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PAGINA 1
Partito della Sinistra
Europea
Anticomunisti di professione
Sabato 8 maggio, a Roma, presso la Domus Pacis, trecento rappresentanti di una quindicina dei più disparati partiti e movimenti europei si sono riuniti per fondare il Partito della Sinistra Europea. Per far parte di questa nuova compagine politica internazionale non ci sono particolari condizioni di ammissione. Nello statuto si legge infatti che «Il Partito della Sinistra Europea è una associazione flessibile e decentrata di partiti e organizzazioni politiche europee di sinistra, indipendenti e sovrane, che opera sulla base del consenso». Solo tre sono le discriminanti proposte dal presidente Fausto Bertinotti: il rifiuto della guerra, l’opposizione alle politiche neo liberistiche e la lotta per la democrazia partecipata. Il Partito della Sinistra Europea, recita lo statuto, «mira a promuovere il pensiero e l’azione di emancipazione, ecologista, pacifista, democratica e progressista dei partiti, dei loro iscritti e simpatizzanti e quindi sviluppare e rafforzare le azioni dei partiti per la realizzazione di politiche emancipatrici, democratiche, pacifiste, sociali, ecologiste e sostenibili essenziali a trasformare le società e superare l’attuale capitalismo». Ma non si ferma lì perché è anche disposto a «cooperare con altre organizzazioni politiche a livello europeo per il perseguimento di simili obiettivi».
Un programma volutamente limitato ed allo stesso tempo aperto: chi non entra nel nuovo partito lo fa per scelta propria non perché qualcuno glielo abbia impedito. A nome di tutti quanti i convenuti, Bertinotti afferma di voler ripudiare ogni forma di ortodossia «per dare forza ad una nuova idea di comunismo».
Anche i “nuovi comunisti” hanno stilato il loro bravo “Manifesto” che inizia con le profetiche parole: «Una nuova speranza sta nascendo in Europa». «Vogliamo dar corpo a questa speranza – si legge più oltre – per affrontare in termini nuovi le questioni della globalizzazione, della pace mondiale, della democrazia e della giustizia sociale, dell’uguaglianza di genere, dell’autodeterminazione delle persone disabili, di uno sviluppo bilanciato e sostenibile, del rispetto delle specificità culturali, religiose, ideologiche, e dell’orientamento sessuale».
In breve, lo scopo di questa “nuova internazionale” non poteva che essere uno: sviluppare una alternativa al capitalismo ed al neo liberismo. Si parla perfino (una sola volta, ma se ne parla) di Lotta di classe «per difendere gli interessi dei lavoratori», ma non solo di loro perché per i rifondatori europei gli interessi del proletariato sono legatati indissolubilmente alla «democrazia, di una società europea con le sue organizzazioni e istituzioni, compreso il Parlamento europeo».
Tra tutto questo guazzabuglio informe, che dice tutto senza voler dir niente, non manca di venir fuori l’anima sciovinista del piccolo borghese che rimpiange la stabilità imperiale del passato («Le nuove forme del potere a livello mondiale portano alla crisi negli stati nazione, dei sistemi di alleanze e dell’ordine nato dopo la Seconda Guerra Mondiale») ed auspica una Europa protagonista e non subalterna dell’Imperialismo americano. La vecchia rivendicazione del “Posto al sole per la Nazione proletaria” di mussoliniana memoria. Ma lasciamo che ce lo dicano loro: «Vogliamo costruire un progetto per un’altra Europa e per dare altri valori e contenuti dell’Unione Europea, autonoma dall’egemonia degli USA, aperta al sud del mondo, alternativa al capitalismo».
La formula “alternativa al capitalismo” è stata largamente usata ed abusata, proprio perché non significa niente. Marx, Lenin, la tradizione rivoluzionaria comunista non hanno mai parlato di “alternativa”; hanno sempre parlato di distruzione dello Stato e del potere capitalista, di instaurazione della dittatura del proletariato e di trasformazione, ma solo dopo la conquista del potere, della struttura economica capitalista in senso socialista. Che il comunismo sia “alternativo” al capitalismo è ovvio, ma parlare di alternativa senza enunciarne i fini e i mezzi per realizzarla, significa solo parlare a vuoto.
