della società deve, come dice Proudhon, assurgere alle altezze di un diritto economico. In realtà, come è noto, avviene esattamente il contrario».Si dovrà credere che, cinque anni dopo che Marx ha tratteggiato con sì felice e convincente brevità il proudhonismo, e proprio sotto questo aspetto decisivo, sia possibile fare stampare in tedesco cose confusionarie come queste? Che vogliono mai dire simili sciocchezze? Nulla, se non che gli effetti pratici delle leggi economiche, che regolano la società moderna, fanno a pugni col senso di giustizia dell’autore, e questi nutre il pio desiderio che le cose si possano aggiustare in modo da rimediare agli inconvenienti. Già, se i rospi avessero la coda, non sarebbero più rospi!
E il modo capitalistico di produzione non è forse «pervaso da un’idea di diritto», vale a dire dal proprio diritto di sfruttare i lavoratori? Il nostro autore ci dice che tale non è la sua idea di diritto; ebbene, siamo forse andati di un passo avanti?
Ma torniamo alla questione delle abitazioni. Il nostro proudhoniano lascia ora libero corso alla sua "idea del diritto" e snocciola la seguente commovente declamazione: «Non esitiamo minimamente ad affermare che per l’intera civiltà del nostro celebrato secolo non si dà dileggio più terribile del fatto che nelle grandi città il novanta per cento della popolazione e oltre non abbia un luogo che possa chiamare proprio. Il vero punto nodale dell’esistenza morale e familiare, la casa e il focolare, viene travolto dal turbine sociale (...) A questo riguardo noi siamo di gran lunga inferiori ai selvaggi. Il troglodita ha la sua caverna, l’australiano ha la sua capanna d’argilla, l’indiano il suo proprio focolare – il proletario moderno è, di fatto, all’aria aperta» ecc.
In questa geremiade abbiamo il proudhonismo in tutta la sua forma reazionaria. Per creare la moderna classe rivoluzionaria del proletariato era assolutamente necessario che fosse tagliato il cordone ombelicale che teneva ancora legati i lavoratori del passato al terreno. Il tessitore manuale che, oltre al suo telaio, possedeva la sua casetta, il suo giardinetto e il suo campicello, al di là di ogni miseria e di ogni oppressione politica, era un uomo tranquillo e contenuto "in tutta santità e decoro"; si levava il cappello davanti ai ricchi, ai pievani e agli impiegati statali, e nell’intimo era in tutto e per tutto uno schiavo. La grande industria moderna, che del lavoratore incatenato alla terra ha fatto un proletario del tutto nullatenente, libero da tutte le catene tradizionali, libero come un uccello ed indifeso, è proprio questa rivoluzione economica ad aver creato le condizioni uniche e sole che rendano possibile, insomma, l’abolizione dello sfruttamento della classe operaia nella sua forma ultima, la produzione capitalistica. Ed ecco che ora questo lacrimoso proudhoniano se ne viene a deprecare come un gran regresso il fatto che i lavoratori siano scacciati da casa e focolare, un fatto che per l’appunto costituisce la condizione primissima della loro emancipazione intellettuale.
Ventisette anni fa (cfr. La situazione della classe operaia in Inghilterra) ho descritto appunto, nelle sue linee principali, questo processo di espulsione dei lavoratori da casa e focolare, quale si verifico nel XVIII secolo in Inghilterra. In quelle pagine sono descritte come meritano le infamie di cui si resero colpevoli in quell’occasione i proprietari terrieri e gli industriali, gli effetti materialmente e moralmente dannosi che quell’espulsione sortì necessariamente sui lavoratori che ne furono vittime. Ma mi poteva mai venire in mente di scorgere in quel processo evolutivo necessario sul piano storico, un regresso "al di sotto dei selvaggi"? Certo che no. Il proletariato inglese del 1872 è ad un livello infinitamente più alto del tessitore rurale del 1772 "con casa e focolare". E il troglodita con la sua caverna, l’australiano con la sua capanna d’argilla, l’indiano con il suo proprio focolare avrebbero mai potuto compiere una sommossa di giugno [L’insurrezione 1848, "la prima grande battaglia fra proletariato e borghesia"] e una Comune di Parigi?
Che, da quando la produzione capitalistica ha cominciato a svolgersi su larga scala, la condizione degli operai sia divenuta in complesso peggiore dal punto di vista materiale, lo può mettere in dubbio soltanto il borghese.
Ma per questo forse dobbiamo guardare bramosamente indietro alle (peraltro assai magre) pentole d’Egitto, cioè alla piccola industria rurale, che produceva solo anime di schiavi, oppure ai "selvaggi"? Al contrario. Soltanto il proletariato creato dall’industria moderna, liberato da tutte le catene ereditarie, anche da quelle che lo inchiodano alla terra, solo il proletariato pigiato nelle grandi città è in grado di compiere la grande trasformazione sociale che metterà fine ad ogni sfruttamento di classe e ad ogni dominio di classe. I tessitori campagnoli di un tempo, con casa e focolare, non sarebbero mai stati in grado di farlo, non avrebbero potuto concepirne nemmeno il pensiero, e ancor meno attuarlo.
Per Proudhon, invece, tutta la rivoluzione industriale degli ultimi cent’anni, il vapore, la produzione su larga scala, che sostituisce il lavoro manuale con le macchine e moltiplica la capacità produttiva del lavoro, è un evento quant’altro mai increscioso, qualcosa che non avrebbe dovuto mai accadere. Il piccolo borghese Proudhon vuole un mondo in cui ciascuno porti a compimento un prodotto tutto suo, autonomo, che sia immediatamente adoperabile e scambiabile; solo se in tal modo ciascuno recupera il pieno valore del suo lavoro in un altro prodotto, si sarà soddisfatto all’"eterna giustizia" e realizzato il migliore dei mondi.
Ma questo migliore dei mondi proudhoniano è già stato schiacciato in boccio dal piede del progressivo sviluppo industriale, che da tempo ha abolito il lavoro singolo in tutti i rami maggiori della grande industria e va abolendolo giorno dopo giorno anche nei minori e minimi; al suo posto mette il lavoro sociale, sostenuto da macchinari e da forze della natura assoggettate, un lavoro il cui prodotto, immediatamente scambiabile o adoperabile, è l’opera comune di più singoli, per le mani dei quali esso ha dovuto passare.
Ed è proprio grazie a questa rivoluzione industriale che la capacità produttiva del lavoro umano ha raggiunto un simile apogeo, e che – per la prima volta da quando esistono uomini – è data la possibilità, con una intelligente ripartizione di lavoro fra tutti, non solo di produrre a sufficienza per l’abbondanza del lavoro di tutti i membri della società e per un cospicuo fondo di riserva, ma altresì di lasciare ad ogni singolo sufficiente tempo libero perché si conservi quanto vale realmente la pena di conservare di ciò che costituisce la cultura storicamente tradizionale (scienza, arte, rapporti umani, ecc.), e non solo di conservarlo, ma di trasformarlo da un monopolio della classe dominante in un bene comune della società intera, e di accrescerlo.
E qui sta il punto decisivo. Non appena la capacità produttiva del lavoro umano si sviluppa fino a questo apogeo, sparisce ogni pretesto per l’esistenza di una classe dominante. La ragione con cui si sosteneva la differenza di classe, infatti, è stata sempre questa, in fondo: deve sempre esservi una classe che non sia costretta a tormentarsi per la produzione del proprio mantenimento quotidiano, per avere tempo di curare il lavoro intellettuale della società. A questa fanfaluca, che finora ha avuto una sua grande giustificazione storica, ha tagliato le radici una volta per tutte la rivoluzione industriale degli ultimi cent’anni. L’esistenza di una classe dominante diviene ogni giorno di più un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive industriali e, non meno, a quello della scienza, dell’arte, e segnatamente di ben ordinari rapporti umani. Difficoltà più grosse e imbrogliate di quelle prodotte dai nostri borghesi odierni non se ne sono mai avute.
Tutto questo non tocca minimamente l’amico Proudhon. Egli vuole la "giustizia eterna", e niente altro. Scambiando il suo prodotto, ciascuno deve ricevere per esso il provento complessivo del suo lavoro, il valore totale del suo lavoro.
Sennonché, un calcolo del genere, quanto al prodotto dell’industria moderna, è una faccenda piuttosto complicata. Nell’industria moderna si rende mal individuabile la parte che il singolo ha nel prodotto complessivo, e che nell’artigianato manuale di un tempo era di per sé evidente nel prodotto compiuto. L’industria moderna, inoltre, va eliminando sempre di più quello scambio individuale su cui si fonda l’intero sistema di Proudhon, cioè lo scambio diretto fra due produttori, ciascuno dei quali riceve in cambio il prodotto dell’altro per consumarlo.
Ecco quindi che tutto il proudhonismo è pervaso da una tendenza reazionaria, da una profonda antipatia per la rivoluzione industriale, un desiderio, ora palese, ora nascosto e inespresso, di buttar fuori tutta l’industria moderna, macchine a vapore, macchine tessili ed altre diavolerie, per tornare all’antico, onesto lavoro manuale. Che in tal modo perdiamo in novecentonovantanove per mille di capacità produttiva, che l’umanità intera sia condannata alla schiavitù di lavoro più dura possibile, che la carestia diventi regola generale – che importa mai, purché riusciamo ad istituire lo scambio in modo tale che ciascuno riceva il "pieno provento del suo lavoro" e sia attuata la "giustizia eterna"? Fiat justitia, pereat mundus! Vada in malora pur il mondo intero, ma la giustizia abbia intatto il suo impero!
E il mondo andrebbe in malora davvero, in codesta controrivoluzione proudhoniana, dato e non concesso che sia mai attuata.
È del resto ovvio che anche nella produzione sociale, condizionata dalla grande industria moderna, a ciascuno può essere assicurato il "pieno provento del suo lavoro" – nella misura in cui questa espressione ha un senso – lo si ha solo se la si estende in modo tale da intendere che non ogni singolo lavoratore diventi proprietario di codesto "pieno provento del suo lavoro", bensì che l’intera società, consistente di soli lavoratori, divenga proprietaria del prodotto complessivo del suo lavoro, che in parte distribuisce tra i suoi membri per il consumo, in parte impiega per il ricambio e l’aumento dei suoi mezzi di produzione, in parte, infine, immagazzina come fondo di riserva per la produzione e il consumo.
Dopo quanto si è detto, siamo in grado di saper già in anticipo come il nostro proudhoniano risolverà la questione delle abitazioni. Da un lato abbiamo l’esigenza che ogni lavoratore abbia una sua propria abitazione, affinché non restiamo più a lungo al di sotto dei selvaggi. Dall’altro ci assicura che il pagare due, tre, cinque o dieci volte il prezzo originario di una casa sotto forma di pigione, come avviene di fatto, poggia su un titolo giuridico e che questo titolo giuridico si trova in contraddizione con la "giustizia eterna".
La soluzione è semplice: aboliamo il titolo giuridico e, in forza della giustizia eterna, dichiariamo che la pigione pagata è solo un acconto, per così dire, del prezzo dell’appartamento affittato. Aggiustare le proprie premesse in modo tale che vi sia contenuta la conclusione, è ovvio che non richiede maggiore abilità di quella che possiede qualsiasi ciarlatano per tirare dal sacco bell’e pronto il risultato preparato in precedenza e vantarsi della logica inconcussa di cui quello è il prodotto. E così accade nel nostro caso.
L’abolizione degli appartamenti d’affitto viene proclamata una necessità, nel senso che si postula la trasformazione di ciascun inquilino in proprietario del suo appartamento. Come farlo? È semplicissimo: «Si aboliscono gli appartamenti d’affitto (...) A colui che ne è stato proprietario finora viene pagato il valore della sua casa fino all’ultimo centesimo. Finora, il pagamento della pigione rappresenta il tributo che l’inquilino paga all’eterno diritto del capitale; ebbene, dal giorno in cui viene proclamata l’abolizione delle case d’affitto, l’inquilino, invece, pagherà una somma esattamente calcolata quale rata annua dell’appartamento che è passato in sua proprietà (...) In tal modo la società (...) si trasforma in un complesso di proprietari di casa liberi e indipendenti».
Il proudhoniano vede un delitto contro la giustizia eterna il fatto che il padrone di una casa possa ricavare, senza lavoro, una rendita fondiaria e un interesse dal capitale investito nella casa. Egli decreta che ciò deve cessare; e il capitale investito in abitazioni non deve fruttare più alcun interesse né, in quanto rappresenta l’area acquistata, nemmeno una rendita fondiaria.
Abbiamo già visto che in tal modo non viene toccato affatto il modo di produzione capitalista, che è il fondamento della società odierna. Il cardine su cui ruota lo sfruttamento del lavoratore è la vendita della forza lavoro al capitalista e l’uso che il capitalista fa di questa sua compera, costringendo il lavoratore a produrre assai di più del valore pagatogli in cambio della forza lavoro. È questo negozio fra capitalista e lavoratore che produce tutto il plusvalore, che poi, sotto forma di rendita fondiaria, profitti commerciali, interessi di capitale, tasse e via dicendo, si ripartisce fra le varie sottospecie di capitalisti e i loro servitori.
Ed ora se ne viene il nostro proudhoniano e crede di far compiere un passo avanti proibendo ad una sola sottospecie di capitalisti, e per di più di quei capitalisti che non comprano direttamente nessuna forza lavoro e quindi non fanno nemmeno produrre un plusvalore, di lucrare profitti o interessi! La massa del lavoro non pagato, di cui viene derubata la classe lavoratrice, rimarrebbe esattamente la stessa, anche se domani si togliesse al padrone di casa la possibilità di farsi pagare per rendite, diarie o interessi. Ma questo non impedisce al nostro proudhoniano di dichiarare: «L’abolizione delle case d’affitto è quindi uno degli sforzi più fecondi e grandiosi che scaturiscono dal grembo dell’idea rivoluzionaria e deve diventare una rivendicazione di primo ordine da parte della democrazia sociale». È proprio la stessa ciarlataneria di mastro Proudhon, il cui schiamazzo è in rapporto inverso alla grandezza dell’uovo deposto.
Immaginatevi, ora, la bella condizione che si avrebbe qualora ogni lavoratore, piccolo borghese e borghese sarà costretto a diventare, con rate annuali, proprietario dapprima parziale e poi totale della sua abitazione! La cosa avrebbe ancora un possibile senso nei settori industriali dell’Inghilterra, dove sono una grande industria ma piccole case per lavoratori, e dove ogni operaio coniugato abita in una cassetta tutta per sé. La piccola industria di Parigi, come pure della maggior parte delle grandi città continentali, invece, è integrata da grandi caseggiati, in cui abitano insieme venti, trenta famiglie.
Il giorno del gran decreto liberatorio, che proclama l’abolizione delle case di affitto, Pietro lavora in una fabbrica di macchinari a Berlino. Trascorso un anno, è proprietario, bene che vada, dell’undicesima parte del suo appartamento monocamera ad un certo quinto piano presso la Porta d’Amburgo. Perde il suo lavoro e subito dopo si ritrova in un appartamento simile, con una splendida vista sul cortile, in un terzo piano presso il Pothof ad Hannover, dove, dopo un soggiorno di cinque mesi, ha acquistato 1/36 della proprietà proprio quando una qualche trappoleria lo sbalza a Monaco di Baviera e lo costringe ad accollarsi, con un soggiorno di undici mesi, esattamente 11/180 del diritto di proprietà su di uno stabile piuttosto buio, a piano terra, dietro la Ober-Angergasse. Ulteriori trasferimenti, come oggi capitano spesso agli operai, gli appioppano, inoltre: 7/360 di un non meno raccomandabile appartamento a St. Gallen, 23/180 di un altro a Leeds e 347/56223, calcolato esattamente perché non abbia nulla a ridire la "giustizia eterna", d’un terzo a Seraing.
Che cosa resta in mano a Pietro, di tutte queste porzioni di appartamenti? Chi gliene dà il giusto valore? Dove mai andrà a pescare il proprietario o i proprietari delle rimanenti porzioni di tutte quelle che sono state le sue abitazioni? E, anzitutto, come si regolano i rapporti di proprietà di un qualsiasi grande caseggiato, i cui vari piani comprendono diciamo venti appartamenti e che, trascorso il termine di riscatto è abolite le case d’affitto, appartiene forse a trecento proprietari parziali, che sono dispersi in tutte le parti del mondo?
Il nostro proudhoniano risponderà che a quel momento esisterà la Banca di cambio proudhoniana che a qualsiasi momento pagherà a chiunque, per ogni prodotto di lavoro, il pieno ammontare di quest’ultimo, e quindi anche il pieno valore di ogni porzione d’appartamento. Ma la Banca di cambio proudhoniana, in primo luogo non c’entra affatto, perché non viene mai menzionata negli articoli sulla questione delle abitazioni; in secondo luogo essa poggia sullo strambo errore che, per cui chiunque voglia vendere una data merce si trovi sempre e necessariamente chi gliela compri a pieno valore; in terzo luogo, ancora prima che Proudhon la inventasse, ha già fatto più d’una volta fallimento di Inghilterra sotto il nome di Labour Exchange Bazaar.
Quella che il lavoratore debba comprarsi la casa, è un’idea che poggia interamente anch’essa sulla concezione di fondo reazionaria di Proudhon già messa in risalto, secondo cui le condizioni create dalla grande industria moderna sono delle aberrazioni patologiche e la società deve essere condotta a forza – cioè contro la corrente che essa segue da cento anni – ad uno stato di cose in cui l’antico e stabile lavoro manuale del singolo sia la regola, a uno stato che non è nient’altro che un’idealizzata restaurazione di quella piccola industria che si è estinta e che è tuttora in via di estinzione. Una volta i lavoratori siano ricaduti in questa stabile condizione, una volta che quindi sia felicemente domato il "vortice sociale", è naturale che il lavoratore possa tornare ad aver bisogno della proprietà di "casa e focolare", e la suesposta teoria di riscatto appare meno insulsa. Sennonché Proudhon dimentica che, per venire a capo di tutto questo, è necessario prima rimettere indietro di cento anni l’orologio della storia universale, e che facendolo, egli riconvertirebbe gli operai di oggi in anime di schiavi anguste, striscianti, vili come quelle dei loro trisnonni.
Quel tanto, però, di razionale, praticamente valorizzabile, della soluzione proudhoniana del problema della casa, oggigiorno viene già attuato, e questa attuazione deriva non dal "grembo dell’idea rivoluzionaria", bensì dalla stessa grande borghesia. Ascoltiamo cosa dice al riguardo un ottimo foglio spagnolo, La Emancipación di Madrid, del 16 marzo 1872:
«Per risolvere il problema delle abitazioni c’è un altro modo ancora, proposto da Proudhon, e che a prima vista affascina, ma ad un esame più attento svela tutta la sua totale debolezza. Proudhon propone di trasformare gli inquilini in acquirenti rateali, in modo che il canone d’affitto pagato annualmente sia computato come rata per il riscatto del valore dell’abitazione e, trascorso un certo tempo, l’inquilino diventi proprietario del suo appartamento. Questo sistema, che Proudhon ritiene quanto mai rivoluzionario, oggigiorno viene messo in opera in tutti i paesi da società di speculatori, che, aumentando il prezzo d’acquisto, si fanno pagare due o tre volte il valore delle case. Il signor Dollfus e altri costruttori della Francia nord-orientale hanno realizzato questo sistema, non solo per guadagnare denaro, ma per giunta con un secondo fine politico.[Nota di Engels, 1887. Come questa soluzione del problema della casa si attui spontaneamente incatenando i lavoratori ad un loro proprio "focolare" nei pressi di città americane già grandi o in via d’espansione, ci dà notizia il seguente passo di una lettera scritta da Indianapolis il 28 novembre 1886 da Eleonor Marx-Aveling:
«I capi più avveduti della classe dominante hanno sempre rivolto i loro sforzi ad accrescere il numero di piccoli proprietari per creare un esercito contro il proletariato. Le rivoluzioni borghesi del secolo scorso suddivisero il grande latifondo della nobiltà e della chiesa in piccole proprietà parcellari, così come vogliono fare oggi i repubblicani spagnoli con il grande latifondo ancora esistente, e crearono in tal modo una classe di piccoli proprietari terrieri, che da allora in poi sono divenuti l’elemento più reazionario della società e l’ostacolo continuo al movimento rivoluzionario del proletariato. Riducendo le singole aliquote del debito pubblico, Napoleone III ha mirato a creare un’analoga classe nelle città, e, vendendo appartamenti a rate annuali ai loro operai, il Signor Dollfus e i suoi colleghi hanno cercato di estinguere in essi ogni spirito rivoluzionario, incatenandoli al tempo stesso, con una proprietà fondiaria, alla fabbrica in cui al momento lavorano: ecco quindi che il piano di Proudhon, anziché alleviare la condizione della classe lavoratrice, si è risolto in qualcosa che va direttamente contro di essa».
«A Kansas City, o meglio nei pressi, abbiamo visto delle miserabili baracche di legno di circa tre camere, nel cuore della foresta. Il terreno era costato 600 dollari ed era appena sufficiente ad accogliere la casetta. Questa era costata a sua volta più di 600 dollari: in totale, 4800 marchi per una capanna miserabile, ad un’ora dalla città, in un deserto fangoso. I lavoratori devono quindi accollarsi pesanti debiti ipotecari per non ricever altro, poi, che abitazioni come queste, e sono, ora più che mai, schiavi del padrone che dà loro da mangiare. Sono incatenati alle loro case, non possono andare via e devono far buon viso per forza a tutte le condizioni di lavoro che si offrono loro»].Come viene risolta, allora, la questione delle abitazioni? Esattamente come è risolta ogni altra questione sociale nel mondo moderno: con il graduale pareggio economico di domanda e offerta; una soluzione, questa, che riproduce continuamente di nuovo la questione, e che quindi non è una soluzione. Come la risolverebbe una rivoluzione sociale, è fatto che non solo dipende dalle circostanze del momento, ma è legato altresì a molte altre questioni ulteriori, tra le quali una delle precipue è l’abolizione dei contrasti fra città e campagna.
Giacché non abbiamo da prospettare nessun sistema utopistico per l’instaurazione della società futura, sarebbe più che ozioso entrarvi in merito. È certo, però, che già fin d’ora nelle grandi città esistono edifici destinati ad abitazioni in numero sufficiente per rimediare, con un uso razionale delle medesime, ad ogni reale "penuria" di abitazioni. Ciò, naturalmente, può avvenire solo mediante l’esproprio dei proprietari attuali, ovvero assegnando le loro case ai lavoratori senza tetto o oltremodo sovraffollati nelle loro abitazioni attuali; non appena il proletariato avrà conquistato il potere politico, un simile provvedimento, imposto dal pubblico bene, sarà facilmente attuato, al pari di altri espropri e di altre assegnazioni compiute dallo Stato medesimo.
