Partito Comunista Internazionale

 

Sulla linea della Sinistra

 

LE QUESTIONI DELLA TATTICA NEI TESTI E NEGLI INSEGNAMENTI DELLA SINISTRA

Il Partito Comunista n.5, gennaio 1975 - n.28, dicembre 1976

 

Il valore dell’isolamento
Tesi tattiche: Roma 1922
   Natura organica del partito comunista
   Processo di sviluppo del partito comunista
   Rapporti tra il partito comunista e la classe proletaria
   Rapporti del partito comunista con altri movimenti politici proletari
Elementi della tattica del partito comunista tratti dall’esame delle situazioni
   1) Le fasi delle situazioni
   2) Le curve di efficienza
   3) Le aree principali dell’esperienza storica
      A – Area russa
      B – Area americana
      C – Area inglese - La prima forma di partito - Prime riflessioni
      D – Area francese - Diagramma di curve e vettori
      E – Germania - Il ruolo controrivoluzionario dell’opportunismo social-
                 democratico - Correlazioni sconcertanti  - Il comitato di Berlino
      F – Italia
Il partito comunista è l’unica opposizione di classe
   Esclusivismo ed indifferentismo
   Il piano tattico della sinistra
   Natura antilegalitaria e antidemocratica della tattica comunista
   Azione tattica “indiretta” del partito comunista
   “Destra” e “sinistra”
   Fasi della tattica “indiretta”
   La “unitá proletaria”
   L’indirizzo pratico del partito

  
 

Il Partito Comunista n.5, gennaio 1975

Il valore dell’isolamento

Il testo “Il valore dell’isolamento” fu pubblicato nel quotidiano del PCdI Il Comunista, del luglio-agosto del 1921. Ribadisce le concezioni della Sinistra, valide non solo nel «caos di forze e tendenze» di allora, ma anche e a più forte ragione in questa era stercoracea.

Il tema centrale del testo, che si svolge in tre articoli, è quello del rapporto tra il partito e le altre «forze e tendenze» che si richiamano al proletariato, tema che sarà affrontato definitivamente e sistemato nelle celebri Tesi di Roma del 1922, in base al quale il partito imposta e risolve la questione tattica delle “alleanze” del proletariato e dell’inquadramento della massa proletaria per una direzione comunista dell’azione di classe.

Le questioni da affrontare sono gravi e delicate. Non ricerchiamo una analogia esteriore tra le fertili vicende passate e il presente sterile, ma un nesso oggettivo, una lezione che ci indichi, ancor prima di un comportamento pratico, la posizione di «forze e tendenze» che oggi cianciano di rivoluzione.

È chiaro che gli anarchici e i sindacalisti-rivoluzionari di ieri non hanno nell’oggi nemmeno un pallido imitatore o continuatore. E qui si deve stabilire subito un primo rude confronto. Al dato evidente del rinnegamento della dottrina e della prassi tradizionali 
– quand’anche vi siano – da parte di ogni movimento politico, consumato in vario modo, con “l’arricchimento”, “l’ammodernamento” ecc., si contrappone netta e luminosa la riaffermazione integrale del marxismo rivoluzionario e della prassi del partito comunista. Dopo sconfitte e tradimenti, noi testardamente ribadiamo: immutabilità di posizioni teoriche e programmatiche e di impostazione tattica, che le crisi e le ascese hanno ancor meglio riaffermate e precisate. Mentre i comunisti rivoluzionari non hanno rinnegato né aggiornato il loro passato vicino o lontano, gli altri, pur di restare in “corsa”, si sono dati alle più oscene manifestazioni di “correzione”, di “critica” e “autocritica”, per precipitare poi nel cul di sacco dell’avventurismo o del democratismo.

In secondo luogo, dopo “incroci” più o meno bastardi tra correnti anarco-sindacaliste con l’odiato fascismo nero, dopo il terrorismo socialdemocratico di Noske e Sheidemann, quello opportunista di Stalin e C., quello fascista di Mussolini e Hitler, ed ultimo quello resistenziale democratico post-fascista, in una coerente sintesi antiproletaria e anticomunista, dopo queste naturali trasformazioni del pacifismo e del collaborazionismo di classe, la semplice proclamazione dell’uso della violenza e la violenza stessa non caratterizzano il rivoluzionario, come stava già scritto nella innata dottrina molto prima del fenomeno occidentale. Costoro hanno usato la violenza per affossare la storia, che indica una sola direzione, comunismo, nel trapasso: distruzione dello Stato capitalista, Dittatura proletaria, società senza classi e senza Stato.

Fatte queste due precisazioni di raffronto tra l’ieri e l’oggi, riscriviamo a caratteri indelebili e fosforescenti, per orientarci nelle nebbie del presente: «Noi crediamo che a base della nostra tattica debba stare questo criterio: nessuna intesa organizzativa, ossia nessun fronte unico, con quegli elementi che non si prefiggano: la lotta rivoluzionaria armata del proletariato contro lo Stato costituito, intesa come una offensiva, un’iniziativa rivoluzionaria – la abolizione, attraverso questa lotta, della democrazia parlamentare insieme al meccanismo esecutivo dello Stato attuale – la costituzione della dittatura politica del proletariato che porrà fuori dalla legge rivoluzionaria tutti gli avversari della rivoluzione».

Oggi non conosciamo «elementi» di questo tipo, quantunque il parlare di tattica in senso pratico, per l’assenza assoluta di fermenti di classe, equivalga ad acchiappar nuvole e a distrarre il partito dai suoi compiti principali che, in presenza di un totale assopimento sociale, sono di elaborazione teorica, riaffermazione programmatica, col mezzo della propaganda e del proselitismo, senza chiudersi ad altre forme d’azione suggerite dalle condizioni materiali.

Conosciamo, invece, la matrice comune di tutti gli “incrociati” odierni, non riuscendoci ben distinguibile il campo dell’ «errore» da quello dell’ «insidia» nell’intrico gruppettistico, cosiddetto “rivoluzionario”, che è quello dell’ «agitazione per il ristabilimento delle pubbliche libertà» e, per portare il testo ad oggi, dei “genuini valori della Resistenza e della democrazia”. È la matrice, quindi, della “democrazia progressiva”, del capitalismo, che può assumere le più disparate apparenze, di populismo (i “cinesi” all’affannosa ricerca di blocchi ora operai-studenti, ora operai-docenti, ora operai-baraccati ecc., contestando al PCI la legittimità di un’uguale aspirazione col risibile argomento di aver invertito i termini dell’alleanza), di pan-sindacalismo, covato dai nuovi assertori di un corporativismo che ancora non osa chiamarsi fascista, ma che fascista è, apparenze tutte che meglio di ciascun movimento singolo sintetizzano la formula laida del “compromesso storico”, vero abbraccio universale di tutte le classi nello Stato borghese per meglio soffocare il proletariato.

La fase presente non esprime «forze rivoluzionarie», da «inalveare» nella organizzazione rivoluzionaria di classe, eccetto quelle che aderiscono al partito.

D’altronde non esiste nemmeno un movimento sindacale di classe, che consenta un’azione tattica comunista più o meno a largo raggio sul terreno della difesa economica comune a tutti i proletari, terreno sul quale la «intesa» per «un fronte unico sindacale o dal basso» potrebbe essere possibile ed apportare utili frutti alla preparazione rivoluzionaria delle masse.

Vuol dire, allora, che si debba sostituire la limpida azione tattica che prevede chiusura a partiti e movimenti politici in ogni fase della lotta, apertura a tutti i lavoratori sul terreno economico e sindacale, con altre soluzioni “nuove”, “inattese”, di “emergenza”? Se la classe operaia è tuttora inquadrata nei sindacati tricolore, monopolizzata dai partiti traditori, ciò significa che non esiste una delle condizioni oggettive favorevoli all’intervento diretto o indiretto del partito, dato per fermo che non è il partito a “creare” le condizioni per la ripresa della lotta di classe, ma che il partito può condizionare la lotta di classe per elevarla a lotta rivoluzionaria di classe. Non c’è da escogitare, allora, manovre, ripieghi, da spremersi le meningi e ricorre alla fantasia. C’è da prendere atto che questa maledetta società riesce ancora a prevenire o bloccare ogni pur piccolo serio e continuato movimento della classe, che, ancor quando si manifesta, riesce ad incanalarlo nell’alveo della conservazione, per mezzo del suo braccio opportunista.

Si lasci ad altri la «mania di battere... il record dell’estremismo», la ricerca e accettazione di qualsiasi alleanza «pur che si cominci ad agire». Questi “altri”, guarda caso, si cimentano soprattutto nell’arena politica (politique d’abord!), e se anche si ritrovano nel campo economico, avendo una visione deforme della lotta di classe, se ce l’hanno, e non avendo un programma, corrompono i naturali fermenti positivi, le inconsce aspirazioni degli operai per uscire dalla morsa di sindacati collaborazionisti. Di ciò abbiamo, nel nostro piccolo, un’esperienza diretta e significativa, quando nel 1969-70 tentammo di influenzare alcuni consigli di fabbrica e cozzammo contro il muro, formato prima da gruppetti, poi dal blocco gruppetti-PCI-bonzi sindacali, dove i gruppetti si dimostrarono i nostri più acerrimi e irriducibili nemici. Il risultato lo conosciamo: i consigli di fabbrica sono morti, e i gruppetti sono tra gli affossatori. A differenza del sindacalismo rivoluzionario, negatore del partito, ma non del sindacato, di cui, anzi, ne sopravvaluta la funzione, il gruppettismo odierno nega sia il partito, o lo ammette come partito populista e le conclusioni non cambiano, sia il sindacato di classe, che ritengono “superato” dalla storia. Ecco perché dobbiamo riconoscere che i gruppi di oggi sono più pericolosi, più insidiosi di quelli di ieri. La chiusura del campo dell’armamento di classe è, ovviamente, ancora più rigida perché le ragioni svolte nel testo si sono al presente moltiplicate per cento.

Il testo scandisce: «Un’azione per la difesa del proletariato contro la reazione non può essere concepita che come un’azione del proletariato per rovesciare il regime. Ecco perché i comunisti devono rifiutare di partecipare ad iniziative di intese politiche aventi carattere “difensivo” contro gli eccessi dei bianchi, ma con l’obbiettivo insidioso di ristabilire l’“ordine” e fermarsi lì». Per chiarire un’eventuale obiezione se il gruppettismo è per “ristabilire l’ordine» o no, ricordiamo che il limite delle sue azioni dimostrative è quello di non toccare il blocco democratico-costituzionale, in ispecie quello di “sinistra”, ribadendo così di lottare per un assetto veramente democratico, dal quale sia esclusa la “destra” più o meno fascista, per il vero “ordine democratico”, mescolando in questo indirizzo la roboante fraseologia comune a tutti di proletario, socialismo, dittatura, ecc. D’altra parte per i comunisti l’inquadramento militare è solo ed esclusivamente «su base di partito».

La ripubblicazione del “Valore dell’isolamento” non è estemporanea. Essa è solo l’inizio di un più vasto programma di trattazione delle questioni tattiche, che il partito si propone di affrontare, appunto, alla luce degli insegnamenti della Sinistra, perché possa «agire come un coefficiente di orientamento, di raddrizzamento, di continuità sicura nel pensiero e nell’azione, in mezzo al caos delle mille correnti “rivoluzionarie”». Cosicché ciò che in questa brevissima premessa è stato dimenticato o non sufficientemente messo in luce, sarà oggetto di rilevazione e studio nei prossimi numeri del giornale.

Tuttavia non possiamo omettere la riflessione, cui induce lo stesso titolo del testo. Il partito è “costretto» ad isolare, che significa separare, distinguere rigidamente, la sua dottrina, la sua tattica, la sua organizzazione da qualsiasi altra, perché è scientificamente consapevole che nell’ora suprema, dell’urto decisivo tra le reali ed uniche forze in campo in cui è divisa la società, quelle della dittatura proletaria e quelle della dittatura capitalista, rimarrà solo, unico essendo come organo storico della classe e del suo totalitarismo, e che perciò dovrà sin d’ora predisporsi a rivolgere le sue armi rivoluzionarie anche contro eventuali “compagni di strada”, “alleati occasionali”, “vicini” del momento, sebbene non si intravvedono ancora di quelli che meritino il nome di “alleati”. Ed è questo il principale valore dell’ “isolamento”.

 

 

  


Il Partito Comunista n.6, febbraio 1975  

 

Commentando, nel numero precedente, “Il valore dell’isolamento”, ci si si riprometteva di approntarci soltanto alla complessa e delicata questione della tattica, con la promessa che saremmo entrati nel vivo successivamente. Anche noi abbiamo voluto civettare con la “moda” attuale, quella di indagare tra i “rivoluzionari” che stanno fuori del partito, per vedere se è possibile stabilire un’ “alleanza tattica”. La nostra risposta è stata negativa, come negativa lo fu nel primo dopo-guerra, in condizioni incomparabilmente diverse dalle odierne. Perché le “alleanze” la Sinistra le ha sempre concepite non come “fronte unico” di partiti e ali di partiti, o gruppi politici, per affini e vicini che si proclamino, né come “blocchi” o concordati pratici di azione, ma come unificazione dei proletari di qualunque partito, fede politica e religiosa, razza e nazione, nella loro naturale organizzazione di classe, il sindacato economico o organismo equipollente; come unificazione degli operai comunisti con gli operai anarchici, sindacalisti, socialisti e senza partito ecc. in un’azione nella quale, per la superiore preparazione del partito comunista rivoluzionario, i suoi militanti provano alla massa proletaria che l’unica strada per la vittoria è quella dettata dal partito.

Questa concezione la ritroveremo nel corso dell’esposizione e delle citazioni dai testi tradizionali, come un leit motiv che accompagna tutto il disegno tattico. Citiamo tra i mille un passo tratto dalla 3ª parte della studio “La tattica dell’Internazionale Comunista”, pubblicata ne L’Ordine Nuovo del 19 gennaio 1922:

     «La vecchia unità formale e federalista della tradizionale socialdemocrazia che mal nascondeva sotto una vuota retorica la divisione in gruppi d’interesse e movimenti non amalgamati, la divisione stessa in partiti nazionali proletari, va cedendo in questo periodo risolutivo della evoluzione capitalistica il posto alla vera unità di movimento della classe operaia, la quale irresistibilmente conduce verso quella armonica centralizzazione del movimento proletario mondiale a cui la Internazionale Comunista ha già dato lo scheletro della organizzazione unitaria e l’anima della coscienza teorica della rivoluzione. Vi è ancora una divisione di idee, di opinioni politiche, nel proletariato, ma vi sarà un’unità d’azione. Pretenderemo noi che la unità di dottrina e di fede politica debba per chi sa quale condizione astratta precedere quella dell’azione? No, perché capovolgeremmo il metodo marxista di cui siamo assertori, che ci dice come, dalla unità effettiva di movimento creata dalla dissoluzione del capitalismo, non potrà che uscire una unità anche di coscienza e dottrina politica.

Avremo per tale via realistica della unione di tutti i lavoratori nell’azione concreta, anche la loro unione nella professione di fede politica, sulla fede politica comunista, e non già su un guazzabuglio informe delle tendenze politiche attuali. Ossia avremo l’unità della azione successiva per i postulati rivoluzionari del comunismo».

 

 

 

Tesi tattiche: Roma 1922

Quanto esposto nel testo citato è il preludio alle Tesi, che sono del marzo 1922, in occasione del II congresso del PCdI a Roma, e su cui dovremo ritornare perché già in quello si dichiara espressamente che la Sinistra si sente di trarre «nei dettagli di applicazione deduzioni diverse» da quelle dell’Internazionale. I «dettagli di applicazione» diverranno ben presto questioni di fondo. Le Tesi furono proposte come un contributo della sezione italiana alla elaborazione della tattica internazionale del partito. Oggi questo contributo costituisce, assieme a tutto il lavoro posteriore della Sinistra in difesa del programma e della dottrina, l’unico corpo di regole tattiche valide per tutto il periodo che ci separa dalla vittoria rivoluzionaria comunista. Per tale motivo il risorgente partito politico proletario non può prescindere da questo “codice d’azione”, e nemmeno ritenerlo superato nei suoi fondamenti, se non vuole sparire dalla scena della rivoluzione ancora prima di nascere. Tanto è vero che in tutti i testi successivi al 1922 ed in particolare a quelli dopo la seconda guerra imperialistica, si ritroveranno confermate e solennemente rivendicate le lezioni contenute nelle Tesi, le cui strutture portanti trovano ulteriore elaborazione e sistemazione nelle tesi del 1965-66. Questi ultimi testi della Sinistra, sintesi quanto mai opportuna del «compito storico l’azione e la struttura del partito comunista mondiale», contengono anche, in un intreccio dialettico di lezioni storiche di tutto il movimento, la sistemazione delle questioni di organizzazione in regole vincolanti per tutti, che assieme a quelle sulla tattica era necessario finalmente enunciare, colmando la insufficienza palesata dalla Internazionale Comunista, peraltro ben salda all’atto della sua costituzione quanto a programma e principi, al cui ristabilimento il bolscevismo aveva dato la sua infaticabile opera.

Non sembri superfluo questo lavoro di rilettura che ci permette di mettere in luce tesi più volte dimenticate o storpiate, e non capite, ritenute superate da quanti amano concludere, con un sorrisetto di compassione, che “non è più il tempo di dottrina, ormai posseduta, ma di azione”.

 

NATURA ORGANICA DEL PARTITO COMUNISTA

È il titolo della prima parte delle Tesi, per indicare che senza partito non può esservi tattica, in quanto il partito è l’organo dirigente dell’azione rivoluzionaria della classe. Basta questo a caratterizzare la differenza incolmabile tra il partito comunista e gli altri partiti. Infatti, prima di affrontare nella loro peculiarità le questioni della tattica, le Tesi trattano, della «natura» e del «processo di sviluppo» del partito, poi dei rapporti tra il partito e la classe e dei rapporti tra il partito e gli «altri movimenti politici proletari», dove il partito si rivela l’organo storico, insostituibile, della classe operaia, che si distingue, giusta Marx del Manifesto:

     «Dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo. In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario

È naturale, allora, che l’esordio e il prosieguo delle Tesi prenda le mosse e si sviluppi lungo la concezione marxista. Punto 1:

     «Il partito comunista, partito politico della classe proletaria, si presenta nella sua azione come una collettività operante con indirizzo unitario. I moventi iniziali per i quali gli elementi e i gruppi di questa collettività sono condotti ad inquadrarsi in un organismo ad azione unitaria sono gli interessi immediati di gruppi della classe lavoratrice suscitati dalle loro condizioni economiche. Carattere essenziale della funzione del partito comunista è l’impiego delle energie così inquadrate per il conseguimento di obbiettivi che, per essere comuni a tutta la classe lavoratrice e situati al termine di tutta la serie delle sue lotte, superano attraverso la integrazione di essi gli interessi dei singoli gruppi e i postulati immediati e contingenti che la classe lavoratrice si può porre».

Questa prima tesi è la corretta “traduzione” italiana dal tedesco dal Manifesto, a conferma che la sinistra non aveva e non ha nulla di nuovo da dire e da proporre e che i dati di arrivo sono perfettamente contenuti nei dati di partenza della dottrina. Si deve rilevare che la collettività-partito «operante» sulla base di una teoria e programmi unitari («indirizzo unitario»), è composta non da uomini speciali, figli di madri particolari, ma da «elementi» e da «gruppi» che sono pervenuti «ad inquadrarsi» nel partito spinti da «moventi iniziali», che «sono gli interessi immediati di gruppi della classe lavoratrice suscitati dalle loro condizioni economiche». Questo è determinismo economico e storico, non dottrinarismo, astrazione, metafisica.

Di conseguenza il Punto 2:

     «La integrazione di tutte le spinte elementari in una azione unitaria si manifesta attraverso due principali fattori: uno di coscienza critica, dal quale il partito trae il suo programma, l’altro di volontà che si esprime nello strumento con cui il partito agisce, la sua disciplinata e centralizzata organizzazione. Questi due fattori di coscienza e di volontà sarebbe erroneo considerarli come facoltà che si possano ottenere o si debbano pretendere dai singoli poiché si realizzano solo per la integrazione dell’attività di molti individui in un organismo collettivo unitario».

Un siffatto partito, integratore «di tutte le spinte elementari in un’azione unitaria», non può agire che in forza di queste «spinte elementari», ma sulla base di un «programma» in funzione del quale redigere un piano tattico, non lasciato al caso, da realizzarsi con una «disciplinata e centralizzata organizzazione», non improvvisata. «Coscienza critica e volontà» che non si pretendono dai singoli militanti ma che «si realizzano» nel partito.

Dottrinetta, cose risapute si dirà. L’Internazionale, però, non l’apprese appieno. Nemmeno il grande partito bolscevico russo, che aveva, unico, salvato dottrina e programma, poté pervenire alla formazione di un corpo di regole di azione tattica che guidassero l’intero partito mondiale, tale che non fosse il portato di genii, di brillanti applicazioni razionali.

Per mettere avanti questa primaria necessità, per uscire dalla condizione di «subire le situazioni», ma, al contrario, per «dominarle», si doveva insistentemente mettere in relazione tra loro, tattica, partito, principi, fini, e mostrare come sia «una buona tattica che dà un buon partito», cioè le conseguenze della tattica sul partito stesso. È una correlazione, questa, che il partito deve sempre avere presente a sé stesso, per stabilire in anticipo se dall’attuazione del suo piano tattico e dal suo svolgimento il partito si rafforzerà o meno, se si allontanerà o meno dai principi e dagli scopi.

Questioni, queste, da affidare esclusivamente al «socialismo scientifico» e non alla stupida conta delle teste, né alla «onnipotenza della centrale», risorsa questa meno stupida della pratica maggioritaria. Stava già facendosi strada, infatti, in quel tempo – 1922 – l’opinione che il partito, in quanto comunista rivoluzionario, può escogitare qualsiasi soluzione tattica, una specie di Re Mida che trasforma in comunista tutto quello che tocca, una forma di “boria” di partito, vera traduzione della infingardaggine piccolo-borghese. Fu agevole costruire e manovrare maggioranze “fedeli” o succubi della centrale, anziché affidarsi allo «studio», alla «considerazione razionale e oggettiva» dei problemi che si ergevano sempre più complessi e potenti dinnanzi alla rivoluzione. Fu tentazione irrefrenabile, ogni volta che la Sinistra si permetteva di richiamare le supreme dirigenze del partito ad una corretta formulazione dell’indirizzo pratico, argomentare con «la centrale ha sempre ragione, perché la maggioranza ha sempre ragione», dove i due termini, apparentemente antitetici, di burocratismo e democrazia si congiungono in una sintesi di metodi opportunisti, come Lenin aveva vent’anni prima insegnato.

Nel Punto 3 viene sancita questa precisa esigenza del partito di impostare la sua azione tattica, la sua “politica” per mezzo di una «coscienza teorico-critica» che gli deriva dalla originale natura della classe proletaria, rispetto alle altre classi fondamentali della società, di cui è organo. Tattica, “politica”, originali, dunque, che nulla hanno a che vedere con il politicantismo borghese dell’opportunismo: 

     «Alla precisa definizione teorico-critica del movimento comunista, contenuta nelle dichiarazioni programmatiche dei partiti e della Internazionale Comunista, come all’organizzarsi degli uni e dell’altra, si è pervenuti e si perviene attraverso l’esame e lo studio della storia della società umana e della sua struttura nella presente epoca capitalistica, svolti coi dati, colle esperienze e nella attiva partecipazione alla reale lotta proletaria».

Ci sia consentito, una volta tanto, di vibrare questo passo a mo’ di ceffone sul grugno di quanti argomentano che oramai il lavoro teorico è bell’e compiuto, la sua nuova sistemazione anche, e che non resta che dedicarsi all’azione, perché il proletariato non ha bisogno di “discorsi” ma di “fatti”. Vecchie scempiaggini ben conosciute da Marx e da Lenin.

Il Punto 4 è un’ennesima formulazione del «centralismo organico», proposto dalla Sinistra, per intendere che è il «processo reale che accumula gli elementi di esperienza e realizza la preparazione e la selezione dei dirigenti dando forma al contenuto programmatico e alla costituzione gerarchica del partito», e non un fatto costituzionale o formale: organisation d’abord!, uguale a politique d’abord!

   

PROCESSO DI SVILUPPO DEL PARTITO COMUNISTA

Stabilita la «natura organica» del partito, in questa seconda parte si descrive il processo del suo sviluppo, che è altrettanto organico, cioè proprio di un organo, la cui nascita e crescita sono in diretta e dialettica connessione con la lotta di classe del proletariato e della lotta di classe in generale. Il partito quanto ad organizzazione

      «si forma e si sviluppa nella misura in cui esiste, per la maturità di evoluzione della situazione sociale, la possibilità di una coscienza e di un’azione collettiva unitaria nel senso dell’interesse generale e ultimo della classe operaia» (Punto 5).

Cioè l’organizzazione di partito «si forma» a condizione che esista «una coscienza», la teoria appunto, e «un’azione collettiva unitaria nel senso dell’interesse generale e ultimo della classe operaia», cioè una comunità di militanti per il comunismo. In altri termini il partito esiste quando esistono «un programma e un metodo di azione»; ovvero (Tesi di Lione, 1926) il partito è una «scuola di pensiero e un metodo d’azione». Teoria ed azione sono indissolubili, inscindibili. Una organizzazione che poggiasse tutto sull’azione e trascurasse la teoria, o viceversa, non meriterebbe la consacrazione di partito politico di classe, anche se la sua azione coinvolgesse milioni di proletari, o la sua teoria fosse di purezza cristallina, fermo restando che una organizzazione zoppa dell’una o dell’altra gamba sbanderebbe, per cui fasulle sarebbe teoria ed azione.

È mai possibile uno sbandamento? Certo! Ed è esattamente quando il partito dovesse frammentare la sua azione

     «nel dedicarsi alla soddisfazione di interessi di limitati gruppi operai o nel conseguimento di risultati contingenti (riforme) a costo di adottare metodi che compromettevano il lavoro per le finalità rivoluzionarie, e la preparazione ad esse del proletariato» (Punto 6)

  Quando ciò avviene, quando il partito cessa di essere organo di integrazione e sintesi degli interessi generali e particolari (economici) della classe operaia, perde la conoscenza delle finalità rivoluzionarie, si apre ad un processo di degenerazione, nel quale si revisiona e si deforma anche la dottrina, il programma e l’organizzazione, la quale viene così consegnata «nelle mani di agenti solerti della borghesia». Le vie per cui il partito si subordina agli «interessi limitati» e ai «risultati contingenti» (riforme) sono infinite e si riassumono in «il movimento è tutto, il fine nulla», formula che accomuna tutti i movimenti politici che si definiscono sindacalisti, laburisti, anarchici, socialdemocratici, includendo in questo ultimo movimento l’odierno “comunismo” nazionale dei partiti ispirati a Mosca o a Pechino o ad altre centrali alla moda, come Cuba, Hanoi ecc.

Come reagire in questo processo degenerativo? Nel Punto 7 si risponde:

     «Da una situazione di tal genere il ritorno, sotto l’influsso di nuove situazioni e sollecitazioni ad agire esercitate dagli avvenimenti sulla massa operaia, alla organizzazione di un vero partito di classe, si effettua nella forma di una separazione di una parte del partito che, attraverso i dibattiti sul programma, la critica delle esperienze sfavorevoli della lotta, e la formazione in seno al partito di una scuola e di una organizzazione colla sua gerarchia (frazione), ricostituisce quella continuità di vita di un organismo unitario fondata sul possesso di una coscienza e di una disciplina, da cui sorge il nuovo partito. È questo processo che in generale ha condotto dal fallimento dei partiti della Seconda Internazionale al sorgere della Terza Internazionale comunista».

Questo processo è definito «normale». È, invece, definito «affatto anormale» «quello della aggregazione al partito di altri partiti o parti staccate di partiti». Il partito comunista non sorge né tanto meno risorge, dopo una crisi opportunistica, dalla confluenza di gruppi eterogenei, i quali possono concordare momentaneamente su un dato comune, ma non posseggono la «scuola di pensiero», la teoria del marxismo rivoluzionario, e il «metodo d’azione», l’insieme dei mezzi tattici sperimentati lungo l’arco delle lotte internazionali del proletariato. Neppure si rafforza il partito per mezzo di tali confluenze o aggiunte, dato per fermo che il partito non è l’esercito di classe, ma semmai lo stato maggiore, l’organo di direzione della classe, la cui efficacia consiste nel saper mobilitare le masse lavoratrici con la «giusta tattica», la «giusta politica rivoluzionaria» (Lenin). Ogni gruppo apporterebbe il proprio pensiero, la propria teoria, la propria esperienza pratica, un metodo d’azione diverso, inquinandosi reciprocamente le singole parti in un miscuglio informe e indefinibile, piuttosto che fondersi in un amalgama omogeneo ed efficiente.

Tale questione fu sentita particolarmente in Italia dove, il PCdI era sorto dalla scissione del vecchio PSI, nel cui seno si era andata formando un’ala favorevole, a parole, come sempre avviene, all’Internazionale Comunista e che andava protestando che voleva congiungersi con il Partito Comunista, dopo essere stata incapace di confluirvi a Livorno, nelle persone di coloro che erano poste al «centro» degli schieramenti e che avevano determinato un profondo stato confusionale nelle masse. L’I.C. spinse alla «unificazione» di questa frazione socialista con il PCdI, soprattutto quando inaugurò la tattica di «fronte unico», e quelle successive di «governo operaio» e di «governo operaio e contadino», su cui la Sinistra dissentì sempre più apertamente, anticipando la tragica fine sia di quelle tattiche e sia della Internazionale stessa.

Oggi, a distanza di mezzo secolo, queste Tesi appaiono anche ai più sprovveduti non una esercitazione della “scienza sociologica borghese”, come furono definite dall’Esecutivo di Mosca, ma un importante pilastro dell’edificio del marxismo rivoluzionario, per cui ogni attentato alla sua integrità è un attentato alla rivoluzione comunista mondiale.