Sul Corriere della Sera del 9 maggio è riportata una vignetta di Vincino dove Berlusconi, rivolto a Bertinotti, dice: «Europa e pericolo comunista! Bertinotti, se non ci fossi tu mi prenderebbero per pazzo...» Infatti i vari Bertinotti della quindicina di partiti convenuti alla Domus Pacis di Roma in questa società capitalista ci stanno proprio benone, e chi non ci crede si legga l’art. 23 dello Statuto: «Le finanze del Partito della Sinistra Europea sono costituite dalle quote di adesione, da sottoscrizioni e fondi pubblici. Su proposta del Consiglio dei presidenti e della Direzione il Congresso adotta uno statuto delle finanze che regola l’ammontare della quota di adesione e l’acquisizione di fondi pubblici». E i fondi pubblici il capitalismo, giustamente, non li concede ai partiti rivoluzionari.
Il programma del partito europeo della sinistra è quello di non essere un partito e di non avere alcun programma; ma anche qui gli zombi del terzo millennio non hanno inventato niente di nuovo. Da sempre l’opportunismo, scimmiottando la tesi marxista che condanna e sgombra il campo da tutte le idee innate ed eterne che pretendono essere alla base della condotta umana, parla di azione da condursi al di fuori di ogni premessa che possa limitarla e impacciarla; di una politica senza principi, senza dogmi. Il revisionismo classico di Bernstein, simulando di aver lasciata in piedi la dottrina rivoluzionaria di Marx, aveva lanciato la nota affermazione: “il fine è nulla, il movimento è tutto”. Dire che il fine è nulla per i marxisti equivale ad affermare che si può fare a meno dei principi; perché i principi, per il comunismo marxista, non sono che fini, ossia punti di arrivo dell’azione... E non sembri paradossale la contrapposizione dei due termini.
Tolta di mezzo la visione di una vasta finalità, il riformismo opportunista parla solo di problemi contingenti, da risolvere volta per volta, in modo empirico, per l’immediato avvenire. Soppressa ogni regola, abolito ogni programma quale sarà la scelta che dovrà essere adottata tra i vari metodi di azione e nell’interesse di chi l’azione stessa dovrà essere svolta? L’opportunismo di due secoli fa rispondeva di ispirare la sua quotidiana azione agli interessi operai, intendendo per ciò gli interessi, di volta in volta, di singoli gruppi e categorie di lavoratori considerando quelli che avrebbero dato risultati più facilmente ed a breve scadenza. Gli attuali nipoti degeneri dei pur rispettabili opportunisti di allora hanno dismesso perfino la veste operaista e parlano solo di difesa della democrazia.
Per gli opportunisti vecchio stampo le soluzioni dei problemi di azione non erano più ispirate all’insieme del moto proletario e del suo cammino storico, ma volta per volta escogitate limitatamente a piccole porzioni della classe operaia, e a minime tappe del suo cammino; gli attuali non hanno più niente da proporre al proletariato se non la pace sociale, la concordia, l’interclassismo, il perdurare pacifico dell’oppressione di classe.
Noi abbiamo sempre affermato che la pretesa avversione degli opportunisti nei confronti dei dogmi, come cretinamente viene dichiarato, si riduce semplicemente ad una osservanza ostinata e cieca dei dogmi e dei principi propri della ideologia borghese e controrivoluzionaria. I positivi, i pratici, gli spregiudicati esponenti dei movimenti di sinistra si rivelavano essere i più bigotti fautori delle idee borghesi, a cui pretendono di subordinare il movimento proletario, ed ogni interesse dei lavoratori.
