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Nota: Ordiniamo qui un mosaico di citazioni al fine di esemplificare, come con delle pietre miliari, il percorso della interpretazione marxista del fondamentale fenomeno storico della formazione di nazioni. Le citazioni sono tratte da testi di Marx, di Lenin e del nostro partito, come indicato, ma la trascrizione dei singoli passi – vogliamo avvertire – per necessità espositive non e sempre rigorosamente alla lettera e le sottolineature spesso sono nostre.
SFONDO STORICO: LO SVILUPPO DELLE FORZE PRODUTTIVE
L’attuale stadio della rivoluzione industriale, già previsto da Marx, deriva dalla vittoria decisiva sulla manifattura. «Questo grado di sviluppo tecnico impone nuovi rapporti produttivi e sociali, che fanno sempre più imperiose le rivoluzioni borghesi, per spezzare e gettar via tutte le catene della vecchia società, per la vittoria completa della produzione mercantile; quindi l’unità politica dei territori la cui popolazione parla la stessa lingua, una delle condizioni più importanti per la circolazione delle merci realmente libera e vasta e per lo stretto collegamento del mercato con ogni padrone o piccolo padrone, con ogni venditore e compratore. Spingono a tale stato i fattori economici più profondi: ecco perché in tutta l’Europa occidentale – o meglio, in tutto il mondo civile – lo Stato nazionale è lo Stato tipico, normale, del periodo capitalistico. Per conseguenza, se vogliamo comprendere il significato della autodecisione delle nazioni, arriveremo necessariamente a questa conclusione: per autodecisione delle nazioni s’intende la lordo separazione statale dalle collettività nazionali straniere, s’intende la formazione di uno Stato nazionale indipendente» (Lenin, “Che cos’è il diritto delle nazioni all’autodecisione”, 1916).
L’IRLANDA
«Nel 1860‑70 in Inghilterra la rivoluzione borghese era terminata da lungo tempo. In Irlanda non era ancora terminata. Marx aveva pensato in un primo momento che l’Irlanda non sarebbe stata liberata dal movimento nazionale della nazione oppressa, ma dal movimento operaio della nazione che l’opprimeva: se il capitalismo in Inghilterra fosse stato tolto di mezzo rapidamente, come Marx allora sperava, non vi sarebbe stato posto per un movimento democratico borghese nazionale in Irlanda. Per Marx i movimenti nazionali non sono un assoluto, perché egli sa che soltanto la vittoria della classe operaia saprà portare alla completa liberazione di tutte le nazionalità.
«Ma le circostanze hanno fatto sì che la classe operaia inglese è caduta per un periodo abbastanza lungo sotto l’influenza dei liberali, accodandosi a loro e decapitandosi con una politica operaia liberale. All’opposto il movimento borghese di liberazione in Irlanda si rafforzava e assumeva una forma rivoluzionaria. Marx rivide la propria posizione. “È una disgrazia per un popolo d’aver asservito un altro popolo”. La classe operaia in Inghilterra non sarà liberata finché l’Irlanda non si libererà dal giogo inglese; l’asservimento dell’Irlanda rafforza ed alimenta la reazione in Inghilterra.
«Marx, facendo votare dall’Internazionale una risoluzione che esprimeva simpatia per la “nazione irlandese”, per il “popolo irlandese”, propugnava la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra, “anche se dopo la separazione si arriverà alla federazione”. Avversario, per principio, del federalismo, Marx ammette la federazione nel caso in questione, purché alla liberazione dei Irlanda si giunga non per via riformista ma per via rivoluzionaria, con un movimento delle masse popolari d’Irlanda, sostenuto dalla classe operaia d’Inghilterra (...)
«È indiscutibile che soltanto una tale soluzione del problema storico avrebbe maggiormente favorito gli interessi del proletariato e la rapidità dell’evoluzione sociale. Soltanto questa politica poteva risparmiare all’Irlanda e all’Inghilterra che le necessarie riforme si protraessero per mezzo secolo e che i liberali le deformassero a vantaggio della reazione» (Lenin, “L’utopista Carlo Marx e la pratica Rosa Luxemburg”).