Questa tentazione, tuttavia, di irrobustire il partito o peggio di formarlo con la confluenza di altri gruppi “rivoluzionari”, è sempre presente. Allora ci si giustificava sostenendo la necessità di inquadrare il maggior numero possibile di forze per alimentare l’attacco al potere borghese, pronti, ad operazione conclusa, a virare di nuovo “a sinistra”, a “chiudere” e serrare le file sbarazzandosi degli alleati occasionali. Oggi la giustificazione consisterebbe nel constatare l’estrema debolezza delle forze del partito dinanzi al giganteggiare del capitalismo e dell’opportunismo e alla tragica l’eventualità che, riaprendosi una fase critica del mondo borghese, verrebbe a mancare un forte partito comunista; per cui sarebbe indispensabile penetrare nel campo dei “rivoluzionari generici” col setaccio del programma e col vaglio dell’organizzazione a garanzia di scelte sicure. È questo uno dei tanti pretesti tipici dell’impazienza piccolo-borghese che crede di surrogare le deficienze storiche con il raziocinio e la volontà, di muovere lo stato amorfo attuale dei rapporti di classe incidendo sulla coscienza e sulla persuasione. Abbiamo sempre assistito al risultato opposto che, cioè, parafrasando il proverbio popolare, si è andati per setacciare e si è rimasti setacciati.

È profonda lezione della Sinistra che l’esercito proletario si guadagna alla rivoluzione, e non i partiti, le ali di partiti, i gruppi ecc., sottraendolo all’influenza nefasta di qualsiasi partito in cui è inquadrato, sia questo partito più o meno vicino, più o meno “simile” al nostro, con un indirizzo di azione di classe che, facendo leva sugli interessi immediati, quelli economici, comuni a tutti i proletari, quale che sia la loro formazione politica, religiosa, razza e nazionalità, li sollecita ad unificare le loro forze nella naturale organizzazione di classe, il sindacato economico od organo equivalente, per il cui mezzo si mostra da un lato la superiore capacità di lotta e di guida del partito e dall’altro la insufficienza o l’inettitudine se non il rifiuto delle altre formazioni politiche a difendere perfino questi interessi contingenti. È lo sviluppo di questa azione di classe che opera «lo spostamento dell’azione di un sempre maggior numero di lavoratori dal terreno degli interessi parziali ed immediati a quello organico ed unitario della lotta per la rivoluzione comunista», per «vincere le esitanti diffidenze del proletariato verso il partito» e «incanalare e inquadrare» queste «nuove energie» in una «unità di movimento decisiva per l’azione rivoluzionaria».

Per tali ragioni, in considerazione, cioè, che il partito non si identifica con la classe, ma ne è l’organo storico, e che per conquistare il potere politico deve trasportare l’azione dal campo degli interessi immediati a quello dell’azione rivoluzionaria comunista, le Tesi affrontano, prima ancora di passare alle questioni specifiche della tattica, nella parte III i «Rapporti tra il partito comunista e la classe proletaria», e nella parte IV, poiché il proletariato è inquadrato o al seguito di altri partiti, i «Rapporti del partito comunista con altri movimenti politici proletari», dove le premesse sin qui svolte trovano il necessario svolgimento nell’attività pratica e nell’organizzazione del partito.

 

 


Il Partito Comunista n.7, marzo 1975
 

Nella terza parte delle Tesi di Roma si evidenzia ancora con specifici argomenti che il partito non coincide con la classe. La questione non era ovvia né ieri né tanto meno oggi, tant’è che le tesi tattiche vere e proprie sono precedute dalla riesposizione di capisaldi di dottrina e programma, svolti col massimo rigore. L’importanza, data dalla Sinistra, a questo lavoro di precisazione, sempre, in ogni circostanza, sta nel fatto che senza basi dottrinali precise e corrette non si può ottenere un piano tattico coerente ed efficace.

In questa parte, quindi, s’imposta e si chiarisce la corretta relazione tra partito e classe e si individua il campo su cui si deve, si «esige», «che il partito debba essere collegato da stretti rapporti col rimanente del proletariato». Lo studio delle relazioni tra partito e classe, giustamente,viene prima della relazione tra il partito e gli «altri movimenti politici proletari». Premesso che il partito non è la classe, non si identifica né confonde in essa, ma ne è l’organo, ed inquadra solo una minoranza di proletari, è chiaro che il restate del proletariato, la grande massa dei lavoratori in parte non è politicamente inquadrata, in parte è inquadrata in altri partiti, anche borghesi. Si tratta allora – è la questione della tattica – di unificare la classe sotto la direzione del suo organo, che implica la sottrazione delle forze proletarie all’influenza degli altri movimenti politici che le organizzano, per trasportarle dal campo dell’errore, del compromesso, del tradimento, del nemico, in quello della rivoluzione comunista. I mezzi per realizzare questo «trasporto» costituiscono, appunto, la grave e complessa questione della tattica.

   

RAPPORTI TRA IL PARTITO COMUNISTA E LA CLASSE PROLETARIA

Il Punto 10 afferma che:

     «La delimitazione e definizione dei caratteri del partito di classe, che sta a base della sua struttura costitutiva di organo della parte più avanzata della classe proletaria, non toglie, anzi esige, che il partito debba essere collegato da stretti rapporti col rimanente del proletariato»

Questi rapporti si realizzano non «con la negazione» o il disinteressarsi per i «moti spontanei parziali», per i «moti elementari» della classe, bensì «con l’incitare l’effettuazione, col prendervi parte attiva, col seguirli attentamente in tutto il loro sviluppo», non col fine di considerarli a se stanti (riformismo), ma allo scopo della «loro integrazione e il loro superamento attraverso la viva esperienza» (Punto 11).

Il Punto 12 sancisce che non vi è contraddizione tra «la partecipazione a lotte per risultati contingenti e limitati con la preparazione della finale e generale lotta rivoluzionaria». La propaganda ideologica e il proselitismo è «inseparabile dalla realtà dell’azione e del movimento proletario in tutte le sue esplicazioni». Per cui la lotta per le «rivendicazioni parziali» è «un mezzo di esperienze e di allenamento per la utile e fattiva preparazione rivoluzionaria».

Da queste considerazioni consegue (Punto 13) che:

     «Il partito comunista partecipa, quindi, alla vita organizzativa di tutte le forme di organizzazione economica del proletariato aperte a lavoratori di ogni fede politica (sindacati, consigli di azienda, cooperative, ecc.)»

attraverso i suoi «gruppi o cellule», collegati e dipendenti dal partito. Questi gruppi devono partecipare «in prima linea» all’«azione degli organi economici» proletari, per attrarre nel partito gli operai più sensibili, per conquistarne l’influenza e la direzione, penetrandoli con l’indirizzo politico del partito, non limitandosi a «campagne elettorali interne», ma anche aiutando gli operai a trarre da queste vive esperienze gli opportuni insegnamenti di classe. Per tali ragioni il partito deve dare la sua massima cura per organizzare la rete più fitta ed estesa possibile di gruppi comunisti nei posti di lavoro e nei sindacati, perché (Punto 14) «Tutto il lavoro e l’inquadramento dei gruppi comunisti tende a dare al partito il definitivo controllo degli organi dirigenti degli organismi economici», principalmente delle «centrali sindacali nazionali».

Non ha senso l’obiezione che oggi il partito dispone di un così scarso numero di effettivi da non potersi interessare di questa attività. Né ha senso l’altra obiezione che oggi non esistono sindacati rossi e che gli attuali sindacati impediscono sia l’ingresso dei comunisti rivoluzionari nelle organizzazioni economiche operaie, per mezzo della “delega” o con la semplice espulsione per “indisciplina”, sia la possibilità di organizzare in seno ad essi una frazione del partito, che, invece, è consentita agli altri partiti, anche schiettamente borghesi. La prima obiezione è da respingere perché se fosse fatta propria dal partito, questi cesserebbe di esistere come partito comunista e si trasformerebbe in una scuola, in una accademia. La seconda obiezione, che in un certo senso si riallaccia alla prima, dimentica che il proletariato è sempre stato preda di posizioni controrivoluzionarie o a-rivoluzionarie e che i suoi sindacati hanno sempre espresso una direzione non comunista, salvo rari esempi storici in cui la lotta puntava decisamente ad incrementare l’influenza del partito nelle masse, come nel periodo storico della I Internazionale, e nell’Internazionale Sindacale Rossa di Mosca, segnando una fase rivoluzionaria. Giusta Lenin, se dovessimo pretendere che l’opportunismo, alleato naturale dello Stato borghese, consentisse liberamente ai comunisti di minare il suo potere, cioè la sua autorità di fatto nei sindacati e nel movimento operaio, noi staremmo sempre ad attendere questa ora fatale, perché non verrebbe mai. Queste obiezioni, come si vede, hanno tipico sapore socialdemocratico, opportunista.

Il testo, poi, precisa anche che i membri del partito dovranno sottostare alla disciplina dell’azione intrapresa da direzioni sindacali anche non comuniste, «pur svolgendo la più aperta critica dell’azione stessa e dell’opera dei capi». Questa «disciplina» è dovuta anche oggi, nel senso che i comunisti non inciteranno al sabotaggio, né diserteranno le lotte operaie, seppure dirette da sindacati “tricolore”, benché gli scioperi siano «flessibili o poco estesi»: fermo restando l’obbligo dei comunisti a denunciare instancabilmente «l’azione stessa e l’opera dei capi», anzi con maggior vigore ed implacabilità di ieri.

Il partito non deve limitarsi a penetrare i sindacati esistenti per conquistarne la direzione, ma deve anche «porre in evidenza con la sua propaganda quei problemi di reale interesse operaio che nello svolgimento delle situazioni sociali possono dar vita a nuovi organismi di lotta economica. Con tutti questi mezzi il partito dilata e rafforza la influenza che per mille legami si estende dalle sue file organizzate a tutto il proletariato approfittando di tutte le sue manifestazioni e possibilità di manifestazioni nella attività sociale» (Punto 15).

Al Punto 16 si riprende il concetto che il partito non fonda sindacati secessionisti, con la adesione di soli operai comunisti, che sarebbe indirizzo pregiudizievole alla conquista di una influenza decisiva sulla massa proletaria, in stragrande maggioranza non comunista, da cui ci vedremo fisicamente e organizzativamente separati nel complesso e vasto campo dell’azione pratica.

Il partito nemmeno si pone lo scopo della «conquista della maggioranza del proletariato», essendo la rivoluzione non un fatto statistico ma politico e dinamico. Il partito tende a diventare l’organo esclusivo della classe operaia, dirigendone l’azione e gli organismi che l’organizzano.

Il partito, cioè, fa leva sui rapporti di forza, che potrebbero anche esprimersi in consensi maggioritari, ma non confida nel consenso maggioritario, statisticamente espresso o peggio elettoralmente espresso, per constatare la sua decisiva influenza sulla classe e trarne la conclusione che questa sarà disponibile per l’azione decisiva. Questo accenno alla «conquista della maggioranza» non si riferisce soltanto ai dibattiti che stavano già spuntando in seno al partito e all’Internazionale, allora, e che arrivarono nell’esasperazione polemica, sino a prevedere in quale proporzione dovesse ravvisarsi la “maggioranza”, se nel 50% più uno, o nel 60-70% o più. Interessa oggi, soprattutto oggi, a dimostrare che le Tesi sulla tattica non volevano essere un contributo per la soluzione subitanea delle questioni del tempo, ma un tracciato di regole da seguire nella generale lotta contro il capitalismo. L’ossequio odierno ai dettati della maggioranza è tale che, sebbene la classe operaia sia quasi totalmente inquadrata in partiti e sindacati che si definiscono di classe, si assiste alla impotenza assoluta del proletariato, quando un inquadramento di questa portata avrebbe, ieri, posto all’ordine del giorno addirittura la data dell’insurrezione. La debolezza di siffatta consistenza numerica risiede nel falso indirizzo programmatico e politico, per cui a fronte di essa sta uno Stato onnipotente, anziché in via di decomposizione e di confusione.

Conquista di una influenza decisiva sulla classe, ma non ad ogni costo, sebbene sulla strada della rivoluzione. Ogni altro tipo di influenza è almeno dubbio, se non addirittura controrivoluzionario, come appunto quello dell’opportunismo odierno. Questa, che allora poteva essere una debolezza nella tensione di tutte le forze e nell’utilizzo di tutti i mezzi per stanare l’alleato principale del capitalismo, l’opportunismo socialdemocratico, e gettarlo fuori dal movimento operaio, è oggi prova del tradimento e della consegna al nemico dell’esercito di classe. Chiunque, anche nel soggettivo sforzo di conquistare adesioni al partito rivoluzionario, si sottomette alla pratica demomaggioritaria e all’implicita commistione di contraddittori indirizzi e programmi, si pone fuori del campo della rivoluzione e del comunismo, e si dispone a percorre la stessa strada che è dei falsi partiti operai attuali.

 

RAPPORTI DEL PARTITO COMUNISTA CON ALTRI MOVIMENTI POLITICI PROLETARI

In questa terza parte e nella quarta successiva, viene messo in costante evidenza il terreno su cui il partito entra in «reciproco contrasto» o in «azione comune» con «partiti e correnti politiche proletarie dissidenti».

Questo terreno è quello delle lotte economiche e dell’organizzazione economica del proletariato. È questo un punto fermo ed essenziale per la realizzazione di qualsiasi tattica. All’organizzazione sindacale, che ha tutte le caratteristiche per l’inquadramento potenziale di tutti e i soli salariati, fa carico l’espletamento di tutta l’azione della classe. Sorge appunto da questa funzione precipua degli organismi economici proletari l’impegno inderogabile per il partito di conquistarne la direzione. Per tali ragioni il partito postula un’organizzazione unica sindacale e respinge soluzioni scissionistiche.

Nella quarta parte vengono affrontate le aggrovigliate questioni di «quali siano e come si possano stabilire le condizioni a cui debbono rispondere i rapporti tra il partito e la classe operaia per rendere possibili ed efficaci tali azioni».

Abbiamo già notato che il compito che il partito si prospetta è quello di spostare la classe dal terreno avversario a quello dell’azione rivoluzionaria. La classe, quindi, si presenta al partito «unita» sul terreno economico, e divisa su quello politico, frazionata in partiti e movimenti politici non comunisti. «Tutti i partiti borghesi – recita il Punto 17 – hanno aderenti proletari, ma soprattutto qui ci interessano i partiti socialdemocratici e le correnti sindacaliste ed anarchiche», cioè la stragrande maggioranza del proletariato inquadrato nel movimento politico.

Può suonare male che la Sinistra consideri «movimenti politici proletari» i partiti opportunisti sia di “destra” che di “sinistra”, quando, con Lenin e l’Internazionale Comunista, ha sempre considerato la socialdemocrazia come una congrega di «agenti», «luogotenenti» della borghesia in seno al movimento operaio, «ala sinistra della borghesia». Ma i partiti opportunisti, oltre ad avere una base prevalentemente operaia, monopolizzare i sindacati operai, influenzare tutte le manifestazioni proletarie, si rifanno nominalmente alla tradizione di lotta della classe, usano il vocabolario del socialismo e del comunismo, paludano la loro teoria antirivoluzionaria con formule prese a prestito dal marxismo. Infatti, se così non fosse, se l’opportunismo si rivelasse esteriormente, esplicitamente per quello che in effetti è, non riuscirebbe che ad arruolare i lavoratori corrotti e i mezzani piccolo-borghesi, e la rivoluzione avrebbe trionfato da mezzo secolo.

Il movimento anarchico e sindacalista, che ha radici lontane nella storia del movimento operaio, quando era costretto a lottare nel più complesso movimento radicale democratico tra sottoproletari, semi-proletari e piccolo-borghesi, arruolava i lavoratori che la flaccidità della società capitalistica aveva reso disperati e nostalgici di una libertà astratta e letteraria, per cui erano portati a negare teoria, organizzazione e milizia politica, in fondo riconducendosi al liberalismo, al democratismo, al settarismo.

Oggi, dopo l’avvento del fascismo, non come fenomeno coreografico accidentale di mussolinismo o hitlerismo, ma come storico incedere del totalitarismo statale capitalistico, queste correnti, che offrirono non pochi capi e sotto-capi al movimento fascista del ventennio, come consegnarono tutti i loro effettivi più o meno sparuti o dispersi al movimento controrivoluzionario resistenziale all’antifascismo e del post-fascismo, non hanno alcun seguito apprezzabile nel movimento operaio.

Quelli che, poi, vengono oggi definiti “extraparlamentari”, più per impotenza elettorale statistica che per aspirazione, se hanno un seguito tra i lavoratori questo non è rilevabile perché si confondono nelle posizioni dell’opportunismo dei grandi falsi partiti socialcomunisti e delle centrali sindacali “tricolore”, nelle quali, tra l’altro, non oserebbero neppure organizzare frazioni. D’altronde, la loro massima aspirazione di una “vera democrazia”, cioè il connubio lavoratori-intellettuali-studenti, li porta irresistibilmente nelle braccia del PCI-PSI, e del pansindacalismo odierno, in cui si sono realizzate, sulla scia del corporativismo fascista, le antiche illusioni del sindacalismo soreliano per un governo “sindacale”. Ciò non esclude che, quando la lotta di classe riprenderà, impetuosa e a scala mondiale, non risorgano e prendano più reale consistenza queste illusioni devianti e corruttrici, alimentate dalla pressione schiacciante da un lato dell’offensiva capitalistica e dall’altro dalla controffensiva proletaria e comunista, illusioni proprie delle mezze classi travolte dalla tragedia storica di un mondo che deve morire ma non vuol morire.

È anche in funzione di questa eventualità che il partito deve:

     «svolgere una incessante critica dei loro programmi, dimostrandone la insufficienza agli effetti della emancipazione proletaria. Questa polemica teorica sarà tanto più efficace quanto più il partito comunista potrà dimostrare che le critiche da esso fatte da tempo a tali movimenti secondo le proprie concezioni programmatiche vengono confermate dall’esperienza proletaria: per questa ragione nelle polemiche di tal natura non deve essere mascherato il dissenso tra i metodi anche per la parte che non si riferisce unicamente ai problemi del momento ma riflette gli sviluppi ulteriori dell’azione del proletariato» (Punto 18).

Aggiungiamo noi che tale lotta deve condursi in modo da non ingenerare il sospetto che il partito tenda ad “accostamenti” politici, a “filtraggi”, a “innesti”, o, il che è lo stesso, a ammiccamenti diplomatici o di volgare furbizia, allo scopo, che si dimostrerebbe falso ed esiziale, di aumentare i suoi effettivi, di potenziare la sua azione. Ciò è tanto vero, e la storia dell’Internazionale Comunista lo prova con esempi clamorosi, che se il partito pensasse questo si precluderebbe la possibilità di contrapporre il suo metodo rivoluzionario e di dimostrarne l’assoluta superiorità rispetto a quelli degli altri movimenti.

Infatti la lotta teorica e «Simili polemiche debbono avere il loro riflesso nel campo dell’azione» (Punto 19), in questo campo vitale in cui si dimostra efficacemente «come questa azione», l’azione delle organizzazioni economiche proletarie dirette da altri movimenti, nelle quali si organizzano i comunisti, «ad un dato punto del suo sviluppo viene resa impotente o utopistica a causa dell’errato metodo dei capi, mentre col metodo comunista si sarebbero conseguiti risultati migliori e utili ai fini del movimento generale rivoluzionario».

Il Punto 20 dà la chiave dell’impostazione della tattica del partito, come abbiamo premesso all’inizio e che caratterizza il modo in cui il partito comunista realizza il suo «scopo essenziale» di «guadagnare terreno in mezzo al proletariato accrescendo i suoi effettivi e la sua influenza a scapito dei partiti e correnti politiche proletarie dissidenti». Il mezzo per pervenire a questo risultato è quello della partecipazione del partito «alla realtà della lotta proletaria». È questo il «terreno», e non quello degli incontri, accordi, pastette tra partiti, il «terreno» che può essere contemporaneamente di azione comune e di reciproco contrasto, a condizione di non compromettere mai la fisionomia programmatica ed organizzativa del partito, sul quale si stava efficacemente sviluppando la tattica di «fronte unico» impostata dalla Sinistra, e che potrà ancora rinnovarsi allorché la classe operaia ritornerà sul fronte della lotta diretta.

Nel Punto successivo 21, questa condizione cardine della tattica comunista si esprime nel rifiuto di principio di «costituire in seno ad altri movimenti politici gruppi e frazioni organizzate di comunisti o simpatizzanti comunisti»; e si ribadisce, al contrario, che questo criterio deve essere adottato nei sindacati operai, organi conquistabili alla direzione del partito. Questo postulato viene categoricamente sancito nel Punto 23 nel quale è fatto espresso divieto ai membri del partito di «dare adesione al tempo stesso ad un altro partito si estende oltre che ai partiti politici anche a quegli organismi che non hanno il nome e la organizzazione di partito pur avendo carattere politico, e a tutte le associazioni che pongano a base della accettazione dei loro membri tesi politiche: specialmente tra queste la massoneria».

Al Punto 22 si dà un’indicazione preziosa di come si deve premere, oltre che con il corretto indirizzo rivoluzionario nel campo dell’azione sul «terreno» economico e sindacale, sui «molti lavoratori» sindacalisti e anarchici «che, mentre erano maturi per la concezione della lotta unitaria rivoluzionaria, sono stati fuorviati solo per una reazione alle passate degenerazioni dei partiti politici guidati dai socialdemocratici». Quindi la «asprezza della polemica e della lotta contro i partiti socialisti» costituisce «un elemento di prim’ordine per riportare quei lavoratori sul terreno rivoluzionario».

È anche a questo scopo che il partito, oggi, come ieri, impegna gran parte dei suoi sforzi contro l’opportunismo dei falsi partiti operai, PCI, PSI e fiancheggiatori, sebbene i lavoratori anarchici e sindacalisti siano assai ridotti di numero rispetto ad allora, e sebbene questi movimenti non si possano considerare, a cuor leggero e per le prove finora fornite, «maturi per la concezione della lotta unitaria rivoluzionaria». Al 1975 di movimenti «maturi», quale che sia la loro consistenza numerica, non c’è che il partito comunista rivoluzionario. Non dobbiamo dimenticare che gli altri “movimenti” cosiddetti “dissidenti”, a chiacchiere, dall’opportunismo ufficiale, sono invece confluiti nell’azione politica dei partiti traditori dietro il paravento dell’antifascismo, della vera democrazia, delle riforme. In questi ultimi cinquant’anni la spinta della concentrazione non si è solo manifestata e realizzata nel campo dell’economia, del potere statale, a dispetto spesse volte delle apparenze, ma si è in effetti concretizzata anche nel campo politico dei partiti, dei movimenti politici e sindacali. Sono spariti sindacati anarchici, dissidenti “bianchi” del tipo cosiddetto “migliolino”, nel senso che l’espressione di queste correnti è stata assorbita dal pan-sindacalismo tricolore. Così è accaduto per le rispettive correnti politiche, cadute nella cloaca massima dell’esistenzialismo e del post-fascismo democratici. Di questi risultati dello sviluppo storico il partito deve tener conto nello stabilire sino a che punto la tattica rivoluzionaria dovrà “contare” sul risorgere eventuale di queste “forze”, in quanto forze organizzate.


 
 
 

Il Partito Comunista n.8, aprile 1975

Elementi della tattica del partito comunista tratti dall’esame delle situazioni

Nel tentativo di affrontare gli elementi di questa quinta ed ultima parte propedeutica ai «termini più propriamente tattici della questione» è necessario «soffermarsi sugli elementi di risoluzione di ogni problema tattico dati dall’esame della situazione del momento che si attraversa». Il partito non è “libero” di fare quel che vuole e gli piace, per il solo e semplice fatto di essere “il partito”, nodo su cui non si batterà mai abbastanza.

     «Il partito non può adoperare la sua volontà e la sua iniziativa in una direzione capricciosa ed in una misura arbitraria; i limiti entro i quali deve e può fissare l’una e l’altra gli sono posti appunto dalle sue direttive programmatiche e dalle possibilità e opportunità di movimento che si deducono dall’esame delle situazioni contingenti (Punto 26)».

Le «direttive programmatiche» sono note a tutti e si sintetizzano nella «invarianza della dottrina» del marxismo rivoluzionario, nell’organo-partito con organizzazione unitaria e centralizzata alla scala mondiale, per la conquista violenta del potere politico, gestito dal solo partito comunista nella Dittatura Proletaria, verso l’instaurazione della società socialista, senza classi e senza Stato politico.

La «possibilità e opportunità di movimento» «si deducono dall’esame delle situazioni» con i criteri che le Tesi tracciano e che devono essere compatibili con le «direttive programmatiche». Infatti, non sempre esistono «possibilità ed opportunità di movimento» tali da portare il partito alla testa delle masse proletarie, come per esempio nelle fasi più nere della controrivoluzione imperante, quale quella che stiamo attraversando, e falso sarebbe dedurre che si debba revisionare il programma o adottare nuovi imprevisti accorgimenti tattici per vincere il muro delle avverse condizioni storiche generali, ovvero che si debba rinunciare ad una parte dei compiti del partito in attesa di tempi migliori.

     «Nel programma del partito comunista è contenuta una prospettiva di successive azioni messe in rapporto a successive situazioni, nel processo di svolgimento che di massima loro si attribuisce. Vi è dunque una stretta connessione tra le direttive programmatiche e le regole tattiche. Lo studio della situazione appare quindi come un elemento integratore per la soluzione dei problemi tattici» (Punto 24).

A cosa serve, allora, questo «elemento integratore»? Il Punto 27 spiega:

     «Dall’esame della situazione si deve trarre un giudizio sulle forze del partito e sui rapporti tra queste e quelle dei movimenti avversari. Soprattutto bisogna preoccuparsi di giudicare l’ampiezza dello strato del proletariato che seguirebbe il partito quando questo intraprendesse un’azione e ingaggiasse una lotta. Si tratta di formarsi una esatta nozione degli influssi e delle spinte spontanee che la situazione economica determina in seno alle masse, e della possibilità di sviluppo di queste spinte per effetto delle iniziative del partito comunista e dell’atteggiamento degli altri partiti».

Vogliamo sottolineare ancora una volta che è «la situazione economica» che «determina» «influssi e spinte spontanee» «in seno alle masse» e non la volontà del partito né degli altri partiti, i quali possono, semmai, sviluppare queste spinte per effetto delle loro «iniziative». Non è il partito che determina il fronte di classe, ribadiamo per i sordi di sempre, che si pavoneggiano nelle loro baldanzose «iniziative» deviatrici e inconcludenti, e per coloro che, avendolo dimenticato, si son messi ad agitare i loro deretani non più “di piombo”, in nome della Sinistra.

L’esame delle situazioni, svolto in chiave nostra, innanzi tutto deve tenere conto che: (Punto 27):

«le influenze della situazione economica sulla combattività di classe del proletariato sono assai complesse, a seconda che siamo in presenza di un periodo di crescente floridezza dell’economia borghese, o di crisi di inasprimento delle sue conseguenze».

Nel prosieguo di questo lavoro constateremo la complessità di queste relazioni, sia da un punto di vista storico sia geopolitico, esaminando, anche geograficamente, le curve delle forze interessate.

Il testo imposta, quindi, il problema in termini di determinismo storico e dialettico:

«L’effetto di queste fasi sulla vita organizzativa e sulla attività degli organismi proletari è complesso e non può considerarsi prendendo ad esaminare soltanto la situazione economica di un dato momento per dedurne il grado di combattività del proletariato, poiché si deve tener conto della influenza di tutto il percorso delle situazioni precedenti nelle loro oscillazioni e variazioni».

Tutto il lavoro svolto dal partito sul corso dell’economia mondiale, per esempio, era teso a ritrovare il bandolo delle contraddizioni economiche, sociali e quindi politiche della società presente, non per il gusto di fare opera di accademia, ma per studiare il «percorso» storico che precede la ripresa del moto di classe, da cui dedurre le condizioni favorevoli dell’attacco rivoluzionario, la «situazione contingente» utile all’iniziativa del partito, deducibile non nella contingenza ma nelle premesse anche secolari. Tutto il lavoro, che ai soliti cretini è sembrato “enciclopedismo” o “archeologia”, aveva ed ha questo potente significato, tanto che è uno dei tratti salienti del partito, di differenziazione tra il vero partito comunista e tutti gli altri movimenti anche sedicenti “sinistri”.

Il testo chiarisce i concetti espressi e serve qui ad introdurre lo studio che seguirà:

     «Ad esempio, un periodo di floridezza può dar vita ad un potente movimento sindacale che in una crisi successiva di immiserimento si può rapidamente portare su posizioni rivoluzionarie conservando favorevolmente al successo rivoluzionario l’ampiezza del suo inquadramento di masse. Oppure può un periodo di immiserimento progressivo disperdere il movimento sindacale in modo che nel periodo di floridezza successivo esso si trovi in uno stadio di costituzione che non offra bastevole trama ad un inquadramento rivoluzionario. Questi esempi che potrebbero essere capovolti valgono a provare che “le curve della situazione economica e della combattività di classe si determinano con leggi complesse, la seconda dalla prima, ma non si assomigliano nella forma”. All’ascesa (o discesa) della prima può in dati casi indifferentemente corrispondere l’ascesa o la discesa della seconda».

Ancora martellate, e guai se il braccio si stancasse: la «prima» è la «situazione economica», la «seconda» è la «combattività di classe», la «prima» determina la «seconda», e non viceversa.

 

1) LE FASI DELLE SITUAZIONI

Si è visto che l’obbiettivo centrale della ricerca o «esame delle situazioni» da parte del partito consiste nello stabilire le influenze che la situazione economica determina nella classe e nella sua organizzazione naturale, i sindacati, al fine di dedurre l’atteggiamento tattico del partito. Questo punto centrale viene ora ripreso nel Punto 28 e sviluppato:

     «Gli elementi integratori di questa ricerca sono svariatissimi e consistono nell’esaminare le tendenze effettive della costituzione e dello sviluppo delle organizzazioni del proletariato e delle reazioni anche psicologiche che producono su di esso da una parte le condizioni economiche, dall’altra gli stessi atteggiamenti ed iniziative sociali e politiche della classe dominante e dei suoi partiti. L’esame della situazione viene a completarsi nel campo politico con quello delle posizioni e delle forze delle varie classi e dei vari partiti riguardo al potere dello Stato».

Ora, le «situazioni» «nelle quali il partito comunista può trovarsi ad agire» «si possono classificare» nelle seguenti «fasi fondamentali»:
1. Potere feudale assolutistico
2. Potere borghese democratico
3. Governo socialdemocratico
4. Interregno di guerra sociale in cui divengono instabili le basi dello Stato
5. Potere proletario della Dittatura dei Consigli.