* * *
Nella adunata alla Domus Pacis una calorosissima accoglienza è stata tributata a Pietro Ingrao, vecchio ottimo rappresentante di quello stalinismo che pure ora pretendono di “rottamare”. Nel corso di un’intervista concessa al Corriere della Sera, Ingrao, facendo un parallelo tra il clima politico attuale e quello della Repubblica “scaturita dalla Resistenza”, ha affermato: «Sono diventato deputato nel ’48, ho presieduto la Camera negli anni di piombo, ma non c’è mai stato tra gli schieramenti un clima chiuso e cupo come ora. Gli anni dello scelbismo sono stati durissimi, la polizia sparava sugli operai, però in Parlamento si parlava. Se il mattino accadeva un fatto importante, la sera De Gasperi o il ministro venivano a riferire». Bei tempi quelli in cui i corpi degli operai giacevano ammazzati sulle strade e piazze d’Italia, ma almeno il Parlamento funzionava che era una meraviglia!
Gli opportunisti sono ancor più disgustosi quando raccontano
la verità di quando dicono menzogne!
L’accordo alla Fiat di Melfi è stato siglato dopo ventun giorni di sciopero e di mobilitazioni quotidiane. Traiamo da quella lotta alcune lezioni e indicazioni.
Ci ha colpito il commento all’accordo del sottosegretario al “Welfare” Sacconi (già dirigente Cgil!) che ha dichiarato: «Per arrivare a questo accordo non era necessario bloccare la produzione per così tanto tempo». Probabilmente quanto dice Sacconi è vero. Ma i risultati raggiunti sono quelli per cui i lavoratori hanno scioperato per 21 giorni, perdendo quasi un mese di salario, rischiando ritorsioni e denunce?
Riportiamo alcune considerazioni sulla lotta di organismi di base che sono stati coinvolti direttamente nella lotta. Il Coordinamento nazionale del gruppo FIAT e indotto di Flmu-Cub ritiene che l’accordo lasci «irrisolti la maggior parte dei problemi che sono stati al centro della lotta dei lavoratori» e pone l’accento sul fatto che «non è vero che l’accordo sul salario supera qualsiasi differenza retributiva con i trattamenti Fiat: rimane il TMC2 con i suoi ritmi infernali e rimangono i 18 turni». Nell’accordo inoltre si ribadisce la totale subordinazione degli interessi operai a quelli dell’azienda: «Il coinvolgimento (dei lavoratori) nelle logiche di impresa si pone come uno degli aspetti prioritari nella realizzazione degli obbiettivi aziendali tesi al miglioramento costante della capacità competitiva». La conclusione che la Flmu-Cub ne trae è che «le lotte producono risultati scarsi fintanto che al tavolo delle trattative i lavoratori sono rappresentati dai sindacati concertativi, gli stessi che hanno sottoscritto con Fiat l’accordo che ha penalizzato in tutti questi anni i lavoratori Sata e dell’indotto».
Secondo l’Assemblea nazionale della Confederazione Cobas «i risultati raggiunti nell’ipotesi di accordo contrattuale sono parziali rispetto alle richieste ed alle esigenze espresse dai lavoratori, pur rappresentando un primo passo concreto della battaglia contro l’arroganza della direzione Fiat e per la conquista di migliori condizioni salariali e di vita (...) Si è trattato di un grave errore delocalizzare la trattativa a Roma, sottraendola al controllo immediato e diretto dei lavoratori in lotta; è stato grave estromettere dalla trattativa la questione fondamentale dei ritmi e dei carichi di lavoro imposti dal TMC2 (...) Riteniamo altresì grave limitare la verifica delle sanzioni disciplinari che si riferiscono al solo anno pregresso, escludendo chi prima è stato ingiustamente licenziato o sottoposto a provvedimenti disciplinari».
Lo Slai Cobas della Fiat Sata di Melfi denuncia che «la fase finale della trattativa è stata condotta dalle segreterie nazionali dei sindacati, con l’esclusione dello Slai Cobas» e ribadisce che «al dunque la Fiom ha mollato lasciando isolato, e fuori della trattativa, lo Slai Cobas».