LA POLONIA
«Così pure, Marx ed Engels, consideravano un obbligo assoluto per tutta la democrazia occidentale europea, e ancor più per la socialdemocrazia, l‘appoggio attivo alle rivendicazioni d’indipendenza della Polonia. Negli anni 1840‑50 e 1860‑70, periodo della rivoluzione borghese in Austria e in Germania, periodo della “riforma contadina” in Russia, questo punto di vista era completamente giusto ed era l’unico coerentemente democratico e proletario. Finché le masse popolari della Russia e della maggioranza dei paesi slavi dormivano ancora un sonno profondo, finché in questi paesi non v’era un movimento democratico di massa indipendente, il movimento di liberazione della nobiltà in Polonia aveva un’importanza gigantesca, di primo ordine, dal punto di vista della democrazia non soltanto panrussa, ma anche paneuropea. Esso ha cessato di esserlo nel ventesimo secolo.
«Movimenti democratici indipendenti, e per un movimento proletario indipendente, sono sorti nella maggior parte dei paesi slavi e persino in uno dei paesi slavi più arretrati, la Russia. La Polonia della nobiltà è scomparsa cedendo il posto alla Polonia capitalistica. In simili condizioni la Polonia non poteva non perdere la sua eccezionale importanza rivoluzionaria. Nel 1896 (...) fu fondato per la prima volta un partito puramente proletario in Polonia, enunciando il principio importantissimo dell’unione la più stretta fra operaio polacco e quello russo nella loro lotta di classe.
«Ma questo voleva forse dire che l’Internazionale, all’inizio del ventesimo secolo, deve considerare superfluo per l’Europa orientale e per l’Asia il principio di autodecisione politica delle nazioni? Il loro diritto alla separazione? Questo sarebbe un incommensurabile assurdo che equivarrebbe teoricamente al riconoscimento di una compiuta trasformazione democratica borghese degli Stati turco, russo, cinese e che equivarrebbe praticamente ad una posizione opportunista verso l’assolutismo» (Lenin, “La risoluzione del Congresso Internazionale di Londra del 1896”).
L’AUTO‑DETERMINAZIONE DELLE NAZIONI
«È nello spirito del marxismo la risoluzione del Congresso Internazionale di Londra del 1896. Questa risoluzione afferma: “Il Congresso si dichiara per il pieno diritto di tutte le nazioni all’autodecisione e esprime la propria simpatia agli operai di ogni paese oppresso attualmente dal giogo dell’assolutismo militare, nazionale o di un altro assolutismo; il congresso invita gli operai di tutti questi paesi a schierarsi nelle file degli operai coscienti di tutto il mondo, al fine di lottare insieme con essi per abbattere il capitalismo internazionale e per realizzare gli obiettivi della socialdemocrazia internazionale”» (Lenin, ivi).
Questa risoluzione è dettata dall’esperienza fornita dal momento storico in occidente, «che va dal risveglio dei movimenti nazionali, dalla partecipazione a questi movimenti dei contadini – lo strato sociale più numeroso e il più difficile a mettersi in movimento – attratti alla lotta per la libertà politica in generale e per i diritti delle nazionalità in particolare, fino al periodo caratterizzato dalla mancanza di movimenti democratici borghesi di massa; il periodo in cui il capitalismo sviluppato, ravvicinando e mescolando tra loro le nazioni già del tutto attratte nella circolazione delle merci, porta in primo piano l’antagonismo tra il capitale fuso su scala internazionale, e il movimento operaio internazionale» (Lenin, “Impostazione storica e concreta della questione”).
«In Asia, solo il Giappone, costituendosi in Stato indipendente riconfermava l’esperienza occidentale, e cioè che lo Stato nazionale è lo Stato tipico, normale, del periodo capitalistico. Ecco perché ha incominciato anch’esso ad opprimere le altre nazioni. Quindi rimaneva incontestabile che il capitalismo, dopo aver risvegliato l’Asia, vi ha provocato ovunque movimenti nazionali, che questi movimenti tendono a creare in Asia degli Stati nazionali e che precisamente gli Stati nazionali garantiscono le migliori condizioni per lo sviluppo del capitalismo» (Lenin, “Che cos’è il diritto…”).
IL RISVEGLIO DEI POPOLI COLORATI
«Nella maggior parte dei paesi occidentali tale questione era risolta da molto tempo. Quindi sarebbe ridicolo cercare nei programmi occidentali la soluzione di problemi che non esistevano. All’opposto dell’Occidente, nell’Europa Orientale il periodo delle rivoluzioni democratiche borghesi è cominciato soltanto nel 1905.