Le «considerazioni» che le Tesi offrono si riferiscono «soprattutto» alla «fase» del «potere borghese democratico» e a quella del «governo socialdemocratico».

Potrebbe destare meraviglia che le Tesi non contemplino una “fase fascista”. In realtà non esiste, sotto il profilo tattico, una “fase fascista”, siccome costituisce la fase in cui il potere totalitario della borghesia si manifesta senza veli democratici e riformisti. Come nella sesta parte sull’«azione tattica “indiretta” del partito comunista» viene svolto, elimina anzi uno degli aspetti perturbatori della tattica, l’illusione nelle masse della conquista pacifica e graduale, democratica e parlamentare del potere, a fronte della quale il partito deve studiare mezzi tattici «indiretti». Infatti il problema centrale che il partito ha già dovuto affrontare in questa “fase fascista” non è stato tanto quello della sua azione tattica «diretta», quanto quello relativo al modo con cui ributtare indietro i rigurgiti democratici sollevati dal fascismo, che hanno appestato la classe. Non a caso, e con singolare preveggenza, dicemmo nel 1926 che il peggior nemico del proletariato sarebbe stato il post-fascismo.

In tal modo la seconda e terza fase, oggetto dello studio delle Tesi, contengono tutti gli elementi essenziali del problema tattico, tenendo conto che:

     «in un certo senso il problema della tattica consiste oltre che nello scegliere la buona via per una azione efficace, nell’evitare che l’azione del partito esorbiti dai suoi limiti opportuni, ripiegando su metodi corrispondenti a situazioni sorpassate, il che porterebbe come conseguenza un arresto del processo di sviluppo del partito ed un ripiegamento nella preparazione rivoluzionaria» (Punto 28).

 

2) LE CURVE DI EFFICIENZA

Abbiamo già visto l’importanza fondamentale che le Tesi danno all’«influenza della situazione economica sulla combattività di classe del proletariato» e quanto sia complessa la correlazione tra queste due forze tra loro e tra le altre forze in gioco. La parte che segue si ripromette di dare un contributo a questi fondamentali problemi, indispensabile alle soluzioni tattiche.

Le forze che interessano sono eterogenee per cui non è possibile una loro misurazione, con i mezzi a nostra disposizione, ma solo un confronto delle loro reciproche «efficienze». Esse sono le seguenti:
1. efficienza economica o curva della produzione,
2. efficienza proletaria o curva della spontaneità,
3. efficienza della rivoluzione o “vettore” dell’azione del partito,
4. efficienza del capitalismo o “vettore” della potenza dello Stato,
5. efficienza dell’opportunismo o “vettore” dell’influenza opportunistica.

In ciascuna tavola queste forze sono rappresentate, nella parte superiore, con i “vettori” che indicano la variazione nel tempo dell’efficienza della Rivoluzione, del Capitalismo, dell’Opportunismo, in tratti distinti in leggenda, nella inferiore con le curve della Produzione e della Spontaneità.

I “vettori” indicano soprattutto il senso e la direzione delle forze e, in correlazione tra loro, il prevalere relativo dell’una sulle altre. La curva della Produzione è espressa in incremento percentuale medio della produzione industriale nei periodi indicati, secondo il noto lavoro svolto dal partito; per curva della Spontaneità le giornate di sciopero per salariato nell’anno secondo i dati del BIT. Sulle ascisse la scala divisa in anni o decenni; sulle ordinate le scale a sinistra dell’incremento produttivo, a destra delle giornate di sciopero.

Le tavole così costruite permettono di seguire in corrispondenza temporale tra loro lo sviluppo delle determinazioni economiche, le reazioni istintive o spontanee del proletariato, l’incrociarsi delle influenze attive e passive del partito comunista, dello Stato capitalista e dell’opportunismo.

Molti altri elementi potrebbero essere correlati per ottenere un quadro più completo, non dimenticando che le risultanti storiche sono il prodotto di leggi complesse che investono anche la psicologia delle masse combattenti e pertanto non riducibili a misurazioni quantitative con i mezzi offerti dalla “scienza” individualistica borghese.

Queste nostre osservazioni empiriche, tuttavia, ci consentiranno delle rilevazioni che confermano i postulati della nostra dottrina e quindi del nostro programma. Risultato questo non disprezzabile in un’epoca in cui gli avversari della rivoluzione e i falsi amici del comunismo rinnegano ogni giorno le enunciazioni del giorno prima.

 

3) LE AREE PRINCIPALI DELL’ESPERIENZA STORICA

Si sono predisposte sei tavole relative a sei distinte aree geo-politiche, cui abbiamo assegnato il nome del paese nel quale si sono manifestate le caratteristiche che intendiamo mettere in evidenza: gli elementi principali dell’esperienza storica di classe, senza pretendere con questo di “imprigionare” la storia in uno schema.

I paesi-area oggetto dello studio sono i seguenti: Russia, Stati Uniti d’America, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia. A nostro avviso questi sei paesi presentano caratteristiche di sviluppo storico tali da costituire un insieme dell’esperienza della classe proletaria. Non abbiamo incluso altri grandi paesi pervenuti di recente alla vittoriosa rivoluzione democratica nazionale in quanto il proletariato non vi ha espresso un’azione autonoma e indipendente. In Cina la classe operaia ha espresso il suo partito politico di classe, ma questo ha subito le stesse vicissitudini degli altri partiti dell’Internazionale Comunista, che si ritrovano tracciate negli altri paesi qui studiati. In breve, in Cina come negli altri paesi neo-borghesi non vi sono state esperienze nuove e diverse, sebbene, come più volte detto, questi paesi rappresentino, dopo la rivoluzione d’Ottobre, le uniche manifestazioni di vitalità storica in un’era di totale decadenza.

La Russia assomma caratteristiche straordinarie: è l’area della doppia rivoluzione vittoriosa, della tradizione bolscevica, ma è anche l’area in cui la rivoluzione è stata sconfitta non in campo aperto, ma per degenerazione, e in cui in effetti non vi è stata né tradizione democratica né tradizione opportunistica, dato l’irrilevante peso che hanno avuto le poche manifestazioni in tal senso.

Gli Stati Uniti d’America, al contrario della Russia, assommano le caratteristiche essenziali di un’area di sviluppo capitalistico “puro”, sia nel senso economico (assenza di feudalesimo), sia nel senso politico (incontrastato dominio della democrazia). Da un punto di vista di classe non è mai esistita una vera e propria tradizione comunista rivoluzionaria, salvo l’esempio troppo breve ed inconsistente del piccolo partito di J. Reed. Inoltre non vi si trova un reale movimento opportunista. La Gran Bretagna accomuna ad uno sviluppo economico capitalistico radicale una tradizione democratica secolare, che ha dominato il movimento operaio per mezzo del laburismo, quale forma dell’opportunismo. La tradizione comunista è pressoché assente, ad eccezione della sezione inglese dell’I.C. che, come altre sezioni, ha avuto natali piuttosto artificiali, ed ha vissuto più che stentatamente, senza lasciare tracce apprezzabili. La Francia, patria dell’89 e della democrazia repubblicana, delle mezze classi, è anche la patria dell’anarchismo e della variante sindacalista rivoluzionaria, della socialdemocrazia. La tradizione comunista è rimasta nella intenzione di pochi e quello che fu il partito comunista sezione dell’I.C. assomigliò ad una “sinistra” socialdemocratica cui si cambiò targa. La Germania ci ha dato i tre artefici della storia moderna: la dottrina del marxismo rivoluzionario, la socialdemocrazia più potente del mondo e il totalitarismo capitalistico, nella sua forma politica più efficiente, il nazismo o nazionalsocialismo. Infine l’Italia, che presenta le stesse caratteristiche della Germania con in più una formidabile tradizione della Sinistra Comunista.

 

 

A – Area russa

Il grafico, che ci accingiamo a leggere, è mancante di un vettore, quello dell’opportunismo che, come abbiamo sommariamente già detto, in Russia non ha avuto manifestazioni determinanti sino all’Ottobre ’17. Quando sono emerse posizioni devianti da quelle del marxismo rivoluzionario, queste hanno assunto la forza politica della controrivoluzione e reazione borghese vittoriose sull’Ottobre. Per tali ragioni per la Russia non abbiamo preso in considerazione il vettore opportunista ma quello dell’efficienza capitalistica. Per non complicare il già non semplice quadro, abbiamo lasciata la stessa indicazione grafica per l’efficienza dello Stato russo prima della rivoluzione, sebbene fosse uno Stato feudale-assolutista e non capitalista. Per questo periodo che va sino al Febbraio ’17 definiamo il vettore-Stato in vettore della reazione.

Dal 1903 al 1907, mentre l’economia procede ad un buon ritmo medio, gli scioperi si sviluppano incessantemente per culminare nel 1905 nell’agitazione rivoluzionaria che vede al centro il PSDR. Salgono le curve della produzione e della spontaneità, discende il vettore della reazione e sale quello della influenza del partito. Dopo il fallito tentativo del 1905, si rafforza la reazione, decresce l’influenza del partito si affievolisce la spontaneità operaia, mentre la produzione continua a svilupparsi sino alla vigilia della guerra mondiale. Dopo una ripresa degli scioperi attorno al 1912, che non segnano una maggiore efficienza del partito, scoppia la guerra. La produzione rallenta, gli scioperi cessano del tutto. Sin dal 1916 fino al Febbraio e all’Ottobre 1917 riprende, si intensifica e diventa dominante il movimento di sciopero nelle città, agitazione dell’esercito che si trasformano in insurrezione, sebbene nessuno pensasse – come scrive Trotski – che il potente sciopero delle operaie tessili di Pietroburgo del 23 febbraio 1917 con la parola d’ordine “pane!” scatenasse lo sciopero tra le altre categorie di operai per trasformarsi in una gigantesca manifestazione di classe al grido di “abbasso l’autocrazia!”, “abbasso la guerra!”, sino a trasformarsi nel giro di “cinque giornate” in insurrezione popolare.

Area russa

Il partito concresce con il movimento spontaneo delle masse lavoratrici sino alla conquista del potere. Il nostro grafico non distingue l’efficienza rivoluzionaria della borghesia (febbraio 17) dall’efficienza rivoluzionaria del proletariato, in quanto non v’è stata soluzione di continuità nel processo rivoluzionario ed il partito è stato il motore principale anche nella fase democratica della rivoluzione, ed anche perché la borghesia si trasforma immediatamente in classe reazionaria.

Non dovendo esaminare qui lo svolgimento specifico della tattica bolscevica, ma soltanto i rapporti tra le forze sociali in campo, proletariato e borghesia, il grafico non segue le loro variazioni continue tra il Febbraio e l’Ottobre. La curva della spontaneità è sempre sostenuta per giganteggiare di nuovo nell’Ottobre sino al 1923-24, a significare l’attiva spontanea partecipazione delle classi lavoratrici, guidate dal partito, alla guerra civile, alla trasformazione dell’economia, alla costruzione dello Stato Sovietico: la mobilitazione in permanenza della classe operaia nelle officine, nell’esercito rosso, nei Soviet, nei Sindacati.

Col 1921 la produzione riprende a salire ininterrottamente sino al 1940, alla seconda guerra imperialistica. Nel frattempo, però, la rivoluzione proletaria degenera all’insegna del “socialismo, in un solo paese”. Scade l’efficienza del partito di classe fino alla distruzione del partito stesso, scade dunque anche la spontanea azione delle masse, ormai imprigionate in organismi passati dal comunismo al totalitarismo statale controrivoluzionario. Il grafico sintetizza questo percorso con l’inversione di senso delle due forze di classe, quella del partito e quella dello Stato. Lo scoppio della seconda guerra mondiale blocca la produzione, che riprende verso il ‘50 a ritmi sostenuti. La spontaneità di classe è soffocata decisamente nella dittatura capitalistica, salvo rari episodi di ribellione.

Nei quadri relativi agli altri paesi, ritroveremo questo dato comune a tutte le aree: il 1926 segna una svolta non solo per la rivoluzione in Russa ma anche negli altri paesi. L’Ottobre aveva aperto un’estesa e profonda crisi rivoluzionaria nella società capitalistica, determinando la rinascita dell’Internazionale. La sconfitta dell’Ottobre e la degenerazione del movimento comunista mondiale ora coincidono.

La guerra franco-prussiana aveva prodotto la Comune di Parigi del 1871. La guerra russo-giapponese aveva generato la Comune di Pietroburgo del 1905. La “Grande Guerra” del 1914 aveva potentemente accelerato la crisi rivoluzionaria in Russia e in Asia, riflettendosi anche nella vecchia Europa. La seconda guerra imperialista è stata un fattore determinante diretto della rivoluzione cinese del 1949 e indiretto, a causa dell’estremo indebolimento degli imperialismi inglese, francese, belga e portoghese, delle rivoluzioni nazionali in Asia e Africa. Aree queste di tipo “russo”, cioè di doppia rivoluzione, nelle quali la rivoluzione però non è scattata alla fase superiore, quella proletaria. La degenerazione del partito che aveva fatto ripiegare la Russia a compiti borghesi e i gravi errori tattici dell’I.C. che avevano contribuito fortemente alla mancata vittoria in Germania, hanno distrutto le possibilità di un’azione indipendente ed autonoma del partito comunista mondiale, decretando così il fallimento della rivoluzione socialista in Asia e Africa.

Queste considerazioni confermano il carattere incomparabilmente distruttivo della “terza ondata opportunista”, e quanto sia esiziale, ai fini della ripresa del moto rivoluzionario di classe, il mito russo. Lo sradicamento di questa turpe mistificazione in seno alle masse lavoratrici è uno dei compiti del partito.

 

 

 


Il Partito Comunista n.10, giugno 1975

 

B – Area americana

Se nel tratteggiare l’ “Area Russa” abbiamo potuto trascurare il vettore dell’efficienza dell’opportunismo, in quanto forza impotente tanto prima dell’Ottobre quanto a controrivoluzionaria vittoriosa, e quindi borghese reazionaria, con la sconfitta del primo Stato Proletario del mondo alla scala semicontinentale, relativamente all’ “Area USA” possiamo trascurare sia il vettore dell’efficienza dell’opportunismo che quello dell’efficienza del Partito. Gli Stati Uniti d’America sono nati borghesi, non hanno conosciuto il modo di produzione feudale, e la guerra di secessione ha visto lo scontro tra la borghesia industriale del Nord e i proprietari fondiari schiavisti del Sud. Il proletariato industriale, quindi, è nato con la borghesia, dalla borghesia è stato educato ed inquadrato, e non ha conosciuto altra guerra civile che quella tra classi proprietarie della società capitalistica, nell’esercito della più progredita delle quali, della borghesia appunto, ha ritrovato lo stesso spirito della guerra di indipendenza, il nazionalismo.

La lotta per le otto ore, i martiri proletari di Chicago dello storico 1° Maggio 1866, le prime associazioni di resistenza operaia, i Cavalieri del Lavoro, la Federazione del Lavoro Americana (A.F.L.) furono le manifestazioni di esistenza del proletariato americano. I tentativi di creare un partito con Weitling, celebre comunista utopista tedesco, la Lega del Lavoro (Arbeiter Bund) dopo il 1848, successivamente con il comunista tedesco amico di Marx, Joseph Weydemeyer, non lasciarono alcun apprezzabile segno. Tuttavia, sebbene senza partito, perché partito non poteva essere considerato né il Socialist Party fondato nel 1901 né gli I.W.W. (Industrial Workers of the World) ispirati al sindacalismo soreliano, il proletariato americano dette vita a scioperi formidabili, come quello dell’Homestead del 1892 che culminò addirittura in uno scontro armato sulle rive del fiume Monongahela. Decine di migliaia di scioperi per la libertà di associazione, per la giornata lavorativa, per il salario videro protagonisti gli operai americani.

Area Usa

Nel 1919 l’ala sinistra del Socialist Party fondò l’American Communist Party e contemporaneamente sorse anche il Communist Labour Party, il “partito di John Reed”, che si unificarono nel 1920 nel Communist Party of America, sezione della Terza Internazionale.

Potenti scioperi con la partecipazione di centinaia di migliaia di operai investirono l’Unione. Ma né il movimento di sciopero né il movimento sindacale furono sufficienti ad esprimere un vero partito di classe. L’economia americana aveva tratto dalla prima guerra mondiale profitti giganteschi, prima armando l’Europa poi finanziandone la ricostruzione, in un quindicennio fino alla grande depressione del 1929. Il New Deal segna un maggiore intervento dello Stato in funzione assistenziale, per cui gli operai ricevettero una serie di “diritti” sindacali e associativi. Questi imprigionarono gli operai in una rete sindacale saldamente legata allo Stato totalitario americano, per mezzo di agenti diretti della stessa borghesia e degli ambienti capitalistici. Non a caso nel 1947, dopo la “vittoria contro il fascismo”, fu varata la famigerata legge antisciopero Taft-Hartley. Né la ripresa produttiva dopo il 1935, che sfocerà nel secondo conflitto imperialistico mondiale, né gli scioperi possenti del secondo dopo-guerra nella siderurgia, nelle miniere, tra i portuali hanno suscitato il sorgere anche di piccoli ma solidi nuclei comunisti rivoluzionari. Il democratismo più piatto ha dominato e domina il movimento operaio.

Forse negli USA, come una volta nella Russia, mutatis mutandis, in condizioni storiche completamente diverse, si renderà determinante per la nascita del partito di classe l’importazione della teoria marxista dalla vecchia Europa comunista.

Gli USA sono un esempio del manifestarsi allo stato “puro”, si potrebbe dire quasi una rispondenza meccanica, tra fenomeni del campo del determinismo economico e quelli della sovrastruttura politica. Raramente esiste una reazione di sciopero in risposta alla recessione economica, il più delle volte l’azione di sciopero decresce in funzione alla decrescita nella produzione, e cresce in coincidenza della ripresa produttiva. Ciò sta a significare che non si può parlare nemmeno di laburismo, né di sindacalismo, nel senso storico del termine, ma di sindacati considerati più come “assicurazioni per i rischi di lavoro” che di associazioni operaie, ad un livello bassissimo di maturità sindacale. È questo, forse, un esempio unico nella storia del movimento operaio. Si potrebbe azzardare la considerazione sommaria che negli USA deve ancora nascere un movimento sindacale effettivo e che ci si trova di fronte a corporazioni “liberamente” legate allo Stato e dipendenti dagli interessi statali, in maniera aperta. Questa considerazione vale soprattutto per le centrali sindacali, ora unificate nella AFL-CIO, in quanto, per esempio, alcuni sindacati di categoria, come i minatori, hanno dato vita a volte ad azioni di sciopero potenti e robuste. Ma le centrali sono legate alla politica della Stato tramite l’appoggio diretto ora al partito democratico, ora a quello repubblicano, in ispecie durante le elezioni presidenziali, unica manifestazione coreografica della democrazia americana.

Gli USA durante l’occupazione militare dell’ultima guerra hanno potuto sottomettere il proletariato europeo con “la cioccolata e il chewing-gum” in quanto hanno prima sottomesso il proletariato americano con gli stessi mezzi! Da un punto di vista di classe gli USA rappresentano l’assenza di un vasto movimento operaio degno di tale nome, dovuta non alla maturità dei fatti economici, al grado di sfruttamento capitalistico dei proletari, ma soprattutto alla corruzione sociale, politica e ideologica, accompagnata da una serie di concessioni da parte dello Stato, in cambio della solidarietà dei lavoratori con l’imperialismo americano. Ma è anche vero che il giorno in cui sorgerà negli States un autentico movimento di classe la esplosione sociale sarà colossale. Una eventuale terza guerra imperialistica, che colpirà necessariamente i finora intatti centri metropolitani USA, potrebbe risvegliare la classe operaia americana alla realtà storica. A più forte ragione una vittoria rivoluzionaria del proletariato europeo avrà un effetto molto più diretto e determinante della stessa rivoluzione d’Ottobre.

Gli USA costituiscono, quindi, un’area di rivoluzione univoca e di tattica “diretta” del futuro partito comunista rivoluzionario, in quanto è impensabile un governo “di sinistra”, un’influenza opportunistica per la quale mancano le sue condizioni storiche (tradizione) e politiche (frammentazione politica ed economica). Riteniamo che negli USA il movimento sorgerà rivoluzionario o non sorgerà affatto per molti decenni ancora. Non si presentano condizioni per vie di mezzo, per sviluppi ingannevoli di tipo socialdemocratico. L’anticomunismo “viscerale”, aperto, “costituzionale” degli USA è premessa dialettica al comunismo rivoluzionario altrettanto aperto, deciso, intransigente.

Nell’area americana, come ci mostra il grafico, l’efficienza del capitalismo, o vettore dello Stato, sembra indipendente dallo sviluppo economico e dalle lotte spontanee del proletariato. La grande crisi economica e le rare ma possenti lotte operaie non hanno determinato né oscillazioni né indebolimento della potenza del capitalismo americano, dimostrando che quelle senza la presenza del partito politico di classe, comunista e rivoluzionario, non sono in grado di trasformare la quantità in qualità.

Da un punto di vista politico, il capitalismo americano ha avuto bisogno per dominare sulla classe operaia di dominare i sindacati operai, dopo averli plasmati con la democrazia. Il fascismo europeo ha distrutto con la forza le associazione operaie rosse per dominare il proletariato e legarlo al suo carro con sindacati statali. Il totalitarismo statale americano ha avuto la possibilità di trasformare in maniera indolore i sindacati operai in sindacati al suo servizio. Il processo opposto, di rinascita cioè di rosse associazioni operaie di difesa economica, cozzerà direttamente contro lo Stato centrale e coinciderà con il ritorno alla lotta di classe del proletariato americano, che sarà per questo mille volte molto più violenta e feroce che nel passato.

 

 

C – Area inglese

I quadri sintetici che stiamo svolgendo prendono in considerazione gli ultimi settantacinque anni dell’era presente ed il tracciato delle curve e più ancora dei vettori appare insufficiente a spiegare i complessi fenomeni che stiamo studiando, di modo che siamo costretti a tratteggiare schematicamente la storia precedente nella quale affondano le radici delle condizioni odierne delle classi protagoniste e delle forze materiali che animano la storia. La storia compie certi “scherzi”.

Per secoli la borghesia ha covato sotto le ceneri la sua immane forza, ora affermando il suo avvenire in esplosioni momentanee in un punto, ora nell’altro; ora progredendo in uno sforzo ideologico superbo là dove lo scontro sociale ed anche armato si è sopito e le forze produttive hanno spostato la geografia del loro sviluppo in regioni opposte; ora la scienza si è fatta “terrena” spezzando lo spesso e secolare diaframma religioso, anticipata nella geniale intuizione formale dell’arte che trasforma in spontanee e impudenti pose gli ieratici simboli dell’immobilità di un mondo, che può sperare ancora di vivere a patto che gli ordini, chiusi in se stessi, non si trasformino in classi aperte di anonimi individui.

La borghesia inglese è la prima a vincere nella storia dopo mille battaglie combattute e perdute da altre “repubbliche civiche” che l’avevano violentata e forzata in gloriosi squarci di cui si insegna solo la bellezza dell’espressione letteraria e figurativa, la genialità dell’elemento nazionale e razziale e l’eroismo individuale, ma di cui si nasconde il potente significato storico di classe.

Il proletariato inglese è il primo che esprime in maniera robusta un movimento associativo di classe. Appena sorgono le prime macchine a vapore che rivoluzionano la manifattura, questo primo immenso bagno penale del lavoro, sorgono le prime coalizioni operaie, le prime lotte sanguinose, i primi scioperi, il primo movimento organizzato, il luddismo, le prime leggi borghesi per il libero ed indiscriminato sfruttamento della forza-lavoro. Nel 1824 il Parlamento abroga i precedenti divieti e ammette le coalizioni operaie. La borghesia riconosce realisticamente che le conviene legalizzare il mercato del lavoro e irretire la classe operaia nelle Trade Unions, il cui significato letterale ben ne traduce il carattere corporativo: “unioni di commercio”, allo stesso modo che in Francia dove sorsero più tardi le Bourse du Travail, le Borse del lavoro per la contrattazione del prezzo del lavoro, del salario.

 

LA PRIMA FORMA DI PARTITO

Engels definì il cartismo inglese «il movimento della classe operaia e il primo movimento politico indipendente del proletariato». Un fatto storico di portata mondiale che seguì le violente lotte degli operai e le feroci repressioni della polizia, il movimento per la distruzione delle macchine (luddismo), e il diritto di coalizione. Si separava l’organizzazione politica, il partito politico, da quella economica. Nel separarsi organizzativo si giungeva anche alla separazione dell’azione e del coordinamento politico della lotta economica. Le Unions perdettero la verve politica per limitarsi alle conquiste economiche e solo nella lotta per le 10 ore e con la nascita della Prima Internazionale si riallacciò il rapporto tra organizzazione sindacale e partito.

Man mano che il sindacato si potenziava numericamente, si legava sempre più al regime borghese. La “padrona del mondo”, la borghesia inglese, corrompeva la parte aristocratica del proletariato barattando le briciole del bottino coloniale e della rapina imperialistica, in cambio della collaborazione di classe, del silenzio operaio nella storia. In tal modo la borghesia capitalistica inglese poteva spadroneggiare liberamente e imporre al mondo le sue leggi di rapina, i suoi costumi, la sua lingua, insegnando alle sue consorelle come si combatte e si corrompe, come si svirilizza e si acqueta il gigante proletario. Il “modello inglese” è stato di esempio sino alla prima guerra mondiale, sino a quando l’Ottobre, da un lato, e la sua naturale reazione, il fascismo, o “modello italiano”, dall’altro, hanno riportato le classi a rendere ragione della loro esistenza, a compiere il loro dovere storico.

La società divisa in classi dimostra il massimo della sua insipienza, di agglomerato preistorico, proprio quando le classi che la compongono si nascondono, si mimetizzano in una pretesa e informe unità. È solo nell’urto violento, nello scontro alla morte, che si esalta la dinamica della classe rivoluzionaria acceleratrice della marcia degli uomini verso un assetto superiore.

Area inglese

Il grafico descrive questi elementi deludenti. Nel paese del capitalismo più forte, meglio organizzato, in cui il proletariato ha costruito le sue estese organizzazioni economiche, ha espresso la prima forma di partito indipendente, ha partecipato attivamente alla Prima Internazionale proletaria, dove ha un “potere contrattuale” economico che esercita con azioni di sciopero potenti, il proletariato è incapace di ritrovare sé stesso. La curva della spontaneità, degli scioperi, quella tratteggiata, si svolge ininterrottamente fino ad oggi, persino durante le due guerre, malgrado l’adesione dei sindacati alle guerre imperialistiche, cioè ad una più stretta e coerente solidarietà con lo Stato borghese. Dal 1918 al 1926 il movimento di sciopero assume intensità eccezionale.

L’ala sinistra del Partito Socialista aveva aderito a Zimmerwald. Nel 1920 sorge il Partito Comunista dalla unione di questa sinistra socialista, del Partito Operaio Indipendente e del Partito Operaio Socialista Scozzese, che durante la guerra aveva tenuto posizione intransigente. Il P.C. muore anch’esso, come tutte le sezioni del Comintern, nella tragedia della rivoluzione Russa.

Sarà il proletariato inglese capace di esprimere un nuovo e più potente “cartismo” moderno e marxista ora che vengono meno persino le briciole del banchetto imperialista, per aver perduto Albione il primato nel mondo capitalistico? I fatti confermano il nostro assunto.

Il partito “operaio” inglese, il partito laburista, condivide ormai con il classico partito borghese, quello conservatore, responsabilità di governo, alternandosi alla direzione dello Stato a seconda delle esigenze di conservazione sociale. È il partito opportunista per eccellenza, è l’espressione dell’opportunismo in permanenza, la sinistra della borghesia. Per mezzo della sua opera corruttrice lo Stato è uscito indenne dalla tempesta del primo dopo-guerra. Per opera dell’opportunismo internazionale, ispirato a Mosca, ha superato la seconda guerra imperialistica. Se la prossima crisi mondiale dell’economia capitalistica riporterà il proletariato alla lotta di classe diretta e l’opportunismo sarà sconfitto, l’immancabile movimento di sciopero del proletariato inglese riavrà le condizioni per esprimere il Partito di classe.

 

 

 


Il Partito Comunista n.11, luglio 1975

  

PRIME RIFLESSIONI

L’oggetto principale di questo lavoro è costituito dalla rilevazione empirica del comportamento delle forze sociali in campo nella storia delle classi in regime capitalistico. Alle cause si accenna di passaggio, importandoci constatare le “costanti” che in ogni area storica prescelta si affermano.

Tutto il processo storico è caratterizzato dalla forza-partito, alla quale il marxismo rivoluzionario ha affidato un ruolo primario, insostituibile. Il proletariato non può elevarsi al di sopra della contingenza senza la direzione di questa forza storica, che possiede la coscienza dello sviluppo generale della lotta di classe. L’istinto operaio non ha mai prodotto il partito di classe che, invece è il risultato storico del congiungersi di una dottrina di classe, ancora imperfetta o perfetta che sia, col movimento reale proletario in una organizzazione autonoma e indipendente dalle altre classi.

L’intuizione “cartista” è la manifestazione grezza della coscienza di classe, che consente al proletariato inglese di fronteggiare come classe lo Stato. Questa intuizione non la si ritrova negli USA, e il movimento di sciopero gira attorno a sé stesso senza poter sostenere un’azione continua per il potere. Al contrario, nell’area Russa la dottrina marxista importata dall’Europa vivifica e sostanzia il movimento operaio ed influenza anche il movimento democratico borghese. Subito viene in luce il carattere invariante e primario del programma, e quello selettivo storico della forma partito, da cui deduciamo un primo risultato: il partito comunista a programma marxista rivoluzionario è la forma fenomenica di partito più adeguata per la rivoluzione proletaria, è la forma finalmente scoperta.

La spontaneità genera molteplici forme associative sia nel campo economico, come sindacati, leghe professionali, associazioni mutualistiche e resistenziali, sia nel campo politico come i soviet. Non sono il partito.

L’anarchismo possiamo definirlo “partito” per avere una dottrina ed una organizzazione che si sforza di accreditare nel movimento operaio. Quanto alla dottrina anarchica il marxismo ha sin dai tempi di Marx dimostrato quanto sia fallace e contraddittoria, quanto alla prassi dell’anarchismo i fatti storici ne hanno confermato il carattere fondamentalmente democratico e anticomunista, fuori del campo della rivoluzione proletaria.