Ma non è da ora che questi sindacati denunciano la politica conciliatrice del sindacalismo ufficiale, sia a livello confederale sia come Fiom. Un comunicato dello Slai Cobas Alfa Romeo di Arese e di quello dell’Alfa Romeo di Pomigliano del 28 febbraio denunciava la politica dei Sindacati confederali e «gli accordi capestro siglati alla FIAT, con i quali si sta consentendo lo smantellamento delle fabbriche al Nord e la precarizzazione dei lavoratori del Sud con sottodiritti e sottosalari, come già precedentemente accaduto per gli stabilimenti di Melfi e di Pratola Serra», e richiedeva una ridistribuzione del lavoro in tutto il gruppo Fiat e Alfa Romeo. Il 5 marzo durante l’ennesimo sciopero a Pomigliano lo Slai Cobas dichiara: «Con lo sciopero di oggi e con gli scioperi ‘selvaggi’ che ormai mandano in crisi quotidianamente la produzione del nuovo modello GT, è praticamente fallita l’intollerabile organizzazione del lavoro del “TMC2” sottoscritta tra l’azienda ed i sindacati confederali (...) Questi ultimi ormai in fabbrica non rappresentano neanche se stessi perché in fabbrica si sta ormai affermando con forza una giovane classe operaia già matura per decidere il proprio destino ed imporre all’azienda le proprie sacrosante ragioni suffragate con la forza della lotta sindacale consapevole e di massa (...) Quella di oggi è la nona giornata di scioperi con paralisi completa della produzione attuata negli ultimi 5 mesi (...) altre ne seguiranno fino alla definitiva sconfitta dell’arroganza padronale e dei sindacati confederali!»
Il 21 aprile il Coordinamento nazionale Gruppo Fiat Slai Cobas denuncia: «Da quando la Fiat, un anno e mezzo fa, ha espulso 8.000 lavoratori, i sindacati confederali non hanno mai unificato le lotte. Cisl-Uil e Fismic hanno tranquillamente firmato in tutti gli stabilimenti i piani della Fiat, ma anche la Fiom, con una regìa nazionale, a Pomigliano ha dato il via libera al TMC2 e agli straordinari al sabato, e contrasta gli scioperi indetti dallo Slai Cobas che hanno paralizzato l’Alfa Sud nei giorni scorsi; a Termoli contrasta la lotta contro i turni massacranti tipo Melfi; ad Arese ha firmato nel dicembre scorso un accordo che prevede l’espulsione definitiva dei cassintegrati, accordo poi respinto da tutti i lavoratori. È ora che nel gruppo Fiat la si smetta di giocare sulla pelle dei lavoratori! Ci auguriamo che, così come sembra stia avvenendo a Melfi sotto la pressione dei lavoratori, la Fiom abbia dei ripensamenti e si schieri dalla parte dei lavoratori anche negli altri stabilimenti. Le condizioni di lavoro sono insopportabili, non c’è nessuna certezza sul futuro di ogni lavoratore ed è sempre più difficile arrivare a fine mese».
La stessa cosa è accaduta a Melfi: la Fiom, i cui delegati di fabbrica a livello locale hanno tenuto duro, all’ultimo momento ha tradito il movimento di lotta accettando di portare la trattativa nei corridoi romani, escludendone i sindacati di base, che rappresentano i lavoratori più combattivi, ed accettando un accordo di compromesso che, come dice Sacconi, poteva essere ottenuto anche senza fare tanto casino.