Il nostro proudhoniano, però, non è ancora contento di quanto ha detto finora sulla questione delle abitazioni. Deve sollevarla da questo basso mondo nella sfera del socialismo superiore, affinché anche in esso si palesi come un essenziale "frammento della condizione sociale".
«Facciamo ora l’ipotesi che la produttività del capitale sia presa realmente per le corna, come presto o tardi dovrà avvenire, ad esempio con una legge provvisoria che fissi l’interesse di tutti i capitali all’uno per cento, beninteso con la tendenza ad avvicinare questa percentuale sempre più allo zero, cosicché alla fine non venga più pagato altro che il lavoro necessario al rimpiazzo del capitale. Come tutti gli altri prodotti, naturalmente anche casa e abitazione sono compresi nel quadro di questa legge (...) Il proprietario stesso sarebbe il primo a dare una mano per la vendita, perché altrimenti la sua casa resterebbe inutilizzata e il capitale investito sarebbe semplicemente improduttivo».Questo passo contiene uno dei principali articoli di fede del catechismo proudhoniano e offre un esempio patente della confusione che vi è imperante.
La "produttività del capitale" è un’assurdità che Proudhon mutua acriticamente dagli economisti borghesi. Costoro cominciano bensì anch’essi col principio che il lavoro è la fonte d’ogni ricchezza e la misura del valore d’ogni merce; ma devono altresì spiegare come avvenga che il capitalista, il quale impegni del capitale in un’impresa industriale o artigianale, alla fine si veda tornare indietro non solo il capitale investito, ma per giunta anche il profitto. Essi devono quindi impegolarsi in contraddizioni d’ogni genere e attribuire una certa quale produttività anche al capitale. Quanto profondamente Proudhon sia ancora prigioniero della mentalità borghese, nulla lo mostra meglio del suo far proprio questo modo di parlare della produttività del capitale.
All’inizio abbiamo già visto che la cosiddetta "produttività del capitale" null’altro è se non una proprietà che gli ineriscono gli odierni rapporti sociali, una proprietà senza la quale non vi sarebbe capitale di sorta: quella di appropriarsi di lavoro non retribuito dei lavoratori salariati. Ma Proudhon si differenzia dagli economisti borghesi per il fatto che egli non ammette questa "produttività del capitale", al contrario vi scopre una violazione della "giustizia eterna". È tale violazione ad impedire che il lavoratore riceva il pieno provento del suo lavoro. La si deve dunque sopprimere. E come? Abbassando con leggi coattive il tasso di interesse. Allora, secondo nostro proudhoniano, il capitale cesserà di essere produttivo.
L’interesse del capitale liquido dato a prestito è solo una parte del profitto; il profitto, sia del capitale industriale, sia del commerciale, è solo una parte del plusvalore sottratto dalla classe capitalistica a quella lavoratrice sotto forma di lavoro non retribuito. Le leggi economiche che regolano il tasso d’interesse, sono così indipendenti da quelle che regolano la quota del plusvalore, come può aver luogo in generale fra leggi di una medesima forma di società. Per quanto riguarda la distribuzione di questo plusvalore tra i singoli capitalisti, è chiaro che per quelli industriali e commerciali, che hanno nei loro affari molto capitale anticipato da altri capitalisti, la quota del loro profitto deve aumentare nella stessa misura in cui – ferme restando tutte le altre condizioni – cade il tasso di interesse. Il ribasso e l’abolizione finale di quest’ultimo, dunque, non sarebbe affatto un vero "prendere per le corna" la cosiddetta "produttività del capitale", ma solo un regolare diversamente la distribuzione del plusvalore sottratto e non pagato alla classe lavoratrice, e assicurerebbe un vantaggio non al lavoratore nei confronti del capitalista industriale, bensì al capitalista industriale nei confronti di colui che vive di rendita.
Dal punto di vista giuridico Proudhon spiega il tasso di interesse, come tutti i fatti economici, non in base alle condizioni della produzione sociale, bensì con le leggi dello Stato, che danno un’espressione universale a quelle condizioni. A tale punto di vista, a cui sfugge il sia pur minimo sospetto del nesso fra leggi statali e condizioni di produzione della società, le prime appaiono necessariamente come imposizioni puramente arbitrarie, che in qualsiasi momento si possono sostituire benissimo con il loro opposto diametrale. Nulla di più facile, per Proudhon (non appena ne abbia il potere) che promulgare un decreto che riduca il tasso di interesse all’uno per cento. Naturalmente, se tutte le altre circostanze sociali restano quelle di prima, il decreto proudhoniano rimarrà sulla carta. Il tasso d’interesse continuerà ad essere regolato come prima, secondo le leggi economiche a cui obbedisce oggi, nonostante tutti i decreti; coloro che hanno credito continueranno a percepire, secondo i casi, il 2, il 3, il 4 e più per cento, né più né meno come prima. L’unica differenza sarà che quanti vivono di rendita saranno molto guardinghi e anticiperanno denaro solo a quelle persone da cui non c’è da attendersi un processo.
Ecco quindi che codesto gran disegno di togliere al capitale la sua "produttività" è vecchio quanto il mondo, vecchio come le leggi contro l’usura, che miravano unicamente a ridurre il tasso d’interesse, e che ora sono state abolite ovunque, poiché in pratica erano violate o aggirate, e lo Stato ha dovuto confessare la sua impotenza di fronte alle leggi della produzione sociale. E il reintrodurre queste leggi medievali, inattuabili, dovrebbe significare un "prendere per le corna la produttività del capitale"? È evidente: quanto più lo si studia, tanto più il proudhonismo appare reazionario.
Quando, poi, il tasso d’interesse fosse ridotto in tal modo a zero, e quindi si abolisse l’interesse del capitale, allora, «non sarà pagato più nient’altro che il lavoro necessario alla riconversione del capitale». Ciò vuol dire che l’abolizione del tasso d’interesse equivale a quella del profitto e perfino del plusvalore. Ma, qualora fosse possibile abolire realmente il tasso con un decreto, quale ne sarebbe la conseguenza? Che la classe di coloro che vivono di rendita non avrebbe più alcun motivo di mettere a frutto il proprio capitale sotto forma di prestito, ma lo investirebbe per proprio conto o in industrie o in società per azioni. La massa del plusvalore sottratta alla classe lavoratrice da quella capitalista resterebbe la medesima; muterebbe solo la sua distribuzione, e anche questa non in misura rilevante.
In realtà il nostro proudhoniano non tiene conto che già attualmente, nell’acquisto di merci che si ha nella società borghese, in media non si paga niente di più del "lavoro necessario alla riconversione del capitale" (per intenderci, alla produzione di determinate merci). Il lavoro è la misura del valore di tutte le merci, e nella società odierna – a prescindere dalle fluttuazioni di mercato – è semplicemente impossibile che nella media complessiva si paghi per le merci più del lavoro necessario a produrle. No, no caro proudhoniano, l’intoppo sta in ben altro: sta nel fatto che il lavoro necessario alla riconversione del capitale (per usare il Suo confuso modo di esprimersi) non è affatto pagato a pieno! Come ciò avvenga, Lei lo può leggere in Marx (Il Capitale, libro I, sezione II).
E non è tutto. Qualora fosse abolito l’interesse sul capitale, sarebbe abolito perciò stesso anche la rendita di affitto. Infatti, «come tutti gli altri prodotti, anche casa e abitazione sono naturalmente comprese nel quadro di questa legge». Questo è perfettamente in linea con lo spirito di quel vecchio maggiore che fece chiamare una delle sue reclute e l’apostrofò: "Dica un po’, sento dire che Lei è dottore; venga allora di tanto in tanto da me; quando si ha moglie e sette figli, si ha sempre qualcosa da rattoppare". Recluta: "Mi scusi, signor Maggiore, io sono dottore in filosofia". Maggiore: "Per me non fa differenza: un dottore è sempre un dottore".
Anche per il nostro proudhoniano le cose vanno così; canone d’affitto e interesse di capitale sono per lui la stessa cosa: interesse è interesse, dottore è dottore.
Si è visto sopra che il canone di locazione, vulgo pigione,
si compone di:
1) una quota di rendita fondiaria;
2) una quota d’interesse sul capitale investito nella costruzione,
ivi incluso il profitto dell’appaltatore;
3) una quota per le spese di assicurazione e riparazione;
4) una quota che ammortizza il capitale investito nella costruzione,
ivi incluso il profitto, in rate annuali, a misura che la casa gradualmente
deperisce.
Ed ora dovrà essersi fatto chiaro anche ai più ciechi che «il proprietario stesso sarebbe il primo a dare una mano per la vendita, perché altrimenti la sua casa resterebbe inutilizzata e il capitale investito sarebbe semplicemente improduttivo». Naturalmente. Se si abolisce l’interesse sul capitale anticipato, nessun proprietario potrà più ricevere nemmeno un centesimo di pigione per la sua casa, perché anzitutto invece di pigione si può dire anche reddito di affitto, e poi perché il canone d’affitto include una parte che è vero e proprio interesse di capitale. Un dottore è un dottore.
Le leggi sull’usura si sono potute aggirare per renderle inoperanti sul comune interesse di capitale, ma mai e poi mai potrebbero minimamente scalfire il principio del fitto sulle abitazioni. Solo a Proudhon fu riservato immaginare che la sua nuova legge sull’usura possa servire ad indiscutibilmente regolare, e gradualmente abolire, non solo il semplice interesse di capitale, ma altresì il complicato interesse incluso nel fitto di locazione. Perché, allora, il proprietario dovrebbe continuare a comprare a caro prezzo la casa "semplicemente priva di utile", e come mai, a certe condizioni, il padrone non arrivi a sborsare denaro per liberarsi di una casa "semplicemente priva di utile", per non doversi più assumere alcuna spesa di riparazione, sono interrogativi sui quali ci si lascia all’oscuro.
Dopo questa sua superba prestazione sul campo del socialismo (mastro Proudhon lo denominò supersocialismo), il nostro proudhoniano si ritiene autorizzato a volare un po’ più alto. Ora non c’è più che da trarre alcune conclusioni, che facciano piovere da tutte le parti in piena luce sul nostro così importante argomento. E quali sono queste conclusioni? Cose che discendono da quanto si è premesso tanto poco quanto la svalutazione delle case di abitazione dall’abolizione del tasso d’interesse, cose che, spogliate delle locuzioni pompose e solenni di cui le addobba il nostro autore, non significano altro che quanto segue. Per il migliore disbrigo del negozio di riscatto delle case a pigione sono auspicabili: 1) una precisa statistica sulla materia in questione; 2) una buona polizia sanitaria e 3) cooperative di muratori capaci di assumersi imprese edilizie per costruire nuove abitazioni. Tutte cose belle e buone assai, ma che, ad onta di tutte le fumose frasette ciarlatanesche, non recano affatto "piena luce" nella tenebrosa confusione del pensiero proudhoniano.
Chi ha compiuto sì grandi cose, ha ben diritto di rivolgere un serio monito ai lavoratori tedeschi: «Queste e consimili questioni riteniamo che siano ben degne di attenzione da parte della democrazia sociale (...) Si possa cercare di venire in chiaro, così come si è fatto sulla questione delle case, anche su altre egualmente poderose, quali credito, debito pubblico, debiti privati, imposte» e via dicendo.
Ecco dunque che il nostro proudhoniano fa sperare tutta una serie di articoli su "questioni consimili", e se egli le tratterà tutte nello stesso modo esauriente con cui ha trattato il "così importante argomento" attualmente in questione, il Volksstaat è provvisto di manoscritti per un anno.
Nel frattempo possiamo prevenire quel che ci si dirà e che si risolve tutto in quanto è stato già detto: viene abolito l’interesse del capitale, viene a cadere l’interesse da pagare sul debito pubblico e su quello privato, il credito diviene gratuito ecc. La stessa parola magica viene applicata a qualsivoglia argomento, e in ogni singolo caso si approda con logica inesorabile allo stesso stupefacente risultato: che, una volta abolito l’interesse del capitale, non si avrà più da pagare alcun interesse per il denaro incassato.
Del resto sono belle davvero le questioni con cui ci minaccia il nostro proudhonista. Credito! Di quale credito ha bisogno l’operaio, se non di quello da una settimana all’altra e di quello del monte dei pegni? Che gli sia dato gratuitamente o a interesse (anche a quello da strozzino che viene applicato al monte di pietà), a quanto ammonta la differenza per lui? E, se preso in generale, egli ne traesse un vantaggio e quindi i costi di produzione della forza lavoro andassero più a buon mercato, non dovrebbe cadere il prezzo della forza lavoro?. Ma per i borghesi, e specialmente per i piccolo borghesi, per i quali il credito è una faccenda importante, sarebbe una bella cosa poter ottenere credito ad ogni momento e senza dover pagare interessi.
Debito pubblico! La classe lavoratrice sa di non averlo contratto essa, e quando arriverà al potere ne lascerà il pagamento a coloro che l’hanno incassato.
Debiti privati! Vedi credito.
Imposte! Cose che interessano molto la borghesia, e molto, molto poco, i lavoratori: quel che il lavoratore paga in imposte, a lungo andare viene inglobato nei costi di produzione della forza lavoro, e quindi devono essere i capitalisti a sborsarne il risarcimento.
Tutti questi argomenti, che ci si vuole proporre come questioni della massima importanza per la classe lavoratrice, in realtà presentano un interesse di portata essenziale solo per i borghesi o, meglio ancora, per i piccolo borghesi e, a dispetto di Proudhon, noi affermiamo che la classe lavoratrice non ha alcuna vocazione a tutelare gli interessi di altre classi.
Della grande questione che interessa i lavoratori, del rapporto fra capitalista e operaio salariato, della questione di come avvenga che il capitalista possa arricchirsi sul lavoro dei suoi operai, di tutto ciò il nostro proudhonista non dice una parola. Il suo maestro e donno, in verità, se n’è occupato, ma non vi ha recato la minima luce, ed anche nei suoi ultimi scritti, in sostanza, non è andato oltre quella sua Filosofia della miseria, di cui, già nel 1847, Marx ha rilevato la totale nullità.
È già abbastanza grave che da venticinque anni a questa parte i lavoratori
di lingua neolatina non abbiano per il loro intelletto quasi nessuno altro
nutrimento socialista che gli scritti di codesto "socialista del Secondo
Impero"; sarebbe un guaio in più se ora la teoria proudhoniana dovesse
inondare anche la Germania. Eppure si è provveduto a tanto. Le concezioni
teoriche dei lavoratori tedeschi sono cinquant’anni in anticipo di quelle
proudhoniane, e basterà prendere ad esempio questa unica questione delle
abitazioni per essere dispensati da ulteriori fatiche al riguardo.
Come la borghesia risolve il problema della casa
I
Nel capitolo sulla soluzione proudhoniana del problema delle abitazioni si è messo in luce in quale misura a tale questione sia direttamente interessata la piccola borghesia. Ma vi ha un interesse notevole, sebbene indiretto, anche la grande borghesia.
La scienza naturale moderna ha dimostrato che i cosiddetti "quartieri cattivi", nei quali sono pigiati gli operai, costituiscono le sedi d’incubazione di tutte quelle epidemie che di tanto in tanto affliggono le nostre società. Il colera, il tifo, la febbre tifoidea, il vaiolo ed altre malattie devastatrici diffondono i loro germi nell’aria appestata e nell’acqua inquinata di quei quartieri; non vi si estinguono quasi mai, per svilupparsi, non appena lo consentano le circostanze, in morbi epidemici, e allora sconfinano dai loro luoghi d’incubazione per invadere anche le parti della città più ariose e salubri, quelle abitate dai signori capitalisti. Lor signori i capitalisti non possono permettersi impunemente di provocare malattie fra la classe lavoratrice: le conseguenze ricadono anche su di loro, e l’angelo sterminatore imperversa fra i capitalisti con la stessa spietata imparzialità che fra i lavoratori.
Non appena accertato scientificamente tutto questo, i borghesi filantropici s’infiammarono di nobile emulazione per la salute dei loro operai. Si fondarono società, si scrissero libri, si abbozzarono proposte, si dibatterono e sancirono leggi per intasare le sorgenti delle sempre ricorrenti epidemie. Si studiarono le condizioni abitative dei lavoratori e si fece il tentativo di porre rimedio agli avvenimenti più clamorosi. Segnatamente in Inghilterra, dove esisteva la maggior parte delle grandi città e dove quindi il fuoco divampava con la massima violenza sotto i piedi della grande borghesia, si sviluppò una grande attività, si nominarono commissioni governative al fine di studiare le condizioni igieniche della classe lavoratrice; i resoconti inglesi, che si distinguono lodevolmente per precisione, completezza e imparzialità da tutte le fonti continentali, offrirono le basi per formulare leggi nuove, più o meno drasticamente efficaci. Per imperfette che siano, queste leggi superano infinitamente tutto quello che finora si è fatto in questo senso nel continente. Nondimeno l’ordinamento sociale capitalistico riproduce sempre di nuovo gli inconvenienti cui si dovrebbe metter riparo, e li riproduce con tale intensità che anche in Inghilterra il rimedio non ha progredito nemmeno di un passo.
La Germania, come al solito, ebbe bisogno di maggior tempo perché anche in essa le fonti concrete d’epidemia potessero svilupparsi a quel grado di intensità che era necessario per scuotere la grande borghesia assonnata. D’altronde, chi va piano, va sano e va lontano; e quindi anche da noi sorse, alla fine, una letteratura borghese sull’igiene pubblica e sulla questione delle abitazioni: un estratto annacquato di quanto avevano scritto i predecessori stranieri, soprattutto inglesi, che si ammanta delle tendenze truffaldine d’una concezione più elevata grazie all’impiego di frasi altisonanti e solenni.
Di questa letteratura fa parte: dr. Emil Sax, Die Wohnungszustände der arbeitenden Klassen und ihre Reform (Le condizioni abitative della classe lavoratrice e la loro riforma), Vienna, 1869. Prendo questo libro per dare un’idea del modo borghese di trattare la questione delle abitazioni, solo perché vi si compie il tentativo di sintetizzare il più possibile la letteratura borghese sull’argomento. E che bella letteratura è quella che serve al nostro autore come "fonte"! Dei resoconti parlamentari inglesi, le vere fonti principali, ne sono citati, facendo i nomi, solo tre, dei più vecchi; l’intero libro dimostra che l’autore non ha preso visione nemmeno di uno di essi; per contro, ci viene presentata tutta una serie di scritti borghesi, zeppi di luoghi comuni, ispirati al benpensantismo filisteo e ipocritamente filantropici: Dupcétiaux, Roberts, Hole, Huber, i dibattiti dei congressi inglesi di scienze (o meglio corbellerie) sociali, la rivista dell’Unione per il Bene della Classe Lavoratrice in Prussia, il resoconto ufficiale austriaco sull’esposizione mondiale di Parigi, i resoconti ufficiali bonapartisti sulla medesima, The Illustrated London News, lo Uber Land und Meer, e infine, una riconosciuta autorità, "un uomo di idee ingegnose quanto pratiche", di "persuasiva efficacia oratoria", vale a dire... Julius Faucher! In questo elenco di fonti mancano soltanto il Gartenlaube, Kladderadatsch [Pettegolezzi, giornale umoristico-satirico] e il Füsiler Kutschke [Fuciliere Kutschke, autore d’una canzone militare nazionalistica che si cantò durante la guerra franco-prussiana del 1869-71].
Perché sul punto di vista del sig. Sax non possa sorgere alcun equivoco, a pagina 22 egli afferma: «Per "economia-sociale" intendiamo la dottrina economico-politica nella sua applicazione alle questioni sociali, per esprimerci più precisamente, l’insieme dei mezzi e delle vie che questa scienza ci offre in base alle sue "ferree" leggi, per elevare le cosiddette (!) classi diseredate al livello delle possidenti, nel quadro dell’ordinamento sociale oggi dominante». Non entriamo in merito alla confusa idea secondo cui la "dottrina economico-sociale" si occuperebbe, insieme alle altre, anche di questioni "sociali".
Attacchiamo subito il punto principale. Il dottor Sax pretende che le "ferree leggi" dell’economia borghese, il "quadro dell’ordinamento sociale oggi imperante", in altre parole il modo di produzione capitalistico, debba restare immutato, e che però le "cosiddette classi diseredate" debbano essere elevate "al livello delle classi possidenti". Sennonché è un presupposto indispensabile della produzione capitalistica l’esistenza di una non "cosiddetta", ma reale classe diseredata, la quale non ha nulla da vendere se non la sua forza-lavoro, e che è costretta a venderla ai capitalisti industriali. Il compito della nuova scienza dell’economia sociale inventata dal signor Sax consiste dunque in questo: trovare i mezzi e le vie per fare in modo che, nell’ambito delle condizioni di una società basata sull’antitesi fra capitalisti, detentori di tutte le materie prime, di tutti gli strumenti di produzione e di tutte le derrate da una parte, e dall’altra lavoratori salariati nullatenenti che possono chiamare "propria" solo la loro forza lavoro e null’altro, i salariati possano essere tramutati in capitalisti, senza cessare d’essere salariati. Il signor Sax pensa di avere risolto la questione.
Forse egli sarà così gentile da spiegarci come tutti quei soldati dell’esercito francese, ciascuno dei quali, dal tempo del primo Napoleone, recava nel suo zaino il bastone di maresciallo, si possano tramutare in altrettanti feldmarescialli senza che cessino d’essere soldati semplici. O come si può riuscire a fare di tutti i quaranta milioni di sudditi dell’Impero tedesco altrettanti Kaiser.
L’essenza del suo socialismo borghese sta nel suo voler mantenere in piedi tutti i mali della società odierna e al tempo stesso di abolirli. I socialisti borghesi, come è già detto nel Manifesto comunista, vogliono «porre riparo agli abusi sociali per assicurare il permanere della società borghese», vogliono «la borghesia senza il proletariato». Abbiamo visto che il signor Sax mette la questione proprio negli stessi termini. La soluzione, egli la trova nel risolvere la questione delle abitazioni, egli è del parere che: «migliorando le condizioni della classe lavoratrice si porrebbe riparo con successo alla descritta miseria fisica e spirituale e che quindi – soltanto un miglioramento radicale delle condizioni abitative – si trarrebbe la maggior parte di questa classe dalla palude della sua esistenza spesso pressoché indegna d’uomo e la si solleverebbe alle pure altezze del benessere materiale e spirituale» (pagina 14).