Parliamo di partiti e indirizzi programmatici e politici, non di lavoratori e operai, suscettibili tutti, quale che sia la loro fede religiosa e politica, di schierarsi nell’esercito combattente per il comunismo.

Il partito laburista ha le caratteristiche del partito tipico della spontaneità: senza dottrina, con organizzazione labile e poggiante sulle unioni sindacali, ma con un indirizzo politico sicuro e certo che si concretizza nella precisa volontà di restare nell’ambito della democrazia borghese. La spontaneità può generare solo partiti anticomunisti, antirivoluzionari, quand’anche inquadrino esclusivamente operai.

Da ciò si deduce che nel processo storico si è giunti ad un punto cruciale: non basta un partito qualsiasi, ma è indispensabile un solo ed unico partito, precisamente il partito comunista rivoluzionario. Per cui tutti gli altri partiti, quale che sia la loro fisionomia esteriore, sono fuori dal campo della rivoluzione proletaria e socialista.

L’esempio inglese ci insegna che quando la lotta spontanea degli operai è priva della direzione politica di classe può esprimere al massimo un partito costretto a collocarsi nel campo della borghesia con movenze radicali, nulla di più. Ed infatti l’unica tattica utilizzata è stata legalitaria e ministeriale. Il movimento di sciopero è stato utilizzato a sostegno di questa tattica. La spontaneità è stata sottomessa allo Stato.

Qualsiasi tattica, da qualunque partito svolta, che non elevi la spontaneità alla coscienza di classe, comprime e deprime la spontaneità stessa e subordina gli interessi immediati della classe a quelli permanenti, di conservazione, al regime capitalistico che, non va dimenticato, per la sua natura contraddittoria, è esso stesso fonte inesauribile di spontaneità. Nel capitalismo essa è insopprimibile. Non la si supera negandola, né subordinandovisi, ma con una tattica acuta e coerente, tesa verso lo sbocco rivoluzionario in un potere proletario dittatoriale e totalitario, nel quale soltanto le contraddizioni tendono ad esaurirsi in un processo di controllo e dominio sull’economia. Per queste stesse ragioni deterministiche, l’alternativa opposta è la sottomissione della spontaneità alla Stato borghese. La lotta per il controllo e la direzione della spontaneità operaia si sostanzia nella lotta fra due forze sociali di segno opposto, il partito politico di classe e lo Stato capitalista e si compendia nella lotta per la direzione della organizzazione degli operai, nello scontro tra due classi, due tattiche inconciliabili. Non ne è data una terza.

Nell’esaminare l’area tedesca e italiana constateremo da una angolatura diversa queste affermazioni e rileveremo l’importanza decisiva della tattica. Intanto va ribadito che la spontaneità della classe proletaria è una forza insopprimibile in regime borghese, su cui il partito deve poggiare la sua azione rivoluzionaria.

 

 

D – Area francese

Se la rivoluzione in Francia del 1848 fece dire a Marx che il movimento proletario francese rappresentava l’intelligenza politica della classe, oggi è da constatare che questa antica intelligenza, costretta nella democrazia, è stata posta a rimorchio del capitalismo. La Francia è la madre della democrazia, del metodo politico che diluisce le classi nel popolo, che vuole la classe operaia forza indistinta nel magma sociale, soprattutto impedendole di costituirsi in partito politico autonomo e indipendente dagli altri partiti, di organizzarsi come corpo sociale separato dal restante della società sulla base di un programma esclusivo, il programma comunista.

Nel campo politico, della lotta per il potere, la democrazia ha per un verso trionfato coprendo d’orpello populista la natura dispotica del capitalismo, per l’altro ha fallito, manifestandosi un ostacolo al totale dispiegamento della dittatura borghese. È su questo terreno contraddittorio che l’opportunismo, materialmente sostenuto dalla borghesia, si insinua e si accampa nel proletariato, assumendo i più svariati aspetti. Il proudhonismo ha fatto scuola a tutti i movimenti e partiti non marxisti rivoluzionari, sino al sindacalismo anarchico, al corporativismo fascista e allo stalinismo, e a maggior ragione agli epigoni odierni. A siffatta scuola il partito francese ha preteso di impastare marxismo e populismo, con cui ha creduto di giustificare la legittimità dei sussulti operai e l’appoggio alla borghesia nella prima guerra imperialistica, la adesione, ambigua e sorniona, al Comintern e la pretesa di una libertà tattica speciale, il nazionalismo più feroce sia nella partecipazione alla seconda guerra sia al massacro dei democratici rivoluzionari nelle colonie.

La Sinistra conosceva bene le insidie del trasformismo secolare della democrazia, esemplificato alla perfezione da quel tale Cachin, venuto a Mosca rivoluzionaria come comunista nel 1920, dopo essere stato a Milano come borghese nel 1914 a finanziare il Popolo d’Italia di Mussolini e in qualità di agente dello Stato francese per portare l’Italia nella Triplice Intesa. La Sinistra si batté fino all’ultimo perché l’Internazionale Comunista tenesse in debito conto l’esperienza storica del proletariato rivoluzionario vissuta e sofferta nei regimi democratici, e non si affidasse esclusivamente alla esperienza russa, che aveva avuto la fortuna di non passare tra le trappole della democrazia, strangolata ancora prima di nascere dalla guardia rossa bolscevica.

Tutt’ora il problema è sul tappeto. In nome della democrazia e del comunismo, accoppiamento aberrante al 1975 nelle aree di rivoluzione monoclassista e monopartitica, si tiene la classe operaia a disposizione delle più ignobili manovre conservatrici e reazionarie.

Il “fascismo democratico” odierno in Francia rappresentato dal regime presidenziale riesce a nascondere al proletariato, dietro il paludamento democratico e parlamentare l’intima natura capitalista del regime. Ma perché questo travestimento fosse reso possibile è stato necessario tenere il P.C. vincolato alla democrazia. Si pensi per un attimo ad un partito saldamente su posizioni comuniste rivoluzionarie. In questo caso la Repubblica presidenziale borghese sarebbe costretta a svelare il suo carattere antiproletario e anticomunista, ad ammettere che la veste democratica serve ad ingannare i proletari e dovrebbe necessariamente buttarla. Quale formidabile risultato storico sarebbe! Lo stesso risultato per il quale il comunismo rivoluzionario, anche quando ha dovuto lottare per la conquista della democrazia (vedi Russia di Lenin e il Manifesto di K.Marx) si è sempre battuto per superarla, non per adagiarvisi.

In linea con questo senso realistico della storia non ci addolorammo ne avvilimmo perché la democrazia si era trasformata in fascismo. Gridammo alla borghesia, costretta suo malgrado a scendere in campo aperto: ora a noi due! Senza intermediari tra proletariato e capitalismo, senza mezzani a fare da paciere tra le due classi opposte, la partita si sarebbe conclusa vittoriosamente da un pezzo. Gli intermediari e i pacieri hanno consentito alle classi superiori di escogitare mezzi e tattiche più adeguati a perpetrare la loro signoria dispotica sulle classi lavoratrici. Appare chiaro, allora, il contenuto della tattica comunista: nessuna alleanza o accordo tra il partito di classe e gli altri partiti o ali di partiti, vale a dire nessuna tattica democratica. Chiunque non si pone fuori e contro la democrazia in maniera rivoluzionaria impedisce lo scontro di classe.

Questo precetto tattico ci proviene non da una “ideologia”, ma dalla viva esperienza della lotta di classe, che nell’area francese ha consentito al partito politico del proletariato di trarre abbondanti lezioni. Dal movimento operaio francese abbiamo imparato quanto sia perfida la infezione democratica. Non a caso dalla Francia è uscita la tragica e logica conclusione del fronte unico politico, imposto al movimento comunista dalla Internazionale, cioè il “Fronte Popolare”, premessa all’ancora più infame “Fronte di resistenza patriottica” nel secondo massacro mondiale.

I continui sacrifici, allora, del proletariato, le rinunce, la fame e la miseria, sebbene la lotta sindacale per il salario e il lavoro, che pure il democraticume non nega, han servito alla perpetuazione del regime borghese, anziché come leve potenti, e più potenti rese da una direzione veramente comunista, per distruggere la demente follia di un mondo che si compiace di essere pluralistico, contraddittorio, libero mentre dissipa incalcolabili energie in attesa di distruggere una parte dei produttori stessi.

 

DIAGRAMMA DI CURVE E VETTORI

La curva della produzione ha un andamento sostanzialmente identico a quello degli altri paesi. Basterebbe questa elementare considerazione per constatare che non esiste una economia nazionale da quando si è formato il mercato mondiale, ergo le economie cosiddette nazionali dipendono tutte dal mercato mondiale e la politica nazionale altro non è che il modo di partecipare delle singole borghesie locali alla estorsione e alla ripartizione del plusvalore prodotto localmente dalla classe operaia. Ancora più visibile la bestialità in dottrina e l’infamia in politica del “socialismo in solo paese”, soprattutto nella fase imperialistica.

Un andamento simile agli altri paesi si ha per la curva della spontaneità, con una maggiore accentuazione del movimento di sciopero in presenza del Partito, nel 1920, non perché il partito l’avesse determinato, ma perché dal partito aveva tratto un rinvigorimento.

Il Partito Socialista in Francia era sorto dalla confluenza del Partito Operaio Socialista Rivoluzionario, del Partito Socialista di Francia, con Guesde, del Partito Socialista Francese, con J. Jaurès, e delle Federazioni Autonome. Partito ultrariformista e ministerialista, suscitò con la sua azione opportunistica vergognosa il revisionismo sindacalista rivoluzionario di G. Sorel e l’antimilitarismo di Hervé. È inutile dire che tutti aderirono, assieme alla Centrale Sindacale, alla guerra imperialistica, con la sola eccezione di J. Jaurés che probabilmente non ne ebbe il tempo, essendo stato assassinato alla vigilia dello scoppio della guerra, per aver condotto un’intensa e passionale campagna antibellica.

Il Partito Comunista sorse a Tours nel 1920 dalla scissione del PSF. Nel diagramma l’evento è rappresentato dalla biforcazione del vettore-partito.

Il proletariato, sottoposto dalla guerra a durissimi sacrifici, al dissanguamento al fronte, con l’armistizio subì fame e disoccupazione, per cui ripresero gli scioperi che furono imponenti.

Pur in presenza del Partito e dell’Internazionale, lo Stato rimase saldo e il suo potere intatto. Il Partito muore nel 1926, come negli altri paesi, dopo prove sempre più infelici. L’opportunismo rafforza e potenzia la sua egemonia sulla classe.

Si noti che la presa opportunistica si era allentata col costituirsi del Partito Comunista, mentre le lotte immediate dei lavoratori non cessavano. Il periodo di minor attività delle masse guarda caso, coincide con il Fronte Popolare, preludio alla seconda guerra imperialistica.

Dopo la scomparsa del Partito Comunista nel 1926, il movimento anarco-sindacalista continua la sua attività, dopo aver confluito assieme alle bande herveiste e alla socialdemocrazia nella prima grande guerra. Oggi il contenuto del sindacalismo trionfa nelle Centrali sindacali di tutti i paesi. Lo rileviamo dalla Risoluzione del 1906, detta Carta d’Amiens: «Il Sindacato, oggi organizzazione di resistenza, sarà nell’avvenire meccanismo di produzione e ripartizione, mezzo dell’organizzazione sociale»; non consentirà all’operaio di «introdurre nel Sindacato le opinioni che egli professa fuori». Oggi che esplicita ed operante è la solidarietà tra i partiti opportunisti e il sindacalismo divenuto tricolore, questi organismi tutti, sebbene si autodefiniscano di classe, sono costituzionalmente e politicamente al servizio dello Stato borghese.

È certo che è stata la prima guerra imperialista e la Rivoluzione d’Ottobre, vale a dire la dimostrazione fenomenica dei mezzi pratici fondamentali di due distinte e opposte classi, la borghese e la proletaria, a separare violentemente e irreversibilmente le forze politiche in campo. In presenza di questi due colossali avvenimenti storici, nel campo della borghesia è rifluito tutto ciò che di impreparato, di indefinito era nella società. Lo Stato borghese ha stretto a sé tutte le forze che volenti o nolenti dovranno scomparire con il modo capitalistico di produzione e di proprietà. La borghesia ne ha assorbito i singoli metodi di lotta ed i mezzi, sforzandosi persino di sottomettere non poche forme e armi del proletariato, volgendole a proprio favore, anche quando in fasi precedenti le si erano rivolte contro.

Area francese

Nel campo rivoluzionario, al contrario, si è cristallizzato il solo proletariato. Il Partito di classe si pone alla testa di tutte le forze proletarie, attraendo nella sua disciplinata e complessa attività centralmente organizzata e diretta quelle più devote e decise ed anche i veri e sinceri transfughi del nemico. Il Partito deve scolpire e precisare sempre più acutamente tutta la sua azione in ogni campo, il che vale liberare l’azione dottrinaria e pratica di classe dall’indistinto magma sociale, che nei secoli di soggezione del lavoro alle ingorde classi possidenti ha soffocato il faticoso ritorno dell’umanità al comunismo. Il Partito ha sperimentato nel fuoco delle lotte di classe che il pericolo maggiore per la vittoria è sempre venuto dalle suggestioni emananti dalle mezze classi. Le “idee madri” del capitale si sono infiltrate in modo vieppiù pericoloso, piuttosto che direttamente, per mezzo dei canali dei partiti piccolo-borghesi, opportunisti e pseudo rivoluzionari, con ingannevoli contorni in rosso.

La Guerra imperialistica e la Rivoluzione comunista, quindi, hanno ridotto la democrazia alle sole e vuote espressioni elettorali, parlamentari, formali, di cui la borghesia si serve per continuare l’inganno verso il proletariato, sinché questi non rialzerà la testa.

 

 

 


Il Partito Comunista n.13, settembre 1975

 

E – Germania

In Germania si è avuto il tragico epilogo della Rivoluzione proletaria in Europa del primo dopo-guerra, essendo convinzione unanime dei comunisti che la chiave di volta della strategia rivoluzionaria era lo sfondamento del fronte capitalistico in Germania. Se così fosse stato, la Rivoluzione avrebbe trionfato e la storia avrebbe avuto un corso sostanzialmente diverso ed oggi il vero Partito Comunista non sarebbe confinato nel ghetto dell’isolamento.

Il principale nemico della Rivoluzione furono la democrazia e i partiti “operai” che aggiogarono il proletariato alla democrazia, ma è anche certo che una grave responsabilità della sconfitta tedesca va addebitata alla oscillante politica dell’Esecutivo della Terza Internazionale.

Il terzo Congresso del Comintern aveva giustamente rilevato che la sconfitta delle giornate di marzo 1921 in Germania doveva essere attribuita alla mancanza di un’adeguata preparazione non solo del partito tedesco ma anche dell’Internazionale in generale. Il Congresso concluse quindi che si dovesse marciare «verso il potere prima conquistando le masse», usando l’espressione corretta e marxista di Lenin e Trotski e pienamente condivisa dalla Sinistra in Italia.

Però lo stesso terzo Congresso – nel quale Lenin in persona dovette intervenire in modo tale da apparire quasi un “destro” per battere in breccia tendenze “offensivistiche” che minacciavano di svalutare la corretta impostazione della tattica di conquista delle masse, intervento che più tardi lo stesso Lenin dichiarerà essere stato troppo pesante – lasciava adito a diverse interpretazioni circa la tattica da esso enunciata, la più strana delle quali era quella che si dovesse intendere la «conquista della maggioranza delle masse» nel senso insidioso democratico e democratico-parlamentare, purtroppo successivamente tradotto in realtà.

Alla fine di quell’anno 1921 l’Esecutivo varò anche la tattica del Fronte unico, conseguente all’indirizzo del Congresso. Ben presto il Fronte unico fu concepito come “politico” e lo svolgimento pratico di tale tattica nei partiti comunisti si svolse nel senso della ricerca di alleanze tra partiti comunisti e partiti o ali di partiti socialdemocratici o “operai”, spostando alla fine tutto l’asse portante della tattica rivoluzionaria, che consisteva nello svuotamento dell’influenza di tali partiti sul proletariato.

La Sinistra partiva dalla considerazione che non si dovessero stabilire alleanze di nessun genere e in nessun campo con altri partiti, e non bastava declamare a gran voce di voler conservare la più stretta autonomia e indipendenza programmatica del partito. L’argomento di fondo era che simili fronti “politici” avrebbero ineluttabilmente portato, se non formalmente di fatto, allo snaturamento della lotta del partito e alla commistione dei piani tattici. Se il comporre e scomporre combinazioni politiche di ogni genere è pane quotidiano per i partiti borghesi e opportunisti, diventa esiziale per il partito comunista, la cui forza di convincimento poggia esclusivamente sulla chiarezza programmatica e tattica che si manifesta nella netta separazione del partito da tutti gli altri partiti nel campo del programma, della tattica e dell’organizzazione. L’azione del partito deve essere tale che sia presentita dalla classe operaia, in modo che ogni punto successivo della tattica del partito appaia alle masse come logica ed attesa conseguenza, fino al suo epilogo insurrezionale, verso cui tende l’azione complessiva del partito comunista, ma contro cui lotta con tutte le forze la pleiade dei partiti opportunisti e di fatto anche dei partiti anarchici e sindacalisti, sotto il pretesto di non voler sottostare alla dittatura del partito comunista.

Il “fronte unico dal basso” concepito dalla Sinistra mirava alla unificazione del proletariato sul terreno comune della difesa con tutti i mezzi e senza esclusione di colpi degli interessi vitali immediati dei salariati, e quindi nelle organizzazioni di classe del proletariato, sindacati, consigli ecc. di cui si auspicava l’affasciamento, al di là degli inquadramenti politici dei partiti, che dinanzi a questa proposta comunista, rispondente ai reali interessi proletari, dovevano fare i conti nel senso di screditarsi presso la classe se non avessero consentito ai proletari che rispettivamente inquadravano di seguirla, ovvero di accettare la superiorità del metodo comunista e di consentire agli operai di passare sotto le bandiere del comunismo rivoluzionario.

La polemica sul Fronte unico si intrecciava ovviamente con quella della “conquista della maggioranza” ed ambedue caratterizzavano bene le continue oscillazioni nell’indirizzo dell’Internazionale, e di conseguenza dei partiti aderenti. Nei partiti come il francese in cui la predisposizione a tendere a “destra” era quasi connaturata, la interpretazione incoerente sia del Fronte unico sia della “conquista delle masse” era scontata; nei partiti, come appunto il tedesco, che soffrivano di un ritardo programmatico e dottrinale, a un insuccesso, come il marzo ’21, addebitato alla direzione di “sinistra”, si credette di riparare passando ad una di “destra”.

Queste oscillazioni, che furono un vero capestro della rivoluzione, particolarmente in Germania, non si possono spiegare semplicemente o solamente con carenze soggettive dei dirigenti, della direzione del partito, cadendo in una sorta di moralismo. Il partito ha gli uomini che esprime la sua tattica, e non viceversa. La debolezza, l’incertezza, l’inettitudine sono caratteristiche proprie di dirigenti che adottano una tattica debole, incerta, inetta, incoerente, oscillante.

Perciò la Sinistra ritenne anche inadeguato, dopo la sconfitta del ‘23 tedesco, sostituire la direzione del partito tedesco, ritenuta “debole” e di “destra”, con una “più forte” e di “sinistra”, in parallelo con la semplicistica manovra del quinto Congresso dell’Internazionale di varare una tattica di “sinistra” che avrebbe dovuto correggere gli errori di quella impostata al quarto Congresso. La Sinistra ritenne giustamente che queste manovre non avrebbero apportato un coefficiente di robustezza ai partiti e che significavano invece un preoccupante sintomo di profonda debolezza dell’Internazionale dal quale sarebbe potuto scaturire una sorta di revisionismo se non si fossero, con tutta urgenza e impegno, studiate oggettivamente le cause di tale situazione generale del movimento comunista mondiale.

 
IL RUOLO CONTRORIVOLUZIONARIO DELL’OPPORTUNISMO SOCIALDEMOCRATICO

Abbiamo voluto anche graficamente evidenziare la strettissima alleanza della socialdemocrazia con lo Stato, cosicché i due vettori dell’efficienza dell’opportunismo e della reazione appaiono uno solo, il vettore della controrivoluzione. Allora appariva mostruoso che il grande, il più grande e carico di gloria, partito operaio della II Internazionale, il partito di Engels, imbevuto di marxismo, la socialdemocrazia di Germania, avesse aderito alla prima guerra imperialistica mondiale, e che successivamente, nel volgersi sfavorevole agli imperi centrali il conflitto, optato per una pace negoziata, voltasse le spalle alle aspirazioni dei diseredati, dei proletari e dei piccoli contadini, dei salariati agricoli e dei braccianti.

Tutta la storia, tragico-grottesca, della cosiddetta Repubblica di Weimar è la storia del tradimento della socialdemocrazia. La grande borghesia che ha accumulato colossali fortune con la guerra celandosi sotto l’elmo chiodato imperiale, dopo un timido tentativo di utilizzare ancora il personale meno compromesso dei circoli politici tradizionali, appena avverte il brontolio delle masse che reclamano la Repubblica e la Repubblica dei Consigli, memore della fedeltà della socialdemocrazia alla nazione, all’ordine, alla bandiera, non trova di meglio che farsi rappresentare da questo partito. Il quale, malgrado l’infame voltafaccia dell’agosto ’14, ancora organizza il proletariato, lo influenza, ne guida i sindacati e, tramite l’ala degli Indipendenti, una specie di “serratiani” italiani, tiene a bada la parte radicale degli operai e dei Consigli.

È proprio questa ala, costituitasi in Partito Indipendente (USPD) nel marzo 1917 che ha coperto da “sinistra” le infamie della madre socialdemocratica (SPD) e ha dato al proletariato la parvenza che finalmente il socialismo della Repubblica dei Consigli fosse giunto, seppure molto tranquillamente, senza rivoluzione violenta e spargimento di sangue nelle brume del 1918. È naturale che il governo di questa fantomatica Repubblica “sovietica” dovesse essere formato da quegli Indipendenti che nell’ultimo anno di guerra, vista la brutta piega delle cose, si erano buttati a “sinistra” e dal SPD che influenzava pur sempre il grosso dei lavoratori. Tuttavia la borghesia, come misura di interessata prudenza, pretese che dietro i “Sei Commissari di Popolo”, tre SPD e tre USPD, ci fossero ministri di Stato e sottosegretari dei partiti borghesi del Centro Cattolico, del Partito Popolare e di quello Liberale. Neanche molto coperta la natura equivoca di questo governo “sovietico” che presentava un frontespizio “rosso” dietro il quale nei punti effettivi del potere stavano gli uomini della borghesia, nell’amministrazione statale e nella Reichswehr, l’esercito, ancora inquadrato dalla rigida casta militare dei Ludendorf, Hindenburg, alla cui scuola crescevano brillantemente i nuovi generali “democratici” che si faranno onore nelle repressioni antiproletarie e quelli “nazisti” che ne erediteranno legittimamente le funzioni anticomuniste.

Area tedesca

La Lega Spartaco, la Sinistra marxista rivoluzionaria, che si era staccata dalla socialdemocrazia assieme agli indipendenti, con cui confluiva nell’USPD, denuncia la turlupinatura del governo dei Consigli, si stacca dall’USPD e nel dicembre del ’18 si costituisce in Partito Comunista di Germania (KPD). Nel gennaio il governo “sovietico” SPD-USPD apre subito le ostilità contro i Consigli e quindi contro gli spartachisti. La persecuzione contro i comunisti è diretta personalmente dal “commissario” Noske e culmina nel duplice assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, capi del KPD. Sul ristabilito “ordine a Berlino” sorge l’Assemblea Nazionale di Weimar, la repubblica democratica tedesca, il cui primo presidente fu il socialdemocratico Ebert, il “sellaio”. Gli Indipendenti dimostrano il loro “cordoglio” per gli assassinii, di cui condividono la responsabilità, dimettendosi.

Succede il Governo misto SPD e Centro. La borghesia ora può mettere in primo piano i suoi uomini. Il pericolo è passato. Intanto si intensificano le repressioni e proletari e marinai vengono fucilati in massa. Il governo della repubblica democratica, sotto la parola d’ordine «Per la calma e l’ordine e contro Spartaco», dà mano libera a tutta la canaglia dei “corpi franchi”, milizie private raccolte tra sottoproletari, ufficiali, piccolo-borghesi rovinati dalla guerra, studenti. Le cronache registrano sino al giugno 1921 quasi ininterrottamente assassinii di proletari, distruzioni di sedi di partito e organizzazioni operaie. All’odiato governo SPD si affiancano di volta in volta i partiti del grande capitale e man mano che si allontana lo spettro degli spartachisti prendono sempre più piede nel governo gli uomini del grande capitale. Ma quando al situazione si fa di nuovo critica tornano in evidenza gli uomini della socialdemocrazia. Così fu nelle giornate di marzo 1921 e in quelle dell’ottobre 1923. È la stessa socialdemocrazia che farà eleggere con i suoi voti il supergeneralissimo Hindenburg a presidente del Reich, sotto il cui elmo, sempre in maniera indolore, sarà espulsa la SPD e, con il primo governo dittatoriale di Bruning, costituzionalmente preferito dal grande capitale, cala il sipario sulla Repubblica democratica e prende avvio la tragicommedia di Hitler, anch’egli popolarmente e democraticamente eletto in stile mussoliniano.

Storia solo della Socialdemocrazia tedesca, del tradimento dell’opportunismo in Germania? De te fabula narratur, è di te, opportunismo di ogni tempo e colore, che la storia parla. È la storia di oggi, di qui e di altrove.

 

CORRELAZIONI SCONCERTANTI

Senza il sostegno della borghesia e il suo apparato amministrativo e statale l’SPD non solo non avrebbe formato i governi del Reich ma non avrebbe potuto contrastare il passo alla rivoluzione. Che la socialdemocrazia servisse soltanto da paravento agli interessi del capitalismo lo dimostra tutta la politica governativa SPD. Il partito socialdemocratico era stato chiamato a dirigere il governo non perché svolgesse una sua politica nei vari campi della economia, delle riforme sociali, dell’amministrazione, ma solo ed esclusivamente per contrastare il passo al proletariato rivoluzionario e a tenere lontane dal potere le masse operaie e le loro organizzazioni di classe. Non si chiedeva di più a questo partito, come non si chiede ai prezzolati che si sostituiscano ai corruttori, e quand’anche l’euforia del potere giocasse un tale scherzo la sferza del padrone colpirebbe senza pietà. Al governo dei “commissari” fu permesso di enunciare il “programma sociale” della giornata di otto ore, dell’assicurazione per la disoccupazione e dei consigli di fabbrica, che, in una situazione economica di dissesto e in un clima di agitazione sociale, contribuirono ad attenuare e stornare il radicalismo operaio, insufficientemente diretto dal KPD.

Ma il governo SPD non poté evitare che la crisi economica susseguente la guerra sfociasse nella iperbolica svalutazione del Marco e in un’inflazione galoppante ai limiti del collasso, che avrebbe potuto verificarsi nell’ottobre ’23 sotto forma di conquista del potere da parte di un KPD con un indirizzo comunista conseguente. Dal dissesto economico il capitalismo tedesco non sarebbe uscito, tra l’altro, se non fosse sopraggiunta l’aquila predatrice degli U.S.A. sotto la forma delle “sovvenzioni” del famigerato piano Dawes a rimettere in moto il meccanismo produttivo per consentire alla Germania di pagare le colossali riparazioni di guerra ai vincitori e alle potenze finanziarie, per prima l’America, mettendo in piedi il più grande affare del secolo, superato solo dal piano Marshall del secondo dopo-guerra. Il che conferma che le guerre sono un disastro per i popoli, ma un gigantesco affare per il capitalismo.

Si può sintetizzare la politica dei governi nel periodo cruciale 1918-1924 e la politica della Reichswehr: tutte le forze, tutti i mezzi sono direttamente tesi ad un solo fine, schiacciare la classe operaia, reprimerla, terrorizzarla. Mentre il personale dello Stato e di governo assolve a questo infame compito, la borghesia si fa i suoi affari, lucra su tutto, sulla disoccupazione, sugli scioperi, sull’inflazione, sul dissesto, abbassando i salari, discriminando tra gli operai, esportando merci a prezzi concorrenziali, concentrandosi i capitali per effetto del macello delle classi intermedie. La situazione era obbiettivamente rivoluzionaria, ma il partito l’avvertì in ritardo. Quando si mosse il momento cruciale era già passato, le masse non poterono rispondere all’appello. Fu la fine.

Come mai il partito non si accorse per tempo che stavano maturando le condizioni necessarie per l’assalto al potere? Neppure l’esecutivo dell’Internazionale vi si era preparato e solo Trotski denunciava da tempo la debolezza della direzione del partito tedesco e la sua politica di routine. Ma nessuno, eccetto la Sinistra del partito italiano, spiegava la «rilassatezza» e la «debolezza» del partito tedesco. Quando, dopo il disastro, si incolpò di non aver capito la politica del “governo operaio”, «male applicata» nell’infausto esperimento dei governi di Turingia e Sassonia, non si afferrò che l’esempio sassone era il risultato di un’impostazione tattica erronea, e non una cattiva applicazione di una tattica giusta. Il partito tedesco perseguiva la rivoluzione correndo dietro alla socialdemocrazia per intesseredi  fronti politici anche locali, imbevendosi di quelle maledette suggestioni demo-popolari con cui il rivoluzionarismo degli indipendenti, sposandosi con la forza solo numerica dei maggioritari SPD, aveva provocato e poi battuto il proletariato nel marzo ’21.

Anziché scalzare l’influenza e il prestigio della socialdemocrazia potenziando la tattica di conquista alla rivoluzione dei consigli di fabbrica, che si dimostravano aperti a funzioni di lotta per il potere, cercando salvezza nelle forme, la direzione del partito si disponeva a «creare i Soviet», in quel frangente storico in Germania doppioni, vuoti doppioni, dei consigli.