Non per nulla i commenti del padrone Fiat, come quelli dei grandi capi del sindacalismo confederale, sono tutti positivi. Guglielmo Epifani segretario generale della CGIL dichiara: «La firma dell’accordo su Melfi rappresenta un risultato che premia la lotta dei lavoratori e grazie al quale miglioreranno le condizioni di lavoro (...) L’accordo può rappresentare anche un segnale di una diversa politica della FIAT verso il sindacato. Questo accordo è importante anche per il metodo democratico e forse non è un caso che al metodo democratico corrisponda anche l’unità». Non stupisce che al grande bonzo si accodi Bertinotti, presidente di Rifondazione “Comunista”: «L’accordo raggiunto con la FIAT sulla vertenza Melfi è una vittoria degli operai e dei loro sindacati. Per la prima volta dopo 25 anni c’è un’inversione di tendenza nelle relazioni sindacali. Le rivendicazioni dei lavoratori sono passate. La vertenza Melfi costituisce un grande insegnamento per tutti. La lotta paga, la lotta dei lavoratori consente il raggiungimento di grandi risultati».
Persino le superfischiate CISL e UIL trovano l’accordo “positivo”, naturalmente non perché porta qualche miglioramento per i lavoratori anche se misero, ma perché con l’accordo questi sindacati si reinseriscono nel gioco concertativo con la Fiat, dopo che la lotta operaia li aveva completamente estromessi. Luigi Angeletti, capoccia della UIL: «Il fatto più significativo dell’intesa è il ritorno a rapporti sindacali normali fra la FIAT e il sindacato nello stabilimento di Melfi: era quella l’anomalia e siamo riusciti a sanarla». Savino Pezzotta, dirigente della CISL: «un accordo positivo che chiude una vicenda che ha rischiato di lacerare il sindacato confederale».
Tira le conclusioni, in pieno stile corporativo, Roberto Maroni, Ministro del Welfare: «Apprezzo lo sforzo delle parti e il senso di responsabilità che le ha mosse; ora è necessario che l’azienda sia accompagnata dalle parti sociali senza esitazioni nel piano di risanamento che ha predisposto per garantire la forte presenza del gruppo negli assetti industriali italiani e europei».
Ma veniamo alla questione della “democrazia”, ricordata dalle dichiarazioni di Epifani ma ripresa in grande stile da Gianni Rinaldini, segretario della Fiom: «L’intervento confederale è stato positivo, ha aiutato la vertenza ad arrivare ad una conclusione utile (...) Il referendum, la democrazia, sono il segnale forte che mandiamo alle altre organizzazioni; è lo strumento che evita gli accordi separati».
I bonzi confederali si riempiono la bocca di “democrazia”, spacciano come un grande risultato la concessione di un referendum sull’accordo. Ma si tratta di una nuova truffa: il referendum attuato dopo molti giorni dalla fine dello sciopero e della mobilitazione operaia non potrà che sanzionare l’accettazione dell’accordo. L’esito della lotta di Melfi insegna che la trattativa va condotta mentre la lotta è ancora in corso, va condotta sul luogo della lotta e non nelle stanze romane, e insegna che gli accordi vanno giudicati dalle assemblee operaie, in modo collettivo, durante la lotta e non quando questa è finita e tutti sono tornati al lavoro, mettendo una scheda nell’urna. Quello che si vuole spacciare per “democrazia” è solo la formale prassi democratica borghese che sancisce sempre la vittoria della classe dominante.
Come comunisti dobbiamo dire che gli operai della Sata di Melfi e dell’indotto hanno fatto una lotta magnifica che ha un grande significato per loro stessi, per i loro compagni della Fiat, per tutti i lavoratori perché dimostra che se riescono ad essere uniti e solidali, decisi e combattivi, possono raggiungere grandi risultati. Hanno rotto il mito dell’invincibilità della Fiat, costruito dopo la sconfitta operaia degli anni Ottanta grazie al tradimento del sindacato confederale e del P.C.I., che intervennero per rompere lo sciopero.