«Le rivoluzioni in Russia, in Persia, in Turchia e in Cina, le guerre dei Balcani: ecco la catena di avvenimenti mondiali di quel periodo nel nostro “Oriente”. Questa catena di avvenimenti manifesta il risveglio di tutta una serie di movimenti nazionali borghesi, di tendenze a creare degli Stati nazionali indipendenti ed omogenei. Per la Russia, che insieme con i paesi vicini attraversava quel periodo, occorreva includere nel programma del partito un articolo sul diritto delle nazioni all’autodecisione» (Lenin, “Le particolarità concrete della questione nazionale e la trasformazione democratica borghese in Russia”).
«Ma il proletariato, riconoscendo l’uguaglianza di diritti e il diritto, uguale per tutte le nazioni, di costruire uno Stato nazionale, apprezza e pone al di sopra di tutto l’unione dei proletari di tutte le nazioni ed esamina ogni rivendicazione nazionale, ogni separazione nazionale dal punto di vista della lotta di classe degli operai. Noi, proletari grandi‑russi, non difendiamo alcun privilegio, e quindi non difendiamo neppure questo privilegio! Noi combattiamo nei confini dello Stato esistente, noi uniamo gli operai di tutte le nazioni di questo Stato» (Lenin, “Il praticismo nella questione nazionale”).
«Le masse della popolazione istruite dall’esperienza quotidiana, conoscono benissimo l’importanza dei legami geografici ed economici, i vantaggi di un grande mercato e di un grande Stato, e si decideranno a separarsi esclusivamente nel caso che l’oppressione nazionale e gli attriti nazionali rendessero la vita comune assolutamente insopportabile, frenassero tutti i rapporti economici, i vantaggi di un grande mercato e di un grande Stato, e si decideranno a separarsi esclusivamente nel caso che l’oppressione nazionale e gli attriti nazionali rendessero la vita comune assolutamente insopportabile, frenassero tutti i rapporti economici di ogni specie. E in tal caso gli interessi dello sviluppo capitalistico e della libertà della lotta di classe saranno precisamente dalla parte di coloro che si separano» (Lenin, “La borghesia liberale e gli opportunisti socialisti nella questione nazionale”).
All’VIII Congresso del Partito Comunista di Russia, il 19 marzo 1919, Lenin afferma: «Bucharin vuole riconoscere soltanto alle classi lavoratrici il diritto all’autodecisione. Ma nazione significa: borghesia e proletariato. Voi vi richiamate al processo di differenziazione che si opera nel seno della nazione, al processo di separazione del proletariato dalla borghesia. Ma si tratta di vedere come si svolge questa differenziazione. Mettiamo in evidenza il grado di differenziazione in Germania, in Finlandia, in Polonia e negli altri popoli abitanti nei confini dell’impero Russo. Respingere l’autodecisione delle nazioni, sostituirla con l’autodecisione dei lavoratori sarebbe cosa assolutamente errata perché vorrebbe dire non vedere quanto sia arduo e tortuoso il cammino che segue la differenziazione nell’interno delle nazioni. L’autodecisione dei lavoratori esiste solo in Russia».
Innanzi tutto, ma fondato sulla dialettica storica, si tratta del programma del partito comunista, che non può non tener conto dell’interesse della classe proletaria internazionale.
IL QUADRO DEL CONFLITTO AVANZA
Lenin (II congresso) «legge dalla tribuna del Cremlino le sue tesi sulla questione nazionale e coloniale, e la risolve in nuova chiarezza tra l’ammirazione dei rappresentanti del proletariato e del marxismo nel mondo (...) Oggi noi, Internazionale Comunista, noi, Russia dei Soviet, noi, partiti comunisti che in tutte le nazioni progredite tendiamo alla conquista del potere, in guerra dichiarata alla borghesia e ai suoi servitori socialdemocratici, stipuliamo nei paesi in Oriente una alleanza tra il giovanissimo movimento operaio, i nascenti partiti comunisti, e i movimenti rivoluzionari che tendono a cacciare gli oppressori imperialisti. Abbiamo in una discussione, alla luce della nostra dottrina, stabilito di non parlare di movimenti democratici borghesi, ma di movimenti nazionalisti rivoluzionari, poiché non possiamo ammettere alleanze con la classe borghese ma solo con movimenti che stiano sul terreno della insurrezione armata».