Tra parentesi, è nell’interesse della borghesia tener nascosta l’esistenza di un proletariato creato dai rapporti di produzione borghesi e mantenuto in vita dai medesimi. Per questo il nostro Sax, a pagina 21, ci viene a raccontare che per classi lavoratrici vanno intese tutte «le classi sociali prive di mezzi», «il popolino in genere, come artigiani, vedove, pensionati (!), impiegati subalterni ecc.», oltre ai lavoratori veri e propri. Il socialismo borghese tende la mano al piccolo borghese.
E donde proviene la penuria di abitazioni? Come si è originata? Da buon borghese, il signor Sax non può sapere che essa è un prodotto necessario della forma di società borghese; che non può sussistere, senza la penuria di abitazioni, una società in cui la gran massa lavoratrice non ha nessuna altra risorsa che il salario del suo lavoro, da cui trarre tutti i mezzi necessari alla sua esistenza e alla sua riproduzione; in cui i perfezionamenti a getto continuo dei macchinari ecc. gettano nella disoccupazione masse di lavoratori; in cui violente fluttuazioni industriali a ritmo regolare provocano da una parte l’esistenza d’una numerosa riserva di lavoratori disoccupati, dall’altra gettano temporaneamente sul lastrico la gran massa di operai senza lavoro; in cui i lavoratori sono ammassati e pigiati nelle grandi città, e ad un ritmo più rapido di quello a cui, nelle attuali condizioni, possono costruirsi le abitazioni per loro; una società in cui, dunque, si deve trovar denaro anche per pagare la pigione anche dei cortili più abietti; in cui, per finire, nella sua qualità di capitalista, il padrone di casa non ha solo il diritto, bensì, grazie alla concorrenza, anche in un certo qual modo il dovere, di ricavare spietatamente dalla sua proprietà i fitti più alti. In una società del genere la penuria di abitazioni non è un caso, è un’istituzione necessaria, può essere abolita, insieme a tutti gli effetti che sortisce sull’igiene e via dicendo, solo se viene sovvertita dalle fondamenta l’intera società da cui scaturisce.
Ma tutto questo il socialismo borghese non può saperlo. Non può spiegarsi la penuria di abitazioni in base ai rapporti da cui nasce. E quindi non gli resta altro mezzo che spiegarla con frasi moralistiche in base alla cattiveria degli uomini, diremmo quasi in base al peccato originale.
«E qui non possiamo non riconoscere – e quindi nemmeno negare (audace conclusione!) – che la colpa (...) sta da una parte nei lavoratori stessi, in coloro che richiedono le abitazioni, dall’altra, e invero di gran lunga la maggior parte, in coloro che s’incaricano di soddisfare questo bisogno, ovvero che, pur disponendo dei mezzi necessari, non se ne incaricano, nelle classi possidenti, superiori, della società. La colpa che hanno queste ultime (...) consiste nel non curarsi di far sì che si abbia un’offerta sufficiente di buone abitazioni».Ecco, dunque, che il nostro socialista borghese ci trasporta dall’economia alla morale, così come Proudhon ci aveva trasportati dall’economia alla giurisprudenza.
Non vi è nulla di più naturale. A chi dichiara intangibile il modo di produzione capitalista, le "leggi naturali" dell’odierna società borghese, eppure pretende di abolirne le incresciose ma necessarie conseguenze, non resta nient’altro che tenere prediche morali ai capitalisti, prediche morali i cui toccanti effetti sono riconvertiti immediatamente in fumo dall’interesse privato e, qualora occorra, dalla concorrenza. Queste prediche morali somigliano esattamente a quelle che la gallina teneva ai bordi dello stagno in cui nuotavano allegramente gli anatroccoli che essa aveva covato. Gli anatroccoli vanno nell’acqua, anche se traditrice, e i capitalisti si buttano sul profitto anche se non c’è cuore.
«Nelle faccende di denaro la cordialità non c’entra», diceva il vecchio Hansemann, che se ne intendeva meglio il signor Sax.
«I buoni appartamenti sono ad un prezzo così alto che alla massima parte dei lavoratori è assolutamente impossibile potersene servire. Il grande capitale (...) si tiene pavidamente alla larga dalle abitazioni delle classi lavoratrici (...) Ecco quindi che queste, con il loro fabbisogno di abitazioni, cadono per la massima parte preda della speculazione». Speculazione disgustosa! Ma, naturalmente, il grande capitale non specula mai! Non è mala volontà, e solo la ignoranza che impedisce al grande capitale di fare speculazioni sulle case per operai: «I padroni di casa non sanno affatto quale ruolo grande e importante (...) abbia il normale soddisfacimento del bisogno di abitazioni, non sanno che male fanno alla gente offrendole irresponsabilmente, com’è di regola, abitazioni cattive, malsane, e infine non sanno quanto danneggiano in tal modo se stessi» (pagina 27).
Ma la ignoranza dei capitalisti ha bisogno della ignoranza dei lavoratori, per generare insieme ad essa la penuria di abitazioni. Dopo aver ammesso che gli «strati più bassi» dei lavoratori, «per non restare completamente senza tetto sono costretti a cercare dovunque e comunque un ricovero per la notte (!) e che per questo aspetto sono del tutto privi di difesa e aiuto», il signor Sax ci racconta: «È, in verità, un fatto universalmente noto quanti fra di essi (i lavoratori) privino il loro corpo delle condizioni proprie dello sviluppo naturale e di una sana esistenza per leggerezza, ma prevalentemente per ignoranza, si potrebbe quasi dire con una sorta di virtuosismo, non avendo la più pallida idea delle razionali misure igieniche e in particolare dell’enorme importanza che nell’ambito di esse spetta all’abitazione» (pagina 27).
Ma ora spunta l’orecchio d’asino borghese. Mentre per i capitalisti la "colpa" si era volatilizzata nella ignoranza, per i lavoratori la ignoranza è solo occasione di colpa. Udite: «Avviene quindi (cioè per via della ignoranza) che pur di risparmiare qualcosa sull’affitto, essi si riducano in abitazioni oscure, umide, insufficienti, in una parola irridenti a tutte le esigenze dell’igiene (...) e spesso più famiglie affittino insieme un unico appartamento, anzi un’unica camera, e tutto questo per spendere il meno possibile per la casa, mentre nel bere e in futili piaceri di ogni sorta scialacquano in modo veramente peccaminoso i loro guadagni». Il denaro che i lavoratori scialacquano in «acquavite e tabacco» (pagina 28), «il tempo passato all’osteria che, con tutte le sue deplorevoli conseguenze, come una palla di piombo, trascina sempre più la condizione dell’operaio nel fango», di fatto sta sullo stomaco al signor Sax come una palla di piombo.
Che, date le condizioni esistenti, l’alcolismo fra i lavoratori sia un effetto inevitabile delle loro condizioni di vita, altrettanto inevitabile del tifo, del delitto, degli insetti parassiti, dell’usciere e di altre malattie sociali, a tal punto inevitabile da potersi calcolare in anticipo la media delle vittime dell’alcolismo, il signor Sax non può sapere nemmeno questo. Del resto già un mio vecchio maestro di scuola elementare diceva: «la gente comune va alla bettola, i signori vanno al club», ed essendomi trovato io nell’uno e nell’altro caso, posso testimoniare che aveva ragione.
Tutte le chiacchiere sulla "ignoranza" delle due parti vanno a parare nei vecchi modi di dire sull’armonia di interesse fra capitale e lavoro. Se i capitalisti conoscessero il loro vero interesse, procurerebbero buone case ai lavoratori, sistemando meglio questi ultimi; e se i lavoratori conoscessero il loro vero interesse, non farebbero scioperi, non farebbero della socialdemocrazia, non farebbero politica, ma seguirebbero a puntino i loro superiori, cioè i capitalisti. Disgraziatamente entrambe le parti trovano il loro interesse in tutt’altra sede che nelle prediche del signor Sax e dei suoi numerosi precursori. Il vangelo dell’armonia tra capitale e lavoro sono già cinquant’anni che lo si va predicando; la filantropia borghese ha speso un bel po’ di denaro sonante per mostrarla, quest’armonia, per mezzo di aziende modello e, come vedremo, oggi siamo allo stesso punto di cinquant’anni fa.
Ma ecco che il nostro autore viene alla soluzione pratica della questione. Quanto poco fosse rivoluzionaria la proposta di Proudhon di fare dei lavoratori altrettanti proprietari dei loro appartamenti, emerge già dal semplice fatto che, ancor prima di lui, aveva tentato (e tenta ancora) di tradurla in pratica il socialismo borghese. Anche il signor Sax dichiara che la questione delle abitazioni sarà risolta completamente solo col passaggio della proprietà della casa ai lavoratori (pagine 58 e 59). A questo pensiero, anzi, egli cade in preda ad un’estasi poetica, prorompendo nel seguente slancio d’entusiasmo:
«Vi è qualcosa di peculiare nella brama di possedimento terriero che è insita in ogni uomo, un impulso che non è stato capace d’indebolire nemmeno il pulsare febbrile della vita commerciale d’oggi. Questo qualcosa è il senso inconscio dell’importanza che ha la conquista economica e che viene rappresentata dal possedimento terriero. Con questo l’uomo consegue un sostegno più sicuro, per così dire, mette salde radici in terra, ed ogni economia (!) ha in questo la base più durevole. Non solo, ma la forza benefica del possedimento terriero va ben oltre questi vantaggi materiali. Chi è tanto fortunato di poter chiamare sua una proprietà fondiaria, ha raggiunto il grado d’indipendenza economica più alta che si possa immaginare: ha un terreno su cui può fare da padrone sovrano, è il signore di sé stesso; possiede un certo potere e un ricovero sicuro per i tempi difficili; egli accresce la coscienza di sé medesimo e, con essa, la sua forza morale. Di qui la profonda importanza che la proprietà ha nella questione presente (...) Il lavoratore, oggi esposto irreparabilmente alle vicissitudini della congiuntura, nella sua perpetua dipendenza dal datore di lavoro, fino ad un certo punto verrebbe sottratto a questa situazione precaria, egli diverrebbe capitalista, e sarebbe assicurato contro i pericoli della disoccupazione o dell’inabilità al lavoro dal credito immobiliare che sarebbe sempre a sua disposizione. Eccolo quindi assurto dalla classe dei nullatenenti a quella dei possidenti» (pagina 63).Il signor Sax sembra presupporre che l’uomo per natura sia contadino, altrimenti non attribuirebbe agli operai delle nostre grandi città un nostalgico desiderio di possesso fondiario che peraltro nessuno ha mai scoperto in essi. Per gli operai delle nostre grandi città la prima condizione vitale è la libertà di movimento, e la proprietà fondiaria non può essere altro che una catena, per essi. «Procurate loro una casa in proprietà, incatenateli di nuovo alle zolle, ed ecco che spezzerete la loro capacità di resistenza contro la politica di riduzione salariale condotta dagli industriali». Il lavoratore singolo può ben vendere, all’occorrenza, la sua casetta; ma, in una situazione difficile o in una crisi generale dell’industria, tutte le case di proprietà dei lavoratori dovrebbero, per essere vendute, fare i conti col mercato, e quindi o non troverebbero compratori o sarebbero vendute ad un prezzo assai inferiore a quello di costo. E, qualora trovassero tutti un compratore, ecco che tutta la gran riforma delle abitazioni propugnata dal signor Sax si risolverebbe ancora nel nulla, ed egli dovrebbe ricominciare da capo.
Davvero i poeti vivono in un mondo immaginario, e così anche il signor Sax, il quale s’immagina che il padrone d’immobili, abbia «raggiunto il grado supremo d’indipendenza economica» ed abbia «un ricovero sicuro», «diverrebbe capitalista e sarebbe assicurato contro i pericoli della disoccupazione o dell’inabilità al lavoro dal credito immobiliare, che sarebbe a sua disposizione» ad ogni momento ecc. Ebbene, il signor Sax consideri i piccoli coltivatori diretti francesi o i nostri della Renania; hanno case e campi seppelliti da cumuli d’ipoteche, il loro raccolto appartiene ai creditori ancora prima di essere mietuto, e sul "loro territorio" la fanno da padrone, sovranamente, non essi medesimi, bensì lo strozzino, l’avvocato e l’usciere. Questo è davvero il più alto grado pensabile d’indipendenza economica: per lo strozzino! E perché gli operai possano recare le loro casette sotto la sovranità dell’usuraio al più presto possibile, il benigno signor Sax addita loro premurosamente il credito immobiliare aperto loro ad ogni momento, di cui possono servirsi in caso di disoccupazione e d’inabilità al lavoro, invece di gravare sulla pubblica assistenza.
Ad ogni modo il signor Sax ha ora risolto la questione posta all’inizio: il lavoratore "diventa capitalista" con l’acquisto di una propria casetta.
Il capitale è il comando sul lavoro altrui non pagato.
La casetta dell’operaio, quindi, diventa capitale solo e non appena egli l’affitti ad un terzo e si appropri, sotto forma di pigione, una parte del prodotto di costui. Finché la casa è abitata dal lavoratore stesso, è impedita dall’essere capitale, né più né meno di un abito che cessa d’essere capitale nel momento stesso che lo compero e l’indosso. Un lavoratore, che possegga una casetta del valore di mille talleri, certo non è più un proletario, ma bisogna essere proprio un signor Sax per chiamarlo "capitalista".
Il capitalismo del nostro operaio ha però un altro aspetto ancora. Poniamo che in una data regione industriale sia diventato normale che ogni operaio possegga la sua casetta.
In questo caso la classe operaia di quella regione abita gratis; del valore della sua forza lavoro non fanno più parte le spese per l’abitazione. Ma ogni riduzione dei costi di produzione della forza lavoro, cioè ogni durevole deprezzamento dei bisogni vitali del lavoratore, «in forza delle ferree leggi dell’economia politica», si risolve nel ridurre il valore della forza lavoro e finisce quindi per l’avere come conseguenza una corrispondente caduta del salario. Quest’ultimo, quindi, verrebbe decurtato in media del valore medio della pigione risparmiata, vale a dire che il lavoratore pagherebbe l’affitto della sua propria casa non più, come prima, in denaro al padrone, ma in lavoro non retribuito all’industriale per cui lavora. In tal modo i risparmi dell’operaio investiti nella casetta diventerebbero si, in un certo qual modo, capitale, ma non per lui, bensì per il capitalista che gli dà lavoro.
Ecco dunque che il signor Sax non riesce nemmeno sulla carta a tramutare il suo operaio in un capitalista.
Tra parentesi, quanto si è detto sopra vale per tutte le cosiddette riforme sociali che mirano al risparmio o al buon mercato dei mezzi di sussistenza dell’operaio. O questi vanno a buon mercato per tutti, e allora ne consegue una corrispondente riduzione di salario, o restano esperimenti del tutto isolati, e allora il loro verificarsi è una mera eccezione che dimostra come la loro attuazione su larga scala sia inconciliabile con i modi di produzione capitalistici attualmente esistenti.
Supponiamo che, introducendo cooperative di consumo su larga scala, in una regione si riesca ad abbassare del venti per cento il costo dei beni alimentari per gli operai, a lungo andare il loro salario dovrebbe calare di circa il venti per cento, cioè della stessa percentuale in cui gli alimenti in questione fanno parte del costo della vita degli operai. Se ad esempio l’operaio impiega in media i tre quarti del suo salario settimanale in alimentari, il suo salario finisce col ridursi del 3/4 x 20 = 15%. Insomma, non appena si realizzi una simile forma di risparmio, l’operaio riceverà, nella stessa percentuale, un salario inferiore alle possibilità di vivere a buon mercato offerte dai propri risparmi. Date ad ogni operaio un reddito annuale risparmiato, indipendente, di 52 talleri, e il suo salario settimanale dovrà finire col ridursi di un tallero. Dunque, tanto più egli risparmia, tanto minor salario riceve. Egli, allora, risparmia non nel suo proprio interesse bensì per quello del capitalista. Che altro si desidera per «incitarlo al massimo grado (...) alla prima virtù economica, al senso del risparmio»? (pagina 64).
Del resto il signor Sax soggiunge anche lui che gli operai devono diventare proprietari di case non tanto nel loro interesse quanto in quello dei capitalisti: «Non il ceto operaio, però, ma la società nel suo insieme ha l’interesse supremo nel vedere il maggior numero possibile di suoi membri vincolati al suolo» (Mi piacerebbe vedere il signor Sax in questa posizione!). «(...) Tutte le forze riposte che fanno divampare quel vulcano che è chiamato "questione sociale" e che ci arde sotto i piedi, l’esacerbazione proletaria, l’odio (...) le pericolose confusioni concettuali (...) dovranno svanire come nebbia al sole allorché (...) in tal modo gli operai stessi entreranno a far parte della classe dei proprietari» (pagina 65). In altre parole, il signor Sax spera che, grazie ad uno spostamento dalla loro posizione proletaria, che dovrebbe essere prodotto dell’acquisto della casa, i lavoratori perdano anche il loro carattere di proletari e diventino anch’essi degli ubbidienti sornioni quali furono i loro antenati, che erano del pari padroni di case. I proudhoniani dovrebbero prendere atto di questo.
Ed ecco che il signor Sax crede di aver risolto la questione sociale: «La giusta ripartizione dei beni, l’enigma che invano molti hanno tentato di risolvere, non ci sta davanti come un fatto palpabile, non è perciò distolta dalle regioni degli ideali e immessa nella sfera della realtà? E se la si realizza, non si è raggiunta perciò stesso una delle mete supreme che si pongono come culmine delle loro teorie anche i socialisti più estremisti?» (pagina 66).
È una fortuna che ci siamo fatti largo per giungere sin qui. Questo grido di giubilo costituisce infatti il "culmine" del libro saxiano, e d’ora in poi si scivola giù dolcemente dalle "regioni degli ideali" nella banale realtà, e quando saremo arrivati in basso, troveremo che in nostra assenza non è mutato nulla, ma proprio nulla.
Il primo passo in discesa, la nostra guida ce lo fa compiere insegnandoci che esistono due ordini di abitazioni per operai: quello del cottage, per cui ogni famiglia operaia ha la sua propria casetta e possibilmente il suo giardino, come in Inghilterra, e quello dei casermoni, cioè di grandi edifici che comprendono molti appartamenti per operai, come a Parigi, Vienna ecc. A mezzo fra i due sta il sistema che si segue abitualmente nella Germania settentrionale. Ora il sistema del cottage sarebbe l’unico giusto e l’unico grazie al quale l’operaio potrebbe acquistare la proprietà della sua casa; per di più il sistema dei casermoni presenterebbe grandi svantaggi per l’igiene, la morale e la pace domestica; ma, per colmo di sfortuna, il sistema del cottage non è attuabile per via dell’elevato costo delle aree, e non lo è proprio nei centri dove è più acuta la penuria delle abitazioni, cioè nelle grandi città; e ci si potrebbe accontentare se, invece di grandi casermoni, si potessero costruire case con appartamenti da quattro a sei, o si rimediasse ai difetti fondamentali dei casermoni per mezzo di opportuni espedienti edilizi (pagine 71-92).
Abbiamo fatto un bel po’ di discesa, vero? La trasformazione degli operai in capitalisti, la soluzione della questione sociale, la casa di proprietà di ciascun lavoratore, tutto questo è restato su, nelle "regioni degli ideali", non ci resta altro, perciò, che darci da fare per introdurre il sistema del cottage nelle campagne, ed erigere nelle città i casermoni per lavoratori nel modo più tollerabile che sia consentito.
La soluzione borghese della questione della casa è, per propria ammissione, fallita; fallita nel contrasto fra città e campagna. E qui siamo giunti al cuore della questione. Il problema delle abitazioni potrà essere risolto solo se la società sarà rivoluzionata abbastanza perché si possa procedere all’abolizione di quel contrasto fra città e campagna che nell’odierna società capitalistica è spinto all’estremo. Ben lungi dal poter abolire tale contrasto, la società capitalista deve al contrario acuirlo ogni giorno di più. E l’hanno giustamente già riconosciuto i primi socialisti utopici moderni, Owen e Fourier. Nei loro caseggiati modello non esiste più contrasto fra città e campagna.
Avviene, quindi, il contrario di quel che pretende il signor Sax: non è la stessa soluzione del problema delle abitazioni che risolve al tempo stesso la questione sociale, ma solo la soluzione di questa rende possibile al tempo stesso quella del problema della casa. Pretendendo di risolvere quest’ultimo mantenendo in vita le moderne metropoli è un controsenso. Le moderne metropoli saranno eliminate solo con l’abolizione del modo di produzione capitalistici, e quando si sarà cominciato a far questo, si tratterà di ben altre cose che di procurare ad ogni lavoratore una casetta di sua proprietà.
Sulle prime, però, ogni rivoluzione sociale dovrà prendere le cose così come le trova e porre riparo ai mali più conclamati con i mezzi di cui dispone. E qui abbiamo già visto che alla penuria di abitazioni si può porre riparo con l’espropriazione di una parte delle case di lusso che appartengono alle classi possidenti e con l’assegnazione della parte rimanente.
Nel proseguo il signor Sax torna a prendere le mosse dalle grandi città e discorre in lungo e in largo di "colonie" operaie che dovrebbero essere sistemate accanto alle città, e ci descrive tutte le meraviglie di siffatte colonie, che hanno «condutture d’acqua, illuminazione a gas, riscaldamento ad aria o ad acqua calda, lavanderie, essiccatoi, bagni e simili», il tutto centralizzato, che hanno «asilo nido, scuola, sala di preghiera (!), sala di lettura, biblioteca (...) spaccio di vino e birra, sala da ballo e musica in piena regola», che hanno forza motrice e vapore distribuita in tutti gli appartamenti in modo tale che «in certa misura la produzione può essere ricondotta dalle fabbriche nelle officine domestiche»; ma nulla di tutto questo apporta un qualche mutamento sostanziale.
Quale egli la descrive, la colonia il signor Huber la prende direttamente in prestito dai socialisti Owen e Fourier, borghesizzandola con la semplice espulsione di quanto vi è di socialista. Ma in tal modo essa diventa più che mai utopistica. Nessun capitalista ha interesse a fondare simili colonie, che infatti non esistono in nessuna parte del mondo tranne che a Guise, in Francia; ed è colonia fondata da un fourieriano, non come una speculazione redditizia, bensì come esperimento socialista. [Ed anche questo ha finito col diventare una mera sede di sfruttamento dei lavoratori. Si veda il parigino Socialiste, annata 1886. Nota di Engels, 1887]. Il signor Sax avrebbe potuto citare benissimo a favore delle sue progettazioni borghesi anche la colonia comunista Harmony Hall fondata nello Hampshire da Owen agli inizi degli anni quaranta e sparita ormai da un pezzo.