L’accordo raggiunto non è quello per cui i lavoratori hanno affrontato tanti sacrifici ma non poteva che essere così nella situazione attuale che registra la mancanza quasi totale di un forte sindacato di classe il che permette al sindacalismo confederale di continuare la sua opera di collaborazione interclassista per la difesa dell’economia nazionale contro gli interessi dei lavoratori. Per questo possiamo condividere le considerazioni sopra riportate della Flmu-Cub e dello Slai-Cobas per quanto riguarda i risultati ottenuti e le impossibilità, data la situazione, di ottenere di più. Ma riteniamo del tutto insufficienti quelle riguardanti l’aspetto politico della lotta e le motivazioni che hanno portato a questi risultati.
Lo Slai-Cobas e la Flmu-Cub si limitano a lamentare il comportamento della Fiom per aver tolto di mano ai lavoratori in lotta la trattativa con l’azienda delegandola ai capoccia confederali e spostandola a Roma, fuori dal controllo dei lavoratori, e di un comportamento incoerente nella fase finale della lotta rispetto a quello iniziale. Secondo noi, al contrario, il comportamento della Fiom non è stato affatto incoerente, invece riconferma in pieno la politica di collaborazione con il padronato che porta avanti da sempre, allineata a tutto il sindacatume tricolore e concertativo, come gli stessi SLAI COBAS della FIAT ammettono.
I sindacati di regime, per poter svolgere il loro sporco compito, devono essere in mezzo ai lavoratori ed organizzarne il più possibile facendo credere di essere contro il padronato e dalla parte della classe operaia. Solo da qui l’atteggiamento apparentemente più radicale e a sinistra della Fiom rispetto ad altre organizzazioni. Questo lo conferma il fatto che la Fiom ha sempre approvato e continua ad approvare tutti gli accordi che i sindacati di regime fanno con il padronato ed il suo Stato (compreso il piano di risanamento della stessa FIAT che in un colpo solo ha gettato fuori dalla produzione 8000 operai), accordi che hanno portato negli ultimi anni ad un peggioramento così consistente delle condizioni di vita degli operai, come Melfi ben dimostra. Il fatto che la Fiom si sia messa alla testa della lotta di Melfi non cambia questo nostro giudizio, al contrario lo ribadisce.
Possiamo anzi prevedere che di queste situazioni ne vedremo sempre più frequentemente, man mano che gli operai, spinti dalla miseria crescente, si ribelleranno a questa politica.
Se partiamo dalla considerazione che i sindacati ufficiali, attraverso la concertazione con il padronato ed il suo Stato, mirano, come loro stessi affermano, alla salvaguardia del sistema produttivo nazionale, e quindi delle aziende, attraverso la riduzione dei costi di produzione, il comportamento della Fiom a Melfi si spiega da sé. L’agitazione degli operai di Melfi non era ormai più rimandabile, i lavoratori sarebbero scesi in lotta comunque, con o senza la Fiom, e con una determinazione tale da non poter essere, almeno nell’immediato, deviati su obbiettivi diversi. Il pericolo per la FIAT, per tutto il padronato e per i sindacati stessi, non era tanto il costo di miseri aumenti salariali o di qualche modifica ai turni, rivendicazioni che aziende come la FIAT sono in grado di sopportare senza problemi, ma il fatto che questa rompesse gli accordi precedenti sul piano di risanamento aziendale e che la lotta si estendesse anche ad altre fabbriche. Ecco allora che la Fiom decide di prendere la testa della lotta, riproponendosi poi, attraverso il peso della sua organizzazione a livello nazionale, di frenarla e riportarla nei binari della concertazione.
Questo è quello che è accaduto, i lavoratori, tramite gli organismi di base, non hanno avuto la forza sufficiente per tenere la guida della lotta contro una Fiom che ha fatto scendere in campo l’apparato di funzionari e politicanti di mestiere travestiti da sindacalisti. Questi, con l’appoggio dei grandi bonzi confederaili di CGIL CISL E UIL, dello Stato e della FIAT stessa, un po’ con le minacce e le bastonate della polizia, un po’ con la diplomazia ed un po’ per stanchezza, sono riusciti nell’intento di frenare e poi bloccare la lotta. Il compito di “sindacato di regime” della Fiom anche questa volta è stato svolto molto bene.