Nuova prova dell’ambiguità della politica dell’Internazionale in Germania la si ebbe nell’atteggiamento di fronte all’occupazione della Ruhr. Mentre il partito era contrario alla occupazione delle fabbriche e in genere a mettere in movimento gli operai, e si impegnava a cercare il collegamento con la II Internazionale e con l’Internazionale “2 e ½”, sistematicamente da queste respinto, arrivò, dopo le prove di sviscerato nazionalismo dell’SPD durante l’occupazione della Ruhr da parte delle truppe dell’Intesa, a civettare con il nazionalismo al fine di, si diceva, attrarre le forze della piccola borghesia e dei contadini, oggetto di assidua propaganda dei partiti borghesi e nazionalisti. Si giunse a strane formulazioni, «soltanto la classe lavoratrice, una volta riportata la vittoria, sarà in grado di difendere il suolo tedesco, i tesori della cultura tedesca e l’avvenire della nazione tedesca» (Dalla Risoluzione del C.E. del Comintern in merito alle divergenze in seno al KPD, aprile 1923).

Mentre la centrale era pressata da queste direttive distorte, restava sempre sotto la malefica suggestione delle direttive del fronte unico politico e del governo operaio, intesi nel senso della collaborazione anche parlamentare del KPD con la socialdemocrazia. Come poteva non solo il partito tedesco, ma qualsiasi altro partito, orientarsi correttamente e quindi agire di conseguenza in tale pestifera atmosfera?

La disfatta dell’ottobre tedesco va letta alla luce della tattica dubbia e oscillante imposta dall’Esecutivo dell’Internazionale, e non tanto delle capacità personali dei dirigenti del partito, da cui si pretendeva una vigoria rivoluzionaria da un Centro che li aveva allevati per due anni nelle esercitazioni del possibilismo e dell’attivismo.

 

 

 


Il Partito Comunista n.17 gennaio 1976
 

Bloccati al numero di settembre riprendiamo la trattazione della complessa e delicata materia, con l’auspicio di concludere senza soste, dovute peraltro agli impegni molteplici che il nostro giornale-rivista deve assolvere negli angusti limiti di spazio tipografico e di forze limitate.


E – GERMANIA (continua)

Con l’ottobre 1923 si esaurisce una situazione di lotte acute e sanguinose in Europa e segnatamente in Germania. Da allora, sebbene non siano mancati cataclismi economici, come la crisi del ’29, e disastri sociali come la sconfitta della rivoluzione cinese e la seconda guerra imperialistica, il proletariato non è più stato il protagonista storico attivo sulla scena della lotta di classe. Similmente è venuto a mancare anche l’organo essenziale della classe, il partito politico comunista rivoluzionario.

L’ottobre tedesco è stato, quindi, l’ultimo slancio di classe del proletariato nei paesi capitalistici sviluppati, e precisamente nel cuore dell’Europa, nell’epicentro dello scontro frontale tra le classi.

L’epilogo nazista è stato la diretta conseguenza della sconfitta del proletariato, la democrazia il prologo. Questa è stata affossata dalla stessa borghesia e non, purtroppo, dalla classe operaia che, in gran parte, inquadrata dall’opportunismo socialdemocratico, non è riuscita a sconfiggerla sul campo, dopo averla sconfitta sul terreno teorico e programmatico. Di conseguenza, se il fascismo rappresenta il modo più avanzato e moderno del dominio dittatoriale del capitalismo sul proletariato, in relazione all’avanzato sviluppo delle forze produttive, alla concentrazione e centralizzazione del capitale nella sua ultima metamorfosi in capitale finanziario, la democrazia, con tutte le sue suggestioni popolaresche, rinverdite dall’opportunismo ieri socialdemocratico oggi “comunista” dei partiti ufficiali richiamantisi, anche se sempre più blandamente, a Mosca o a Pechino, resta il pericoloso nemico che abbiamo sempre dovuto combattere e che, nelle giornate gloriose dell’altro ottobre vittorioso, quello russo, eravamo certi di dover sconfiggere definitivamente con il potere armato nelle mani proletarie, in una lotta lunga ma sicura contro quella che Lenin chiamava l’”abitudine”, il costume fallace e menzognero della democrazia, dell’individualismo, portato dal piccolo commercio, dalle mezze classi.

La seconda guerra imperiale ci ha regalato la soluzione meno favorevole alle sorti della rivoluzione, alla ripresa rivoluzionaria proletaria perché ha ridato prestigio alle pratiche ruffiane del democratismo, celando la sostanza del reale movimento storico del capitalismo fatto di totalitarismo statale capitalistico, per invischiare le classi diseredate, impedendo al proletariato di Occidente di scattare verso la sua univoca vittoria e alle classi subalterni dei paesi coloniali e arretrati di marciare risolutamente verso le premesse del socialismo.

Lo schema-Germania e lo schema-Italia, come vedremo, soprattutto ci forniscono l’esperienza storica della moderna lotta di classe, in cui i mezzi tattici che il nemico impiega contro il proletariato, fintanto che il suo fronte sarà sfondato in uno dei punti nevralgici e strategici, sono una mescolanza di mistificazioni democratiche e di terrorismo statale e parastatale, la cui copertura più efficace è rappresentata dall’opportunismo dei partiti “operai”.

In altri articoli del nostro giornale abbiamo messo in evidenza il passaggio indolore in Grecia dalla democrazia al fascismo dei colonnelli, e viceversa, e ora in Ispagna dal franchismo all’antifranchismo, magari con una breve sosta nell’anodino post-franchismo perché i ruffiani possano tirare le file del loro sporco gioco antiproletario e antirivoluzionario; gioco che sarebbe impossibile senza la presenza alla testa della classe operaia di partiti venduti al nemico.

Da qui scaturisce il tema centrale della tattica comunista rivoluzionaria: come spostare le forze operaie, imprigionate nella politica opportunista, nel campo della rivoluzione comunista, come attrarle nell’orbita dell’influenza del partito? Questo tema tattico fu sollevato al III Congresso dell’I.C., ma non fu risolto in maniera soddisfacente e corretta. L’I.C. capì che non bastava il possesso della sana dottrina e dell’integrale programma e capì anche che bisognava «conquistare le masse» per assicurarsi la vittoria.

È vero che in Germania il partito si mobilitò per penetrare in ogni fessura aperta dalle contraddizioni che affliggevano il nemico, che dispiegò un’alacre iniziativa per collegarsi con le masse, imprigionate o influenzate dalla politica traditrice della socialdemocrazia; ed è pur vero che importanti successi furono ottenuti soprattutto nel campo dell’organizzazione sindacale e dei consigli di fabbrica. Tuttavia la linea direttrice per il collegamento con il proletariato passava dalla ricerca quasi morbosa di un’alleanza tra il partito comunista tedesco, il KPD, la socialdemocrazia maggioritaria dell’SPD e il partito dei socialdemocratici indipendenti, l’USPD. Questa ricerca di alleanze prese il nome di “fronte unico”, la tattica che l’I.C. adottò per sottrarre le forze proletarie alla presa dei partiti opportunistici e trasportarle sotto l’influenza del partito comunista rivoluzionario. Questo modo di realizzare il fronte unico non consentì di raggiungere lo scopo prefissato, e per conseguenza indebolì il partito aprendolo ad infiltrazioni opportunistiche che, nel maturare di eventi sfavorevoli alla rivoluzione, grandeggiarono nel partito tedesco e nella Internazionale Comunista stessa per sfociare nella totale distruzione del partito comunista mondiale.

Sul modo in cui fu realizzato il fronte unico sarà da dedicare continui e approfonditi studi, perché fu il centro della tattica comunista dell’I.C. ed è probabile che lo sarà per il prossimo avvenire. La storia ha confermato la giustezza della impostazione “sindacale” data dalla Sinistra al fronte unico, che consentiva l’alleanza di tutte le forze del proletariato in generale in un unico organismo di classe di tipo sindacale sulla base di un’azione difensiva degli interessi immediati della classe operaia; organismo nel quale i partiti “operai” potevano far valere i loro indirizzi politici in dialettico rapporto con i reali interessi materiali dei lavoratori. Quindi non alleanza, nemmeno per interessi economici, tra partiti né tra partiti e sindacati. Il fronte unico “dal basso” realizzava così l’unità sindacale, cioè il terreno idoneo per far prevalere l’indirizzo politico del partito.

La storia dei conflitti di classe in Germania conferma la fallacia dei tentativi frontisti tra partiti. Il fronte unico tra KPD, partito rivoluzionario, antilegalitario e antidemocratico, con la socialdemocrazia maggioritaria e indipendente, legava le mani al KPD, cosicché ogni qualvolta che un accordo veniva siglato tra i partiti diveniva impossibile realizzarlo per il sistematico sabotaggio opportunista e il KPD si trovava impotente, non potendo rompere gli accordi per non essere accusato di spezzare il fronte. In questa situazione il KPD era costretto a far buon viso a cattiva sorte e, preso nelle spire di questa alleanza abnorme, doveva rinunciare alla sua piena funzione e azione rivoluzionaria, involontariamente indebolendo sé stesso e gli slanci eversivi del proletariato. A conti fatti, il fonte unico politico, o tra partiti, servì meglio alla controrivoluzione che alla rivoluzione, bloccò il processo rivoluzionario proletario anziché il piano tattico della reazione, permise alla borghesia di guadagnar tempo per prepararsi adeguatamente a lanciare l’offensiva contro la classe operaia.


IL COMITATO DI BERLINO

Il 27 giugno 1922 a Berlino si costituì un Comitato tra KPD, SPD, USPD, la Confederazione del lavoro e la Federazione impiegati, con l’intento di svolgere un’azione comune contro la reazione, che imperversava in tutto il paese. Il programma che i comunisti proposero contemplava rivendicazioni economiche e sociali di classe, tra cui il disarmo e lo scioglimento delle molteplici formazioni armate controrivoluzionarie, lo scioglimento dell’esercito, la Reichswehr, da sostituire con milizie composte da operai organizzati nei sindacati, l’amnistia per coloro che erano stati condannati per reati compiuti in difesa della classe operaia, la difesa della giornata di otto ore e provvedimenti contro gli aggravi fiscali e il caroviveri. Questo programma fu respinto dagli altri membri della coalizione, i quali dichiaravano apertamente di non voler inasprire la lotta. Per non compromettere le sorti dell’alleanza il KPD accettò un programma che in definitiva si riduceva alla rivendicazione dell’amnistia e alla “difesa della Repubblica”, che suonava dubbia e controproducente. Queste rivendicazioni, staccate dal programma più generale di carattere economico e sociale, non costituivano un coefficiente di mobilitazione e unificazione della classe.

Tuttavia gli attacchi continui dei corpi franchi contro lo stesso governo di coalizione tra SPD e partiti borghesi, i frequenti assassinii anche di ministri borghesi, come Rathenau, oltre agli attentati contro i proletari e le loro organizzazioni, indussero maggioritari e indipendenti a consentire che il Comitato proclamasse il 4 luglio uno sciopero generale di 12 ore a Berlino, che si propagò anche alle principali città, dove non mancarono conflitti sanguinosi tra operai e polizia, come a Zwichau, Francoforte, Völpke e Mannheim. Il movimento di sciopero assumeva, oramai, un carattere indipendente sia dall’azione legale e parlamentare, sia dai quadri della burocrazia sindacale, per cui la socialdemocrazia si accinse a rafforzare la sua azione contro il KPD, inasprendo una campagna di calunnie e persecuzioni contro i comunisti mai cessata e lusingando i sempre oscillanti indipendenti con promesse di una loro assunzione al Governo, accampando l’ormai noto allora e notissimo oggi pretesto dell’allargamento “a sinistra” della base del “potere”, senza dover ricorrere alla violenza e alla illegalità!

Il 3 luglio, il giorno innanzi dello sciopero generale, il Comitato, su proposta dell’SPD, dei Sindacati e dell’USPD, decise di lanciare un manifesto in cui si invitavano gli operai a guardarsi dai «provocatori di violenze». Era palese che si voleva mettere gli operai contro i comunisti, che andavano proclamando un’azione fuori del parlamento e senza esclusione di colpi. Il KPD non sottoscrisse il manifesto e fu accusato di aver violato gli accordi di Berlino. Intanto l’USPD votava in parlamento la legge dell’imposta sul grano, chiaramente rivolta contro le classi povere, e la socialdemocrazia assumeva un atteggiamento apertamente favorevole ad una interpretazione della legge da poco varata «in difesa della Repubblica» in senso anticomunista. L’8 luglio la socialdemocrazia, concordi sindacati e USPD, propose un nuovo appello «contro le violenze», che il KPD respinse, e colse l’occasione per proclamare che con questo rifiuto i comunisti si erano posti fuori del Comitato.

La borghesia, dietro il governo di coalizione tra SPD, Centro cattolico e elementi “tecnici”, sullo slancio dell’attacco socialdemocratico al KPD, vietava comizi operai, impediva l’uscita dei giornali comunisti sostenendo che offendevano i membri del “governo socialista tedesco”! E l’SPD passava allo scioglimento dei Comitati di controllo, sorti nella lotta in difesa degli operai, e degli stessi Consigli di fabbrica, e subdolamente invitava i funzionari di polizia a proteggere l’azione dei corpi franchi nazionalisti e monarchici “a difesa della Repubblica” contro l’eversione comunista.

Gli indipendenti dell’USPD confluirono di fatto nella socialdemocrazia maggioritaria, dietro la promessa di qualche ministero nel governo di coalizione. Il KPD si trovò solo dinnanzi al fronte unico tra borghesia, socialdemocrazia, governo di coalizione, Reichswehr, corpi franchi e Centrali sindacali.

Il disegno tattico della controrivoluzione era e doveva essere ormai chiaro, dopo l’effettivo abbandono del Comitato di Belino da parte della socialdemocrazia maggioritaria e indipendente e dei Sindacati e lo scatenarsi della campagna di repressione contro la classe operaia e il KPD da parte di tutte le formazioni politiche, sindacali, governative, militari e paramilitari. La borghesia era riuscita nella manovra di coagulare potenti forze contro l’azione comunista e contro il movimento radicale delle masse, azionando i partiti opportunistici e i quadri sindacali, al fine di riorganizzare le file per una controffensiva totale e massiccia, che si verificherà dopo la sconfitta dell’Ottobre 1923 patita dal proletariato rivoluzionario e dal KPD.

L’azione tattica comunista, indipendentemente da ogni considerazione di carattere politico, non può svolgersi nel doppio senso, diplomatico per quanto riguarda il rapporto col nemico, e veritiero nei confronti della classe. Con il Comitato di Berlino il KPD non solo illudeva sé stesso sulle reali possibilità di riuscita e di efficacia rivoluzionaria del fronte unico politico con i partiti avversari, ma giungeva persino a formulare proposte di governo operaio con questi partiti, tanta era la convinzione che la manovra riuscisse. Così veniva rilasciata una patente di rivoluzionarismo a SPD e USPD, a partiti controrivoluzionari, facendo credere alle masse proletarie che questi partiti potessero confluire su un fronte col KPD, il cui scopo reale era pur sempre di abbattere la borghesia, la democrazia e la legalità, partiti che partecipavano come maggioranza nel governo centrale, anticomunista e antiproletario, e che, come l’USPD, lo sostenevano dandogli una vernice “rivoluzionaria” per renderlo ben accetto alle masse radicali. Come avrebbero potuto l’SPD e l’USPD, in quanto partiti, partecipare ad un alleanza politica che avrebbe dovuto distruggere la loro stessa esistenza, se non alla condizione di utilizzarla ai loro fini reazionari e di usarla per discreditare agli occhi dei lavoratori il KPD?

L’aspetto diplomatico della questione sta in questo, che il KPD era perfettamente cosciente del carattere controrivoluzionario della SPD, ma lasciava credere al proletariato che con una politica, che veniva definita souple, elastica, l’SPD si sarebbe fatto trascinare sul terreno rivoluzionario ovvero si sarebbe smascherato dinanzi ai suoi aderenti operai, che di conseguenza sarebbero passati sotto l’influenza del KPD. Ma la politica “elastica” consisteva nell’accettare in definitiva le posizioni dell’SPD, come nel caso specifico del Comitato di Berlino in cui il KPD dovette rinunciare a tutto il suo programma, caratteristico di un partito rivoluzionario, e accodarsi su una rivendicazione limitata, quella dell’amnistia, e pur sempre dipendente da una sezione legale e parlamentare di stretta competenza dei partiti parlamentari maggioritari e governativi, quindi suscettibile di invischiarsi nelle pratiche democratiche e ritardatrici.

In realtà, infatti, l’SPD non tradì i patti assunti a Berlino, perché non aveva preso altro impegno che quello dell’amnistia e quello famigerato della “difesa della Repubblica”, e non aveva concordato un piano comune di azione in difesa delle condizioni materiali immediate della classe operaia. Queste rivendicazione avrebbe potuto accettarle qualsiasi partito borghese, appena intelligente, ed infatti la borghesia in definitiva le aveva sottoscritte per mano della socialdemocrazia; mentre, invece, il programma proposto dal KPD lo avrebbe respinto qualsiasi partito, anche il più radicale.

Non avrebbero potuto respingerlo l’organizzazione sindacale e dei Consigli, perché costituiva il proprio terreno di lotta, la ragione della loro stessa esistenza. Se i Sindacati e i Consigli avessero respinto la proposta comunista, si fossero rifiutati, cioè, di ingaggiare la lotta per difendere il proletariato contro la disoccupazione, la miseria, i bassi salari, l’attentato della giornata di otto ore, si sarebbero svalutati dinanzi alla massa e indirettamente avrebbero contribuito a tagliare l’erba sotto i piedi della socialdemocrazia che influenzava e dirigeva i vertici sindacali. Gli operai inquadrati nei partiti opportunistici avrebbero toccato con mano, sperimentato direttamente il tradimento sindacale delle dirigenze socialdemocratiche delle Centrali sindacali, e si sarebbero per forza di cose avvicinati al partito. Il sindacato, a differenza dei partiti, inquadra e organizza gli operai di tutti i partiti o di nessun partito e non può sottrarsi dall’azione per interessi comuni a tutti i lavoratori salariati, almeno di non correre l’alea di passare nel campo nemico e quindi farsi sostituire da un altro organismo equivalente.

Come avrebbe potuto l’SPD giustificare di fronte agli operai inquadrati nella sua organizzazione di partito il rifiuto di aderire al piano e all’azione rivendicativa promossa dal fronte unico dei Sindacati e dei Consigli di fabbrica e dei Comitati di controllo? Non le sarebbe rimasta altra strada che quella di dichiarare guerra aperta a tutta la classe operaia organizzata nel fronte unico, nell’unità dell’azione rivendicativa, facilitando il chiarimento di posizioni nel campo operaio, abbandonando le finzioni diplomatiche, accreditando, suo malgrado, presso il proletariato, con questo atteggiamento ostile agli interessi immediati ed elementari della masse, la politica rivoluzionaria del KPD.

Episodi di adesione e simpatia nel KPD non mancarono da parte di gruppi di operai più sensibili agli interessi proletari, ma non costituirono né un sufficiente spostamento di forze a favore della rivoluzione né il risultato di un piano tattico cosciente e preordinato su basi realistiche di classe. Il KPD, e con esso e per esso l’Esecutivo di Mosca, non afferrarono il significato profondo e illuminante dei fatti, tant’è che non abbandonarono né l’erronea tattica del fronte unico politico, né quella conseguente e deteriore del governo operaio.

 

 

 


Il Partito Comunista n.18 febbraio 1976

E – GERMANIA (continua)

Abbiamo riportato la vicenda del Comitato di Berlino come esempio del modo con cui in Germania si impostò e si sviluppò la tattica del partito, per evidenziare in primo luogo che sono le condizioni economiche e sociali, con la lotta di classe che ne consegue, le basi su cui va costruita la tattica e da cui scaturiscono le rivendicazioni politiche, l’attacco cioè vero e proprio al potere statale della borghesia; in secondo luogo, che i mezzi tattici per l’azione non possono essere scelti arbitrariamente, per la influenza diretta che hanno sull’esito della lotta e dello stesso partito; in terzo luogo, che nello schieramento moderno delle forze di classe, la socialdemocrazia ed in genere i partiti opportunisti cosiddetti operai giocano un ruolo determinante nel costituire le truppe di manovra delle classi possidenti contro l’azione proletaria per la conservazione del potere politico.

Nella guerra civile, con maggiore evidenza che nella guerra tra gli Stati, si coglie il nesso strettissimo tra azione politica e mezzi tattici e viene in primo piano l’esigenza primaria che il partito comunista possegga l’esclusività di questi mezzi tattici, nello stesso tempo in cui appaiono alla classe proletaria gli unici atti a realizzare la vittoria. Poiché i partiti opportunisti non rifuggono mai dal presentarsi come i rappresentanti e gli interpreti degli interessi della classe operaia, tenendo in mano le file delle organizzazioni operaie per mezzo di scherani stipendiati, e parlando sempre di voler “superare” il sistema capitalistico e di aspirare ad un società “nuova” e “più giusta”, è inevitabile che la tattica del partito comunista si svolga sullo stesso terreno economico e sociale, partendo cioè dai reali interessi economici immediati del proletariato.

Lo schema-Germania fornisce al proletariato mondiale l’esperienza positiva di una impostazione tattica erronea. Se il campo di battaglia nella guerra tra le classi fosse nettamente diviso tra due eserciti contrapposti e ben distinguibili, il compito tattico dell’azione rivoluzionaria sarebbe di gran lunga semplificato e si potrebbe assimilare ad uno specifico piano militare. Ma ancor oggi questa distinta separazione non è resa possibile e tra borghesia e proletariato si stende un diaframma viscido, rappresentato dai falsi partiti e sindacati proletari, per attutire l’urto di classe e nascondere al proletariato la reale e intima natura del capitalismo.

È falsa la natura operaia e pacifica, non violenta e socialista di queste forze traditrici. L’esperienza tedesca ci dà l’esempio sinora più completo di cosa sia capace l’opportunismo militante di questi partiti e delle burocrazie sindacali. In Germania si assiste all’uso della più sfrenata e bestiale violenza antioperaia e anticomunista da parte di questi organismi e del governo “socialista” e repubblicano. È un fatto nuovo nella storia che segna e caratterizza l’epoca delle guerre imperialiste e della rivoluzione proletaria. Il sostegno completo di queste forze “operaie” allo Stato capitalista è un modello che la controrivoluzione ha successivamente adottato in tutti i paesi, anche in quelli in cui non è all’ordine del giorno la pura rivoluzione comunista. Non a caso la Sinistra comunista non esiterà a prevedere la confluenza dell’opportunismo e del fascismo in un unico fronte reazionario, come avremo modo di esaminare più avanti nella parte che tratterrà l’Italia.

L’errata tattica dell’I.C. non ha segnato soltanto un passo indietro della rivoluzione ma, per lo scatenarsi di reazioni traditrici che hanno distrutto il partito di classe, ha contribuito a rigettare il proletariato su posizioni arretrate. Il proletariato è stato travolto, ma la conseguenza più deleteria della tattica del suo partito rivoluzionario non è stata quella di non avere battuto il nemico, quanto quella di aver aperto alle forze opportuniste, alla degenerazione, infine al tradimento. Non attribuiamo alla tattica giusta sicura capacità di vittoria e il successo della rivoluzione può mancare anche applicando una tattica giusta, se non vi soccorre il favorevole rapporto di forze. Ma la sconfitta per l’errata valutazione del nemico potrà farci perdere una battaglia, non il partito dirigente le future e immancabili battaglie. Dal 1921 abbiamo perduto battaglia e partito. È certo che, pur senza farne un principio, un errore di impostazione tattica porta il partito all’autodistruzione, mentre un errore nella esecuzione può farci indietreggiare o anche sconfiggere, ma difficilmente potrà distruggere il partito.

Abbiamo accennato anche ad un altro elemento distintivo del comportamento pratico del partito, e cioè il possesso esclusivo dei mezzi tattici. La esclusività dei mezzi tattici significa innanzitutto che la tattica non viene condivisa con alcun altro partito o gruppo politico, il che esclude, cioè, alleanze politiche e l’adesione a piani tattici di altri partiti. Significa anche che il partito comunista propone la sua tattica al proletariato al solo scopo di portare alla vittoria la classe operaia e non per sostenere combinazioni politiche o governative con altre forze, nella falsa considerazione che possano essere gradini intermedi, più vicini alla condizione ottimale dell’unica direzione comunista per l’azione di classe.

L’originalità della tattica comunista consiste nel rivolgersi alla classe e non ai partiti in cui la classe è inquadrata, per ottenere la condizione tattica che, con la rottura della disciplina di partito degli operai non comunisti, il proletariato aderisca alla tattica del partito comunista. I partiti “operai” sono costretti in tal modo a sottoporsi ad un estenuante logoramento nell’intento di giustificare costantemente la loro azione rispetto a quella comunista presso i loro stessi militanti operai. Il partito obbliga tutti i raggruppamenti politici ad uscire dal vago delle opinioni e a misurarsi su quello pratico dell’azione in favore della classe operaia.

Il pericolo maggiore che si corre è sempre quello delle adesioni, delle “solidarietà” condizionate di certi gruppi politici sedicenti rivoluzionari, i quali, ancora prima di far abbandonare il campo della lotta ai loro aderenti proletari – e ciò avviene di norma nei momenti decisivi dell’azione di classe – frappongono mille ostacoli ideologici e di natura capziosa, ostacolando così il successo dell’azione proletaria diretta dal partito. Nei confronti di chi respinge per principio l’unificazione delle lotte e delle rivendicazioni operaie, con la scusa che non intende fare il gioco dei comunisti, il rischio è invece minore, poiché il pericolo è interamente conosciuto e non resta che studiarne in anticipo i necessari antidoti. Questo atteggiamento, però, costituisce un ostacolo aspro quando il proletariato è in balia della pressione crescente del nemico e della dittatura dei falsi partiti operai, quando cioè il partito comunista è ai margini del movimento di classe e non può esercitare una influenza apprezzabile. In tal caso questi gruppi impediscono che si coaguli un minimo di organizzazione di forze operaie per uno schieramento di classe.

Il problema non è marginale perché la sua soluzione risiede nell’impostazione tattica del partito, la quale risulterebbe erronea se concepisse l’esistenza di forze politiche rivoluzionarie al di fuori del partito comunista, e quindi suscettibili di essere trasportate sul terreno della tattica rivoluzionaria. Il partito non può e non deve contare su queste forze politiche, né, di conseguenza, farle partecipi della sua tattica. Il partito, invece, deve influenzare gli operai inquadrati in questi raggruppamenti “rivoluzionari”, invitandoli ad abbandonarli al loro destino antiproletario e antirivoluzionario.

Cosicché il partito comunista, come possiede una teoria, un programma ed un’organizzazione unici ed esclusivi, così si dà una tattica unica ed esclusiva; come non condivide con altri gruppi politici teoria, programma e organizzazione, così non li rende partecipi della sua tattica. Il partito comunista così costringe tutti gli altri partiti a portarsi allo scoperto, ad uscire dal loro falso socialismo di comodo, a svelare la loro intima natura non proletaria.

Il proletariato, per vedersi rappresentato nei suoi interessi contingenti e storici dal partito comunista, deve poterlo individuare nettamente; perciò il partito deve separarsi sotto tutti gli aspetti della sua azione dagli altri partiti, contrapporsi ad essi, e la classe operaia vedrà finalmente se stessa distinta dalle altre classi, dal popolo, i suoi interessi in antagonismo con gli interessi delle altre classi. Sinché non si verificherà questa distinzione e separazione di classe non vi sarà lotta rivoluzionaria di classe. La premessa è che il partito comunista anticipi questi caratteri sin dal suo sorgere, in ogni circostanza, senza eccezioni.

Ribadire questi chiodi a distanza di oltre mezzo secolo, non è dottrinarismo, perché stiamo ancora rivivendo oggi una nuova edizione della vecchia ubriacatura socialdemocratica propinata alle masse proletarie sotto la maschera di “comunismo” dei falsi partiti operai. Oggi come allora i partiti opportunisti, mentre tessono l’ingannevole trama delle riforme, del “socialismo”, della democrazia e della libertà, altrimenti detto “pluralismo”, della difesa della economia e dei “valori civili”, non esiteranno a rendersi partecipi dello scatenamento della violenza e della repressione statale e parastatale quando il proletariato, abbandonata ogni illusione legalitaria e pacifista, si ribellerà all’ordine costituito.

 

 

 


Il Partito Comunista n.19 marzo 1976

Lo schema Germania ci ha fornito la caratteristica principale della controrivoluzione moderna che, diretta sempre e comunque dalla Stato politico della borghesia, si avvale di partiti e organizzazioni richiamantisi al socialismo e alla classe operaia, come l’SPD, l’USPD e le Centrali sindacali, di forze politiche nominalmente non borghesi monopolizzatrici del movimento proletario. Questa cooptazione dei partiti socialisti e dei sindacati operai nel campo della controrivoluzione ha permesso alla borghesia di fronteggiare con successo l’assalto rivoluzionario del proletariato, maturato nel primo dopo-guerra, e poi a riconquistare anche la Russia al campo capitalistico.

Dal 1914, con l’adesione alla guerra imperialista dei partiti socialisti e del movimento sindacale, adottando la formula traditrice di difesa della patria, la borghesia non può più difendere il suo regime senza il sostegno dei partiti opportunisti. Con la Rivoluzione d’Ottobre l’opportunismo non può più sottrarsi al totalitarismo statale. È cessata la fase liberal-borghese, del laissez faire. Il primo dopo-guerra è il campo sperimentale della transizione al totalitarismo statale per mezzo della forma fascista. Il secondo dopo-guerra è il completamento e l’estensione alla scala internazionale dell’esperienza precedente.

Dal punto di vista tattico la sconfitta della rivoluzione in Germania è da attribuirsi principalmente alla tattica dell’Esecutivo dell’I.C., come abbiamo succintamente esaminato, che permise alle forze dell’opportunismo socialdemocratico di battere il proletariato nello scontro diretto, prima ancora che intervenisse il nazismo hitleriano. Nella sconfitta dell’ottobre ’23 Hitler non c’entra, ma sono protagonisti il fronte controrivoluzionario dei partiti socialdemocratici, delle Centrali sindacali e dello Stato. In Italia, invece, il proletariato è stato battuto dal sabotaggio del PSI e della Centrale sindacale, e dalla entrata in campo delle bande, armate e sostenute dallo Stato borghese.

 

 

F – Italia

 

Il modo stesso in cui sorse in Italia il PC spiega le debolezze del partito in Germania, che nacque in modo equivoco, su posizioni d’indecisa rottura netta con la socialdemocrazia dalle cui suggestioni popolaresche non riuscì mai a liberarsi, in virtù anche dell’erronea tattica di Mosca.