Tutto questo chiacchierare di colonizzazione, però, non è che un fiacco tentativo di rivolare nelle alte "regioni degli ideali", tentativo che viene lasciato cadere anch’esso ben presto.
Ora riprendiamo a scendere spensieratamente. La soluzione più semplice è quella per cui: «I datori di lavoro, i padroni di fabbrica, aiutino gli operai a procurarsi delle abitazioni convenienti, sia costruendole essi medesimi, sia incoraggiando e sostenendo i lavoratori in una loro attività edilizia, col mettere a loro disposizione le aree, con l’anticipare i capitali e via dicendo» (pagina 106). Ed eccoci di nuovo fuori dalle grandi città, in cui non si può parlare di tutto questo, e ricacciati nella campagna. Il signor Sax ci dimostra ora che qui è interesse degli industriali medesimi aiutare i loro operai a procurarsi abitazioni tollerabili, da una parte come un buon investimento di capitali, dall’altra perché ne risulterebbe immancabilmente «un’elevazione degli operai (...) che comporterebbe necessariamente un aumento della forza lavoro fisica e mentale, che naturalmente (...) tornerebbe a vantaggio non minore (...) dello stesso datore di lavoro. Ma con questo, ecco che si è dato già il punto di vista esatto per coinvolgere i datori di lavoro nella questione delle abitazioni: questa appare come uno sbocco della associazione latente, di quella preoccupazione che, rivestita per lo più di sforzi umanitari, i datori di lavoro hanno per il bene fisico ed economico, intellettuale e morale dei loro lavoratori e che sul piano pecuniario si ricompensa da sé con i suoi effetti, cioè educando e assicurando una classe operaia onesta, abile, volenterosa; soddisfatta e devota» (pagina 108).
Quell’impagabile "associazione latente", con cui Huber cerca di conferire un "senso più elevato" al vaniloquio borghese-filantropico, non cambia nulla nella sostanza delle cose. Anche senza questa solenne locuzione, i grandi industriali rurali, soprattutto in Inghilterra, si sono accorti da tempo che la costruzione di case per gli operai è non solo una necessità, una parte degli stessi impianti di fabbrica, ma rende altresì molto. In Inghilterra sono sorti in tal modo interi villaggi, taluni dei quali si sono sviluppati in città. Sennonché, invece d’essere grati ai filantropici capitalisti, i lavoratori da allora hanno mosso obiezioni assai significative al "sistema del cottage". Hanno obiettato non solo che essi devono sborsare un prezzo di monopolio per le case, perché gli industriali non hanno concorrenti, ma altresì che ad ogni sciopero si vengono a trovare subito senza tetto, poiché l’industriale li mette alla porta su due piedi, e rende così molto difficile ogni resistenza. Tutti i particolari al riguardo si possono leggere nel mio Le condizioni della classe operaia in Inghilterra, pagine 224 e 228.
Ma il Signor Sax ritiene che queste obiezioni «non meritino quasi alcuna confutazione» (pagina 111). Non vuole forse egli procurare al lavoratore la proprietà della sua casa? Certo, ma siccome «i datori di lavoro dovrebbero essere in grado di disporre sempre di una abitazione per alloggiare un nuovo operaio che sostituisca uno licenziato», ecco farsi evidente la necessità di provvedere, in quei casi, mediante un accordo contrattuale di revoca della proprietà»! (pagina 113).
[Nota di Engels. Anche a questo proposito, è un pezzo che i capitalisti inglesi hanno non solo adempiuto, ma di gran lunga superato i voti del cuore del signor Sax. A Morpeth lunedì 14 ottobre 1872 la Corte per l’accertamento delle liste degli elettori per il Parlamento aveva discusso l’istanza presentata da duemila minatori per ottenere l’iscrizione dei loro nomi nelle liste. È risultato che, secondo il regolamento della miniera in cui lavora, la maggior parte di quella gente va considerata composta non di affittuari delle casette in cui abitano, bensì come occupanti tollerati e che quindi possono essere gettate sul lastrico in qualsiasi momento senza preavviso. (Naturalmente il padrone della miniera e il padrone della casa sono la stessa persona). Il giudice ha deciso che quelle persone sono non inquilini, ma servi, e in quanto tali non hanno diritto all’iscrizione richiesta (Daily News del 15 ottobre 1872)].
Questa volta, inaspettatamente, siamo scesi a precipizio. Dapprima si
era detto: la casetta di proprietà del lavoratore; poi ci si viene a dire
che questo è impossibile nelle città ed è attuabile solo in campagna;
ora ci si afferma che, anche in campagna, questa proprietà deve essere
addirittura revocabile per contratto! Con tutta questa nuova sorta
di proprietà per i lavoratori scoperta del signor Sax, con la trasformazione
dei lavoratori stessi in capitalisti "revocabili per accordo" siamo felicemente
riatterrati in pianura, e qui dobbiamo esaminare che cosa abbiano fatto
realmente
per risolvere la questione delle abitazioni i capitalisti e gli altri filantropi.
Se dobbiamo credere al nostro dottor Sax, da parte dei signori capitalisti si è fatto già qualcosa di considerevole per mettere riparo alla penuria di abitazioni, e si è fornita la prova che la questione della casa è risolvibile in base al modo capitalista di produzione.
Prima d’ogni altra cosa il signor Sax ci adduce l’esempio della Francia bonapartista! Com’è noto, al tempo dell’esposizione mondiale di Parigi, Luigi Bonaparte istituì una commissione, apparentemente perché riferisse sulle condizioni della classe operaia francese, in realtà per descriverle come veramente paradisiache, a maggior gloria dell’Impero. Ed è al resoconto di questa commissione, composta dagli arnesi più corrotti del bonapartismo, che si richiama il signor Sax, in particolare anche perché i risultati del loro lavoro sono, «secondo la dichiarazione dallo stesso comitato perciò istituito, abbastanza complete per la Francia»!
E quali sono questi risultati? Su 89 grandi industriali e relative società per azioni che hanno dato informazioni, 31 non hanno costruito affatto case per lavoratori; le case costruite, secondo la stima dello stesso Sax, hanno dato abitazione al massimo a 50-60.000 persone, e gli appartamenti consistono quasi esclusivamente di due camere per famiglia!
È ovvio che ogni capitalista vincolato ad una determinata località rurale dalle condizioni della sua industria (energia idraulica, posizione delle cave di carbone, giacimenti di ferro e miniere d’altro genere ecc.), debba costruire abitazioni per i suoi operai, se non ve ne sono. Scorgere in tutto questo una prova dell’esistenza della «associazione latente», «una parlante testimonianza della crescente comprensione per il problema e della sua alta importanza», un «inizio assai promettente» (pagina 115) significa un’abitudine assai pronunciata a bersela di grosso.
Del resto, anche a questo proposito gli industriali dei vari paesi si distinguono secondo il rispettivo carattere nazionale. Ad esempio, a pagina 117, il Sax ci racconta quanto segue:
«Solo in questi ultimi tempi si fa percettibile in Inghilterra un’accresciuta attività in tale direzione da parte dei datori di lavoro. Sono da rilevare soprattutto i casolari sperduti nella campagna (...) Il fatto che abbastanza spesso gli operai hanno da percorrere fino alla fabbrica un lungo cammino dalla località più prossima, e che quindi già per questo vi giungono tardi e forniscono un lavoro insufficiente, offre per lo più ai datori di lavoro il principale motivo per costruire abitazioni per le loro maestranze. Aumenta però anche il numero di coloro che, grazie ad una più profonda comprensione della situazione, mettono più o meno in rapporto con la riforma delle abitazioni tutti gli altri elementi della associazione latente, ed a questi devono la loro origine quelle fiorenti colonie (...) Per tale ragione sono ben noti nel Regno Unito i nomi di un Ashton a Hyde, di un Ashworth a Turton, di un Grant a Bury, di un Greg a Bollington, di un Marshall a Leeds, di uno Strutt a Belper, di un Salt a Saltaire, di un Ackroyd a Copley ed altri».Santa semplicità e ancor più santa ignoranza! Solo «in questi ultimi tempi» gli industriali rurali inglesi avrebbero costruito case per i lavoratori! No, caro signor Sax, i capitalisti inglesi sono veri grandi industriali non solo per la borsa, ma anche per la testa. Assai prima che in Germania si avesse una vera e propria grande industria, essi si erano accorti che nelle fabbriche dislocate in campagna l’esborso investito in case per gli operai è una parte necessaria, direttamente e indirettamente assai redditizia, dell’intero capitale d’investimento. Assai prima che la lotta fra Bismarck e la borghesia tedesca donasse ai lavoratori tedeschi la liberà di coalizione, in Inghilterra gli industriali, i padroni di miniere e stabilimenti metallurgici avevano appreso praticamente di quale pressione si rendevano capaci sui lavoratori scioperanti col diventare al tempo stesso i loro locatori. «Le fiorenti colonie» di un Greg, di un Ashton, di un Ashworth appartengono a «questi ultimi tempi» a tal punto che è già da quarant’anni che la borghesia le va strombazzando per modelli, come già ventotto anni or sono scrivevo io stesso (Le condizioni della classe operaia, pagine 228-230, nota). Della stessa epoca sono anche quelle di Marshall e Akroyd (questa è la grafia esatta del nome) e ancora più antiche, giacché risalgono ai primordi del secolo scorso, sono quelle di Strutt. E poiché in Inghilterra si ritiene che la durata media di un’abitazione per operai sia di quarant’anni, il signor Sax può contarsi da sé sulle dita in che condizione di fatiscenza si trovino ora quelle «fiorenti colonie».
Per giunta la maggioranza di esse ora non è più in zona rurale; il gigantesco estendersi dell’industria ha circondato le più di esse con fabbriche e caseggiati al punto che si trovano inglobate in sudicie e fumose città di 20-30.000 e più abitanti; ciò non impedisce alla scienza borghese tedesca rappresentata dal signor Sax di continuare ancora oggi a recitare fedelmente le litanie laudative inglesi del 1840, che in realtà non sono più attuali.
E veniamo ora al vecchio Akroyd! Questo grand’uomo era sicuramente un filantropo della più bell’acqua. Amava i suoi operai e in particolare le sue operaie, a tal punto che i suoi meno filantropi concorrenti dello Yorkshire erano soliti dire di lui che mandava avanti la fabbrica esclusivamente con i propri figli! In verità il signor Sax afferma che in quelle fiorenti colonie «si fanno sempre più rare le nascite illegittime» (pagina 118). Certo, nascite illegittime fuori del matrimonio; nelle zone industriali inglesi, infatti, le ragazze carine si sposano molto giovani.
In Inghilterra le abitazioni degli operai sono strettamente attigue a ciascuno dei grandi stabilimenti rurali e da sessant’anni e più a questa parte sorgono di regola contemporaneamente allo stabilimento. Come si è già detto, molti di questi villaggi industriali sono diventati il nucleo attorno al quale poi è sorta un’intera città industriale, con tutti gli inconvenienti che essa comporta. Queste colonie, dunque, non hanno risolto il problema delle abitazioni, ma lo hanno creato per la prima volta nella rispettiva zona.
Per contro, nei paesi che in fatto di grande industria hanno arrancato dietro all’Inghilterra, e che solo dal 1848 hanno imparato che cosa sia davvero una grande industria, in Francia e particolarmente in Germania, le cose stanno ben diversamente. Vi sono soltanto gigantesche officine e fabbriche, e solo dopo lunghe esitazioni i capitalisti si decidono a costruire qualche casa per i lavoratori, com’è avvenuto nelle officine Schneider a Creusot e in quelle Krupp ad Essen. La stragrande maggioranza degli industriali di campagna lascia che i loro operai trottino per miglia sotto il caldo, la neve e la pioggia, la mattina per recarsi in fabbrica e la sera per tornare a casa. Ciò avviene soprattutto nelle regioni di montagna, nei Vosgi francesi e alsaziani, come pure lungo il Wupper, il Sieg, l’Agger, il Lenne ed altri fiumi renano-westfaliani. Né le cose vanno meglio nell’Erzgebirge. La stessa meschina spilorceria è tanto nei tedeschi quanto nei francesi.
Il signor Sax sa benissimo che tanto i promettenti inizi quanto le fiorenti colonie significano meno di nulla. E quindi cerca di far vedere ai capitalisti quale magnifico reddito possano trarre dal costruire case per gli operai. In altre parole cerca di mostrar loro un nuovo modo per imbrogliare gli operai. Anzitutto presenta loro l’esempio di tutta una serie di società edilizie londinesi che, di natura in parte filantropica in parte speculativa, hanno realizzato un guadagno netto dal 4 al 6% e più. Che il capitale investito in case per i lavoratori renda bene, non occorre che venga il signor Sax a dimostrarcelo. Le ragioni per cui non ve lo si investe più di quanto avviene, è che le abitazioni di lusso rendono ancora meglio ai proprietari. L’esortazione che il signor Sax rivolge ai capitalisti, quindi, si risolve in una mera predica morale.
Per quanto concerne le società edilizie londinesi, i cui brillanti successi il signor Sax strombazza a gran voce, secondo i loro stessi calcoli, nei quali è compresa qualsivoglia speculazione edilizia, hanno costruito in tutto alloggi per 2.132 famiglie e per 706 scapoli, cioè per meno di 15.000 persone! E in Germania si ha il coraggio di presentare seriamente come grandi successi inezie del genere, mentre nella sola zona orientale di Londra un milione di lavoratori vive nelle più miserabili condizioni abitative? In realtà tutti codesti sforzi filantropici sono così miseramente futili che non se ne fa mai la minima menzione nei resoconti parlamentari inglesi concernenti la situazione degli operai.
In questa sede non vogliamo entrare in merito alla ridicola ignoranza della situazione londinese, di cui si dà prova in tutto questo capitolo. Ci limitiamo a rilevare una sola cosa: che il sig. Sax ritiene che nel quartiere di Soho le pensioni per uomini soli siano sparite perché non vi «si poteva contare su una numerosa clientela». Il sig. Sax, infatti, si immagina tutta la parte occidentale di Londra come un’unica città di lusso, e non sa che proprio dietro le strade più eleganti sono i più sordidi quartieri operai, uno dei quali è ad est di Soho. La pensione modello di Soho della quale egli parla e che io conosco ormai da ventitré anni, ebbe agli inizi una gran quantità di clienti, ma dovette chiudere perché nessuno se la sentiva di alloggiarvi. E dire che era, tutto sommato, una delle migliori.
Prendiamo ora la città operaia di Mülhausen in Alsazia: è anche questa un successo? La città operaia di Mülhausen è il gran cavallo di battaglia dei borghesi continentali, né più né meno come le un tempo fiorenti colonie di Ashton, Ashworth, Greg e similari lo sono degli inglesi. Purtroppo è il prodotto dell’associazione non "latente", bensì palese fra il Secondo Impero francese e i capitalisti alsaziani. Fu uno degli esperimenti socialisti di Luigi Bonaparte, un esperimento per il quale lo Stato anticipò un terzo del capitale. Nel giro di quattordici anni (fino al 1867) ha costruito 800 minuscole casette, secondo un sistema difettoso, impossibile in Inghilterra, dove ci si intende meglio di queste cose, lasciandone la proprietà ai lavoratori, dietro corresponsione mensile d’un elevato canone d’affitto, dopo 13-15 anni. Questa sorta di acquisto di proprietà, introdotto da tempo, come s’è visto, nelle società edilizie cooperative inglesi, non occorreva che fosse inventato dai bonapartisti alsaziani.
Le maggiorazioni di affitto per l’acquisto delle case sono abbastanza forti rispetto a quelle inglesi; dopo aver sborsato a poco a poco 4.500 franchi in quindici anni, ad esempio, il lavoratore riceve una casa che quindici anni prima aveva un valore di 3.300 franchi. Qualora il lavoratore voglia traslocare o resti in arretrato sia pure di un solo mese di affitto (nel quale caso può essere sfrattato), gli si addebita il 6 2/3% del valore originario della casa come affitto annuo (ad esempio 17 franchi al mese su 3.000 franchi del valore originario della casa) e gli si corrisponde il resto, ma senza un centesimo di interesse. Che la società, a prescindere dalle "sovvenzioni statali", possa ingrassarsi in tutto questo, lo si capisce; e si capisce altresì che queste case offerte a tali condizioni, già per il solo fatto di essere site fuori dalle città, sono migliori dei vecchi casermoni posti nella città stessa.
Dei pochi miserevoli esperimenti compiuti in Germania, la cui meschinità, a pagina 157, riconosce lo stesso sig. Sax, non diciamo parola.
Che cosa dimostrano tutti questi esempi? Semplicemente che la costruzione di case per operai, anche se non vengono calpestate tutte le leggi dell’igiene, sono capitalisticamente redditizie. Ma ciò non è stato mai contestato, lo sapevamo tutti da un pezzo. Qualsiasi investimento di capitale che soddisfi un bisogno, è redditizio, se amministrato razionalmente.
L’interrogativo è proprio questo: perché, ciònonostante, continua ad aversi penuria di abitazioni? Perché, ciò nonostante, i capitalisti non provvedono ad abitazioni decenti e salubri per gli operai? E qui il sig. Sax continua a non far altro che rivolgere esortazioni ai capitalisti e ci rimane debitore d’una risposta. Ma la vera risposta a tale interrogativo, l’abbiamo già data noi sopra. Il capitale, ora è assodato definitivamente, non vuole abolire la penuria di abitazioni, ammesso che lo possa.
Non restano che altre due vie d’uscita: l’iniziativa personale dei lavoratori e l’iniziativa statale. Il signor Sax, un entusiasta veneratore dell’iniziativa privata, sa raccontarci meraviglie di essa anche in materia di abitazioni. Purtroppo sin dall’inizio egli deve ammettere che l’iniziativa privata può approdare solo dove il sistema del cottage o già esiste o è abituale, cioè, ancora una volta, solo in zone rurali; nelle grandi città, anche in Inghilterra, solo in misura ridotta. Quindi, sospira il signor Sax, «la riforma tramite la medesima (l’iniziativa privata) può attuarsi solo per una via indiretta, e perciò sempre in modo incompleto, vale a dire solo qualora proprio al principio della proprietà individuale spetti una capacità d’influire sulla qualità delle abitazioni». Andrebbe messo in dubbio anche questo; comunque, «il principio della proprietà personale» non ha influito affatto sulla «qualità» dello stile del nostro autore riformandolo.
Nonostante tutto questo, l’iniziativa personale ha compiuto in Inghilterra tali miracoli, «che tutto quello che colà si è compiuto in altre direzioni per risolvere il problema della casa è sorpassato di gran lunga da essi». Sono le building societies inglesi di cui il signor Sax tratta in modo estremamente minuzioso perché
«sulla loro natura e la loro attività sono diffuse, in generale, idee oltremodo inadeguate o erronee. Le building societies inglesi non sono affatto (...) società o cooperative edilizie, ma sono invece (...) quelle che in tedesco andrebbero designate pressappoco come Hauserwerbvereine (società per l’acquisto della casa); sono associazioni che perseguono la finalità di mettere insieme dei fondi tramite contributi periodici dei membri, per garantire, secondo la disponibilità dei mezzi, un prestito ai membri stessi per l’acquisto d’una casa (...) La building society è dunque per una parte dei suoi membri una società di risparmio, per l’altra un ufficio prestiti. Le building societies sono dunque degli istituti di credito ipotecario che, ideate per i bisogni del lavoratore, hanno soprattutto il compito (...) di fornire i risparmi dei lavoratori (...) a coloro che, appartenendo allo stesso ceto dei depositanti, vogliono comperare o costruirsi una casa. Come si può presupporre, tali prestiti vengono contratti costituendo in pegno la realtà in questione e in modo tale che la loro estinzione avviene in piccole rateizzazioni che comprendono interessi e ammortizzazione (...) L’interesse non viene corrisposto ai depositanti, ma il montante dell’interesse composto (...) Il ritiro dei depositi e degli interessi maturati (...) può avvenire in qualsiasi momento, salvo il preavviso di un mese» (pagine 170-172). «In Inghilterra esistono oltre duemila associazioni del genere (...) il capitale in esse raccolto ammonta a circa 15.000.000 di sterline, e 100.000 famiglie di lavoratori più o meno sono già arrivate in tal modo in possesso di un proprio focolare domestico; è, questa, una conquista sociale a cui indubbiamente non se ne potrà affiancare un’altra per un pezzo» (pagina 174).Anche qui, purtroppo, c’è subito la coda di un "ma": «Con questo, però, non si è raggiunta affatto una completa soluzione del problema. E già per la sola ragione che l’acquisto di una casa (...) è accessibile solo agli operai più agiati (...) Sono soprattutto gli aspetti umanitari che spesso non sono osservati in misura sufficiente» (pagina 176). Nel continente «associazioni del genere non trovano che un ridotto terreno al loro sviluppo». Esse presuppongono il sistema del cottage, che in continente esiste solo nelle zone rurali; ma nelle zone rurali i lavoratori non sono ancora abbastanza evoluti per l’iniziativa autonoma. D’altro canto nelle città in cui si potrebbero formare vere e proprie cooperative edilizie, vi si oppongono «difficoltà assai considerevoli e serie di natura disparata» (pagina 179). Esse non hanno potuto costruire che, appunto, dei cottages, e questi non vanno nelle grandi città. Insomma, «a questa forma di autonoma iniziativa cooperativistica» non può «certo spettare nella situazione odierna e probabilmente neanche nel prossimo futuro il ruolo principale nella soluzione del problema che ci sta davanti». Vale a dire che queste cooperative edilizie si trovano ancora «nello stadio dei primissimi inizi, senza alcuno sviluppo (...) E ciò vale anche per l’Inghilterra» (pagina 181).
In conclusione: i capitalisti non vogliono e i lavoratori non possono. E con questo potremmo chiudere il capitolo, se non fosse assolutamente indispensabile dare qualche chiarimento sulle building societies inglesi, che i borghesi della tendenza Schulze-Delitzsch propongono continuamente come modello ai nostri lavoratori. Queste building societies né sono società operaie né hanno come finalità precipua quella di procurare agli operai la proprietà di una casa. Vedremo, al contrario, che ciò avviene solo per rara eccezione. Le building societies sono di natura essenzialmente speculativa, le piccole, che sono le originarie, non meno delle loro imitatrici più grandi.