Infatti il padronato, in primo luogo quello della FIAT, può essere contento, il “piano di risanamento” è salvo, la lotta non si è generalizzata agli altri stabilimenti, i costi sono stati minimi, il titolo continuerà a crescere in borsa e soprattutto il sindacato ha salvato la faccia di fronte ai lavoratori, così potrà essere di nuovo utilizzato nello stesso modo in altre occasioni in cui gli operai si ribellino e mettano in discussione i piani del padronato.
È questa la lezione che gli operai di Melfi e tutti i lavoratori devono tirare, compresi quegli organismi di base, che si sono fatti onore nella lotta ma hanno dovuto subire la forza organizzativa della Fiom. I sindacati confederali attuali sono ormai strutture inserite completamente nello Stato capitalista e come tutti gli altri organismi di questo non può far altro che difenderne gli interessi che sono inconciliabili con quelli dei lavoratori. Il fatto che si promuovano come difensori dei lavoratori (ed in questo il padronato con tutto il suo apparato mediatico gli tiene bordone) non deve illudere nessuno in quanto sono costretti a farlo e lo fanno esclusivamente per controllare meglio la classe dei lavoratori e per impedire a questa di organizzarsi al di fuori di loro.
Quello che serve oggi ai lavoratori è un vero sindacato di classe che abbia l’unico scopo di difenderne gli interessi con tutti i mezzi, ponendo alla base del suo programma quelle rivendicazioni che mirino veramente al miglioramento, o perlomeno al mantenimento, delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia, con il metodo della lotta attraverso lo sciopero generale senza preavviso e senza limiti di tempo. Un organismo di questo genere non è fuori dalla portata dei lavoratori, non è un sogno, tant’è vero che anzi molti lavoratori si stanno indirizzando in questo senso e molti gruppi nelle varie categorie stanno nascendo e diventano sempre più rappresentativi fra di essi.
Ma per costruire un organismo di classe di questo tipo i lavoratori ed i gruppi che già sono su questo terreno saranno costretti necessariamente a farlo al di fuori e contro gli attuali sindacati ufficiali in quanto ormai queste strutture si sono amalgamate con il sistema di produzione capitalista e non possono agire che ha difesa di esso. Questo non vuol dire che i lavoratori che sono inscritti o militano negli organi di base di questi sindacati siano tutti dei venduti ai padroni, al contrario il più delle volte questi sono espressione della base operaia in quanto fra i più combattivi all’interno delle aziende e dei reparti e per questo vengono dai compagni eletti nelle RSU.
Quando parliamo di struttura organizzativa intendiamo quell’apparato verticale formato per la quasi totalità da funzionari di mestiere messi li dai vari partiti politici borghesi o addirittura direttamente dallo Stato e dallo Stato in parte finanziato, tutta gente che, anche personalmente, con la classe non ha nulla a che fare. Questa struttura ha una gerarchia chiusa e con percorsi e controlli che non possono essere penetrati né superati dalla volontà degli operai. È simile all’organigramma delle aziende, dove in alto ci sta il direttore ed in basso i lavoratori, ma questi non decidono né potranno mai decidere sulla strategia dell’azienda, se non in un senso che venga a mantenere il loro stato di sottomissione. La stessa struttura hanno i sindacati di regime: in alto ci stanno i dirigenti confederali che a livello nazionale “concertano” con i governi ed il padronato la politica da seguire ed il modo migliore per attuarla, poi questa politica verrà imposta con le opportune modifiche di linguaggio, di modi e di tempi attraverso l’apparato verticale dalle categorie (per esempio la Fiom) dei regionali, dei provinciali e di zona. In questo meccanismo le strutture di base, le RSU, ed i lavoratori anche se inscritti contano e decidono quanto conta e decide l’operaio di fronte al direttore d’azienda. I sindacati “concertativi” sono insomma un’articolazione della “controparte”, non uno strumento, seppure spuntato, in mano agli operai ma in mano del padronato.