Il partito sorse in Italia con atto di vigorosa volontaria e cosciente separazione dal vecchio PSI e dal suo centro massimalista. È indubbio che fu la presenza di un siffatto partito, sotto la direzione della Sinistra comunista che, sebbene numericamente minoritario rispetto agli altri partiti europei, segnatamente al partito di Germania, indebolì la manovra del PSI sì da squalificarlo persino agli occhi della borghesia italiana, la quale dovette appunto ricorrere direttamente alle squadre fasciste e all’esercito per ributtare indietro le falangi proletarie.

Più netta sarebbe stata la distinzione delle forze di classe in campo e più chiara agli occhi del proletariato la funzione traditrice del PSI se anche nel PCd’I la tattica dell’Esecutivo dell’Internazionale non avesse trovato compiacenti appoggi, sebbene in misura molto minore, almeno nei primi anni. È il caso per esempio della continua pressione sul Centro italiano del partito per l’unificazione del PCd’I con la sinistra del PSI, con i cosiddetti “terzini”, e il debole sostegno di Mosca nella potente e martellante azione contro il PSI e la socialdemocrazia in generale e la Centrale sindacale internazionale di Amsterdam.

L’obbiettivo della tattica comunista dopo la prima guerra mondiale è la sconfitta della socialdemocrazia e dell’opportunismo comunque denominato. Ma riconoscere questo non basta. Come non basta tutto l’armamentario organizzativo del III Congresso dell’I.C. non solo per battere l’opportunismo, ma nemmeno per impedire che questi penetri nel Partito comunista mondiale. La questione della tattica, quindi, si configura come la questione centrale per l’I.C. e per le sue sezioni.

In “Natura, funzione e tattica del partito rivoluzionario della classe operaia” del 1945, in sede di bilancio storico della sconfitta della rivoluzione, il nostro Partito scriveva riguardo alla tattica usata dall’I.C.: «Questa tattica ha provocato solo clamorose sconfitte. Dalla Germania alla Francia alla Cina alla Spagna, le tentate coalizioni non solo non hanno spostato le masse dai partiti opportunistici dalla influenza borghese o piccolo-borghese a quella rivoluzionaria e comunista, ma hanno fatto riuscire il gioco inverso nell’interesse degli anticomunisti. I partiti comunisti o sono stati oggetto, alla rottura delle coalizioni, di spietati attacchi reazionari dei loro ex alleati, riportando durissime sconfitte nel tentativo di lottare da soli, o, assorbiti dalle coalizioni, sono andati totalmente snaturandosi sino a non differire praticamente dai partiti opportunisti».

Già con la pregiudiziale astensionista del 1919, cioè con l’indirizzo tattico astensionista, la Sinistra aveva dimostrato di possedere una giusta tattica, ma di essere stata impedita a realizzarla in un partito non unitario, in un partito che in realtà era una alleanza forzata di tre partiti, la destra, il centro e la sinistra. La Sinistra aveva individuato la costante situazione montante delle masse ed indicato che il partito doveva abbandonare i mezzi legali, doveva cioè rifiutarsi di partecipare all’orgia elettorale per indicare alla classe operaia di scendere sul terreno della preparazione rivoluzionaria. La direzione di destra, di fatto appoggiata dal centro, si rifiutò di aderire alla proposta astensionista della Sinistra e fece partecipare il partito socialista alle elezioni dimostrandosi praticamente incapace di azione rivoluzionaria e di spezzare quell’illusione democratica che invece si apprestava a trasfondere nelle masse, rese ribelli dalla carneficina, dalle sofferenze e privazioni della guerra e del dopo-guerra. La guerra aveva spostato il proletariato su posizioni antidemocratiche e antilegalitarie, e nel dopo-guerra gli operai praticavano ogni giorno scioperi estesi e violenti per difendere la loro esistenza. L’occupazione delle fabbriche ne fu un’altra prova, anche se per la Sinistra già in una situazione discendente del processo rivoluzionario.

La scissione di Livorno poggiò su queste premesse di ordine tattico. Da un lato la destra e il centro massimalista, democratici, elezionisti, legalitari, dall’altro la Sinistra rivoluzionaria. La maturità delle condizioni storiche delle lotta di classe escludeva ormai per sempre le pratiche riformiste, ovvero una politica di riforme del partito proletario in senso autonomo e indipendente dai partiti della borghesia. Il relatore della Sinistra a Livorno così stigmatizzò: «Se ieri collaborazione di classe voleva dire ministri socialisti in un regio ministero, oggi collaborazione di classe vuol dire invece un ministero socialista, sovrapposto alla struttura statale dell’oppressione borghese». È stata una sentenza inappellabile che la storia ha eseguito.

I socialisti della malora scaricarono la “responsabilità” della scissione sui comunisti. Ebbene, è vero. La sinistra ha voluto fortemente la scissione. Essa ne rivendica interamente la responsabilità. Per queste ragioni il PCd’I fu “più a sinistra” degli altri partiti dell’I.C.

Toccava ora al nuovo partito di classe, al Partito Comunista d’Italia, sviluppare coerentemente le ragioni che avevano portato alla scissione del PSI. Il PSI, libero dai freni della Sinistra, si involveva decisamente nel campo controrivoluzionario. Il PCd’I libero dalle pastoie della “unità” con altre frazioni socialiste, si lanciava subito ad organizzare e potenziare capillarmente l’azione tra le masse proletarie e segnatamente nei sindacati di classe. È qui, nell’organizzazione economica del proletariato, che il partito sapeva di dover trasportare la sua azione per strappare l’iniziativa ai partiti “operai”.

Come prima è stato accennato, il partito non è un esercito, ma lo “stato maggiore” della rivoluzione, secondo una suggestiva espressione di Lenin, intendendosi sotto il profilo tattico che l’armata proletaria non solo e esterna al partito, ma anche che, all’infuori delle crisi rivoluzionarie, è manipolata se non monopolizzata, come oggi, dagli stati maggiori delle classi borghesi, cioè dai partiti borghesi e opportunisti. Il partito, quindi, non ha la funzione di “creare” l’esercito proletario, perché questo esercito lo crea il modo di produzione capitalistico stesso, esso lo disciplina nelle ferree e inesorabili strutture dell’organizzazione di fabbrica, lo costringe alla lotta quotidiana e di conseguenza lo induce ad associarsi in sindacati economici. È, giusta Marx, un esercito per la borghesia, non ancora un esercito per sé stesso. Lo sarà quando, appunto, avrà alla sua testa il partito-stato maggiore comunista. La borghesia, e per essa i suoi partiti politici, il suo Stato e i partiti opportunisti, manovra indefessamente per tenere l’armata proletaria lontana dal partito comunista rivoluzionario.

Da questa costatazione storico-materialistica deriva l’azione tattica del partito, che consiste nel liberare il proletariato dalla influenza del nemico di classe, principalmente agendo in seno all’organizzazione di classe per definizione, le associazioni economiche dove si riuniscono tutti gli operai, di qualunque partito. Il trasporto dell’azione di partito nei sindacati di classe di allora, rispondeva esattamente a questo compito di conquista della direzione delle organizzazioni economiche operaie. Fu la situazione economica, l’offensiva borghese contro la condizione operaia, che suggerì al PCd’I la tattica di fronte unico sindacale e non l’attitudine dell’espediente originale e geniale, al machiavello infernale escogitato nel laboratorio dell’alchimia politica.

 

 

 


Il Partito Comunista n.21, maggio 1976

 

La scelta dei mezzi tattici deve essere messa in relazione agli scopi, agli obbiettivi tattici; e gli obbiettivi tattici devono essere previsti e scaglionati lungo una concatenazione tesa verso la presa del potere (Lenin). La tattica di fronte unico sindacale costituiva la formula tattica, l’insieme della “concatenazione” tendente al potere politico. Questa tattica fu bollata di “sindacalista” dall’I.C. perché escludeva alleanze, intese, lettere aperte, insomma combinazioni politiche con i partiti “operai”, quando, invece, secondo le argomentazioni dei massimi dirigenti dell’I.C., la questione del potere è questione schiettamente politica e non sindacale. La Sinistra dimostrava che il rifiuto del fronte unico politico, secondo la formula dell’Esecutivo di Mosca, non significava affatto negazione del carattere politico della tattica che la Sinistra prospettava. La repulsa di accordi con partiti “operai” non discendeva da considerazioni circa la pericolosità della manovra, né da considerazioni di ordine morale o estetico, ma da analisi oggettiva. Nessun apriorismo dottrinario, quindi, presiede alla scelta dei mezzi; ma questo non autorizza all’indiscriminato ricorso ad ogni mezzo, non presuppone assenza di vincoli.

La questione va intesa nel senso che la dottrina è cristallizzazione di esperienza storica e non una teoria di precetti metafisici. Come tale la dottrina «non è un dogma» ma «una guida per l’azione», giusta la lezione di Lenin e del marxismo rivoluzionario. Così è ormai indiscutibile il superamento del parlamentarismo rivoluzionario, rifiutato dall’esperienza storica bruta sebbene anticipato dall’elaborazione del pensiero rivoluzionario sviluppata dalla Sinistra. Lo stesso non può dirsi per esempio della dittatura proletaria, né del partito politico e nemmeno del sindacato economico, checché ne pensino alcuni bottegai del revisionismo attuale. La storia seleziona non solo programmi, ma anche organi, funzioni e mezzi; invariati restano obbiettivi parziali e finalità. Nessuno pensa ad una tattica militare basata sul sistema delle barricate, dopo l’esperienza della Comune parigina del 1871 (Engels). Nemmeno è pensabile nel campo della solidarietà pratica, l’utilizzo del sistema delle cooperative di consumo, fagocitate oramai dal mercantilismo capitalistico, e che furono a suo tempo scuola di lotta e di emancipazione operaia dalla figura del padrone borghese, ritenuto sacrosanto dominus dell’economia capitalistica.

Queste esclusioni non significano però semplificazioni nel grave e delicato problema della tattica, ma anzi obbligano il partito a sempre meglio precisare la sua azione e i mezzi della sua azione.

La storia delle scissioni del partito si presenta anche come storia delle scelte tattiche in relazione a questioni di principio che caratterizzano la natura e la funzione del partito, vale a dire la sua autonomia e la sua indipendenza. Cosicché la questione del rifiuto di alleanze in generale è da considerarsi una questione di principio, sta nel novero delle cose “che non si devono fare”. Abbiamo detto “in generale” per significare che nell’area geo-politica di rivoluzione doppia il problema delle alleanze può essere oggetto di seria attenzione da parte del partito.

Non stiamo qui a ripetere tutte le profonde ragioni che la Sinistra svolse nel seno dei Congressi del PCdI e dell’I.C. Ci limitiamo ad alcune considerazioni pratiche per riconfermare questo dato, sempre più “perplessi” dinanzi alla affermazione: «prima separiamoci da Serrati poi faremo un blocco con lui», che ci lasciò attoniti dopo il gennaio 1921. O le scissioni non significano nulla, oppure, se hanno un senso storico, rappresentano una continua precisazione dell’azione del partito,
il rifiuto ad imboccare percorsi che non garantiscono l’integrità programmatica del partito e lo dirottano dalla “concatenazione” degli obbiettivi tattici previsti.

In questo caso un nuovo posteriore collegamento del partito con la parte separata annullerebbe nell’azione pratica le ragioni stesse della scissione. Perché le forze organizzate che si separano dal partito, che escono dalla sfera della sua azione rivoluzionaria, vengono automaticamente attratte nel campo nemico e sono perdute per la rivoluzione. Una via di mezzo non esiste. Questa è la storia di tutte le frazioni che si sono separate dal partito, cioè dalla organizzazione politica di classe impostata sul marxismo rivoluzionario.

Le discussioni che appassionarono i Congressi internazionali e nazionali del partito vertevano sull’opportunità di stringere alleanze con i partiti socialdemocratici al fine di conquistare le formidabili forze proletarie in essi inquadrate. Si trattava del fronte unico politico. Tutti ci troviamo concordi, i vecchi di allora e i giovani di oggi, nel ritenere la questione storicamente risolta: la socialdemocrazia e i partiti opportunistici, come i PC e i PS odierni, stanno nel campo della più feroce controrivoluzione. Pensare ad un’alleanza, anche nel solo campo sindacale, sarebbe pura follia.

Ma le ragioni che presiedono al rifiuto alleanzista, e peggio frontista, non poggiano soltanto e soprattutto sull’ovvia costatazione che si tratta di partiti controrivoluzionari, ma affondano le loro radici nel sottosuolo di classe, per cui i partiti politici, non identificandosi con le classi ma rappresentandone le sovrastrutture, sono suscettibili solo di essere abbattuti, mai di essere conquistati; allo stesso modo per lo Stato politico, perché non va mai dimenticato che i partiti politici sono organi per la presa del potere. Lo stesso criterio vale verso qualunque partito, movimento, gruppo politico, quale che esso sia, “sinistro”, “ultrasinistro”, “rivoluzionario”, ecc. Qui la suggestione delle etichette “forti” potrebbe giocare un brutto scherzo e di nuovo rimettere in discussione tutto il problema.

 

 

Il partito comunista è l’unica opposizione di classe

Per maggiore efficacia dimostrativa, riportiamo alcuni brani tratti da uno dei cinque articoli su «La tattica dell’I.C.», apparso nel n. 24 di Ordine Nuovo del 1922, nei quali viene presa in esame la tattica del Comintern ed in particolare il fronte unico. Il testo così si esprime:

     «Non giudichiamo i partiti politici con il criterio con il quale è giusto giudicare gli organismi economici sindacali, cioè secondo il campo di reclutamento dei loro effettivi, e la classe su cui tale reclutamento si compie, bensì con il criterio delle loro attitudini verso lo Stato e il suo meccanismo rappresentativo».

L’ ”attitudine” deve rispondere all’antico interrogativo: “conquistare o distruggere la macchina statale?”, cioè, “procedere alla conquista legale o illegale del potere?”. Il testo continua:

     «Un partito che si chiude volontariamente nei confini della legalità, ossia non concepisce altra azione politica che quella che si può esplicare senza uso di violenza civile nelle istituzioni della costituzione democratica borghese, non è un partito proletario ma un partito borghese, e in un certo senso basta per dare questo giudizio negativo il solo fatto che un movimento politico (come quello sindacalista e anarchico), pur ponendosi fuori dei limiti della legalità, rifiuta di accettare il concetto dell’organizzazione statale della forza rivoluzionaria proletaria, ossia della dittatura».

Nostra chiosa all’espressione «e in un certo senso»: ricordiamo Lenin che nel suo tagliente linguaggio sosteneva non essere sufficiente la pratica della violenza per qualificarsi rivoluzionari, ma bisognava propugnare la «dittatura rivoluzionaria del proletariato»!

Il partito, allora, cesserebbe di essere l’organo della rivoluzione comunista «se assumesse atteggiamenti politici tali da annullare od inficiare il suo carattere intangibile di PARTITO DI OPPOSIZIONE RISPETTO ALLO STATO E AGLI ALTRI PARTITI POLITICI» (maiuscolo nel testo). Ed è quello che puntualmente si è verificato: la politica frontista anziché spostare le masse proletarie seguaci dei partiti opportunisti verso la rivoluzione, ha fatto perdere al partito di classe «il suo carattere intangibile» di oppositore irriducibile allo Stato e agli «ALTRI PARTITI POLITICI».

Oggi si assiste all’orgia del bloccardismo, allo sforzo incessante di demolire ogni confine tra partiti, a sfumare anche ogni apparente distinzione, non per opporsi allo Stato ma per riconoscersi in esso! La politica dei fronti, dei blocchi, delle alleanze trionfa in un’era sempre più debosciata, dove primeggia chi riesce a mettersi sotto i piedi ogni principio, chi rinnega il suo passato. A questa gara oscena partecipano tutti, “sinistri”, “destri”, “rivoluzionari” e “reazionari”, in particolare quando si approssima una scadenza elettorale per arraffare voti e prebende.

Queste sono le ragioni oggettive del rigetto dei fronti, alleanze e blocchi, peraltro codificato solennemente nella Piattaforma del Partito del 1945 e in tutti i testi di base successivi.

Come si estrinseca questa «OPPOSIZIONE»? Risponde il testo: 

     «L’attitudine e l’attività di opposizione politica del Partito comunista non sono un lusso dottrinale, ma una condizione concreta del processo rivoluzionario. Infatti attività di opposizione vuol dire costante predicazione delle nostre tesi della insufficienza di ogni azione di conquista democratica del potere e di ogni lotta politica che voglia tenersi sul terreno legale e pacifico, fedeltà ad essa nella critica continua e nella divisione di responsabilità dell’opera dei governi e dei partiti legali, formazione, esercitazione e allenamento di organi di lotta che solo un partito antilegalitario come il nostro può costruire, fuori e contro il meccanismo che è quello della difesa borghese».

Solo chi esercita queste funzioni ed esplica queste attività sta “nel campo della rivoluzione”, soltanto, quindi, il Partito Comunista.


ESCLUSIVISMO ED INDIFFERENTISMO

Tale carattere di esclusività programmatica e tattica riferito al partito di classe, al solo Partito Comunista, non discende anch’esso da considerazioni pregiudiziali del tipo “siamo dei comunisti a tutta prova, sappiamo quel che facciamo, ogni nostro atto non può che essere ispirato alle finalità rivoluzionarie, e possiamo trattare anche col diavolo!”, ma da un «esame critico della situazione e dei suoi possibili sviluppi».

L’atteggiamento dei partiti di fronte alle questioni centrali del potere e dello Stato, come più sopra accennato, non è misurabile in termini di distanza tra le concezioni di questi partiti e il nostro programma, per cui sarebbero più “vicini” alla rivoluzione quei partiti che condividono la maggior parte delle nostre posizioni, e più vicino di tutti quello che tutte le abbraccia meno una. È una considerazione questa, bambinesca, di tipo democratico che fa presupporre l’esistenza di classi e strati sociali rivoluzionari oltre al proletariato. Non si tratta di essere “indifferenti” dinnanzi agli altri partiti, di considerarli tutti sullo stesso piano. Ma questa non indifferenza non ci conduce a stabilire a quale e a quanta distanza stanno dal partito, bensì a considerare il ruolo che questi partiti, gruppi o movimenti giocano e potranno giocare nei momenti cruciali della lotta del proletariato contro lo Stato capitalista. È questo il significato di una nota espressione della Sinistra: «Chi non è con noi è contro di noi».

Il partito deve vagliare e valutare in qual modo e con quanta possibilità di successo costoro gli impediscono di porsi alla testa del proletariato, smascherandoli nelle loro frasi rivoluzionarie con cui sono soliti coprire le loro gesta opportuniste. Il partito ha il compito di distruggere l’influenza di questi movimenti sulla classe. Ciò non toglie che le forze proletarie inquadrate in questi partiti e persino nei partiti dichiarati borghesi, non debbano essere influenzate dall’azione del partito, come auspicava lo stesso secondo Congresso dell’I.C., indirizzando il suo appello di lotta anche ai lavoratori cristiani e liberali. Ma questo è tutt’altro problema la cui soluzione, contenuta appunto nella tattica di fronte unico sindacale proposta dalla Sinistra, darà il risultato positivo dello svuotamento di questi partiti, e non la loro cooptazione nell’”area rivoluzionaria”.

Se il partito dovesse farsi suggestionare dalle movenze radicali di questi movimenti e dovesse appuntare la sua attenzione su ciò che ci unirebbe anziché demolire tale pretesa somiglianza, cesserebbe di operare come partito politico di classe e si confonderebbe nel sinistrismo, gruppetto tra i gruppetti.

 

sIL PIANO TATTICO DELLA SINISTRA

È assolutamente indispensabile, perciò, che il partito non sia vincolato da nessun obbligo, contratto o legame qualsiasi, che gli impedisce di sviluppare la sua azione. In questo senso abbiamo più volte dichiarato che il partito non deve mai farsi condizionare dagli umori né dalle attitudini contingenti della classe e che, seppure fa delle condizioni materiali immediate dei salariati il punto di partenza, la sua azione non è mai pretestuosa né strumentale, perché è parte intrinseca del secolare percorso storico della emancipazione di classe di cui il partito è il vero e unico organo. Mentre tutti gli altri partiti strumentalizzano o tentano di strumentalizzare le lotte economiche del proletariato, sicché le condizionano ai loro scopi particolari, non ultimo quello elettorale, il Partito Comunista indirizza queste lotte verso la mobilitazione generale della classe operaia in un inquadramento dal quale essa trae il convincimento pratico che non può tornare indietro, che non ha altra alternativa: o abbattere il potere statale delle classi borghesi o soccombere.

Il testo citato così sintetizza:

     «Diamo anche per accettata definitivamente, e fin da quando si basarono sul metodo marxista le nostre conclusioni tattiche, la tesi che la agitazione e preparazione rivoluzionaria comunista si fa soprattutto sul terreno delle lotte del proletariato per le rivendicazioni economiche. Questa concezione realistica ci spiega la tattica dell’unità sindacale, fondamentale per noi comunisti, altrettanto quanto la divisione spietata sul terreno politico da ogni accenno di opportunismo.

E nello stesso tempo si dimostra opportuna e felicissima la posizione tattica che oggi in Italia è tenuta dal nostro Partito con la campagna per il fronte unico di tutti i lavoratori contro l’offensiva padronale. Fronte unico vuole in questo caso dire azione comune di tutte le categorie, di tutti i gruppi locali e regionali di lavoratori, di tutti gli organismi sindacali nazionali del proletariato, e lungi dal significare informe guazzabuglio di diversi metodi politici, si accompagna alla più efficace conquista delle masse, al solo metodo politico che contiene la via della loro emancipazione: quello comunista.

Dottrina e pratica si incontrano nel confermare che nessun inciampo o contrasto si trova nel fatto che come piattaforma per agitare le masse siano formulate rivendicazioni economiche concrete e contingenti, e come forma di azione si proponga un movimento di insieme di tutto il proletariato nel campo dell’azione diretta e guidato dai suoi organismi di classe, i sindacati. Da tutto questo risulta direttamente la intensificazione dell’allenamento proletario ideologico e materiale alla lotta contro lo Stato borghese e delle campagne contro i falsi consiglieri dell’opportunismo di tutte le tinte.

In una tattica così delineata, a parte le varianti di applicazione che si possono pensare come dipendenti dalla varia situazione nei diversi paesi dei partiti e organi sindacali proletari, nulla si incontra che comprometta le due condizioni fondamentali e parallele del processo rivoluzionario, ossia l’esistenza e il rafforzamento da una parte di un saldo partito politico di classe fondato su una chiara coscienza della via della rivoluzione, e dall’altra parte il sempre maggiore concorso delle grandi masse, sospinte in modo istintivo all’azione dalla situazione economica, nella lotta contro il capitalismo cui il partito fornisce una guida e uno Stato Maggiore».

È qui enunciata la “piattaforma tattica” del partito: «fronte unico sindacale del proletariato, opposizione politica incessante verso il governo borghese e tutti i partiti legali».

 

 

 


Il Partito Comunista n.24, agosto 1976


Oggi come non mai la realizzazione pratica della “piattaforma tattica” del partito, ripetiamo, si sintetizza, sostanzialmente, nel «fronte unico sindacale del proletariato, opposizione politica incessante verso il governo borghese e tutti i partiti legali», nel cui novero, ribadiamo, stanno anche coloro che predicano violenza ma non dittatura rivoluzionaria proletaria sotto la direzione del solo ed unico Partito Comunista: perché, ancora, oggi come non mai questo si manifesta impossibile senza infrangere la “legalità” sindacale e costituzionale, cioè senza lo scontro violento con le strutture legali del regime attuale.

 

NATURA ANTILEGALITARIA E ANTIDEMOCRATICA DELLA TATTICA COMUNISTA

Nel quinto articolo del testo già citato, “La tattica dell’Internazionale Comunista”, del gennaio 1922, queste caratteristiche peculiari della tattica comunista vengono impostate e svolte alla luce delle condizioni storiche oggettive dell’epoca, diverse formalmente da quelle odierne ma non per questo meno istruttive e preziose per la lotta rivoluzionaria.

Il testo ribadisce che il Partito Comunista, unica «avanguardia» del proletariato, è «organo collettivo che è al tempo stesso una scuola (nel senso di una tendenza teorica) ed un esercito con adatta gerarchia e adeguato allenamento di esercitazione», e come tale la sua azione non può prescindere «dalle influenze che ha su queste forze lo svolgimento stesso dell’azione e il metodo scelto per condurla innanzi». Segue un passo, oramai celebre nella polemica che posteriormente la Sinistra fu costretta a condurre contro la degenerazione dell’I.C. e che culminò a Lione e a Mosca, al terzo Congresso del PCdI, e al VI Esecutivo allargato dell’I.C.:

     «Perché il Partito non è il “soggetto” invariabile e incorruttibile delle astruserie filosofiche, ma a sua volta un elemento oggettivo della situazione. La soluzione del problema difficilissimo della tattica del partito non è ancora analoga a quella dei problemi dell’arte militare; in politica si può correggere ma non manipolare a piacere la situazione: i dati del problema non sono il nostro esercito e quello avversario, ma la formazione dell’esercito, a spese di strati indifferenti e delle stesse schiere nemiche, si attua – e può attuarsi tanto da una parte come dall’altra – mentre si svolgono le ostilità».

Poi vengono esposti i dati oggettivi su cui il partito deve operare:

     «Una ottima utilizzazione delle condizioni oggettive rivoluzionarie, senza alcun pericolo di menomare quelle soggettive, anzi con la certezza di svilupparle brillantemente, è data dalla partecipazione e dal suscitamento delle azioni di masse per le rivendicazioni economiche difensive che solleva nell’attuale momento della crisi capitalistica l’offensiva padronale, come già abbiamo detto. Per tal modo spingendo le masse a seguire impulsi che esse già chiaramente e potentemente sentono, le conduciamo sulla via rivoluzionaria da noi tracciata, sicuri che lungo questa le condizioni soggettive a noi contrarie saranno superate e le masse si troveranno dinanzi alla necessità della lotta per la rivoluzione integrale per la quale il nostro partito darà loro una attrezzatura teorica e tecnica che la lotta avrà migliorata e potenziata. La indipendente posizione politica del nostro partito gli avrà permesso di svolgere nel corso dell’azione la preparazione rivoluzionaria ideale e materiale che è mancata in altre situazioni, che pure spingevano le masse alla lotta, perché tra gli altri motivi si verificava l’assenza di una minoranza differenziata in quanto a coscienza rivoluzionaria e a preparazione alle decisive forme di lotta».

Quello delle lotte economiche, ancora una volta definito come «terreno» principale in cui «si fa l’agitazione e preparazione rivoluzionaria», reso incandescente dall’offensiva borghese sulle condizioni materiali delle masse salariate, è il campo di reclutamento dell’esercito proletario sotto la bandiera del comunismo, «a spese» degli altri partiti e del nemico. Questa offensiva tattica della borghesia è la forma che assume la difesa strategica del regime capitalistico con la quale:

     «si prefigge di contrapporre alla rivoluzione proletaria delle controcondizioni soggettive, di compensare la pressione rivoluzionaria oggettiva nascente dalle asprezze e dalle strette della crisi mondiale con le risorse di un monopolio politico e ideologico dell’attività del proletariato, per il quale la classe dominante tenta di mobilitare la gerarchia dei capi proletari. Una vasta parte del proletariato, attraverso le organizzazioni dei partiti socialdemocratici, è inceppata dalla ideologia borghese e dalla mancanza di una ideologia rivoluzionaria, e qui più che alla concezione ideologica nel senso individuale bisogna pensare alla attitudine a muoversi collettivamente con un indirizzo sicuro ed una organizzazione di lotta nel campo politico».

L’opportunismo, ieri socialdemocratico e oggi comunsocialdemocratico, è il canale per il quale passa il veleno borghese nel proletariato. Infatti:

     «La borghesia ed i suoi alleati lavorano a diffondere nel proletariato la persuasione che per la sua lotta di miglioramento non è necessario servirsi di mezzi violenti, e che le armi di esso si trovano nel pacifico impiego dell’apparecchio democratico rappresentativo e nell’orbita delle istituzioni legali».

È storia di oggi! Il capitalismo è riuscito ad imbevere il proletariato di droga democratica, pacifista e legalitaria al punto di rinunciare persino a difendere direttamente il salario e il posto di lavoro, rimettendo le sue sorti nelle mani dello Stato. Il nostro antico odio per la democrazia, anche quando la difendevamo, puntellando la borghesia rivoluzionaria sempre disposta al tradimento, contro i rigurgiti reazionari delle classi del vecchio regime, non discende, come si vede, da pregiudizi o apriorismi dottrinari, ma da considerazioni pratiche. Per questo abbiamo indicato e indichiamo al proletariato di disertare ogni forma elettoralistica, quale che sia la posta dell’elezione o del referendum, sul divorzio ieri, sull’aborto domani. Ma il testo approfondisce la dimostrazione:

     «Queste illusioni sono oltremodo pericolose per le sorti della rivoluzione perché è certo che esse ad un certo momento cadranno, ma in quello stesso momento non si realizzerà per la caduta di esse l’attitudine delle masse a sostenere la lotta contro l’apparecchio legale e statale borghese con i mezzi della guerra rivoluzionaria, né a proclamare e sorreggere la dittatura di classe, solo mezzo per soffocare la classe avversaria. La riluttanza e la inesperienza del proletariato ad usare queste armi risolutive tornerebbero a tutto vantaggio della borghesia: distruggere nel più gran numero possibile di proletari questa ripugnanza soggettiva a dare all’avversario i colpi decisivi, e prepararlo alle esigenze di una tale azione, è per contrapposto compito del Partito Comunista.

Illusorio è perseguire tal fine con la preparazione della ideologia e della esercitazione alla guerra di classe fin dell’ultimo proletario, indispensabile è garantirlo con la formazione e il consolidamento di un organismo collettivo la cui opera ed attitudine in tale campo costituiscano il richiamo della più gran parte possibile di lavoratori, perché possedendo un punto di riferimento e di appoggio la immancabile delusione che disperderà domani le menzogne democratiche e socialdemocratiche sia seguita da una utile conversione sui metodi di lotta rivoluzionaria. Non possiamo vincere in questa senza la maggioranza del proletariato, ossia mentre la maggioranza del proletariato si trova ancora sulla piattaforma politica della legalità e della socialdemocrazia, ha detto il Terzo Congresso dell’I.C., ed ha avuto ragione, ma appunto per questo dobbiamo preoccuparci di adoperare tale tattica in modo che nei movimenti delle grandi masse che le oggettive condizioni economiche suscitano vada progressivamente crescendo l’effettivo di quella minoranza che, avendo a nucleo il Partito comunista, ha impostato la sua azione e la sua preparazione sul terreno della lotta antilegalitaria».