Per lo più su iniziativa dell’oste, in un’osteria in cui avranno poi luogo adunanze settimanali, si riunisce un certo numero di avventori abituali e dei loro amici, merciai, commessi, viaggiatori di commercio, rivenduglioli ed altra piccola borghesia del genere – talvolta anche un costruttore di macchine o altri lavoratori appartenenti all’aristocrazia della propria classe – per costituire una cooperativa edilizia; l’occasione prossima è data abitualmente dal fatto che l’oste ha scovato nelle vicinanze o altrove un terreno che si può avere ad un prezzo relativamente buono. I più dei soci non sono legati dal loro lavoro ad un determinato posto; anche molti dei merciai e artigiani hanno in città solo un locale di lavoro, non una casa; chi può farlo, preferisce abitare fuori, piuttosto che dentro la fumosa città.
Viene acquistata l’area fabbricabile, e vi si costruisce il possibile numero di cottages. Il credito dei benestanti rende possibile l’acquisto, i contributi settimanali, oltre che qualche piccolo prestito, coprono le spese settimanali di costruzione. Quei soci che speculano per una casa propria, ricevono assegnati per estrazione i cottages che man mano sono pronti, e, pagando un affitto convenientemente maggiorato, ammortizzano il prezzo d’acquisto. I cottages che restano sono dati in affitto o venduti. Se fa buoni affari, la società edilizia mette insieme un patrimonio, piccolo o grande che sia, il quale resta ai soci sino a quando essi pagano i loro contributi, e viene distribuito di quando in quando, ovvero allo scioglimento della società.
Così si svolge la vita di nove società edilizie inglesi su dieci. Le altre sono società più grandi, talvolta costituite con prestiti politici o filantropici, che però in definitiva hanno sempre la finalità precipua di procurare ai risparmi della piccola borghesia un investimento ipotecario più elevato con buoni interessi e con la prospettiva di dividendi per mezzo di speculazioni sulle aree fabbricabili.
Su quali specie di clienti speculino queste società, ce lo dice la pubblicazione ufficiale di una delle maggiori di esse, se non la maggiore in assoluto. La Birkbeck Building Society, 29 and 30, Southampton Buildings, Chancery Lane, London, le cui entrate, sin da quando esiste, ammontano ad oltre dieci milioni e mezzo di sterline (settanta milioni di talleri) e che ha investito oltre 416.000 sterline in depositi bancari e in titoli statali e che, contando attualmente 21.441 depositari, si presenta al pubblico come segue:
«È largamente noto il cosiddetto sistema triennale dei fabbricanti di pianoforti, secondo cui chiunque prenda a nolo per tre anni un pianoforte, trascorso questo tempo ne diventa proprietario. Prima che fosse introdotto questo sistema, a persone di reddito modesto procurarsi un buon pianoforte era altrettanto difficile che comprarsi una casa; per il nolo del pianoforte si pagava anno per anno, spendendo una somma equivalente, due tre volte il valore del pianoforte. Ma quel che si può fare per un pianoforte si può fare anche per una casa (...) Sennonché una casa costa più di un pianoforte (...) è necessario un tempo più lungo per estinguere a rate il prezzo d’acquisto. Ciò considerato, i direttori hanno condotto trattative con i proprietari di case in diversi quartieri e sobborghi di Londra, per cui essi sono in grado di offrire ai soci della Birkbeck Building Society e ad altri una gran scelta di case nelle zone più disparate della città. Il sistema che i direttori intendono seguire è questo: dare in affitto le case per dodici anni e mezzo; trascorso questo tempo, nel caso che l’affitto sia stato corrisposto regolarmente, la casa diventa proprietà assoluta dell’inquilino senza ulteriore esborso di qualsiasi natura (...) L’inquilino può accordarsi altresì per una rateazione più breve a canone più elevato, o per una rateazione più lunga a canone ridotto (...) Privati con reddito limitato, commessi di negozio, impiegati del commercio e simili possono rendersi immediatamente indipendenti da qualsiasi locatore facendosi soci della Birkbeck Building Society».Si parla abbastanza chiaro. Si fa parola non di operai, bensì di persone con reddito limitato, di commessi di negozio o di magazzino ecc.; e per di più si presuppone che gli interessati di regola posseggano già un pianoforte. E in realtà qui si tratta non già dei lavoratori, bensì di piccoli borghesi e di quanti vogliono e possono diventarlo: persone il cui reddito, seppure entro certi limiti, normalmente cresce a poco a poco, come quello dei commessi di negozi e settori economici similari, mentre quello dell’operaio, mantenendosi nel migliore dei casi sempre uguale, in realtà diminuisce in rapporto all’aumento della famiglia e dei suoi crescenti bisogni. Di fatto in simili società possono avere parte solo pochi operai, e per eccezione. Da una parte il loro reddito è troppo esiguo, dall’altra troppo incerto, perché essi siano in grado di accollarsi impegni per dodici anni e mezzo. Le poche eccezioni per le quali non vale questo discorso, sono costituite o dagli operai meglio pagati o dai capireparto.
[Nota di Engels del 1887. Qui è da rilevare altresì un piccolo contributo che viene specificamente concesso all’esercizio commerciale delle società edilizie londinesi. Com’è noto, il terreno di quasi l’intera Londra appartiene circa ad una dozzina di aristocratici, i più nobili dei quali sono i duchi di Westminster, di Bedford, di Portland ecc. Costoro avevano dato in affitto inizialmente le aree fabbricabili per novantanove anni; trascorso questo tempo, entrano in possesso del fondo con tutto quello che vi è sopra. Ora essi danno a pigione le case a scadenze piuttosto brevi, ad es. 39 anni, col cosiddetto repairing lease [affitto riparatorio], a norma del quale l’inquilino è tenuto a mettere e mantenere l’abitazione in perfette condizioni edilizie. Non appena stipulato un contratto del genere, una signoria manda il suo architetto di fiducia e il funzionario di polizia edilizia (surveyor) del distretto a ispezionare la casa per accertare le riparazioni che vi necessitano. Spesso queste sono di assai vasta portata e arrivano fino al restauro dell’intero muro frontale, del tetto ecc. L’inquilino deposita l’ammontare della pigione a garanzia presso una società edilizia, che gli anticipa poi il denaro occorrente (fino a 1.000 sterline e più per un canone annuo di 130-150 sterline) perché egli possa far eseguire i lavori a sue spese. Queste società edilizie sono divenute, dunque, l’importante anello di congiunzione d’un sistema inteso a far sì che le case londinesi appartenenti ai grandi aristocratici terrieri siano continuamente restaurate e mantenute abitabili a spese del pubblico. E questa dovrebbe essere la soluzione del problema della casa per i lavoratori!]
È del resto evidente a chiunque che i bonapartisti della città operaia di Mülhusen non sono nient’altro che miseri scimmiottatori di queste società edilizie piccolo-borghesi d’Inghilterra. Solo che, nonostante le sovvenzioni statali loro concesse, essi truffano i loro clienti assai più di quanto non facciano le società edilizie. Nel complesso le loro condizioni sono meno liberali di quelle vigenti in media nell’Inghilterra, e mentre in questa di ogni acconto si calcolano sempre interesse e interesse composto, che, dietro preavviso d’un mese, viene anche corrisposto, gli industriali di Mülhausen intascano interesse semplice e composto e restituiscono solo l’importo pagato in cinque franchi duramente sudati. Di tale differenza nessuno si meraviglierà più del signor Sax, che di tutto questo non parla nel suo libro, giacché non lo sapeva.
Di iniziativa personale degli operai, dunque, nemmeno l’ombra. Non resta che quella statale. Che cosa può offrirci a questo riguardo il sig. Sax? Tre cose: «In primo luogo, lo Stato deve essere inteso, nella sua legislazione e amministrazione, ad abolire o convenientemente rettificare quanto ha, in qualsiasi modo, per conseguenza l’aggravarsi della penuria di abitazioni per la classe lavoratrice» (pagina 187). Dunque: revisione della legislazione edilizia e libertà alle ditte costruttrici di edificare più a buon mercato. Ma in Inghilterra la legislazione edilizia è limitata ad un minimo, le ditte sono libere come gli uccelli nell’aria, eppure esiste la penuria di abitazioni. Per di più ultimamente in Inghilterra si costruisce così a buon mercato che le case tremano tutte le volte che nella strada passa un carretto, ed ogni giorno ne crolla qualcuna. Proprio ieri, 25 ottobre 1882, a Manchester ne sono crollate in una sola volta sei, ferendo gravemente sei operai. Nemmeno questo, dunque, serve a nulla.
«In secondo luogo, l’autorità statale deve impedire che, nel suo angusto individualismo, il singolo propaghi il male e ne produca di nuovo». Dunque: ispezione delle abitazioni operaie da parte della polizia sanitaria e di quella edilizia, conferire ai funzionari il potere di chiudere quelle igienicamente nocive e pericolanti, così com’è avvenuto in Inghilterra sin dal 1857. Ma come è avvenuto colà? La prima legge del 1855 (Nuisances Removal Act) rimase, e lo ammette lo stesso signor Sax, lettera morta, così come la seconda del 1858 (Local Government Act, pagina 197). Per contro il signor Sax crede che la terza, l’Artisans’ Dwellings Act, che vale solo per le città di oltre 10.000 abitanti «rende certamente testimonianza favorevole delle profonde vedute del parlamento britannico in fatto di questioni sociali» (pagina 199), mentre questa affermazione a sua volta non «rende una testimonianza favorevole» se non della ignoranza del signor Sax «in fatto di questioni inglesi».
Che l’Inghilterra «in fatto di questioni sociali» sia in genere molto più avanzata del continente, è ovvio; essa è la madrepatria della grande industria moderna, il modo di produzione capitalista vi si è sviluppato nella misura più libera e più ampia, e le conseguenze di questo fatto emergono nella misura più abbagliante, provocando perciò, oltretutto, una reazione dell’attività legislativa. La prova migliore ne è la legislazione industriale. Ma quando il sig. Sax crede che un atto del parlamento non abbia bisogno che di ricevere vigore di legge per essere introdotto nella pratica ipso facto, s’inganna. E questo non vale inoltre per ogni atto del parlamento (escluso comunque il Workshops’ Act, Legge sulle fabbriche), più di quanto valga per il Local Government Act.
L’attuazione della legge fu commessa alle autorità cittadine, che quasi ovunque, in Inghilterra, sono centri riconosciuti di corruzione d’ogni sorta, di favoritismi familiari e jobbery. [Nota di Engels. Si chiama jobbery lo sfruttamento di un ufficio pubblico a vantaggio di chi lo detiene o della sua famiglia. Se, ad esempio, il direttore dei telegrafi di Stato di un dato paese diventa socio accomandante di una cartiera, a cui fornisce il legno dei boschi di sua proprietà, per poi fornire di carta gli uffici telegrafici, questo è un job, per la verità non troppo grosso, ma bell’e buono, tanto da far ritenere che il nostro uomo ha capito perfettamente i principi della jobbery; con Bismarck, del resto, non ci sarebbe da attendersi, ovviamente, qualcosa di diverso].
I dipendenti di queste autorità cittadine, i quali devono i loro posti a riguardi d’ogni sorta per le loro famiglie, non sono capaci o non hanno voglia di applicare simili leggi sociali, mentre proprio in Inghilterra gli impiegati statali incaricati di preparare ed attuare la legislazione sociale si distinguono per lo più da un rigoroso adempimento dei loro doveri, anche se ora in misura minore di venti, trent’anni fa. Nei consigli comunali hanno quasi dovunque una forte rappresentanza diretta o indiretta i proprietari di abitazioni malsane e cadenti. L’elezione dei consigli comunali, compiuta per piccole circoscrizioni, rende gli eletti dipendenti dai più meschini interessi e influssi locali; nessun consigliere comunale, che voglia esser rieletto, può osar di votare l’applicazione di questa legge alla sua circoscrizione elettorale.
Si comprende, perciò, con quanta avversione questa legge sia stata accolta quasi ovunque dalle autorità locali, e come finora abbia trovato applicazione solo nei casi più scandalosi ed anche in questi, per lo più, solo in seguito ad un’epidemia già scoppiata, com’è avvenuto l’anno scorso a Manchester e Salford colpite da epidemia di vaiolo. In simili casi l’appello al Ministro degli interni non ha sortito altro effetto, finora, così come vuole il principio di ogni governo liberale in Inghilterra, che è quello di far proporre in stato di necessità leggi di riforma sociale, lasciando completamente inattuate, benché possibili, quelle già esistenti. La legge in questione, come parecchie altre in Inghilterra, non ha altro significato che quello di poter essere, nelle mani d’un governo nominato o incalzato dai lavoratori, di un governo che finalmente l’applichi davvero, una potente arma per aprire una breccia nella presente situazione sociale.
«In terzo luogo», secondo il signor Sax, il potere statale deve «recare ad attuazione nella misura più ampia tutte le misure positive di cui dispone per porre riparo all’esistente penuria di abitazioni». Ciò vuol dire che esso deve costruire dei casermoni, dei «veri edifici modello» per i suoi «impiegati subalterni e personale di servizio» (ma questi non sono affatto operai!) e «garantire (...) mutui a rappresentanze comunali, società ed anche a privati allo scopo di migliorare le abitazioni per la classe operaia» (pagina 203), così come avviene in Inghilterra a norma del Public Works Loan Act, e come Luigi Bonaparte ha fatto a Parigi e Mülhausen.
Ma quell’atto non esiste che sulla carta, il governo non mette a disposizione dei commissari che al massimo 50.000 sterline, cioè i mezzi per costruire al massimo 400 cottages, vale a dire in quarant’anni 16.000 cottages o abitazioni per un massimo di 80.000 persone: una goccia nel mare! Ammettiamo pure che nel giro di vent’anni i mezzi della commissione siano raddoppiati da un rimborso, e quindi nei prossimi vent’anni si costruiscano case per altre 40.000 persone; resta sempre una goccia nel mare. E poiché i cottages durano in media non più di quarant’anni, trascorso questo periodo si dovranno impiegare ogni anno 50.000 o 100.000 sterline in liquido per restaurare i cottages più vecchi in condizioni di fatiscenza.
Tutto questo, a pagina 203, il signor Sax lo definisce: attuare praticamente in modo giusto ed «anche in misura illimitata» il principio! E con questa ammissione che, perfino in Inghilterra, lo Stato «in misura illimitata» non ha fatto quasi nulla, il sig. Sax conclude il suo libro, senza perdere occasione di tenere un’ennesima predica morale a tutti gli interessati.
[Nota di Engels del 1887. Recentemente negli atti parlamentari inglesi, che conferiscono ai funzionari del genio civile londinese il diritto d’esproprio al fine di aprire nuove strade, si tengono in una qualche considerazione i lavoratori gettati sul lastrico. Vi si è inserita la disposizione secondo cui gli edifici di nuova costruzione devono essere destinati ad accogliere le categorie di popolazione che hanno abitato sino allora sul posto. Si fabbricano quindi per i lavoratori casermoni d’affitto di cinque-sei piani su aree di valore infimo e si soddisfa così alla lettera la legge. Che risultati darà tale installazione, per i lavoratori del tutto insolita e assolutamente eterogenea nel bel mezzo della bella Londra, resta da vedere. Ma anche nel migliore dei casi è ben difficile che si sistemi un quartiere per dei lavoratori che in realtà sono stati sloggiati dalla loro abitazione].
Che lo stato odierno non possa né voglia metter riparo alla piaga edilizia, è di chiarezza solare. Lo Stato non è altro che il potere complessivo organizzato delle classi abbienti, dei padroni fondiari e capitalisti nei confronti delle classi sfruttate dei contadini e degli operai. Quel che non vogliono i singoli capitalisti (è solo di questi che ci occupiamo, poiché in questa materia anche il padrone terriero interessato compare sulle prime nella sua sola qualità di capitalista), non lo vuole nemmeno lo Stato. Se dunque i singoli capitalisti lamentano bensì la carenza di abitazioni, ma a malapena li si può indurre a celarne superficialmente le conseguenze più spaventose, nemmeno il complesso dei capitalisti, lo Stato, farà molto di più. Al massimo procurerà che quel superficiale occultamento sia praticato ovunque in modo uniforme, nella misura divenuta ormai consueta. E si è visto che ciò avviene di fatto.
Si potrà obiettare che in Germania i borghesi non dominano ancora, in Germania lo Stato è ancora, in certa misura, un potere indipendente, che si libra al di sopra della società, e che proprio per questo rappresenta gli interessi complessivi di quest’ultima e non quelli di una singola classe. Uno Stato di questo tipo può fare indubbiamente molte cose che non può uno Stato borghese; da esso è lecito attendersi ben altro anche in campo sociale.
Questo è il linguaggio dei reazionari. In realtà, infatti, anche in Germania lo Stato, quale esso esiste, è il prodotto necessario del sostrato sociale che lo esprime. In Prussia – e la Prussia ora fa legge – accanto ad una nobiltà latifondista ancora forte esiste una borghesia relativamente giovane e soprattutto assai vile, che finora non ha conquistato né il potere politico diretto come in Francia, né quello più o meno indiretto come in Inghilterra, ma, oltre a queste due classi, esiste un proletariato in rapido aumento, intellettualmente assai evoluto e che va organizzandosi ogni giorno di più.
Accanto alla condizione basilare della vecchia monarchia assoluta, cioè all’equilibrio fra nobiltà terriera e borghesia, da noi troviamo la condizione basilare del bonapartismo moderno, con l’equilibrio fra borghesia e proletariato. Sennonché, tanto nella vecchia monarchia assoluta quanto nella bonapartistica moderna, il reale potere governativo è nelle mani di una particolare casta di ufficiali e funzionari, che in Prussia si integra in parte con se stessa, in parte con la piccola nobiltà di maggiorasco, raramente con la grande nobiltà, e in minima parte con la borghesia. L’autonomia di tale casta, che sembra porsi al di fuori e diremmo quasi al di sopra della società, conferisce allo Stato la parvenza di autonomia nei confronti della società.
La forma statuale che per necessaria consequenzialità si è sviluppata da queste condizioni sociali quanto altre mai contraddittorie in Prussia (e, secondo i precedenti di questa, nella nuova costituzione imperiale di Germania), è lo pseudocostituzionalismo; una forma che è tanto quella in cui oggi si dissolve la vecchia monarchia assoluta, quanto quella in cui esiste la monarchia bonapartistica. In Prussia il costituzionalismo apparente ha, fra il 1848 e il 1866, coperto e mediato il processo di lenta decomposizione della monarchia assoluta.
Ma dal 1866, e soprattutto dal 1870 in poi, il sovvertimento delle condizioni sociali, e quindi la dissoluzione del vecchio Stato, procede sotto gli occhi di tutti e su scala crescente in misura gigantesca. Il rapido sviluppo dell’industria, e soprattutto gli imbrogli di borsa, hanno trascinato tutte le classi dominanti nel vortice della speculazione. La corruzione in grande, importata dalla Francia nel 1870, si sviluppa con rapidità inaudita. Strousberg e Péreire si scappellano l’un l’altro. Nel maneggiare azioni, ministri, generali, principi e conti la fanno in barba ai più navigati ebrei della borsa, e lo Stato li riconosce pari agli ebrei della borsa creando questi ultimi baroni a tutto spiano.
La nobiltà terriera, da tempo fattasi industriale con i suoi zuccherifici e le sue distillerie d’acquavite, si è lasciata da un pezzo dietro le spalle i vecchi onesti tempi e gremisce con i suoi nomi le liste dei direttori di tutte le società per azioni, oneste e non oneste.
La burocrazia disdegna sempre di più l’ammanco di cassa quale unico modo per arrotondarsi lo stipendio; lascia che lo Stato segua la sua china e dà la caccia ai posti in gran lunga più lucrosi che possono aversi nell’amministrazione di imprese industriali; quelli che restano ancora in carica, seguono l’esempio dei loro superiori, speculando in azioni o facendosi "cointeressare" alle ferrovie e simili. Si è anzi in diritto di supporre che in talune speculazioni abbiano lo zampino persino i sottotenenti.
Insomma, lo sfacelo di tutti gli elementi del vecchio Stato, il trapasso dalla monarchia assoluta alla bonapartistica, è in pieno corso, e con la prossima grande crisi del commercio e dell’industria si avrà il crollo non solo degli attuali imbrogli, ma altresì del vecchio Stato prussiano. [Nota di Engels. Quel che ancor oggi, nel 1886, continua a tenere insieme lo Stato prussiano e ciò che ne è il fondamento, l’alleanza fra latifondo e capitale industriale suggellata con i dazi protettivi, è solo la paura del proletariato, che dal 1872 a questa parte è enormemente cresciuto in numero e coscienza di classe].
E questo Stato, i cui elementi non borghesi si borghesizzano ogni giorno di più, dovrebbe risolvere la "questione sociale" od anche solo la questione della casa? Al contrario. In tutte le questioni economiche lo Stato prussiano soggiace sempre di più alla borghesia; e se, dal 1866 in poi, la legislazione in materia non si è adeguata agli interessi della borghesia più di quanto non è avventuro, di chi è la colpa? Probabilmente della borghesia medesima, che in primo luogo è troppo vile per sostenere energicamente le proprie esigenze, e in secondo luogo si oppone ad ogni concessione tutte le volte che questa metta nuove armi nelle mani del proletariato minacciante.
E allorché il potere statale, cioè Bismarck, tenta di organizzarsi un proletariato del corpo, per tenere così a freno l’attività politica della borghesia, che cos’è questo se non un necessario e ben noto mezzuccio bonapartistico, che nei confronti degli operai a nulla impegna salvo che a qualche frase benevola e tutt’al più ad un minimo di sovvenzioni statali da concedersi à la Louis Bonaparte alle società edilizie?
La migliore prova di quello che gli operai hanno da attendersi dallo Stato prussiano, sta nell’uso dei miliardi francesi, che hanno dato una breve quanto inutile boccata d’ossigeno all’autonomia della macchina statale prussiana nei confronti della società. Si è forse speso sia pure un solo tallero di quei miliardi per dare un tetto alle famiglie di operai berlinesi gettate sul lastrico? Al contrario. Sopraggiunto l’autunno, lo Stato fece demolire quelle poche miserabili baracche che erano loro servite da ricovero di fortuna durante l’estate.
Abbastanza per tempo quei cinque miliardi hanno fatto la solita fine,
andandosene in fortezze, cannoni e soldati; e nonostante Wagner von Dummerwitz,
nonostante le conferenze di Stieber con l’Austria, dei miliardi ai lavoratori
tedeschi non è toccato ancora quel tanto che ai lavoratori francesi Luigi
Bonaparte aveva concesso dei milioni rubati alla Francia.