«Nel settembre del 1920, dunque tra il secondo e il terzo congresso della III Internazionale, ben ferma sulle direttive del marxismo rivoluzionario, si tiene a Baku il Congresso dei popoli d’ Oriente. Quasi duemila delegati, dalla Cina all’Egitto dalla Persia alla Libia. È Zinoviev che legge il manifesto conclusivo dei lavoratori, è il presidente della Internazionale Proletaria; e alla sua voce gli uomini di colore rispondono con un solo grido levando spade e scimitarre. “L’Internazionale Comunista invita i popoli dell’Oriente a rovesciare colla forza delle armi gli oppressori di Occidente; a tal scopo proclama contro di essi la Guerra santa, e disegna l’Inghilterra come primo nemico da affrontare e combattere!”. Ma un non diverso grido di guerra a lanciato verso il Giappone, contro il quale si invoca l’insurrezione dei coreani mentre l’odio bolscevico viene nel proclama di Zinoviev dichiarato anche alla Francia e alla America “ai pescecani statunitensi che hanno bevuto il sangue dei lavoratori delle Filippine”».
«E lo stadio di sviluppo sociale che a noi marxisti interessa (...) Le tesi di Lenin ribadiscono: “La congiuntura politica attuale (1920) mette all’ordine del giorno la dittatura del proletariato; e tutti gli avvenimenti della politica internazionale convergono inevitabilmente intorno a questo centro di gravità; la lotta della borghesia internazionale contro la repubblica dei Soviet, che deve raggruppare attorno a sé, da una parte tutti i movimenti di classe dei lavoratori avanzati in tutti i paesi, dall’altra quelli emancipatori nazionali nelle colonie e nazioni oppresse” (...) “Diventa attuale il problema della trasformazione della dittatura proletaria nazionale (che esiste solo in Russia e non può perciò esercitare una influenza decisiva sulla politica mondiale) in dittatura proletaria internazionale (quale realizzerebbero almeno diversi paesi avanzati, capaci di influire in modo decisivo sulla politica mondiale)”».
«In Oriente i regimi sono ancora feudali (...) In genere la spinta (alla ribellione) viene dai contadini, dai pochi operai; ad essi si unisce la categoria degli intellettuali, divisi tra la xenofobia tradizionalista e le suggestioni della scienza e della tecnica bianca. Questa massa informe insorge; il suo moto crea difficoltà gravi alla classe capitalista europea: essa ha due nemici: il popolo delle colonie, il proletario di casa. Come pensiamo che da un sistema di economia sociale di Oriente si arrivi al socialismo? Occorre, come in Europa, attendere una rivoluzione borghese coi suoi moti nazionali appoggiata dalle masse lavoratrici e povere, e solo dopo, lo stabilirsi di una lotta di classe locale, del movimento operaio, della lotta per il potere e i Soviet? Con una tale strada la rivoluzione proletaria mondiale coprirebbe secoli e secoli. In modo più o meno chiaro, i delegati di Oriente nel 1922 dissero di no (...) volevano affiancarsi alla rivoluzione mondiale delle classi operaie nei paesi capitalisti, ed attuare anche nei loro paesi la dittatura delle masse non abbienti e il sistema dei Soviet. I marxisti occidentali accettano il piano (...) Esso significa che ove in Oriente scoppia una lotta contro il locale regime feudale (...) i comunisti locali e internazionali entrano nella lotta e la appoggiano. Non per darsi come postulato un regime democratico borghese, autonomo e locale, bensì per scatenare la rivoluzione permanente, che si fermerà alla dittatura soviettista».
«Il problema economico e sociale (in Oriente), in una simile prospettiva, veniva superato dalla garanzia contenuta nel piano economico mondiale unitario. Il proletario, padrone in occidente del potere e dei mezzi moderni di produzione, ne fa partecipi l’economia dei paesi arretrati con un piano che, come quello cui già tende il capitalismo di oggi, è unitario, ma a differenza di quello non vuole conquiste, oppressione, sterminio e sfruttamento» (“Oriente”, 1951).
Dopo la morte di Lenin, si svolge una lotta per la difesa del concetto di interdipendenza mondiale delle lotte, come dottrina, come strategia, come organizzazione, spezzato nel 1926 con la vittoria dell’opportunismo che dichiara di edificare il socialismo nella sola Russia. Se per Marx la classe operaia inglese nel 1860‑70 si era decapitata accodandosi ai liberali, nel 1926 incomincia di nuovo a distruggersi; anche fisicamente con l’uccisione dei suoi figli migliori, fino ad immolare nel secondo conflitto circa 20 milioni di giovani russi, e 50 milioni di proletari e di lavoratori fra tutti i paesi. E non per rovesciare gli oppressori di Occidente, ma per difenderli, rinnegando la dittatura internazionale della classe operaia, proclamata da Lenin al II Congresso.