Il partito, quindi, pur operando anche e per quanto gli sia possibile con mezzi legali, come per esempio la stampa legale, predica, e nei limiti della sua forza fisica, aziona, la preparazione rivoluzionaria del proletariato, dimostra l’inconsistenza delle “conquiste” in regime borghese e si sforza di organizzare attorno a sé una «minoranza» che faccia proprie le sue direttive antilegalitarie. Oggi ciò è quasi impossibile e lo Stato non accenna ancora a mettere fuori della legalità repubblicana borghese il nostro partito e predica, assieme a tutti i partiti costituzionali, compresi quelli cosiddetti “operai”, di essere contro “qualsiasi violenza, da qualunque parte provenga”, ad eccezione, ovviamente, della violenza praticata dallo Stato stesso e dai governi che se ne alternano alla direzione. Basta pensare però alla canagliesca vigilanza poliziesca dei bonzi sindacali per reprimere gli operai ribelli ai loro ordini infami, mettendoli fuori della legalità sindacale, per constatare che i lavoratori, comunisti o no, per difendere se stessi, il loro lavoro il loro salario, vengono costretti a rompere la disciplina organizzativa. Per questo della riscossione delle quote per delega si fa una questione di principio, da parte sia dei vertici sindacali sia del nostro partito. E i comunisti «nucleo che ha impostato la sua azione e la sua preparazione sul terreno della lotta antilegalitaria» devono respingere la delega e invitare i proletari a seguire il loro esempio.

Questo aspetto della guerra di classe odierna ci porta agli inizi del movimento operaio, quando i proletari dovettero conquistare la libertà e il diritto di associazione a prezzo di lotte feroci e spesso cruente contro lo Stato borghese, cioè con mezzi violenti e rivoluzionari. Oggi il problema si pone in questi termini: la conquista dell’organizzazione di classe, infeudata allo Stato per mezzo della politica traditrice di una schiera di funzionari corrotti della borghesia e sostenuta dai partiti popolari e falsi operai, passa attraverso la ribellione del proletariato a tutti gli attuali sindacati nazionali, piccoli o grandi che siano, si attua per mezzo della lotta senza quartiere contro le direttive conciliatorie della gerarchia tricolore, esattamente come ieri si attuava «colla critica incessante dei partiti socialdemocratici e la lotta contro di essi nell’interno del sindacato». Questa azione difficile e complessa è un aspetto della preparazione rivoluzionaria del proletariato che costituisce la funzione principale del partito comunista. Come si vede il campo legale dell’azione del proletariato, anche quando intenda soltanto far valere i suoi interessi contingenti, da allora si è ristretto a tal punto che è quasi scomparso.

La questione era già chiara alla Sinistra sin dal 1922, ed il testo anticipa:

     «Nulla si oppone dal punto di vista critico e da quello delle reali esperienze pratiche che possediamo ad un passaggio dall’azione del fronte delle grandi masse per rivendicazioni che il capitalismo non può né vuole concedere e contro le quali adopera la reazione aperta di forze regolari e irregolari, all’azione per l’emancipazione integrale dei lavoratori, perché come questa così quelle sono divenute impossibili senza l’abbattimento della macchina borghese di dominio politico-militare, contro la quale i lavoratori sono condotti, mentre già per la lotta contro di essa si era organizzato il Partito comunista, inquadrante una parte delle masse, che non hanno mai nel corso della lotta nascosto che si doveva lottare contro le forze di tal natura, e hanno presa su di sé la prima fase della battaglia nei suoi aspetti di azione diretta di guerriglia di classe, di cospirazione rivoluzionaria».

«Tutto invece ci conduce a condannare come cosa affatto diversa e di effetto contrario il tentativo di un passaggio del fronte delle grandi masse da una azione che, se pure ha per obiettivo rivendicazioni immediate e accessibili alla massa, si svolge sulla piattaforma politica della democrazia legale, ad una azione antilegalitaria e per la dittatura proletaria. Qui non si tratta più di mutamenti di obiettivi, ma di mutamenti del piano di azione, dei suoi schieramenti, dei suoi metodi, e la conversione tattica è possibile, a nostro credere, solo nei piani di condottieri che abbiano dimenticato l’equilibrio della dialettica marxista e immaginino di operare con un esercito giunto al perfetto automatismo delle armate inquadrate e allenate da tempo anziché con le tendenze e le capacità in via di formazione di elementi da organizzare ma sempre pronti a ricadere nelle incoerenze delle azioni individuali e decentrate».

Il testo ci riporta allo sforzo formidabile compiuto dalla Sinistra per tenere vincolata l’I.C. ad una tattica rivoluzionaria rigorosa e coerente. La lunga trattazione vuole dimostrare appunto che non si può agire “a piacere” in “politica” e che le diversioni tattiche sono estremamente pericolose per un partito rivoluzionario che non dispone di un esercito da tempo allenato e saldamente inquadrato, ma di un esercito

     «colle tendenze e le capacità in via di formazione di elementi da organizzare ma sempre pronti a ricadere nelle incoerenze delle azioni individuali e decentrate».

Questo assunto fu verificato tragicamente vero in più occasioni, dall’Ottobre tedesco 1923 quasi ininterrottamente di sconfitta in sconfitta e di sbandamento in sbandamento sino al crollo dell’I.C. Oggi la verifica è ancora più facile e scoperti gli effetti. I PC ufficiali stanno al di sotto persino dei partiti radicali borghesi di allora. Le uniche “diversioni tattiche” che questi partitacci sono in grado di concepire consistono nel passare alternativamente dall’una all’altra forma di “leale” opposizione al governo legale dello Stato borghese. Allora, invece, si pretendeva di poter saltare dall’uso di mezzi democratici e legali a quello di mezzi antidemocratici e rivoluzionari con un’audacia sprovvista delle condizioni soggettive adeguate e soprattutto dell’«equilibrio della dialettica marxista». Il passaggio anche dei PC ufficiali nel campo della controrivoluzione e il crescente dilatarsi e giganteggiare del potere statale, per sua natura dittatoriale e totalitario, hanno vieppiù ristretto le possibilità oggettive di utilizzo dei mezzi legali da parte del partito comunista rivoluzionario, seppure in senso dialettico rivoluzionario. Cosicché viene a confermarsi che la democrazia e la legalità sono una piovra che stritola chiunque se ne lasci afferrare.

Il testo infatti ammonisce che:

     «La via della rivoluzione diviene un vicolo cieco se il proletariato, per constatare che il sipario variopinto della democrazia liberalesca e popolaresca nasconde i ferrei bastioni dello Stato di classe, dovrà procedere fino in fondo senza pensare a munirsi di mezzi atti a sventare l’ultimo e decisivo ostacolo, nel momento in cui dalla fortezza del dominio borghese usciranno per precipitarsi su di lui, armate di tutto punto, le schiere feroci della reazione».

Perché la reazione feroce e cruenta della borghesia non mancherà quando gli operai saranno costretti a passare oltre i legalismi e le pastoie democratiche per difendere i loro interessi materiali immediati, e sarà vittoriosa se il proletariato avrà creduto di allontanarla con il suo precedente contegno passivo. Per queste ragioni:

     «Il partito è necessario alla vittoria rivoluzionaria in quanto è necessario che molto prima una minoranza del proletariato cominci a gridare incessantemente al rimanente che occorre armarsi per l’urto supremo, armandosi essa stessa ed istruendosi alla lotta che sarà inevitabile».

Proprio per questo il partito deve incitare il proletariato in generale e la minoranza che lo segue e non «addormentarsi nell’illusione democratica» e ad infrangere ogni legalità quando sia di ostacolo all’armamento rivoluzionario delle masse operaie.

Per tale ragione, quindi, al fine di preparare il proletariato all’azione rivoluzionaria,

     «l’azione delle grandi masse sul fronte unico non può realizzarsi che nel campo dell’azione diretta»

e dell’affasciamento di tutte le forze proletarie, tenendo conto oggi ancor più di ieri che

     «l’iniziativa di questa agitazione spetta al Partito comunista, poiché gli altri partiti, sostenendo la inazione delle masse dinanzi alle provocazioni della classe dominante e sfruttatrice, e la diversione sul terreno della legalità statale e democratica, dimostrano di disertare la causa proletaria e ci permettono di spingere al massimo la lotta per condurre il proletariato all’azione con la direttiva e con i metodi comunisti».


 
 
 

Il Partito Comunista n.25, settembre 1976

  

La rigidità programmatica della tattica della Sinistra venne confusa con una sorta di sterile intransigenza dottrinale, cui si contrapponeva la “flessibilità” tattica “realistica” attribuita a Lenin, argomento questo in bocca a tutti i detrattori della Sinistra ed in particolare ai “leninisti” che scodinzolano tra le file “estremiste”.

Non stiamo a ripetere la profonda differenza tra il campo della doppia rivoluzione in Russia e quello della rivoluzione univoca in Occidente di allora, e in quello di oggi dilatatosi oltre gli Urali, differenza che si caratterizzava dalla presenza di almeno tre classi rivoluzionarie, la borghesia industriale, la piccola borghesia delle città e delle campagne e il proletariato urbano e rurale. La tattica comunista doveva svolgersi facendo perno sulla classe operaia come unica classe “rivoluzionaria fino in fondo” in un’area “democratica”, utilizzando, cioè, tutti le forze rivoluzionarie che erano costrette a scontrarsi col potere statale assoluto, “spingendole avanti”, incalzandole perentoriamente. Su questo terreno la “flessibilità” tattica dei bolscevichi aveva lo scopo di convogliare forze obbiettivamente rivoluzionarie contro la roccaforte zarista facendo proprie rivendicazioni e obbiettivi che non erano socialisti ma che per mezzo dell’azione rivoluzionaria del proletariato aprivano la strada al socialismo, come, per esempio la spartizione della terra, l’abbattimento della monarchia assoluta ecc. Il proletariato rivoluzionario misurava, nel corso della lotta, la capacità, la volontà e la tenuta delle altre classi e strati sociali interessati al rivolgimento democratico, non nascondendo mai loro che l’obbiettivo finale della classe operaia era quello di andare oltre la democrazia, oltre la repubblica democratica, anticipando, cioè, che avrebbe rivolto i fucili contro gli alleati provvisori appena fucilato Nicola il sanguinario.

Queste condizioni storiche si ritrovano oggi in altre regioni geografiche, come Vietnam, Angola ecc., se pure in forme e rapporti diversi. Allora si tentò di trasferire la lotta rivoluzionaria dell’Oriente arretrato all’Occidente industrializzato e democratico per mezzo di una tattica che non differenziava sufficientemente i due campi geo-politici. In Vietnam, Angola ecc. il processo si è fermato alla fase-Oriente, alla democrazia. In breve: 1917-23 - si vuol passare la rivoluzione da Mosca a Berlino, anche, se necessario, “sulla punta delle baionette” dell’Armata Rossa lanciata contro la Polonia reazionaria e socialdemocratica, ma per una strada tattica insufficiente, la tattica appunto della doppia rivoluzione. 1945-75 - non si vuol far passare la rivoluzione in Vietnam, Angola ecc. alla fase-Occidente, ed il proletariato non ha partecipato alla rivoluzione democratica come classe autonoma e indipendente e di conseguenza non si è posto nemmeno la questione della doppia rivoluzione. Lo sbarramento imperialista da un lato quello opportunista dall’altro lo hanno impedito, hanno chiuso nell’ambito democratico-borghese le lotte rivoluzionarie dei popoli coloniali, perché hanno schiacciato il proletariato occidentale nella difesa della democrazia. La borghesia rivoluzionaria in Asia e Africa, è controrivoluzionaria in Europa e America. La Sinistra colse queste differenze e propose all’interno di un unico disegno strategico due piani tattici. Cosicché, la rivendicazione di un regime democratico in Asia e Africa è rivoluzionaria, in Occidente reazionaria; là è progressista rispetto al dominio delle classi fondiarie e delle caste tribali, qui è regressiva, significherebbe riportare la storia indietro di due secoli.

Prese queste distanze fra due fasi della rivoluzione in relazione a due aree geo-politiche, appare chiaro che una tattica “flessibile” può avere senso positivo solo se si applica a classi sociali rivoluzionarie, quindi in Occidente al solo proletariato. Ne deriva che, siccome le classi sono rappresentate dai partiti, in Occidente è inconcepibile qualsiasi “flessibilità” tattica in quanto mancano i partiti verso cui attuarla, stando per fermo che il proletariato non può avere che un solo partito di classe, disponendo di un solo ed unico programma, tattica e partito comunisti.

In cosa è “flessibile” la tattica comunista?

Prima di passare all’esame della parte riguardante la “tattica indiretta” delle Tesi di Roma, citiamo ancora alcuni brani dell’articolo conclusivo «La tattica dell’Internazionale Comunista», di cui abbiamo dato già ampi stralci. La citazione serva a dimostrare in quale senso bisogna essere “flessibili” nella tattica, il che comporta anche in quale senso si deve essere “inflessibili”. Ecco, intanto, secondo lo stile della Sinistra, il senso dell’inflessibilità tattica:

     «Il nostro Partito sostiene che non è da parlare di alleanze sul terreno politico con altri partiti, anche se si dicono “proletari”, né di sottoscrizioni di programmi che implicano una partecipazione del Partito comunista alla conquista democratica dello Stato».

Ed ora il senso della “flessibilità”:

     «Ciò non esclude che si possano porre e prospettare come realizzabili dalla pressione del proletariato anche rivendicazioni che si attuerebbero per mezzo di decisioni del potere politico dello Stato, e che attraverso questo i socialdemocratici dicono di volere e potere realizzare, poiché con una tale azione non si disarma il grado di iniziativa di lotta diretta che il proletariato ha raggiunto».

Il testo continua illustrando un caso pratico:

     «Ad esempio tra le nostre rivendicazioni per il fronte unico, da sostenere con lo sciopero generale nazionale, vi è l’assistenza ai disoccupati da parte della classe industriale e dello Stato, ma noi rifiutiamo ogni complicità con l’inganno volgare dei programmi “concreti” di politica statale del Partito socialista e dei capi riformisti sindacali, anche se questi accettassero di prospettarli come programma di un governo “operaio”, anziché di quello che sognano di costituire con i partiti della classe dominante in degna e fraterna combutta».

Il testo pone perentoriamente il limite della “flessibilità” tattica nel «rifiuto» ad una «complicità» criminale con l’inganno volgare dei programmi «concreti di politica statale» di falsi partiti operai e loro caudatari. E pensare che qualche “sinistro” ha invitato i proletari a votare per «quello straccetto di legge sul divorzio» con la raffinata giustificazione che «era meglio di nulla», in nome della «flessibilità leninista» e addirittura delle Tesi di Roma!

 

* * *

 

Un esempio storico è stato il modo con cui il partito ha lavorato per la realizzazione del fronte unico sindacale in Italia nel 1921-22, rifiutandosi di partecipare alle “trattative” con gli altri partiti “proletari”, consapevole che la sola sua presenza alle discussioni avrebbe pregiudicato la realizzazione di questa importante fase della tattica rivoluzionaria impostata dal partito stesso, perché i partiti “proletari” e i bonzi sindacali avrebbero posto al partito condizioni politiche ed anche programmatiche inaccettabili e per questo tali da far saltare il fronte unico stesso. Non solo il partito si astenne da questo incontro, ma non pose, come partito, condizioni né pretese posti di dirigenza per i suoi delegati sindacali al vertice dell’Alleanza del Lavoro, non certo per il gusto di dimostrarsi “flessibile”, ma perché riteneva, a giusta ragione, essere l’unità sindacale proletaria il terreno più favorevole all’azione rivoluzionaria del partito, verso cui partiti “operai” e bonzi confederali venivano prepotentemente spinti, loro malgrado, dalle condizioni materiali e dalla decisione di lotta delle masse operaie. Partiti e sindacati furono costretti ad aderire alla proposta comunista, non perché la condividessero e non ne considerassero le conseguenze loro sfavorevoli, ma perché, pressati dall’azione di classe del proletariato, avrebbero altrimenti perso per sempre la faccia presso i lavoratori.

È di questa “flessibilità” che parla Lenin e non di licenza di oscillare da una parte e dall’altra secondo l’opportunità del momento. Secondo Lenin e la Sinistra non si doveva ripudiare, per esempio, la tattica parlamentare rivoluzionaria perché sconveniente per dei comunisti, antidemocratici e antiparlamentari, l’uso della tribuna parlamentare borghese, come sostenevano anarchici e tribunisti.

Al posto della dialettica della tattica gli epigoni di Lenin e di Trotski hanno messo la caricatura di “programmi intermedi” che li qualificano come ala sinistra dell’opportunismo. Un programma e una tattica si definiscono rivoluzionari comunisti quando assicurano concretamente l’autonomia del Partito dallo Stato e da tutti gli altri partiti. L’intermedismo si è dimostrato inconsistente e ingannevole nella sua pretesa di vincere le resistenze di una situazione decisamente controrivoluzionaria escogitando tappe od obbiettivi intermedi tra la rivoluzione assente e la dittatura capitalistica prepotentemente operante, il cui raggiungimento avrebbe “avvicinato” il proletariato alla rivoluzione. Non siamo ancora alla bestemmia, forse alla ingenuità e senz’altro al volontarismo; ma l’opportunismo di “destra”, tanto per definire il carognume prezzolato dei falsi partiti comunisti e socialisti ufficiali, non sostiene posizioni e pretese diverse.

In linea teorica l’errore sta appunto nel considerare che il percorso che ci separa dalla vittoria rivoluzionaria sia costituito da una serie di gradini che il proletariato dovrebbe ascendere uno alla volta, da una serie di “conquiste” di classe con cui indebolire progressivamente lo Stato. La storia di questi ultimi 50 anni sta a dimostrare esattamente il contrario. Il proletariato è arrivato alla vetta rivoluzionaria in Russia, ha espresso un partito mondiale potentissimo, l’Internazionale Comunista, e una rete sindacale di classe internazionale, poi, nel volgere di pochissimi anni è ruzzolato ai piedi della scala. Tutti i supposti gradini sono saltati. La classe operaia sembra precipitata all’anno zero della sua storia. Da dieci anni, dal 1917 al 1926, di lotte furibonde e colossali, di reiterati violenti assalti alla cittadella borghese, di arretramenti ed avanzate dell’onda rivoluzionaria, il proletariato mondiale è uscito sconfitto dal duello mortale con il capitalismo internazionale, ma ha guadagnato definitivamente i mezzi fondamentali per la sua lotta emancipatrice: il partito di classe e la teoria rivoluzionaria marxista. Tutte le altre “conquiste” ha dovute lasciarle come trofei in mano al nemico!

L’errore si trasforma in bestemmia quando si pretende di conquistare questi fantomatici “obbiettivi intermedi” con mezzi pacifici, legali, democratici e financo parlamentari, o, in modo ancora più ingannevole, con surrogati del tipo scioperi della fame, referendum, pretenziosi fronti proletari, connubio impotente e chiacchierone di gruppi e gruppetti “estremisti”.

Non a caso l’intermedismo presenta obbiettivi esclusivamente politici, ignorando bellamente il campo del determinismo economico da cui sorgono le reali spinte della lotta e dello scontro di classe. Non a caso i fautori dell’intermedismo aspirano ad “una grande sinistra” dal PCI agli “extra”.

Prima di essere una questione politica, tattica ed organizzativa, la questione del potere è una questione programmatica. Se Marx, all’indomani della Comune di Parigi, poté dichiarare che la macchina statale borghese va distrutta e non conquistata, e sostituita con la macchina dittatoriale proletaria, la Sinistra ha dovuto dichiarare, dopo la sconfitta dell’Ottobre russo, che solo il partito comunista rivoluzionario, unico e mondiale, deve dirigere la rivoluzione proletaria e il suo Stato di dittatura proletaria. Chiunque postuli posizioni diverse è fuori dal campo della rivoluzione comunista. Sono queste questioni di principio, indiscutibili ed inopinabili. Il potere non è conquistabile “per porzioni”. È uno ed indivisibile. Ci sono momenti nella storia in cui effettivamente si ha un “dualismo di potere”, come in Russia alla vigilia dell’Ottobre 1917. Dualismo di potere, però, e non una coabitazione nello Stato borghese di forze di classe opposte. Contro il potere politico centrale della borghesia, il suo Stato, dovrà ergersi il contropotere proletario, rappresentato dalla organizzazione di classe degli operai, il quale sia in grado di immobilizzare la forza del nemico. Contropotere proletario, però, non porzione di potere borghese!

È caratteristico nei periodi amorfi della Storia che si faccia un gran parlare e scrivere di “politica”, come se il partito potesse “servirsi” della classe e a suo piacimento. La cruda realtà è che le cose vanno “per il loro verso” e che gli operai si muovono o non si muovono senza nemmeno accorgersi dell’esistenza di tanti nuovi duci spacciatori di “nuove” ricette.

 

 

 


Il Partito Comunista n.26, ottobre 1976

  

Prima di «conchiudere che il bilancio della tattica troppo elastica e troppo manovrata è risultato non solo negativo, ma disastrosamente fallimentare» (da «Natura, funzione e tattica...», 1945), a proposito della “flessibilità” vantata per leninista e sommamente rivoluzionaria, è opportuno riflettere che, alla fine, i flessibili propugnatori cadono tutti nel vituperato, anche da loro, opportunismo socialdemocratico di stampo “il fine è nulla, il movimento è tutto”. Non ci riferiamo tanto ai sottoprodotti odierni dell’estremismo anarco-sindacalista, né a quelli del non marxista ordinovismo, quanto alle posizioni che orecchiano questi motivi, saccheggiate da tutto il movimento opportunista anche quello di “destra”. Tutta la politica opportunista si riconduce al contingente, al momentaneo, all’immediato, quale che sia il belletto ideologico che la copre.

In sostanza la «caratteristica della tattica opportunista» è data dal sacrificio della «garanzia prima ed insostituibile della vittoria totale e finale (la capacità rivoluzionaria del partito di classe) all’azione contingente che avrebbe dovuto assicurare vantaggi momentanei e parziali al proletariato (l’aumento dell’influenza del partito sulle masse, ed una maggiore compattezza del proletariato nella lotta per il miglioramento graduale delle sue condizioni materiali e per il mantenimento di eventuali conquiste raggiunte)».

Da sempre l’argomentazione contro la tattica della Sinistra, considera vacua ed astratta la preparazione rivoluzionaria, ed invece solida e produttiva l’opera di ogni giorno per “conquiste” nel campo economico, sindacale, sociale, politico, culturale ecc. La preparazione rivoluzionaria non è l’inerte attesa dell’atto finale, cui l’opportunismo contrappone l’operosa e fervida iniziativa volontaristica e pragmatica per la “costruzione” quotidiana di “pezzi di socialismo” nel flaccido corpo della società capitalistica, ma azione pratica incessante in ogni campo per l’indirizzamento del proletariato verso la soluzione armata del conflitto sociale.

Il partito prima di intraprendere una data azione si deve chiedere se «nel guadagnare una eventuale maggiore influenza del partito sulle masse, non si sarà compromesso il carattere del partito e la sua capacità di guidare queste masse allo scopo finale?» (ivi).

  

AZIONE TATTICA “INDIRETTA” DEL PARTITO COMUNISTA

Il Punto 30, che apre la VI parte delle Tesi di Roma, sottolinea precisamente l’importanza di questo interrogativo.

Intanto la V parte si chiude con un periodo epigrammatico:

     «È dunque una necessità di pratica e di organizzazione, e non il desiderio di teorizzare e di schematizzare la complessità dei movimenti che il partito potrà essere chiamato ad intraprendere, che conduce a stabilire i termini e i limiti della tattica del partito, ed è per queste ragioni affatto concrete che esso deve prendere delle decisioni che sembrano restringere le sue possibilità di azione, ma che sole danno la garanzia della organica unità della sua opera nella lotta proletaria».

Tema di fondo, questo, su cui abbiamo più volte battuto nel corso di questo lavoro con particolare insistenza.

Il partito, in assenza di forze sue proprie per «l’assalto al potere borghese», «può e deve» influenzare gli «avvenimenti» premendo su «partiti e movimenti politici e sociali, tendendo a determinare sviluppi della situazione in senso favorevole alle proprie finalità ed in modo da affrettare il momento in cui sarà possibile l’azione risolutiva rivoluzionaria». «Le iniziative e gli atteggiamenti», ricorda insistentemente il testo, per ottenere l’influenzamento sulle situazioni favorevoli al partito «non devono in alcun modo essere e apparire in contraddizione colle esigenze ulteriori della lotta specifica del partito a seconda del programma di cui esso è il solo assertore e per il quale nel momento decisivo il proletariato dovrà lottare». Tutti i passi che il partito compie nell’azione pratica devono coerentemente svolgersi verso la vittoria finale. Ogni atteggiamento pratico deve essere coerente al programma, deve «porre in evidenza la necessità che il proletariato abbracci il programma e i metodi comunisti», non deve dare l’impressione che un dato caposaldo contingente sia fine a sé stesso, ma un presupposto per «procedere oltre».

Questo risultato pratico si consegue con mezzi pratici, nel senso che le masse, nel corso dell’azione, intuiscono che il soffermarsi sul caposaldo conquistato nasconde il pericolo di retrocedere se non addirittura di rimanere sconfitti, per cui si predispongono psicologicamente ad avanzare verso un successivo caposaldo, sempre alla condizione che il partito non abbia mai cessato di sollecitare l’avanzata o addirittura non abbia dato l’impressione che l’azione complessiva è terminata. Nel qual caso si assisterebbe «ad un indebolimento della struttura del partito e della sua influenza nella preparazione rivoluzionaria delle masse». Lo stesso risultato si otterrebbe nel caso in cui le masse non intendessero «procedere oltre» ed il partito si piegasse alla loro volontà, anziché stigmatizzare l’estrema pericolosità dell’apparente conquista contingente.

Lo svolgimento tattico non è un continuum temporale, ma sostanziale e dialettico, di punti che segnano il percorso verso la vittoria; vale a dire che o per la più forte influenza dei fattori oggettivi o per l’immaturità contingente delle masse, l’esecuzione del piano tattico può subire una battuta d’arresto, la cui ripresa è subordinata anche dal fatto che il partito non si faccia coinvolgere da questi elementi negativi. Si deve rilevare il richiamo, pressoché persistente in tutto il testo delle Tesi, ai riflessi negativi sul partito della tattica sbagliata o non corretta, perché dobbiamo ancora una volta ricordare che una delle deviazioni che si stava facendo strada nel partito e nell’I.C. era che nel campo dell’indirizzamento pratico si potesse essere liberi di decidere, che cioè la tattica fosse in qualche modo svincolata dai principi e dal programma.

I successivi punti mettono a fuoco il nodo della tattica costituito dalla questione, spinosa e delicata, delle “alleanze” per la migliore utilizzazione delle situazioni. Il nodo sussiste ancora oggi e sussisterà sinché non arriderà al proletariato la vittoria finale.

 

DESTRA” E “SINISTRA”

È un dilemma che sconvolge non solo le menti dei politicanti odierni ma anche quelli di cinquant’anni fa. L’avvento del fascismo, la sconfitta terribile della classe operaia mondiale culminata nel disastro sociale della seconda guerra imperialistica, hanno sciolto per sempre questo dilemma nella costatazione che «oggi i postulati economici, sociali e politici del liberalismo e della democrazia sono antistorici, illusori e reazionari, e che il mondo è alla svolta per cui nei grandi paesi l’organamento liberale scompare e cede il posto al più moderno sistema fascista» (da «Natura, funzione e tattica...», 1945).

La Sinistra Comunista scioglie il dilemma nell’unico modo possibile e cioè mettendo al centro della questione l’assoluta ed indiscutibile indipendenza e autonomia programmatica e tattica del partito. Le Tesi pervengono alla soluzione che non è possibile prospettare appoggi a governi borghesi di sinistra né alleanze con partiti “operai”, pur svolgendo una dimostrazione lucida che le forze in campo assumo posizioni diverse.

«Nella situazione storico-politica che corrisponde al potere democratico borghese – inizia la dimostrazione (nel 1922 eravamo a cavallo tra l’agonia della democrazia e l’avvento del fascismo) – si verifica in generale una divisione del campo politico in due correnti o “blocchi”, di destra e di sinistra, che si contendono la direzione dello Stato». Blocchi che operano all’interno del regime borghese, anche se quello detto di sinistra inalbera a volte la bandiera del socialismo. «Al blocco di sinistra aderiscono di massima più o meno apertamente i partiti socialdemocratici, coalizionisti per principio». Anche il Partito repubblicano faceva parte del campo della sinistra, ed oggi è dichiaratamente borghese, allo stesso modo che i falsi partiti “operai” dal PSDI al PCI. Le Tesi continuano: «Lo svolgimento di questa contesa non è indifferente al partito comunista, sia perché esso verte su punti e rivendicazioni che interessano le masse proletarie e ne richiamano l’attenzione, sia perché la sua soluzione con una vittoria della sinistra può realmente spianare la via alla rivoluzione proletaria». È difficile individuare oggi quali siano i «punti e le rivendicazioni» interessanti gli operai. Forse la repubblica, il compromesso storico, l’autonomia locale, la riforma dell’amministrazione statale ecc.? Ma questi sono punti e rivendicazioni della piccola borghesia, delle aristocrazie proletarie, del capitale, non della classe operaia!

Il testo prosegue:

     «Nell’esaminare il problema della opportunità tattica di coalizioni con gli elementi politici di sinistra, e volendo evitare ogni apriorismo falsamente dottrinario o scioccamente sentimentale e puritano, si deve tener soprattutto presente che il partito comunista dispone di una iniziativa di movimenti nella misura in cui è capace di seguire con continuità il suo processo di organizzazione e di preparazione da cui trae quella influenza sulle masse che gli consente di chiamarle all’azione. Esso non può proporsi una tattica con un criterio occasionale e temporaneo, calcolando di poter eseguire in seguito, al momento in cui tale tattica apparisse superata, una brusca conversione e cambiamento di fronte mutando in nemici i suoi alleati di ieri. Se non si vogliono compromettere i legami con la massa ed il loro rafforzamento nel momento in cui sarà più necessario che si manifestino, si dovrà dunque seguire nelle dichiarazioni e negli atteggiamenti pubblici ed ufficiali una continuità di metodo e di intenti strettamente coerente alla propaganda e alla preparazione ininterrotta per la lotta finale».