In realtà la borghesia non ha che un solo metodo per risolvere a suo modo la questione delle abitazioni; cioè di risolverla in modo tale che la soluzione riproduca continuamente di nuovo la questione stessa. Questo metodo si chiama "Haussmann".
Con questo nome non intendo semplicemente la maniera specificamente bonapartistica che il parigino Haussmann ha di aprire strade lunghe, diritte e larghe attraverso i fitti quartieri operai scaglionandovi in ambo i lati edifici di lusso: una maniera con cui, oltre che allo scopo strategico di rendere difficile la lotta di barricate, si mirava alla formazione di un proletariato dell’ediliza specificamente bonapartista, dipendente dal governo, e alla trasformazione di Parigi in una vera e propria città di lusso. Col nome di Haussmann intendo la prassi generalizzata di aprire delle brecce nei quartieri operai, in particolare in quelli centrali delle nostre grandi città, poco importa se a ciò si sia indotti da considerazioni attinenti all’igiene pubblica o all’abbellimento della città, ovvero dal bisogno di grandi locali per negozi siti in posizione centrale o da esigenze di traffico, quali sono costruzioni ferroviarie, strade e via dicendo.
Il risultato è ovunque lo stesso per diversa che sia l’occasione: i vicoli e i vicoletti più scandalosi spariscono dietro la gran glorificazione che la borghesia fa di se stessa in ragione di questo gigantesco successo, ma rinascono ben presto altrove e spesso nelle immediate vicinanze. Ne Le condizioni della classe operaia in Inghilterra diedi una descrizione di Manchester quale si presentava nel 1843 e 1844. Da allora, con le vie che attraversano la città, con l’apertura di nuove strade, con l’erezione di grandi edifici pubblici e privati, taluni dei quartieri peggiori descritti nelle mie pagine sono stati sventrati, messi a nudo e migliorati, e altri completamente soppressi, benché – a prescindere dalla sorveglianza della polizia sanitaria, divenuta più rigorosa da quel tempo a oggi – molti si trovino ancora in condizioni edilizie identiche o addirittura peggiori.
In compenso, però, grazie all’enorme estendersi della città, la cui popolazione da allora è cresciuta di oltre la metà, quartieri, che a quel tempo erano ancora ariosi e puliti, ora sono altrettanto mal costruiti, altrettanto sordidi e sovraffollati dei quartieri più famigerati dell’epoca. Un solo esempio: nel mio libro, a pagina 80 e seguenti, descrivevo un gruppo di case sito nel fondovalle del fiume Medlock, che sotto il nome di Piccola Irlanda (Little Ireland) già da anni ha costituito la vergogna di Manchester. La Piccola Irlanda è sparita da un pezzo; al suo posto ora sorge, su di un’alta massicciata, una stazione ferroviaria; la borghesia addita la felice e definitiva eliminazione della Piccola Irlanda, sfoggiandola come un gran trionfo.
Nella scorsa estate è avvenuta una violenta inondazione, di quelle che, di anno in anno più grosse, i fiumi arginati provocano nelle nostre grandi città per ragioni facilmente individuabili. Si è scoperto allora che la Piccola Irlanda non era affatto stata eliminata, ma semplicemente trasferita dalla parte meridionale di Oxford Road nella parte settentrionale, e vi è ancora fiorente. Ascoltiamo cosa ne dice il Manchester Weekly Times del 20 luglio 1872, l’organo della borghesia radicale di Manchester:
«La sciagura che sabato scorso ha colpito gli abitanti del fondovalle di Medlock, è sperabile che possa avere una buona conseguenza: che l’attenzione dell’opinione pubblica sia richiamata sul tangibile dispregio di tutte le leggi sanitarie, già da tanto tempo tollerato in questa zona sotto il naso degli impiegati municipali e dell’assessorato municipale all’igiene. Il vibrato articolo della nostra edizione di ieri ha svelato, ancora troppo debolmente, lo stato indecoroso di alcune abitazioni d’interrato in Charles Street e Brook Street, che sono state raggiunte dall’inondazione. Un attento esame di uno dei cortili citati in quell’articolo ci consente di confermare tutte le indicazioni date e di affermare che gli interrati di quel cortile avrebbero dovuto essere chiusi già da tempo, più precisamente non avrebbero dovuti mai essere tollerati come abitazioni umane. Squire’s Court è formata da sette od otto abitazioni all’angolo di Charles Streeet e Brook Street sulle quali il passante, anche nel punto più basso di Brook Street, sotto il cavalcavia ferroviario, può transitare ogni giorno senza sospettare che al di sotto di lui, in quello sprofondo, degli esseri umani abitino in caverne. Il cortile è nascosto allo sguardo del pubblico ed è accessibile solo a quanti la miseria costringe a cercare riparo in quel chiuso tombale. Anche quando le acque del Medlock, contenute fra argini e per lo più ristagnanti, non superano il loro livello abituale, il pavimento di tali abitazioni non può superare che di qualche pollice il loro specchio, qualsiasi acquazzone di una certa potenza è capace di portar su dalle cloache o dai tubi di scarico un’acqua disgustosamente putrida, e d’avvelenare le abitazioni con quei miasmi pestilenziali che ogni inondazione lascia per ricordo (...)Ecco un esempio convincente di come la borghesia risolva in pratica il problema delle abitazioni. I focolai delle epidemie, gli antri e le tane più infami in cui il modo capitalistico di produzione incarcera notte per notte i nostri operai, sono non eliminati ma solo trasferiti! La stessa necessità economica che li ha prodotti nel luogo primitivo li riproduce anche nel secondo. E, finché sussiste il modo di produzione capitalista, è una follia pretendere di risolvere isolatamente la questione dell’abitazione o qualsiasi altra questione sociale che concerna il destino degli operai. La soluzione sta nell’abolire il modo di produzione capitalista, e nel far sì che la classe lavoratrice si appropri di tutti i mezzi di sussistenza e di lavoro.
«Squire’s Court è sita ancora più in basso delle cantine non abitate delle case che stanno sulla Brook Street (...) venti piedi al di sotto della strada, e l’acqua pestilenziale che sabato è stata fatta rifluire su dalle cloache è arrivata fino ai tetti. Noi lo sapevamo e ci aspettavamo di trovare il caseggiato disoccupato od occupato solo da funzionari dell’assessorato all’igiene intenti a ripulire e disinfettare le pareti puteolenti. Invece abbiamo visto un uomo intento, nello scantinato di un barbiere (...) a spalare, travasandolo in una carriola, un mucchio di putride immondizie che stava in un angolo. Il barbiere, il cui scantinato era già abbastanza ripulito, ci fece scendere ancora più in basso, in una fila di appartamenti dei quali egli ebbe a dire che, se avesse saputo scrivere, avrebbe mandato una lettera ai giornali chiedendone insistentemente la chiusura. Così arrivammo finalmente a Squire’s Court, dove trovammo una graziosa irlandese dall’aspetto sano, le mani piene di biancheria. Lei e suo marito, una guardia notturna privata, abitavano da sei anni in quella court e avevano una famiglia numerosa. Nella casa che avevano appena lasciata, le acque erano giunte fino al tetto, le finestre erano infrante, i mobili un mucchio di rottami. L’inquilino, a suo dire, aveva potuto mantenere in uno stato olfattivo sopportabile la casa solo imbiancandola con la calce ogni due mesi (...) Nel cortile interno, in cui penetrava ora per la prima volta, il nostro giornalista trovò tre appartamenti col muro posteriore a ridosso di quello appena descritto, due dei quali erano abitati e il fetore era così spaventoso che l’uomo più sano di questo mondo avrebbe avuto il mal di mare dopo un paio di minuti (...) Quell’antro disgustoso era abitato da una famiglia di sette persone, che la sera di giovedì (il giorno della prima inondazione) avevano tutte dormito a casa. O meglio, come si corresse la donna, lei e suo marito avevano trascorso la gran pare della notte a vomitare per il gran puzzo. Il sabato, con l’acqua fino al petto, dovettero portar via i bambini. La donna era del parere che quella tana fosse troppo scadente perfino per un maiale, ma essa l’aveva presa per via dell’affitto a buon prezzo, 1 scellino e mezzo (15 Groschen) la settimana, poiché, causa una malattia, suo marito negli ultimi tempi era rimasto spesso senza guadagno. L’impressione che fanno questo caseggiato e gli abitanti ospitativi come in una tomba precoce, è quella dell’indigenza estrema. Dobbiamo dire, del resto, che, stando alle inchieste compiute, Squire’s Court non è che una copia – forse parossistica – di molte altre località di quel quartiere, della cui esistenza il nostro assessorato all’igiene non può dare una giustificazione. E se si permette che questi luoghi continuino ad essere abitati, si accollano l’assessorato una responsabilità e il vicinato un pericolo di epidemie contagiose, la cui gravità ci esimiamo dall’indagare ulteriormente».
Appendice su Proudhon e il problema della casa
I
Nel numero 86 del Volksstaat il signor A. Mülberger si dà a conoscere come autore dell’articolo da me criticato nei numeri 51 e seguenti di questo foglio. Nella sua replica mi ricopre di una tale serie di rimproveri, svisando a tal punto tutte le questioni di cui si tratta, che, volente o nolente, sono costretto a replicare a mia volta. A questa replica, che con mio rincrescimento deve svolgersi in massima parte sul terreno della polemica personale impostami dal Mülberger, tenterò di conferire un interesse generale, sviluppando ancora una volta, e possibilmente in modo più chiaro di prima, i punti di maggiore importanza, anche a rischio che il Mülberger mi rinfacci un’ennesima volta che tutto questo «in sostanza non contiene nulla di nuovo, né per lui né per gli altri lettori del Volksstaat».
Il Mülberger si lamenta della forma e dei contenuti della mia critica. Per quanto riguarda la forma, è sufficiente obiettare che a quel tempo io non sapevo affatto da chi provenissero gli articoli in questione. Non si poteva parlare, quindi, di una "prevenzione" personale contro il loro autore; contro la soluzione che in quegli articoli si proponeva della questione delle abitazioni, concedo di essere stato "prevenuto" in quanto mi era nota da tempo attraverso la lettura di Proudhon, ed erano ben salde le mie opinioni in proposito. Quanto al "tono" della mia critica, non intendo polemizzare con l’amico Mülberger. Quando si è stati nel movimento così a lungo come ci sono stato io, ci si fa la pelle abbastanza dura contro attacchi di ogni sorta e si presuppone quindi lo stesso anche negli altri. Per risarcire Mülberger, questa volta cercherò di mettere "il mio tono" in un giusto rapporto con la sensibilità dell’epidermide del mio avversario.
Il Mülberger lamenta con particolare amarezza che io l’abbia chiamato un "proudhoniano" e protesta di non esserlo. Naturalmente devo credergli, ma devo altresì dimostrare che gli articoli in questione – e solo di essi devo occuparmi – non contengono altro che mero proudhonismo. Ma, secondo Mülberger, anche Proudhon io lo critico con "leggerezza", facendogli grave torto: «Da noi in Germania la dottrina del piccolo borghese Proudhon è divenuto un dogma inconcusso, al punto che molti lo predicano senza aver letto un rigo di lui».
Io deploro che gli operai di lingua neolatina da vent’anni non hanno altro nutrimento intellettuale che le opere di Proudhon, ed ecco che Mülberger mi risponde che fra gli operai neolatini «i principi, i quali li ha formulati Proudhon, costituiscono quasi dovunque l’anima propulsiva del movimento». Questo, io devo negarlo.
In primo luogo l’"anima propulsiva" del movimento operaio non ha sede alcuna nei "principi", bensì ovunque, nello sviluppo della grande industria e dei suoi effetti, dell’accumulazione e della concentrazione del capitale da una parte e del proletariato dall’altra. In secondo luogo, non è vero che i cosiddetti "principi" proudhoniani abbiano presso i neolatini quel ruolo decisivo che gli attribuisce Mülberger; né che «i principi dell’anarchia, della organisation des forces économiques, della liquidation sociale, ecc. Siano colà (...) diventati dei veri e propri elementi portanti del movimento rivoluzionario».
Per non parlare affatto della Spagna e dell’Italia, dove i rimedi universali proudhoniani hanno acquisito una certa capacità d’influire solo nelle raffazzonature messe insieme da Bakunin, per chiunque conosca il movimento operaio internazionale è un fatto notorio che in Francia i proudhoniani costituiscono una setta poco numerosa, mentre le masse degli operai non vogliono saperne nulla del programma di rivolta sociale abbozzato da Proudhon col titolo di Liquidation sociale e Organisation des forces économiques.
Lo si è visto, fra l’altro, con la Comune. Benché i proudhoniani vi fossero rappresentati nutritamente, non fu compiuto il sia pur minimo tentativo di liquidare la vecchia società o di organizzare le forze economiche secondo le proposte di Proudhon. Al contrario. Torna al massimo a onore della Comune che in tutte le sue misure economiche l’"anima propulsiva" non sia stata costituita da alcun principio, bensì dal puro e semplice bisogno pratico. E pertanto quelle misure – per l’abolizione del lavoro notturno dei panettieri, la proibizione delle multe nelle fabbriche, la confisca di fabbriche ed officine inattive e la loro consegna ad associazioni operaie – furono intese secondo la mente non di Proudhon, bensì del socialismo scientifico tedesco.
L’unica misura sociale che i proudhoniani riuscirono ad imporre fu quella di non mettere sotto sequestro la Banca di Francia, e in parte fu questa la causa per cui cadde la Comune. Parimenti, i cosiddetti blanquisti, non appena compirono il tentativo di trasformarsi da rivoluzionari puramente politici in un gruppo socialista di lavoratori con un programma ben determinato (come è avvenuto dei profughi blanquisti a Londra con il loro manifesto Internationale et Révolution) non hanno proclamato i "principi" del programma proudhoniano di rigenerazione sociale, bensì, e quasi alla lettera, le condizioni del socialismo scientifico tedesco circa la necessità dell’azione politica del proletariato e della sua dittatura come via di transizione all’abolizione delle classi e, con esse, dello Stato, quali erano state espresse nel Manifesto comunista e, d’allora in poi, innumerevoli altre volte.
Proprio dal disprezzo che i tedeschi hanno per Proudhon il Mülberger desume che essi avrebbero scarsamente compreso il movimento nei paesi neolatini «fino alla Comune di Parigi»; ebbene, a prova di questo difetto potrebbe citare quello scritto in lingue neolatine che, solo per approssimazione, contiene una comprensione e una descrizione così giusta della Comune, quell’Indirizzo del Consiglio dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori sulla guerra civile in Francia, scritta dal tedesco Marx.
L’unico paese i cui il movimento operaio sia direttamente soggetto all’influenza dei "principi" proudhoniani è il Belgio, e, proprio per questo, come direbbe Hegel, il movimento belga va «dal nulla attraverso il nulla al nulla». Ritenere una sciagura il fatto che gli operai nei paesi neolatini, direttamente o indirettamente, da vent’anni si nutrono intellettualmente del solo Proudhon, lo traggo non tanto nel predominio affatto mistico della ricetta di riforma proudhoniana (quella che Mülberger denomina "principi"), bensì dal fatto che la loro critica economica della società esistente è stata fondata sugli slogan del tutto erronei di Proudhon e la loro azione politica è stata corrotta dall’influsso proudhoniano.
Ci si chiederà, quindi, se gli operai proudhonizzati dei paesi neolatini o i tedeschi, che comunque comprendono il socialismo scientifico tedesco infinitamente meglio di quanto i neolatini comprendano il loro Proudhon, «siano più addentro nella rivoluzione»; a questo interrogativo potremo rispondere solo se prima sappiamo che cosa significhi «stare (addentro) nel cristianesimo, nella vera fede, nella grazia di Dio» e via dicendo. Ma «stanno addentro» nella rivoluzione, nel movimento violento? «La rivoluzione» è forse una religione dogmatica a cui si debba credere?
Più oltre il Mülberger mi rimprovera d’aver affermato, in contrasto con quanto egli dice esplicitamente, che egli dichiara quella delle abitazioni una questione esclusivamente operaia. Questa volta il Mülberger ha davvero ragione. Mi era sfuggito il passo in questione. E mi era sfuggito imperdonabilmente, poiché è uno dei più significativi di tutta la tendenza a cui obbedisce la trattazione. Dice, infatti, asciuttamente il Mülberger:
«Poiché così spesso ci si muove il ridicolo appunto di fare una politica di classe, di puntare ad un dominio di classe e simili, ribadiamo anzitutto ed esplicitamente che la questione della casa non riguarda affatto in modo esclusivo il proletariato, ma che al contrario interessa in misura del tutto preminente il vero e proprio ceto medio, la piccola industria, la piccola borghesia, l’intera burocrazia (...) La questione della casa è proprio quel punto delle riforme sociali che più di tutte gli altri sembra idoneo a rivelare l’assoluta identità interna degli interessi del proletariato da una parte e delle vere classi medie della società dall’altra. Le classi medie soffrono altrettanto, forse ancora di più, del proletariato sotto le oppressive catene della casa d’affitto (...) Oggi le vere classi medie della società si trovano dinanzi a questo interrogativo: se (...) avranno la forza (...) d’intervenire, alleate con il giovane e vigoroso partito dei lavoratori, nel processo di rivolgimento della società, i cui benefici tornerebbero proprio a loro vantaggio in primo luogo».L’amico Mülberger fa dunque le constatazioni seguenti:
1) «Noi» non facciamo una «politica di classe» e non puntiamo ad un «predominio di classe». Ma il Partito Socialdemocratico Tedesco dei Lavoratori, proprio perché e un partito dei lavoratori, fa necessariamente una «politica di classe», la politica della classe lavoratrice. Poiché ogni partito politico si prefigge di conquistare il potere dello Stato, il Partito Socialdemocratico Tedesco dei Lavoratori tende necessariamente verso il suo proprio potere, il dominio della classe operaia, cioè un «dominio di classe». Del resto ogni vero partito proletario, dai cartisti inglesi in poi, si è sempre prefisso la politica di classe, l’organizzazione del proletariato quale partito politico autonomo come prima condizione, e la dittatura del proletariato come fine immediato della lotta. Dichiarando «ridicolo» tutto questo, Mülberger si pone al di fuori del movimento operaio e all’interno del socialismo piccolo-borghese.
2) La questione delle abitazioni ha il vantaggio di non essere una questione esclusiva degli operai, ma d’«interessare in modo del tutto preminente» la piccola borghesia, giacché le «vere classi medie» soffrono per essa «altrettanto, e forse ancor più» del proletariato. Quando uno dichiara che la piccola borghesia, sia pure per un unico aspetto, soffre «forse ancora di più del proletariato», è certo che non deve poi lamentarsi se lo si annovera tra i socialisti piccolo-borghesi. Mülberger ha dunque ragione ad essere malcontento allorché io affermo: «È di queste pene comuni alla classe operaia e alle altre, segnatamente alla piccola borghesia, che si occupa di preferenza il socialismo piccolo-borghese, al quale appartiene anche Proudhon. Non è quindi un caso che il nostro proudhoniano tedesco si sia impadronito soprattutto della questione della casa che, come s’è visto, non è affatto esclusiva degli operai, e che, al contrario, egli la indichi come una vera ed esclusiva questione operaia».
3) Fra gli interessi delle «vere classi medie della società» e quelli del proletariato sussiste un’«assoluta identità intrinseca» e non è il proletariato, bensì le «vere classi medie» quelle al cui «vantaggio torneranno in primo luogo» i «benefici» dell’imminente processo di sovvertimento della società.
Gli operai, dunque, faranno l’imminente rivoluzione sociale «in primo luogo» nell’interesse dei piccolo-borghesi. Non solo, ma esiste un’assoluta identità intrinseca fra gli interessi dei piccolo-borghesi e quelli del proletariato. Se gli interessi dei piccolo-borghesi sono intrinsecamente identici a quelli dei lavoratori, anche quelli di questi ultimi lo sono agli interessi dei piccolo-borghesi. Nell’ambito del movimento, quindi, il punto di vista piccolo-borghese è altrettanto giustificato del proletario. Orbene, l’affermazione di questa parità è proprio quello che si chiama "socialismo piccolo-borghese".
È quindi del tutto consequenziale che a pagina 25 dell’opuscolo il Mülberger esalti «la piccola industria» come l’«autentico pilastro della società (...) poiché, secondo la sua autentica disposizione, riunisce in sé i tre fattori: lavoro, guadagno, proprietà; e poiché, nel riunire questi tre fattori, non pone limite di sorta alla possibilità di sviluppo dell’individuo»; e che rimproveri l’industria moderna soprattutto di aver annientato questo vivaio di uomini normali e «di aver fatto di una classe vitale, continuamente riproducentesi, una ciurmaglia incosciente che non sa dove volgere il suo sguardo angosciato». Per Mülberger, dunque, il piccolo-borghese è l’uomo modello, e la piccola industria il modo di produzione modello.
L’ho dunque calunniato cacciandolo fra i socialisti piccolo-borghesi?
Dato che Mülberger declina ogni solidarietà con Proudhon, sarebbe superfluo in questa sede dissertare ulteriormente sul come i programmi proudhoniani di riforma mirino a tramutare tutti i membri della società in piccoli borghesi e in piccoli proprietari terrieri. Tanto meno è necessario entrare in merito alla presunta identità fra gli interessi dei piccolo-borghesi e quelli degli operai.
Quel che serve si trova già nel Manifesto comunista.
Il risultato della nostra indagine è dunque questo: che alla "leggenda
del piccolo-borghese Proudhon" si affianca la realtà del piccolo-borghese
Mülberger.
Veniamo ora al punto principale. Nel criticare gli articoli di Mülberger ho affermato che, alla maniera di Proudhon, vi si falsano i rapporti economici traducendoli in espressioni giuridiche. Quale esempio a questo proposito avevo addotto il seguente passo del nostro autore:
«Una volta costruita, la casa serve come titolo di diritto a una determinata frazione del lavoro sociale, che rimane eterno anche qualora già da tempo il valore reale della casa sia pagato in misura più che sufficiente al proprietario sotto forma di canone d’affitto. Avviene così che una casa, fabbricata ad esempio cinquant’anni fa, durante questo tempo abbia coperto con i proventi delle sue pigioni il prezzo di costo originario due, tre, cinque, dieci volte».Ed ecco come si lamenterà il Mülberger:
«Questa nuda e cruda constatazione di un fatto induce Engels a deplorare vivamente il mio non aver spiegato come la casa diventi "titolo giuridico": qualcosa che era del tutto estraneo alla sfera del mio compito (...) Altro è descrivere, altro spiegare. Quando, con Proudhon, dico che la vita economica della società dovrebbe essere compenetrata da una idea di diritto, con questo descrivo quella odierna come una società in cui manchi non una qualsiasi idea di diritto, bensì l’idea di diritto della rivoluzione: un fatto, questo, che ammetterà lo stesso Engels».Fermiamoci, per un momento, a considerare la casa ormai costruita. Una volta affittata, essa frutta al costruttore rendita fondiaria, spese di riparazione e interesse sul capitale investito nella costruzione, insieme al profitto che ne trae sotto forma di canone d’affitto e, a seconda dei casi, quest’ultimo, pagato via via, può ammontare a due, tre, cinque, dieci volte il prezzo di costo originario. Questa, amico Mülberger, è la "nuda e cruda constatazione" del "fatto", che è un fatto economico; e se vogliamo sapere come esso "avvenga", dobbiamo concludere la nostra indagine sul terreno economico.
Guardiamo dunque il fatto un po’ più da vicino, perché non vi sia più nessuno che lo fraintenda. La vendita diuna merce consiste, com’è noto, nel fatto che il proprietario ne cede il valore d’uso e ne intasca il valore di scambio. I valori d’uso delle merci si distinguono, fra l’altro, anche per il fatto che il loro consumo esige lassi di tempo diversi a seconda dei casi. Una pagnotta viene consumata in un giorno, un paio di scarpe in un anno, una casa, direi, in cent’anni. Per le merci di natura più lunga subentra quindi la possibilità di vendere il loro valore d’uso al dettaglio, cioè solo per un tempo determinato, vale a dire di darle in affitto. La vendita al dettaglio realizza dunque il valore di scambio solo poco a poco; di questa rinuncia al realizzo immediato del capitale investito, e del profitto da ricavarne, il venditore viene ammortizzato con un aumento di prezzo, una maturazione di un interesse il cui ammontare è determinato dalle leggi dell’economia politica e per niente affatto in modo arbitrario.
Alla fine dei cent’anni la casa è completamente usata, consumata,
divenuta inabitabile. Se allora dal totale delle quote d’affitto corrisposte
detraiamo:
1) la rendita fondiaria, ivi compreso l’eventuale aumento che
essa subisce nel tempo;
2) i costi di riparazione ordinaria,
troveremo che il restante si compone in media:
1) del capitale originario investito nella costruzione della
casa;
2) del profitto che ne risulta;
3) degli interessi maturati via via sul capitale e sul profitto.
Alla fine di questo lasso di tempo l’inquilino non ha certo nessuna casa, ma non l’ha nemmeno il padrone. Questi possiede infatti solo il terreno (qualora esso gli appartenga) e i materiali da costruzione che vi si trovano, ma che non costituiscono più una casa.
E se nel frattempo la casa «ha ricoperto 5 o 10 volte il prezzo di costo originario», vedremo che questo è dovuto unicamente ad un aumento della rendita fondiaria; e ciò non è un mistero per nessuno in luoghi come Londra, ove il proprietario del terreno e quello della casa sono per lo più due persone diverse. Gli enormi aumenti d’affitto di cui s’è parlato si verificano nelle città in rapida espansione, ma non in un villaggio rurale, dove la rendita delle aree fabbricabili resta quasi immutata. È anzi un fatto notorio che, a prescindere dagli aumenti della rendita fondiaria, i fitti di casa in media non rendono al proprietario più del 7% annuo del capitale investito (ivi incluso il profitto), da cui vanno ancora detratte le spese di riparazione ecc.
Insomma, il contratto di locazione è un negozio commerciale del tutto comune, che in linea teorica per il lavoratore non ha interesse né maggiore né minore di qualsiasi altra compravendita, eccettuata quella in cui si tratta di comperare e vendere la forza lavoro, mentre in pratica esso gli si presenta come una delle mille formule della truffa borghese di cui parlo a pagina quattro [primo capitolo] di questo opuscolo, ma che, come ho ivi dimostrato, sono soggette anch’esse a una disciplina economica.
Mülberger, invece, nel contratto di locazione non scorge altro che un mero «arbitrio» (pagina 19 dell’opuscolo), e quando gli dimostro il contrario, si lamenta che io gli dico «cose scontate che purtroppo egli sapeva già da sé».
Ma con tutte le indagini economiche sulla pigione delle case non arriviamo a tramutare l’abolizione delle case d’affitto in «uno degli sforzi più fecondi e grandiosi che si siano sprigionati dal grembo dell’idea rivoluzionaria». Per giungere a tanto, dobbiamo trasferire il semplice fatto dalla spassionata scienza economica nella già ben più ideologica giurisprudenza. La casa serve come perpetuo titolo giuridico di canone d’affitto; «e allora avviene» che il valore della casa possa essere pagato in affitto due, tre, cinque, dieci volte. A capire come «ciò avvenga» il «titolo giuridico» non ci aiuta per niente; è per questo che io dicevo che il Mülberger avrebbe potuto sapere come «ciò avvenga» solo ricercando come la casa diventi titolo giuridico. E questo veniamo a saperlo solo indagando, come ho fatto io, la natura "economica" dell’affitto, invece di arrabbiarci per l’espressione giuridica con cui lo sanziona la classe dominante.
Chi propone dei provvedimenti economici per abolire gli affitti delle case, è pur obbligato a conoscere su questo argomento qualcosa di più che l’affitto rappresenta «il tributo (...) che l’inquilino paga al diritto perpetuo del capitale». A tutto questo il Mülberger risponde: «Altro è descrivere, altro spiegare». La casa, benché niente affatto perenne, l’abbiamo dunque tramutata in titolo giuridico perenne al canone d’affitto. Da una parte troviamo come «avvenga» che, in forza di questo titolo giuridico, la casa renda più volte il suo valore sotto forma di canone d’affitto. Avendo tradotto le cose in termini giuridici, ci siamo felicemente allontanati dall’economia, a tal punto che non vediamo ormai più il fenomeno per cui una casa può pagarsi più volte a poco a poco in fitto lordo.
Poiché pensiamo e parliamo in termini giuridici, applichiamo a questo
fenomeno il criterio del diritto, della giustizia, e troviamo essere ingiusto
che il fenomeno non corrisponda all’«ideale di diritto della rivoluzione»,
quale che esso voglia essere, e che pertanto il titolo giuridico non è
buono a nulla. Troviamo, inoltre, che lo stesso vale del capitale fruttante
interesse e del terreno coltivo affittabile, e abbiamo ora il pretesto
per separare l’una dall’altra queste due categorie di proprietà e
di sottoporle ad un trattamento d’eccezione. Quest’ultimo consiste
nelle seguenti esigenze:
1) nel togliere al proprietario il diritto di disdetta, cioè
il diritto di reclamare la sua proprietà;
2) di lasciare all’inquilino, mutuatario o fittavolo il godimento
gratuito dell’oggetto a lui affidato ma non di sua proprietà;
3) di pagare il proprietario con una serie piuttosto lunga di
rateazioni senza interesse. E con ciò abbiamo esaurito per questo verso
i "principi" proudhoniani. È questa la "liquidazione sociale" di Proudhon.
Da notare per inciso che tutto questo piano di riforma torni ad esclusivo vantaggio dei piccoli borghesi e dei piccoli coltivatori, consolidandoli nella loro posizione di piccoli borghesi e di piccoli coltivatori, è di evidenza solare. Ecco quindi che la figura, secondo Mülberger leggendaria, del "Proudhon piccolo-borghese", riceve improvvisamente una consistenza storica oltremodo tangibile.
Il Mülberger prosegue: «Quando, con Proudhon, dico che la vita economica della società dovrebbe essere compenetrata da una idea di diritto, con questo descrivo quella odierna come una società in cui manchi non una qualsiasi idea giuridica, bensì l’idea giuridica della rivoluzione: un fatto, questo, che ammetterà lo stesso Engels». Purtroppo non sono in grado di fargli questo favore.
Il Mülberger esige che la società debba essere pervasa da un ideale di diritto, e definisce questo una "descrizione". Se un tribunale mi rimette per mano dell’usciere l’ingiunzione di pagare un debito, secondo Mülberger non è nient’altro che descrivermi come un uomo non paga i suoi debiti! Altro è una descrizione, altro una pretesa. E proprio qui sta la differenza essenziale fra il socialismo scientifico tedesco e Proudhon. Noi descriviamo, e – lo voglia o no Mülberger, ogni vera descrizione è al tempo stesso la spiegazione della realtà descritta – i rapporti economici quali sono e, in termini strettamente economici, dimostriamo che questo loro sviluppo è al tempo stesso lo sviluppo degli elementi di una rivoluzione sociale: lo sviluppo, da una parte, d’una classe la cui condizione di vita la spinge necessariamente alla rivoluzione sociale, cioè il proletariato, e dall’altra di forze produttive che eccedono il quadro della società capitalistica, devono necessariamente farla scoppiare, e che offrono al tempo stesso la possibilità di superare una volta per tutte le differenze di classe ai fini del progresso sociale medesimo.
Proudhon, invece, pone alla società moderna l’esigenza di trasformarsi non secondo le leggi del suo proprio sviluppo economico, bensì secondo la prescrizione della giustizia («l’ideale di diritto» è cosa non sua, ma di Mülberger). Là dove noi dimostriamo, Proudhon fa prediche e lamentazioni, e insieme a lui Mülberger. Che cosa sia «l’idea giuridica della rivoluzione», io non sono assolutamente capace d’indovinarlo. Certo sì è che "della rivoluzione" Proudhon si fa una sorta d’idea che è depositaria e attuatrice della sua "giustizia"; è per questo che poi cade nel curioso errore di confondere la rivoluzione borghese del 1789-94 con la futura rivoluzione proletaria. E lo fa in quasi tutte le sue opere, specialmente dal 1848 in poi; quale esempio adduco solo la Idée générale de la revolution, ediz. 1868, pagine 39 e 40. Ma poiché Mülberger declina qualsiasi responsabilità e solidarietà con Proudhon, mi resta precluso lo spiegare in base a quest’ultimo «l’idea giuridica della rivoluzione», e permango in egizia tenebra.
Più oltre Mülberger dice:«Ma né Proudhon né io facciamo appello ad una "giustizia eterna" per spiegare con essa le condizioni ingiuste esistenti, o addirittura, secondo quel che imputa Engels, per attenderci il loro miglioramento dal ricorso a questa giustizia». Evidentemente Mülberger fa affidamento sul fatto che «soprattutto in Germania Proudhon sia conosciuto poco o nulla». In tutti i suoi scritti Proudhon commisura tutti i suoi enunciati sociali, giuridici, politici, religiosi, al criterio della "giustizia", li respinge e li accetta a seconda che concordino o meno con quello che egli chiama "giustizia". Nelle Contradictions économiques essa si chiama ancor "giustizia eterna", justice éternelle. In seguito l’eternità sparisce, ma resta sostanzialmente. Ad esempio in De la justice dans la révolution et dans l’église, edizione 1858, il testo su cui è svolta l’intera predica in tre volumi, riportiamo il passo seguente (volume I, pagina 42):
«Qual è il principio fondamentale, il principio organico, regolatore, sovrano della società, il principio che, subordinando a sé tutti gli altri, governa, protegge, respinge, castiga e in caso di necessità perfino opprime tutti gli elementi ribelli? È la religione, l’ideale o l’interesse? (...) Questo principio, a mio avviso, è la giustizia.Che cos’è la giustizia? È l’essenza stessa dell’umanità. Che cos’è stata dall’inizio del mondo! Nulla. Che cosa dovrà essere? Tutto».Una giustizia che è l’essenza dell’umanità stessa, che altro è se non la giustizia eterna? Una giustizia, che è il principio fondamentale organico, regolatore, sovrano della società, un principio che finora però non è stato nulla ma che dovrà essere tutto, che altro è se non il criterio su cui commisurare tutte le cose umane, a cui appellarsi in ogni caso di collusione come al giudice inappellabile? Ed io ho forse affermato qualcosa di diverso da questo, che Proudhon mimetizza la sua ignoranza e inettitudine in fatto d’economia col suo giudicare tutti i rapporti economici non secondo le leggi economiche, bensì in base al loro accordarsi o meno a codesta sua idea di giustizia eterna? E in che cosa si differenzia da Proudhon il Mülberger, allorché pretende che «tutte le trasformazioni nella vita della società moderna» siano «pervase da un’idea di diritto, cioè attuate ovunque secondo le rigorose esigenze della giustizia»? Sono io che non so leggere, o è Mülberger che non sa scrivere?
Più avanti dice Mülberger: «Come Marx ed Engels, anche Proudhon sa benissimo che l’elemento propulsore vero e proprio della società umana sono i rapporti economici, e non i politici, anch’egli sa che le idee giuridiche che un popolo ha in un determinato momento storico sono soltanto l’espressione, l’impronta, il prodotto dei rapporti economici, in particolare dei rapporti di produzione (...) Per Proudhon il diritto è, in una parola, prodotto economico storicamente realizzato». Se Proudhon sa tutto questo (voglio lasciar correre il modo oscuro che il Mülberger ha di esprimersi e prendere per fatto compiuto le buone intenzioni), se Proudhon sa tutto questo altrettanto bene di Marx e di Engels, come potremo polemizzare oltre? Il fatto è che le cose stanno alquanto diversamente quanto alla scienza di Proudhon.
I rapporti economici d’una data società si presentano anzitutto come interessi. Ora, dal passo appena citato dalla sua opera principale, Proudhon dice asciuttamente che il «principio fondamentale organico, regolatore, sovrano della società, il principio che subordina a sé tutti gli altri» è non l’interesse, bensì la giustizia. E lo ripete in tutti i passi più rilevanti di tutti i suoi scritti. Ciò non impedisce al Mülberger di proseguire affermando: «(...) che l’idea del diritto economico, quale Proudhon l’ha sviluppata nel modo più profondo in La guerre et la Paix, coincide perfettamente con quelle idee fondamentali di Lassalle, quali sono esposte nella prefazione al Sistema dei diritti acquisiti».
La guerre et la Paix è forse la più scolastica delle molte opere scolastiche di Proudhon, ma che la si adduca come prova della sua presunta intelligenza del materialismo storico tedesco, secondo cui tutti gli avvenimenti e le idee della storia, tutta la politica, la filosofia, la religione sono spiegate in base ai rapporti economici vitali del periodo storico in questione, non me lo sarei mai aspettato. Il libro è così poco materialista che non vi si riesce nemmeno a ricostruire il fatto della guerra senza nemmeno chiamare in soccorso il Creatore: «Eppure, il Creatore, che ha scelto per noi questo modo di vita, aveva i sui scopi» (volume II, pagina 100 dell’edizione del 1869). Su quale conoscenza storica il libro si basi, risulta dal fatto che vi si dimostra di credere nell’esistenza storica dell’età dell’oro: «Agli inizi, quando l’umanità era disseminata ancora radamente sull’orbe terracqueo, la natura provvedeva senza fatica ai bisogni di essa. Era l’età dell’oro, l’era della sovrabbondanza e della pace» (pagina 102).
Il punto di vista economico del libro è quello del più crasso malthusianismo: «Quando sarà raddoppiata la produzione, lo sarà ben presto anche la popolazione» (pagina 106). E dove sta allora il materialismo del libro? Nell’affermazione che la causa della guerra è da sempre e tuttora il "pauperismo" (ad es. pagina 143). Lo zio Bräsig era anche lui un perfetto materialista allorché nel suo discorso del 1848 pronunciò con tutta tranquillità il gran detto: «La causa della gran povertà è la gran pauvreté».
Il Sistema dei diritti acquisiti di Lassalle è irretito non solo in tutte le illusioni del giurista, bensì anche in quelle del vecchio hegeliano. A pagina VII Lassalle dichiara esplicitamente che anche «nella realtà economica il concetto di diritto acquisito è la fonte da cui scaturisce e prende forza ogni ulteriore sviluppo», egli tende dimostrare «che il diritto (...) è un organismo razionale che si sviluppa da sé medesimo» (pagina IX), dunque non da precondizioni economiche; si tratta, per lui, di derivare il diritto non da rapporti economici, bensì dal «concetto stesso di volontà, che ha il suo sviluppo e la sua esposizione solo nella filosofia del diritto» (pagina X). Che cosa vuol dire, dunque, il libro a questo proposito? La differenza fra Proudhon e Lassalle è solo questa: che Lassalle era un vero giurista ed hegeliano, mentre Proudhon nella giurisprudenza e nella filosofia, come in tutte le altre cose, non era che un dilettante.
Che Proudhon, il quale come è noto si contraddice continuamente, qua e là abbia fatto qualche dichiarazione che sembra quasi spiegare idee in base a fatti, lo so benissimo. Ma simili dichiarazioni sono prive d’importanza rispetto all’indirizzo di pensiero che il nostro uomo persegue costantemente, e, dove appaiono, sono per di più confuse e incoerenti al massimo.
Ad un certo grado, assai primitivo, di sviluppo della società si fa sentire il bisogno di comprendere in una regola comune gli atti quotidianamente ripetentisi della produzione, della distribuzione e dello scambio, di provvedere a che il singolo si sottometta alle condizioni comuni della produzione e dello scambio. Questa regola, sulle prime costumanza, diviene ben presto legge. Insieme alla legge nascono necessariamente degli organi a cui ne è affidata la salvaguardia, i poteri pubblici, lo Stato. Con l’ulteriore sviluppo sociale, la legge si evolve in una più o meno ampia legislazione. Quanto più intricata essa diviene, tanto più il suo linguaggio si allontana da quello in cui si esprimono le abituali condizioni della vita economica della società. Essa appare come un elemento autonomo, che ricava la giustificazione della sua esistenza e la ragione del suo progressivo sviluppo non dalle condizioni economiche, bensì, a mio parere, da proprie motivazioni intrinseche, dal «concetto di volontà». Gli uomini hanno dimenticato che il loro diritto deriva dalle condizioni della loro vita economica, così come essi medesimi derivano dal mondo animale.
Con lo svilupparsi della legislazione in un insieme intricato ed esteso, emerge la necessità di una nuova distinzione del lavoro; prende corpo un ceto di giuristi professionisti e, con essi, nasce la scienza del diritto. Questa, nel suo ulteriore sviluppo, raffronta fra di loro i sistemi giuridici dei vari popoli e delle varie epoche, non come espressioni dei rapporti economici relativi, bensì come sistemi che trovano la loro fondazione in se stessi. Il raffronto presuppone un elemento comune: questo viene reperito in quel diritto naturale in cui i giuristi mettono insieme gli elementi più o meno comuni a tutti i sistemi giuridici. Sennonché il metro a cui si commisura ciò che è diritto naturale e ciò che non lo è, è appunto l’espressione più astratta del diritto medesimo: la giustizia. D’ora in poi, dunque, per i giuristi e per quelli che credono loro sulla parola, l’evoluzione del diritto non è altro più che lo sforzo di avvicinare continuamente all’ideale di giustizia, di giustizia eterna, le condizioni umane, nella misura in cui le si esprime giuridicamente. E questa giustizia non è altro che l’espressione ideologicizzata, incielata dei rapporti economici, che si ottiene seguendo ora la loro tendenza conservatrice, ora quella rivoluzionaria.
La giustizia dei Greci e dei Romani riteneva giusta la schiavitù: la giustizia dei borghesi del 1879 postulava l’abolizione del feudalesimo ritenendolo ingiusto. Per gli Junker prussiani è una violazione dell’eterna giustizia persino il vieto ordinamento distrettuale. L’idea di giustizia eterna, dunque, cambia non solo con i tempi e i luoghi, bensì anche con le persone, e va annoverata fra quelle cose in cui, come rileva giustamente Mülberger, ciascuno intende qualcosa di diverso. Allorché nella vita d’ogni giorno, nella semplicità dei rapporti che occorre giudicare, sono introdotte senza equivoco, in riferimento a realtà sociali, espressioni quali "giusto", "ingiusto", "giustizia", "senso del diritto", come si è visto esse causano nelle indagini scientifiche sui rapporti economici la stessa irrimediabile confusione che, ad esempio, si produrrebbe nella chimica odierna se vi si volesse mantenere le locuzioni proprie della teoria flogistica. Ancora peggiore si fa la confusione qualora, a pari di Proudhon, si credesse a quel flogiston sociale che è la "giustizia" o, come suggerisce Mülberger, si attribuisce a questo flogiston un’esatta consistenza non inferiore a quella che ha l’ossigeno.
[Nota di Engels. Prima della scoperta dell’ossigeno, i chimici si
spiegavano la combustione dei corpi nell’atmosfera ipotizzando l’esistenza
d’una particolare sostanza combustibile, il flogisto, che si dissolveva
nella combustione ed era perciò inafferrabile. Constatando che dopo la
combustione i corpi semplici erano più pesanti di prima, spiegavano che
il flogisto aveva un peso negativo, sicché un corpo privo del suo flogisto
pesava di più che non ritenendolo. Avvenne quindi che un po’ alla volta
si attribuissero al flogisto tutte le proprietà principali dell’ossigeno,
ma alla rovescia. L’avere scoperto che la combustione consiste
nell’unione del corpo combustibile con un altro, l’ossigeno, e il poter
ottenere chimicamente quest’ultimo, posero fine all’ipotesi del flogisto,
ma solo dopo una lunga resistenza da parte dei chimici più anziani].
Mülberger si duole, inoltre, che io definisca come una "geremiade reazionaria" il suo seguente "enfatico" sfogo: «(...) non si dà vergogna più terribile per l’intera civiltà del nostro celebrato secolo del fatto che nelle grandi città in pratica il novanta per cento e oltre della popolazione non abbia luogo che possa chiamare proprio». Indubbiamente. Se Mülberger si fosse limitato, come pretende, a descrivere gli «orrori» del presente, certo io non avrei sparlato «di lui e delle sue modeste parole». Ma egli fa qualcosa di completamente diverso. Descrive questi «orrori» come una conseguenza del fatto che i lavoratori «non hanno luogo che possa chiamare proprio». Si lamentano «gli orrori del presente» come causati dal fatto che i lavoratori non sono proprietari della loro casa o, come fanno gli Junker, dal fatto che non esistono più il feudalesimo e le corporazioni, in ambedue i casi non può venir fuori altro che una geremiade reazionaria, una lamentazione sull’irrompere dell’inevitabile, dello storicamente necessario. La reazione sta proprio nel fatto che Mülberger vuol restaurare la proprietà individuale della casa da pare dei lavoratori, qualcosa di cui la storia ha fatto piazza pulita da tempo; sta nel suo non saper immaginare la liberazione dei lavoratori altrimenti che come un tornare a fare di ciascuno di essi il proprietario della sua casa.