Per i falsificatori di ogni risma citiamo da «Natura, funzione e tattica...» in che modo il partito scolpisce le lezioni della storia, anticipate nelle Tesi di Roma:

     «La tattica delle alleanze insurrezionali contro i vecchi regimi storicamente si chiude col grande fatto della Rivoluzione in Russia, che eliminò l’ultimo imponente apparato statale militare di carattere non capitalistico».

     «Dopo tale fase, la possibilità anche teorica della tattica dei blocchi deve considerarsi formalmente e centralmente denunziata dal movimento internazionale rivoluzionario».

Punto e basta, non si discute.

In quale senso si differenziano la sinistra dalla destra? «Il contenuto dei dissensi – sono le Tesi – tra la destra e la sinistra borghese per la massima parte viene a commuovere il proletariato solo in virtù di falsificazioni demagogiche (...) In generale le rivendicazioni politiche della sinistra (...) corrispondono a condizioni di miglior respiro e di più efficace difesa del capitalismo moderno tanto nel loro intrinseco valore quanto perché tendono a dare alle masse la illusione che le presenti istituzioni possano essere utilizzate per il loro processo di emancipazione. Questo deve dirsi per i postulati di allargamento del suffragio ed altre garanzie e perfezionamenti del liberalismo, come per la lotta anticlericale e tutto il bagaglio della politica massonica. Non diverso valore hanno le riforme legislative di ordine economico o sociale: o la loro realizzazione non si avvererà o si avvererà solo nella misura e coll’intento di creare una remora alla spinta rivoluzionaria delle masse». Come è ben dimostrato dalle odierne pagliacciate sull’equo canone per le abitazioni, sul salario garantito, la scala mobile, divorzio, aborto, e così all’infinito.

Ecco in quale senso un «governo della sinistra borghese o anche un governo socialdemocratico» potrebbero «spianare la via alla rivoluzione proletaria»: «in quanto la loro opera permetterà al proletariato di dedurre dai fatti la reale esperienza che solo la instaurazione della sua dittatura dà luogo ad una reale sconfitta del capitalismo. È evidente che la utilizzazione di una simile esperienza avverrà in modo efficace solo nella misura in cui il partito comunista avrà preventivamente denunziato tale fallimento, e avrà conservata una salda organizzazione indipendente attorno a cui il proletariato potrà raggrupparsi allorquando sarà costretto ad abbandonare i gruppi e i partiti che avrà in parte sostenuto nel loro esperimento di governo».

È solo in questo senso che si valuta l’utilità obbiettiva per la preparazione rivoluzionaria delle masse dei governi della sinistra borghese, e non perché questi costituiscano un passo innanzi verso il potere. Ad oggi, 1976, la sinistra e la destra borghesi sono talmente strette tra loro che appare inverosimile che un governo di sinistra si accinga a proporre al proletariato rivendicazioni e obbiettivi che lo commuovano come classe.

La borghesia, in alleanza con l’opportunismo dei falsi partiti operai, ha dovuto ricorre ad una delle tante false rivoluzioni per condizionare il proletariato ai suoi interessi: la cosiddetta Resistenza, copia più tragica dell’altra falsa rivoluzione, quella fascista. Siamo in piena sarabanda di «rivendicazioni illusorie presentate dalle colludenti gerarchie di innumeri partiti, gruppi e movimenti», tanto illusorie che sfiorano addirittura l’autolesionismo per i proletari.

Dato ed accertato che il presupposto perché si possano costruire governi di sinistra è comunque quello della difesa dello Stato, nessuna «maggiore libertà di organizzazione, di preparazione, di azione rivoluzionaria» verrebbe concessa al proletariato, al contrario questi governi «dinanzi ad un assalto delle masse contro la macchina dello Stato democratico risponderebbero con la più feroce reazione». Il PCI, sebbene non formalmente al governo, sebbene non si sia in presenza di «un assalto delle masse contro la macchina dello Stato democratico», proclama assieme a tutti gli altri partiti anticipatamente che difenderà questo Stato dagli eventuali assalti, con tutti i mezzi, compresa la repressione armata.

 

 

 



Il Partito Comunista n.27, novembre 1976

  

I Punti 37, 38, 39 prendono in considerazione anche l’eventualità che la destra borghese dia l’assalto al «governo democratico o socialdemocratico», ad un governo della “sinistra”. Il partito non solidarizzerà con il governo di “sinistra”, già denunciato come assertore della conservazione capitalistica.

     «Potrà avvenire (Punto 38) che il governo di sinistra lasci compiere ad organizzazioni di destra, a bande bianche borghesi, le loro gesta contro il proletariato e le sue istituzioni, e non solo non chieda l’appoggio del proletariato ma pretenda che questo non abbia il diritto di rispondere organizzando una resistenza armata. In tal caso i comunisti dimostreranno come non possa trattarsi che di una effettiva complicità anzi di una divisione di funzioni tra governo liberale e forze irregolari reazionarie: la borghesia allora non discute più se le convenga meglio il metodo dell’addormentamento democratico e riformista o quello della repressione violenta, ma li impiega tutti i due nello stesso tempo. In questa situazione il vero e peggiore nemico della preparazione rivoluzionaria è la parte liberale governante: essa illude il proletariato che ne prenderà la difesa in nome della legalità per trovarlo inerme e disorganizzato e poterlo prostrare in pieno accordo coi bianchi il giorno che esso si trovasse messo dalla forza degli eventi nella necessità di lottare contro l’apparecchio legale che presiede al suo sfruttamento».

Questo Punto riproduce e anticipa tutta la storia attuale dal 1922 al 1976 ed illumina il percorso di inserzione nello Stato della politica socialdemocratica in tutti i paesi. Questo imparentamento dei partiti opportunisti con lo Stato della borghesia non è oggi un caso, una eccezione, come poteva essere il ministerialismo del “socialista” Millerand all’inizio di questo secolo, ma è una tendenza materialmente conclusasi in Germania, in Inghilterra, nei paesi dell’oriente europeo, e che volge allo stesso approdo anche in Italia e Francia, ritardato soltanto dal freno costituito dal legame ideologico di questi partiti con la Russia, ma che si sta oramai esaurendo velocemente a contatto diretto della reale e diuturna prova di fedeltà allo Stato capitalista. È questa sempre più stretta alleanza dei partiti opportunisti con l’interesse dello Stato e la crescente statizzazione dell’economia, particolarmente in Italia, che escludono, in linea generale, il ripetersi di un “assalto della destra” ad un governo democratico o socialdemocratico, ad un governo della “sinistra”. Mentre è assai più probabile, per queste stesse ragioni economiche e politiche, che si assista ad un’alleanza permanente tra destra e sinistra in un governo del “compromesso storico” (Italia), di unità nazionale.

In tale ipotesi, non certo remota, simili governi o coalizioni non inviterebbero «il proletariato a partecipare alla lotta armata contro l’assalto della destra» e il compito di reprimerlo sarebbe assolto direttamente da questo autentico fronte unico della borghesia. Fermo resta che se venissero armati i proletari contro le destre il partito comunista inviterebbe i proletari a tenersi le armi e a rivolgerle prima di tutto contro l’apparato legale dello Stato borghese, oltre che contro le bande bianche. Già la Sinistra aveva ipotizzato la collusione tra il partito fascista e la socialdemocrazia nel 1923-24. Se il blocco non si costituì non fu certo per merito dell’opportunista PSI, ma per le scarse garanzie che questo partitaccio dava che il proletariato, commosso da siffatto disgustoso connubio, non avrebbe risposto con una mobilitazione rivoluzionaria, che il sano partito comunista di allora avrebbe potenziata e diretta. La previsione della Sinistra si è avverata nel secondo dopo-guerra ed alla scala internazionale.

Se nessun “lealismo” da parte del proletariato era dovuto ieri in difesa di un governo di sinistra contro l’assalto armato della destra, a maggior ragione non è dovuto oggi che nessuno assale nessuno.

I Punti da 34 a 36 trattano della controproducenza di un accordo col blocco di sinistra borghese del Partito Comunista, di cui non favorirebbe il successo ma lo indebolirebbe dovendo il partito sempre e dovunque sollecitare le masse proletarie a battersi contro qualsiasi coalizione governativa che non instauri la dittatura proletaria, favorendo così i pretesti della destra. Nel Punto 35, di fronte alla probabilità che il blocco della sinistra postuli rivendicazioni in parte interessanti il proletariato, anche se con scopi demagogici e in maniera diversiva, il partito inviterà il proletariato ad «accettare le concessioni della sinistra come una esperienza» su cui il partito anticiperà il suo fondato pessimismo e «la necessità che il proletariato per non uscire rovinato da questa ipotesi, non metta come posta del gioco la sua indipendenza di organizzazione e di influenza politica».

Allora 1921-22 le organizzazioni di classe, i sindacati economici proletari, pur diretti da capi riformisti, non avevano perduto, come oggi, la loro «indipendenza» e la loro «influenza politica» di classe, non erano, cioè, al servizio dichiarato e praticato dell’economia nazionale e dello Stato borghese, per effetto particolare della presenza attiva, rivoluzionaria, dei gruppi comunisti, i quali operavano instancabilmente per l’unità proletaria e per la direzione dell’organizzazione di classe in una lotta serrata contro i bonzi, sempre pronti a vendere l’«indipendenza» della classe e la sua «influenza politica» alla borghesia.

Questa condizione di forza del proletariato faceva sì che le concessioni della borghesia e della socialdemocrazia potessero veramente «commuovere», in alcuni casi, gli operai e il loro perseguimento non pregiudicare la natura e l’azione di classe dei sindacati operai, anzi favorisse l’opera rivoluzionaria del partito per lo smascheramento delle promesse, delle proposte, delle concessioni effimere del blocco di sinistra. Il partito, per esempio, non si trovò mai nella condizione di dover lottare contro la direzione sindacale riformista per la difesa dei contratti di lavoro e della giornata di otto ore, la cui integrità era minacciata dall’offensiva padronale. Spesso la direzione della CGL, suo malgrado, salvo rari esempi, era costretta a proclamare la lotta contro il padronato per la difesa delle conquiste proletarie, non perdendo occasione per attenuare la lotta, frazionarla e incanalarla nei meandri ministeriali all’arbitrio dello Stato dei padroni. Il partito, sebbene con la convinzione esatta che i capi avrebbero fatto di tutto per farle fallire, non poteva invitare gli operai a disertare queste lotte col pretesto che erano guidate da riformisti. Incitava invece gli operai a seguire queste direttive, premettendo che non si sarebbero realizzate a favore dei lavoratori se non le avessero perseguite con forza e impegno di classe incalzando i loro dirigenti, controllando che non venissero barattate con un decadimento della loro organizzazione, come nel caso del «patto di pacificazione coi fascisti». La natura di classe dell’organizzazione operaia e la presenza attiva e coerente dei comunisti non consentì il cedimento proletario. Per questo intervenne la violenza fascista contro i comunisti in primo luogo e le Camere del Lavoro, e poi contro gli operai in generale e contro tutto quanto sapeva di proletariato.

La tiepidezza, chiamiamola così, dei sindacati odierni deriva dall’essere sul terreno del padrone e dello Stato-padrone, anziché su quello proletario, deriva dall’assenza di una azione determinante del vero partito comunista, ancora in incubazione per effetto delle tragiche sconfitte e dei vergognosi tradimenti sofferti dalla classe proletaria alla scala mondiale. A causa di questi fattori l’organizzazione operaia moderna va letteralmente a rimorchio degli interessi padronali e dello Stato borghese e non si pone mai dal punto di vista degli interessi suoi propri di associazione di puri salariati in difesa delle loro condizioni economiche e materiali; non imposta mai un’azione di classe, nemmeno quando osa, per la pressione oggettiva delle masse, avanzare una rivendicazione economica, nemmeno quando azzarda di proclamare uno sciopero che serve alla direzione traditrice per costringere gli operai in agitazione a non debordare dai sacri confini della legalità e del “civismo”.

Se l’organizzazione operaia del 1921 poteva essere viscida, tiepida, riformista, mantenendo sempre i caratteri di classe, questa di oggi è un’organizzazione non più di classe sebbene composta di operai, è una organizzazione che sta tutta nel campo della borghesia, strumento della politica statale borghese. È una organizzazione, cioè, che ha venduto la «indipendenza» delle associazioni operaie allo Stato, e parla parole borghesi, padronali, statali! È per tutte queste ragioni che i sindacati odierni, ammesso che esista una sinistra borghese in grado di proporre concessioni utili per gli operai, non sono in grado di accoglierle, né tanto meno di proporle essi stessi. Il proletariato è già «rovinato», ha già perduto questa «indipendenza» di organizzazione di classe, per cui è estremamente difficile per il piccolo partito comunista rivoluzionario esercitare la sua influenza politica, dare indirizzi che vengano accolti dai lavoratori.

In tal stato il proletariato, qualsiasi proposta accolga che gli pervenga dalle sinistre, non farà un passo avanti verso la sua riorganizzazione classista se non matura l’esperienza che la sua guida sindacale e politica attuale è esclusivamente al servizio delle classi nemiche. Questa esperienza è il risultato della feroce pressione economica e sociale del capitalismo che suscita la ribellione istintiva di fronte agli interessi elementari delle masse lesi dall’azione padronale, in parallelo all’azione incessante del partito volta a demolire le posizioni dottrinarie e programmatiche dei partiti opportunisti e a penetrare in più vasto raggio possibile le schiere operaie con l’indirizzo della ricostruzione della organizzazione sindacale classista e della difesa senza quartiere degli interessi contingenti dei lavoratori.

È su questo terreno e tendendo a realizzare questo indirizzo pratico che il partito si mette nella giusta condizione di mostrare

     «come tutta la borghesia sia in effetti schierata su di un fronte unico contro il proletariato rivoluzionario, e quei partiti che si dicono operai, ma sostengono la coalizione con parte di essa, non sono che i suoi complici e i suoi agenti».

Del pari, aggiungiamo noi, delle direzioni sindacali tricolore. A questo fine il partito, direttamente e per mezzo dei suoi gruppi operai, non si limita alla critica feroce, alla propaganda insistente contro questo schieramento borghese di partiti legali-padronato-sindacati nazionali-Stato, ma opera anche, limitatamente alle sue forze fisiche, per organizzare praticamente i lavoratori più colpiti dallo schiacciamento economico e dalla politica nefasta e traditrice dei falsi partiti operai e dei falsi sindacati proletari, per dare ad essi una direttiva di classe, unitaria e disciplinata. I lavoratori comunisti manifestano così di essere in prima fila nelle lotte economiche e in quelle per la ritessitura di una rete autenticamente proletaria, vero strumento per la concreta difesa degli interessi immediati della classe operaia.

A differenza del primo dopo-guerra, in cui la tattica di fronte unico era materialmente possibile realizzarla con l’unione dei sindaci classisti, anche se obtorto collo i dirigenti riformisti, oggi l’obbiettivo immediato del fronte unico, cioè l’unificazione dei diversi strati di lavoratori nella trincea della difesa di classe, si realizza nell’opera di ricostruzione delle associazioni economiche dei lavoratori, la cui prima tenue trama è rappresentata da quei gruppi di salariati che si organizzano sulla base delle condizioni economiche reali della classe proletaria, della loro difesa senza eccezioni e senza esclusioni di colpi, della assoluta indiscriminazione ideologica e politica degli aderenti, della lotta contro la politica dei sindacati ufficiali, confederali e autonomi.

Il partito sa, anche per esperienza, di essere il solo a propugnare non soltanto una lotta senza quartiere contro le direttive dei falsi sindacati attuali, ma anche di essere l’unico a dare l’indirizzo e a lavorare concretamente per una organizzazione di classe dei lavoratori unica ed unitaria, scontrandosi con tutte le direttive di tutti i sedicenti “sinistri”, fomentatori di confusione e disgregazione, tendenti a polverizzare la classe in tanti infiniti gruppetti, appendici di gruppi o conventicole politiche. In tal modo il partito diventa punto di attrazione e di riferimento per i lavoratori, per la loro organizzazione unificante in una rete sindacale ad indirizzo classista, perché non tende a costruire sindacati suoi propri, di soli lavoratori comunisti, come se soltanto i lavoratori comunisti potessero avere il privilegio della difesa economica organizzata, ma invia i suoi aderenti nella classe, per lottare con essa, manifestando così in maniera pratica che gli interessi del partito comunista rivoluzionario non divergono dalla difesa delle condizioni economiche della classe operaia, e mostrando in maniera vieppiù evidente che soltanto la direzione comunista anche delle lotte economiche immediate è garanzia di vittoria.

Questo compito è quanto mai evidente oggi che la politica sindacale delle Confederazioni fiancheggia i primi passi dell’offensiva capitalista e preannuncia una solidarietà sempre più pregnante con la difesa dello Stato e dell’economia nazionale, anziché dell’indipendenza della classe e della “economia” dei lavoratori.

In tutta questa opera, come in questo lavoro più volte ribadito, il partito non si immischia in coalizioni con altri partiti o gruppi politici, si dichiarino pure di “sinistra” o di “estrema sinistra”. Questo atteggiamento non è tratto da preconcetti ideologici o dottrinari, ma dalla concreta attività di questi sedicenti rivoluzionari nel campo della difesa economica, in cui, come lo provano a dismisura le nostre piccole ma significative esperienze dirette e il generale loro comportamento, si schierano sempre, senza eccezione, quanto a direttive politiche e a movimento organizzato, a fianco della politica confederale e opportunista con demagogiche intenzioni di “correggerne” le mosse più sbracatamente traditrici, contribuendo a coprire “da sinistra” sindacati e partiti votati anima e corpo a tenere legata la classe operaia al regime politico e sociale esistente.

 

 

 



Il Partito Comunista n.28, dicembre 1976

  

Malgrado la tendenza storica al fascismo, l’attuale tattica dei governi dello Stato capitalista, di contenimento democratico della potenzialità di classe del proletariato, ogni giorno sollecitato a spezzare il pacifismo impostogli dai suoi partiti e sindacati ufficiali, non sarebbe possibile se non fosse sostenuta dalla “sinistra” costituzionale e dal sindacalismo tricolore. Sinché il proletariato resterà imbrigliato nelle maglie di questo sistema tattico la borghesia non avrà bisogno di usare direttamente la repressione armata. La borghesia dovrà ricorre invece direttamente alle armi quando il proletariato spezzerà la rete in cui è prigioniero. In questa eventualità la condizione più favorevole per la rivoluzione è che i partiti borghesi e quelli opportunisti marcino di conserva per reprimere con le armi le azioni operaie, come ora sono stretti alleati per contenerle con mezzi non cruenti. Meglio sarebbe che questi partiti confluissero in un unico partito di unità nazionale.

Rispetto al 1922 le condizioni della lotta di classe sono mutate. Allora in Italia la politica opportunista non si era fusa con quella borghese. La separazione tra “destra” e “sinistra”, o meglio tra la politica di «addormentamento democratico e riformista» e la politica di «repressione violenta» era determinata da condizioni oggettive reali, dal fatto cioè che dietro i partiti opportunisti vi era una massa di lavoratori in movimento, inquadrata in organizzazioni sindacali di classe combattive e potenti, seppure a direzione riformista, e con una buona influenza del partito comunista rivoluzionario. In questa situazione la borghesia era costretta a proporre delle concessioni, a promettere dei piccoli vantaggi.

Oggi la borghesia non propone alcun vantaggio al proletariato, non prospetta alcun miglioramento, anzi non esita a chiedere «sacrifici» e abbandono ulteriore delle sue esigenze in nome della «economia nazionale» della difesa della «democrazia». Queste richieste vengono fatte congiuntamente dalla “destra” e dalla “sinistra” borghesi, dai partiti classici del capitalismo e da quelli opportunisti, assieme alle centrali sindacali. Di fatto siamo in presenza di una politica unitaria della borghesia, che cinquant’anni fa portò a battesimo il primo governo fascista.

La borghesia avrebbe vantaggi a mantenere la funzione di due schieramenti contrapposti, come ha fatto sino al 1974, se non fosse in presenza di una crisi economica generale del suo sistema produttivo. Che la borghesia riesca ad allineare tutti i suoi strati sociali borghesi su un unico fronte politico, talché appaia al proletariato ben visibile e chiara la sua tattica, è risultato positivo, e storicamente progressivo che lo Stato non riesca più a nascondere la sua natura e funzione di strumento di repressione e sia costretto a mostrare apertamente il suo totalitarismo antioperaio e anticomunista. Dinanzi a questo modo di presentarsi del capitalismo il proletariato è indotto per forza di cose a non avere dubbi sulle intenzioni della borghesia, a non esitare a riconoscervi il suo storico nemico e di conseguenza è spinto ad impugnare esso stesso le armi. Armi contro armi è una condizione storica inevitabile. Il prevederla non è mero desiderio di lotta ma è una necessità per la quale il proletariato deve prepararsi, come d’altronde si prepara la borghesia.

La condizione più sfavorevole, invece, è che restino separati i due metodi di lotta antiproletaria della borghesia, e che l’opportunismo conservi il monopolio sul proletariato sino al giorno in cui la borghesia dovrà scatenare la lotta armata contro la classe operaia.

La tattica comunista, nel prevedere queste due possibilità tattiche della borghesia, non deve dimenticare che la prima, quella di contenimento democratico, è in atto da trent’anni e che ancora funziona per la presenza di falsi partiti e sindacati operai alla testa della classe. La conseguenza di questa tattica è che la borghesia vuole arrivare al momento dell’attacco con un proletariato «inerme e disarmato» dalla politica pacifista e democratica impostagli dai suoi capi. È per queste troppo evidenti ragioni che il partito addita alla classe che il nemico borghese sta dietro i partiti del tradimento e i sindacati tricolore, e che la condizione per il ritorno alla offensiva proletaria è lo svuotamento dei falsi partiti proletari e dei sindacati a direzione nazionalista. Per vincere la borghesia è necessario spazzar via questo paravento. Da un punto vista tattico non esiste una successione temporale, prima si abbatte l’opportunismo e poi si rovesciano le forze di classe sullo Stato. Sono due aspetti congiunti ed inseparabili del processo rivoluzionario.

 

FASI DELLA TATTICA “INDIRETTA”

Mentre si svolge lo scontro degli operai in difesa delle loro condizioni economiche, al tempo stesso il proletario saggia e mette alla prova la efficacia reale della politica sindacale tricolore e quella dei partiti opportunisti che la ispirano. Più rigorosa ed aspra si fa la lotta per il pane e il lavoro contro il padrone, al tempo stesso più aspra e vigorosa si fa la lotta contro la direzione sindacale e politica del movimento operaio. Di conseguenza, la lotta di difesa sul terreno economico di classe obbliga padroni, Stato, falsi partiti e sindacati operai a schierarsi contro la classe operaia. Deriva da qui la intransigenza tattica del partito. Il terreno tattico, in cui da un lato si stabilisce il collegamento con gli effettivi della classe dall’altro si entra in conflitto con gli interessi della borghesia, è appunto il terreno della difesa economica e dell’organizzazione di classe degli operai. È nell’organizzazione operaia che si decidono le sorti della ripresa e non nei corridoi dei partiti, tanto meno in quello dei ministeri, del parlamento e nemmeno in quelli quasi ministeriali dei sindacati ufficiali.

Insistiamo su questo argomento, perché costituisce il vero e principale problema tattico, una volta rimesse a punto le questioni di programma e di dottrina. Se non si intende questo, si gira tra mille astrazioni e il partito si confonde tra i mille gruppuscoli. Non è sufficiente sostenere che i comunisti devono partecipare alle lotte economiche dei lavoratori. Non è di per sé distintivo sostenere che gli attuali sindacati non difendono gli interessi dei proletari. Non bastano le proclamazioni di principio né le riaffermazioni delle verità rivoluzionarie. Tutto ciò è necessario, ma il partito deve sforzarsi di studiare l’uso dei mezzi pratici atti ad influenzare i proletari, senza pregiudicare l’azione complessiva verso la vittoria finale.

 

LA “UNITÁ PROLETARIA”

I lavoratori comunisti agiscono sempre nel senso di affasciare le forze proletarie, di operare non come elementi di divisione, anzi, di essere gli unici ad operare in concreto per condurre le schiere operaie verso la massima solidarietà. In tal modo il partito indicherà in ogni circostanza quali sono i motivi comuni a tutti i lavoratori, perché in ogni azione, anche minima, tutti gli operai riconoscano che sono in gioco i loro interessi, prescindendo dalle rispettive affiliazioni politiche e convinzioni ideologiche ed anche dagli inquadramenti sindacali esistenti, i quali, come più volte dimostrato, stanno tutti nel campo della difesa del regime attuale, cioè sono tutti “autonomi” dagli interessi dei lavoratori salariati. Dividere gli operai secondo l’inquadramento nei diversi partiti, nei diversi sindacati, e le professioni ideologiche è disfattismo. Questo disfattismo lo compiono quei gruppi o partiti politici che o negano la necessità della organizzazione sindacale, o prospettano la nascita di strani organismi non sindacali, oppure di sindacati di partito, alla stregua di anarchici e consiliaristi del primo dopo-guerra, sotto il pretesto di ribellarsi al dominio degli attuali dirigenti sindacali e dei partiti opportunisti.

Altro elemento disfattista e anti-unitario è quello dell’agnosticismo circa il grave problema del risorgere di una rete sindacale di classe. L’indirizzo del partito è sotto questo aspetto fermo ed irrevocabile: deve risorgere l’organizzazione economica di difesa dei salariati. Senza questo non ci sarà nemmeno la ripresa del moto rivoluzionario del proletariato. Si nota che la tattica del partito di fronte unico proletario e di unità proletaria non è affatto cambiata, ma sono cambiate le condizioni.

 

L’INDIRIZZO PRATICO DEL PARTITO

Il partito non sta in olimpica attesa che si ricostruiscono i sindacati classisti, per poi penetrarli e conquistarne la direzione. Il partito è esso stesso uno dei fattori della rinascita dei sindacati rossi di domani.

Abbiamo visto che la tattica di unità proletaria, sulla base della difesa degli interessi economici comuni a tutti i lavoratori salariati, è anche oggi attuale; ed abbiamo costatato che si può realizzare soltanto nel campo dell’organizzazione economica di classe, e che le altre soluzioni, o meglio, il ritorno a soluzioni “politiche” o di fronte unico politico d’infausta memoria, impediscono la realizzazione di questo obbiettivo che è del partito in quanto è anche della classe. La questione della unità sindacale, quindi, si precisa nell’opera e nella lotta per la ricostruzione dell’organizzazione di classe, se è vero, come è vero, che senza questa non si difendono nemmeno gli interessi immediati dei lavoratori. Ne consegue che vanno di pari passo sia l’azione di difesa economica sia la ricostruzione dell’organizzazione da cui lotta contro il padronato e lo Stato, e lotta contro il sindacalismo tricolore e di riflesso contro i partiti che lo promuovono. Per difendere il pane e il lavoro dall’ingordigia padronale gli operai si scontrano non solo contro i padroni, ma contro la burocrazia tricolore. Questi due aspetti della lotta di difesa economica obbligano gli operai a darsi un’organizzazione adeguata, perché senza organizzazione è impossibile la lotta,e senza disciplina è impossibile l’organizzazione.

L’organizzazione di classe quindi nasce con la lotta per la difesa degli interessi economici e non con un atto formale costitutivo di una nuova centrale sindacale. Nemmeno i sindacati si fondano ma sono il risultato di un processo dialettico, di scontro tra forze sociali e politiche. Il partito quindi non proporrà la costruzione di nuovi sindacati, né fonderà esso stesso nuovi sindacati. Il partito si fa promotore, invece, di indirizzi pratici per difendere le condizioni economiche degli operai, avendo cura di dimostrare sempre il tradimento dei capi, e chiamando gli operai ad organizzare sui posti di lavoro le loro forze in contrapposizione alle direttive tricolore, ma non al sindacato come strumento necessario di lotta.

Le combinazioni formali che scaturiscono da questo scontro possono essere le più svariate, ma sarebbe illusorio pensare che queste siano il principio condizionatore della lotta. Lo stesso dicasi del falso problema se si debba lottare dentro o fuori i sindacati ufficiali. Non è questo un principio. Il principio è la lotta di difesa economica che si scatena contro le condizioni poste dal padronato e dalla sua organizzazione politica e statale e contro quanti di fatto si oppongono a questa lotta. La conquista dell’organizzazione di classe è determinata dai rapporti di forza, dalla capacità degli operai di imporre le direttive di classe con cui plasmare la loro organizzazione. Gli embrioni di organi operai che timidamente stanno sorgendo e che sorgeranno più numerosi e potenti domani nel colmo della lotta, raggrupperanno infatti lavoratori iscritti e non iscritti ai sindacati esistenti, inquadrati o meno in partiti politici. È questa la strada per l’organizzazione di classe aperta, che non discrimina i lavoratori. Se questi piccoli organi sapranno difendere questa peculiarità di classe dalle pressioni, soprattutto provenienti dal gruppettame, con una forte determinazione di lotta, potranno assolvere alla funzione di ridare al proletariato le sue organizzazioni. E dalla generalizzazione di questo processo organico che scaturiranno i sindacati rossi, l’organizzazione economica di classe del proletariato in lotta strenua e serrata per difendere le sue condizioni economiche dall’offensiva capitalistica.

Nell’insieme di questo processo complicato il partito rappresenta la visione generale e del processo stesso e dello sbocco conseguente. Non pretende un trattamento di privilegio, né impone la sua direzione politica, non solo perché vuole dimostrare ai lavoratori di non avere interessi diversi dai loro, ma anche per vincere le diffidenze che il tradimento di partiti e sindacati venduti alla borghesia ha suscitato nelle file operaie. Il partito è l’unico a mettere a disposizione della classe la sua capacità d’azione senza contropartite. Saranno i lavoratori nel fuoco della lotta ad individuare nelle direttive comuniste rivoluzionarie le uniche che lo condurranno alla vittoria. In tal modo il partito apparirà alla classe il suo stato maggiore e come tale ne prenderà la guida per una tattica “diretta”, quando potrà disporre tutti i reparti della classe in quell’ordine di combattimento che i piani tattici hanno previsto.