Più oltre: «Lo affermo nel modo più esplicito: la vera lotta è contro il modo di produzione capitalistico, e solo dalla sua trasformazione è da sperare il miglioramento delle condizioni abitative. Engels non vede nulla di tutto questo (...) io presuppongo la completa soluzione della questione sociale perché si possa procedere a quella delle case d’affitto». Purtroppo nemmeno oggi io vedo nulla di tutto questo. Mi è impossibile sapere che cosa un qualcuno di cui ignoro persino il nome presupponga solo soletto nel suo cervello. Io posso attenermi unicamente agli articoli a stampa del Mülberger. E in essi trovo ancor oggi (pagine 15 e 16 dell’estratto) che per poter procedere al riscatto delle case a pigione Mülberger non presuppone altro che le case a pigione. Solo a pagina 17 egli prende per le corna «la produttività del capitale». E su questo ritorneremo.
Lo conferma anche nella sua replica allorché afferma: «È, piuttosto, necessario spiegare come si possa imporre il mutamento sociale nella questione della casa sulla base delle condizioni esistenti». Muovere dalla situazione esistente e muovere dalla trasformazione (leggi: abolizione) del modo di produzione capitalista sono in verità due cose completamente opposte. Nessuna meraviglia che il Mülberger si lamenti del mio individuare la sola possibile realizzazione pratica dei suoi progetti proudhoniani negli sforzi filantropici che il signor Dollfus e altri industriali compiono per aiutare gli operai a farsi una casa propria. Se egli si rendesse conto che il piano di Proudhon per la salvezza della società è una fantasticheria che si svolge tutta sul terreno della società borghese, è ovvio che non vi crederebbe. Sulle sue buone intenzioni io non ho espresso mai alcun dubbio. Ma perché egli loda il dott. Reschauer per aver proposto al consiglio municipale di Vienna di far propri i progetti di Dollfus?
Più oltre Mülberger dichiara: «Per quanto concerne specificamente il contrasto tra città e campagna, va annoverata tra le utopie la pretesa di abolirlo. Esso è un contrasto naturale, o, per meglio dire, un contrasto determinatosi storicamente (...) È necessario non abolire tale contrasto, bensì trovare forme politiche e sociali in cui esso sia innocuo, anzi addirittura fecondo. In tal modo vi è da attendersi una composizione pacifica, un graduale equilibrio degli interessi». L’abolizione del contrasto fra città e campagna è dunque un’utopia perché è un contrasto naturale o, per meglio dire, venutosi a creare storicamente. Applichiamo questa logica ad altri contrasti della società moderna e vedremo dove si può arrivare. Ad esempio: «Per ciò che concerne specificamente» il contrasto fra capitalisti e lavoratori salariati «va annoverata tra le utopie la pretesa di abolirlo. Esso è un contrasto naturale, per meglio dire, un contrasto determinatosi storicamente. È necessario non abolire tale contrasto, bensì trovare forme politiche e sociali in cui esso sia innocuo, anzi addirittura fecondo. In tal modo vi è da attendersi una composizione pacifica, un graduale equilibrio degli interessi». Con questo siamo ritornati a Schulze-Delitzsch.
L’abolizione del contrasto fra città e campagna non è un’utopia, né più né meno di quanto non è utopia l’abolizione del contrasto fra capitalisti e salariati. Giorno per giorno essa diventa un’esigenza pratica della produzione tanto industriale quanto agricola. Nessuno l’ha postulata più a gran voce di quanto l’abbia fatto Liebig nei suoi scritti sulla chimica dell’agricoltura, in cui la prima esigenza è sempre che l’uomo restituisca al terreno ciò che ne riceve, ed in cui l’autore mostra che ad impedirlo è solo l’esistenza delle città, soprattutto delle grandi città. Se si considera come, nella sola Londra, venga gettato in mare ogni giorno, con l’impiego di spese ingenti, un quantitativo di concime maggiore di quello che produce l’intera Sassonia, e quali impianti colossali si rendano necessari per impedire che questo concime intossichi interamente Londra, ecco che l’utopia dell’abolizione del contrasto fra città e campagna riceve un fondamento pratico insospettato. Ed anche Berlino, relativamente insignificante al confronto, da almeno trent’anni si ammorba dei suoi propri escrementi.
D’altro canto è una pura utopia il pretendere, come fa Proudhon, di rivoluzionare l’odierna società borghese per mantenere i contadini quali sono attualmente. Solo una ripartizione il più possibile uniforme della popolazione in tutto il paese, solo uno stretto collegamento fra la produzione industriale e quella agricola, oltre all’estendersi perciò necessario dei mezzi di comunicazione (ed in tal caso va data per scontata l’abolizione del modo di produzione capitalista) è in grado di strappare la popolazione rurale all’isolamento e all’abbruttimento in cui vegeta quasi immutata da millenni.
Non è un’utopia affermare che la liberazione degli uomini dalle catene forgiate dal loro passato storico potrà essere completa solo allorché sarà abolito il contrasto fra città e campagna; l’utopia nasce solo qualora, «muovendo dalla situazione esistente», si prescriva la forma in cui debba essere risolto questo o qualsiasi altro contrasto della società esistente. E ciò compie Mülberger facendo sua la formula proposta da Proudhon per risolvere la questione delle abitazioni.
Mülberger, poi, si lamenta che io lo renda in qualche modo corresponsabile delle «mostruose concezioni di Proudhon su capitale e interesse», e afferma: «Io presuppongo come un fatto compiuto il mutamento dei rapporti di produzione, e la legge di transizione che regola il tasso d’interesse ha per oggetto non i rapporti di produzione, bensì gli spostamenti sociali, i rapporti di circolazione (...) Il mutamento dei rapporti di produzione, o, come dice più precisamente la scuola tedesca, l’abolizione del modo di produzione capitalista, è ovvio che, al contrario di quanto mi fa dire Engels, non risulta da una legge di transizione che abolisca l’interesse, bensì dalla effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro, dalla conquista di tutta l’industria da parte del popolo lavoratore. E se il popolo lavoratore indulgerà (!), in questa materia, al riscatto, o piuttosto all’esproprio immediato, non tocca né ad Engels né a me deciderlo». Mi stropiccio gli occhi sbalordito. Rileggo ancora una volta da cima a fondo la trattazione di Mülberger per trovare il passo in cui egli dichiara che il riscatto della casa d’affitto da lui proposto presupponga come fatto compiuto «l’effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro, dalla conquista di tutta l’industria da parte del popolo lavoratore». Quel passo non lo trovo. Non esiste. Dell’ «effettiva presa di possesso» ecc. non si fa parola in nessun posto.
A pagina 17 si dice piuttosto: «Facciamo ora l’ipotesi che la produttività del capitale sia presa realmente per le corna, come presto o tardi dovrà avvenire, ad esempio con una legge provvisoria che fissi l’interesse di tutti i capitali all’uno per cento, beninteso con la tendenza ad avvicinare questa percentuale sempre più allo zero (...) Come tutti gli altri prodotti, naturalmente anche casa e abitazione sono compresi nel quadro di questa legge (...) Di qui, dunque, vediamo che il riscatto dell’appartamento d’affitto risulta necessariamente come una conseguenza dell’abolizione della produttività del capitale in genere». Qui, dunque, in completa antitesi con la recentissima svolta di Mülberger, si afferma seccamente che la produttività del capitale (e con questa locuzione egli intende, a suo stesso dire, il modo di produzione capitalistico) sarebbe indubbiamente «presa per le corna» dalla legge abrogativa dell’interesse, per cui proprio in conseguenza di tale legge, il «riscatto dell’appartamento d’affitto risulta necessariamente come una conseguenza dell’abolizione della produttività del capitale in genere». Niente affatto, dice ora Mülberger. Quella legge di transizione «ha per oggetto non i rapporti di produzione, bensì i rapporti di circolazione».
Dinanzi ad una così completa contraddizione, che, per dirla alla Goethe, «resta piena di mistero tanto per i savi come per i pazzi», non mi resta altro che presumere di avere a che fare con due Mülberger del tutto diversi, l’uno dei quali si duole a ragione che io gli abbia fatto dire quello che l’altro ha fatto stampare. Che il popolo lavoratore non verrà a chiedere né a me né a Mülberger se nell’effettiva presa di possesso «di fatto indulgerà al riscatto o piuttosto all’esproprio immediato», è indubbiamente vero. Con la massima probabilità preferirà non indulgere in alcun modo. Fin qui il discorso non verteva affatto sull’effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro da parte del popolo lavoratore, ma solo sull’affermazione di Mülberger (pagina 17) secondo cui «la soluzione del problema della casa sia tutta nella parola riscatto». Se ora egli dichiara questo riscatto dubbio al massimo, a che pro tutta questa fatica inutile per noi due e per i lettori?
Del resto va constatato che la «effettiva presa di possesso» di tutti gli strumenti di lavoro, la conquista dell’intera industria da parte del popolo lavoratore, è proprio l’opposto del «riscatto» proudhoniano. In quest’ultimo il singolo lavoratore diventa proprietario della casa, del podere, dello strumento di lavoro; nella prima è il "popolo lavoratore" a restare proprietario collettivo delle case, delle fabbriche e degli strumenti di lavoro, e, almeno nel periodo di transizione, difficilmente ne sarà lasciato l’usufrutto a singoli o società senza risarcimento delle spese.
Né più né meno come l’abolizione della proprietà fondiaria non è l’abolizione della rendita fondiaria (bensì il suo trasferimento, anche se con le dovute trasformazioni, alla società), l’effettiva presa di possesso di tutti gli strumenti di lavoro da parte del popolo lavoratore non esclude affatto il mantenimento dei rapporti d’affitto.
Comunque, non si tratta minimamente della questione se il proletariato,
una volta giunto al potere, s’impadronisca semplicemente con la forza
degli strumenti di produzione, delle materie prime o dei mezzi di sussistenza,
sia che se ne paghi subito un indennizzo o che si riscatti la proprietà
con dei lunghi pagamenti rateali. Pretendere di rispondere a tale questione
in precedenza e per tutti i casi, significa fabbricare utopie, e io lo
lascio fare agli altri.
Tutto questo nero su bianco è stato necessario per poter giungere una buona volta, attraverso le svariate scappatoie e tortuosità del Mülberger, alla realtà stessa che il Mülberger evita accuratamente di toccare nella sua replica. Che cosa aveva affermato di positivo Mülberger nella sua trattazione?
In primo luogo, che «la differenza tra l’originario prezzo di una casa, di un’area fabbricabile ecc. e il suo valore odierno» appartiene di diritto alla società. In linguaggio economico questa differenza si chiama "rendita fondiaria". Anche Proudhon vuole attribuirla alla società, come si può leggere nella Idèe gènerale de la rèvolution, edizione 1868, pagina 219.
In secondo luogo, che la soluzione della questione della casa consiste nel fatto che ognuno, invece dell’inquilino, diventi proprietario della sua abitazione.
In terzo luogo, che questa soluzione si attua tramutando per mezzo d’una legge il pagamento dell’affitto nel prezzo d’affitto della casa. I punti 2 e 3 sono tolti entrambi di peso da Proudhon, come può vedere chiunque nella Idèe gènerale de la rèvolution, pagina 199 e seguenti, mentre a pagina 203 si trova persino bell’e fatto il suo bravo progetto di legge.
In quarto luogo, che la produttività del capitale viene presa per le corna da una legge di transizione, per cui il tasso d’interesse viene provvisoriamente ridotto all’uno per cento, con la riserva di abbassarlo ulteriormente in seguito. Anche questo è mutuato da Proudhon, come si può leggere esaurientemente nella Idèe gènerale, pagina 182.
Per ciascuno di questi punti ho citato un passo di Proudhon in cui si trova l’originale della copia mülbergeriana, ed ora chiedo se avevo o non avevo ragione di chiamare proudhoniano l’autore di un articolo che contiene opinioni del tutto proudhoniane e nient’altro che proudhoniane. Eppure Mülberger di nulla si duole più amaramente del fatto che io lo definisca come tale, solo perché mi sono imbattuto «in talune locuzioni che sono peculiari di Proudhon»! Al contrario. Le «locuzioni» sono tutte del Mülberger, i contenuti sono di Proudhon. E se poi integro la trattazione proudhoniana con Proudhon, ecco che il Mülberger si lamenta che gli attribuisco le «mostruose concezioni» di Proudhon!
Orbene, che cosa ho contrapposto a questo disegno proudhoniano?
In primo luogo, che il trasferimento della rendita fondiaria allo Stato equivale all’abolizione della proprietà fondiaria individuale.
In secondo luogo, che il riscatto della casa d’affitto e il trasferimento della proprietà di quest’ultima al proprietario attuale non tocca minimamente il modo di produzione capitalista.
In terzo luogo, che, nell’attuale sviluppo della grande industria e delle città, tale proposta è tanto insulsa quanto reazionaria, e che la reintroduzione della proprietà individuale della propria abitazione da parte di ogni singolo sarebbe un regresso.
In quarto luogo, che l’abbattimento coercitivo dell’interesse di capitale non intacca minimamente il modo di produzione capitalista, e al contrario, come dimostrano le leggi sull’usura, è tanto antiquato quanto impossibile.
In quinto luogo, che con l’abolizione dell’interesse di capitale non è affatto abolito il canone di affitto delle case.
Ora Mülberger accetta i punti 2 e 4. Agli altri non ribatte nemmeno una parola. Eppure sono proprio quelli di cui si tratta nella nostra controversia. Ma la replica di Mülberger non è una confutazione; gira accuratamente a largo da tutti i punti di carattere economico, che pure sono i decisivi; è uno scritto di querela personale e nient’altro. Egli, infatti, si lamenta che io prevengo la soluzione che egli annuncia di altre questioni, ad esempio il debito pubblico, i debiti privati, il credito, e afferma che la soluzione è ovunque questa: che, come nella questione della casa, si abolisca l’interesse, che il pagamento di quest’ultimo sia tramutato in acconti sull’ammontare del capitale e il credito sia reso gratuito. Ciononostante io sarei pronto ancora oggi a scommettere che, quando vedranno la luce di questo mondo, codesti articoli di Mülberger concorderanno, nei loro contenuti essenziali, con la Idèe gènerale di Proudhon: credito (pagina 182), debito pubblico (pagina 186), debiti privati (pagina 186), né più né meno come quelli della questione della casa concordano con i passi citati del medesimo libro.
In questa occasione Mülberger ci insegna che questioni come le imposte, il debito pubblico, i debiti privati e il credito, a cui ora si aggiunge anche l’autonomia comunale, sono della massima importanza per i contadini e per la propaganda nelle campagne. Per la massima parte siamo d’accordo; ma: 1) finora non si è parlato affatto dei contadini e 2) le "soluzioni" proudhoniane di tali questioni sono altrettanto insensate sul piano economico e altrettanto essenzialmente borghesi di quella data alla questione della casa. Dall’appunto che mi muove Mülberger, quello di non conoscere la necessità di attrarre nel movimento i contadini, non sono certo io che ho bisogno di difendermi. Ma ritengo indubbiamente una follia raccomandare a tale scopo ai contadini le ciarlatanerie proudhoniane.
In Germania esiste ancora una proprietà fondiaria assai estesa. Secondo la teoria proudhoniana la si dovrebbe spezzettare tutta in piccoli poderi, qualcosa che, allo stato attuale della scienza agraria e secondo le esperienze compiute con le proprietà terriere parcellari di Francia e Germania occidentale, sarebbe assolutamente reazionario. La grande proprietà fondiaria ancora esistente ci offrirà piuttosto un opportuno pretesto per far esercitar l’agricoltura in grande, l’unica in cui si possano adoperare tutti gli espedienti moderni, i macchinari e via dicendo, e di farla esercitare da parte di lavoratori associati, rendendo così evidente ai piccoli contadini i vantaggi che offre la conduzione in grande di tipo associativo. I socialisti danesi, che a questo riguardo sono avanti a tutti gli altri, si sono resi conto di questo da lungo tempo.
Non ho bisogno di difendermi neppure dall’accusa secondo cui le infami condizioni abitative odierne dei lavoratori mi apparirebbero «una quisquilia insignificante». Per quanto io sappia, sono stato il primo ad avere descritto in tedesco tali condizioni nella loro forma classisticamente evoluta, quali esistono in Inghilterra. Non perché, come ritiene il Mülberger, esse «fanno a pugni con il mio senso del diritto» (chi volesse tramutare in libri tutti i fatti che fanno a pugni con il suo senso del diritto, avrebbe un gran bel da fare), bensì, come si può leggere nella prefazione del mio libro [La condizione della classe operaia in Inghilterra], per dare un fondamento effettivo al socialismo tedesco allora sorgente e portato in giro in vuote frasi altisonanti, e di darglielo descrivendo le condizioni sociali create dalla grande industria moderna. In verità, non mi venne mai in mente di voler risolvere la cosiddetta "questione" della casa, così come non mi sono mai occupato nei dettagli della soluzione dell’ancora più importante questione del vitto.
Sono contento quando posso dimostrare che la produzione della nostra società moderna è sufficiente a dare di che mangiare a sufficienza a tutti i suoi membri, e che esistono case a sufficienza per offrire provvisoriamente alle masse lavoratrici un asilo spazioso e sano. Speculare sul come una società futura regolerà la distribuzione del vitto e delle abitazioni, è cosa che porta diritto all’utopia. Se conosciamo a fondo le condizioni basilari di tutti i modi di produzione finora esistenti, potremo tutt’al più assodare che, con il venir meno della produzione capitalistica, si faranno impossibili certe forme d’appropriazione della società attuale. Anche le norme transitorie si dovranno orientare ovunque secondo le condizioni esistenti attualmente, e nei paesi a piccola proprietà fondiaria saranno essenzialmente diverse che in quelli a grande proprietà fondiaria e via dicendo.
Dove si vada a finire ricercando soluzioni isolate a questioni cosiddette pratiche, quali il problema della casa ecc., nessuno ce lo mostra meglio dello stesso Mülberger, che dapprima in 28 pagine ci spiega come «la soluzione del problema della casa sta tutta nella parola riscatto» e poi, non appena lo si pone alle strette, balbetta del tutto confuso che è assai dubbio il fatto che nell’effettiva presa di possesso delle abitazioni «il popolo lavoratore indulgerà al riscatto» o piuttosto a qualche altra forma d’esproprio.
Il Mülberger esige che noi diventiamo pratici, che «di fronte alle reali situazioni pratiche» non «accampiamo solo morte formule astratte», e che «abbandonando il socialismo astratto, ci accostiamo alle condizioni concrete e determinate della società». Se l’avesse fatto lui, il Mülberger avrebbe forse acquisito grandi meriti nel movimento. Il primo passo per accostarsi alle situazioni concrete e determinate della società consiste, a dire il vero, nell’imparare cosa esse siano, nel loro studiarle nel loro contesto economico attuale. E che cosa troviamo in Mülberger? Due intere proposizioni, che sono queste:
1. «Quel che il salariato è di fronte al capitalista, lo è l’inquilino di fronte al padrone di casa». A pagina 6 dell’estratto ho dimostrato che questo è totalmente erroneo, e il Mülberger non ha da replicarmi nemmeno una parola.
2. «Ma il toro che (nella riforma sociale) va preso per le corna, è la produttività del capitale, come viene chiamata dalla scuola liberale di economia politica, produttività che di fatto non esiste, ma che nella sua esistenza fittizia serve da copertura a tutte le sperequazioni che gravano sulla società moderna». Il toro che va preso per le corna, dunque, «di fatto» non esiste, e dunque non ha neanche «corna». Il male non sta in lui stesso bensì nella sua esistenza apparente. Ciononostante la «cosiddetta produttività del capitale» è «in grado di far sorgere dal terreno per incanto case e città», la cui esistenza è non solo «apparente» (pagina 12). E un uomo che, «per quanto sia ben noto anche a lui Il Capitale di Marx», farnetica in questo modo così irrimediabilmente confusionario sui rapporti fra capitale e lavoro, s’impanca a voler additare ai lavoratori tedeschi una via nuova e migliore e si spaccia per «architetto», che «almeno a grandi linee vede chiaro nella compagine architettonica della società futura»?
Nessuno si è accostato alle condizioni concrete e determinate della società più vicino di quanto abbia fatto Marx ne Il Capitale. Egli ha impiegato ben venticinque anni a studiare per tutti i versi, e i risultati della sua critica contengono ovunque, oltretutto, il germe delle cosiddette soluzioni, nella misura in cui esse sono mai possibili oggigiorno. Ma ciò non basta all’amico Mülberger. Tutto questo è socialismo astratto, sono morte formule astratte. Invece di studiare «le condizioni concrete e determinate della società», il nostro amico Mülberger s’accontenta di leggere alcuni dei tomi di Proudhon, che sulle condizioni concrete e determinate della società non gli offrono bensì quasi nulla, ma in compenso ben determinate e concrete misure miracolose per ogni male sociale, e propone questo compiuto disegno di salvazione sociale, il sistema proudhoniano, ai lavoratori tedeschi col pretesto di voler «dire addio ai sistemi», mentre io «scelgo la via opposta»! Per poter comprendere tutto questo, devo presumere che io sono cieco e Mülberger sordo, sicché è veramente impossibile una qualsiasi intesa fra di noi.
Basta. Qualora questa polemica non serva a null’altro, ha comunque il vantaggio di avere fornito la prova dell’irrilevanza che ha la prassi di codesti socialisti che si proclamano "pratici". Le loro proposte pratiche per porre fine a tutti i mali della società, i loro toccasana universali, sono stati sempre e dovunque confezionati da fondatori di sette comparsi in quel tempo in cui il movimento proletario era ancora in fasce. Anche il Proudhon è del numero. Se non sbaglio, il proletariato, ha ben presto buttato via queste fasce da bambino, e ingenerato nella stessa classe lavoratrice la convinzione che nulla vi è di meno pratico di codeste "soluzioni pratiche" escogitate in anticipo, applicabili a tutti i casi, e che il socialismo pratico consiste piuttosto in una esatta cognizione del modo di produrre capitalista in tutti i suoi aspetti.
Una classe lavoratrice che sia consapevole di questo, all’occorrenza non sarà mai indecisa su quali istituzioni sociali deve attaccare prima di tutte le altre e del modo in cui farlo.