Ci si potrebbe obbiettare che, poiché le organizzazioni sindacali attuali mantengono al loro interno il meccanismo elettivo democratico, i loro dirigenti potrebbero essere domani contestati o cambiati nei congressi se gli iscritti lo decidessero. Ma, per quanto riguarda almeno i sindacati attuali in Italia, questo è vero solo in teoria e noi ne neghiamo la possibilità pratica.
In primo luogo nell’opera dei funzionari di cui sopra non gode solo dell’appoggio di tutta la sua struttura ma anche dallo stesso Stato e dei governi che nei decenni sempre più e con ogni strumento, Leggi, normative, autoregolamentazioni, finanziamenti, nonché con tutto il loro apparato propagandistico, ne diffonde il prestigio e li difende, se necessario con la forza, dalla revoca di delega da parte dei lavoratori. Gli inscritti subiscono una doppia pressione: la prima dal “loro” sindacato con la cantilena sulla necessità di essere “realistici”, che i lavoratori non sono sufficientemente forti, che bisogna rimanere sempre “democratici”, all’interno delle possibilità dell’economia nazionale e delle aziende, che al di fuori non esistono alternative. La seconda da tutto l’apparato capitalista che, con le chiacchiere o con i poliziotti o con entrambe le cose, li invita ad essere consapevoli delle difficoltà del momento, a sopportare ancora sacrifici per il bene di tutti, a difendere questo sistema che comunque nonostante i difetti è il migliore, ecc., ecc., ecc.
Le Camere del Lavoro di un tempo non esistono più né gli operai delle varie aziende dopo il lavoro ormai vi si riuniscono per discutere dei vari problemi, per mettere a punto metodi di lotta e per gestirli unitariamente. Da quelle riunioni si selezionavano naturalmente i futuri dirigenti operai, che invece ora sono “cooptati”. Le Camere del Lavoro sono diventate quasi uffici del Ministero del “Welfare” dai quali i lavoratori sono esclusi in quanto lì non c’è più nulla da discutere. Vi si svolge un’attività “vertenziale” da professionisti un’avvocatura per i lavoratori volta alle vertenze individuali o al più aziendali, se non alle denunce dei redditi od alle domande di pensione. Insomma non più un sindacato operaio ma un patronato sociale.
Questa situazione ha fatto sì che negli ultimi decenni questi sindacati perdessero progressivamente le loro antiche ed originali caratteristiche di organismi di classe per diventare sempre più organismi interclassisti con funzioni amministrative e con personale adatto esclusivamente a questo scopo. Per questo, da almeno trent’anni per quanto riguarda l’italica CGIL, siamo convinti che quando la classe operaia riuscirà a porre delle rivendicazioni senza riguardo per l’economia nazionale e fosse determinata a portarle avanti risolutamente con il metodo dello sciopero generale al di fuori delle attuali regolamentazioni, questa si troverebbe non solo una struttura incapace e non idonea per un simile compito ma, per la trasformazione che ha subito negli anni, un apparato contro la lotta ed in appoggio del padronato e dello Stato.
Da queste considerazioni la nostra indicazione della necessità
della rinascita del sindacato di classe al di fuori dei sindacati attuali.
La lotta degli operai di Melfi, come quella degli autoferrotranvieri, sta
sulla strada della ricostruzione di un simile sindacato, uno strumento
la cui funzione si fa ogni giorno più necessario. Solo con quella
strategia generale di lotta, che solo un sindacato centralizzato può
assicurare, i lavoratori potranno rintuzzare l’offensiva del padronato
che, soprattutto in questi anni di crisi, vuole schiacciare la condizione
operaia per salvaguardare i suoi profitti.
Mentre l’imperialismo americano stermina la popolazione irachena e rade al suolo Falluja e Najaf, una parte del Capitale europeo, appoggiato dalla Chiesa, dai no-global e dai borghesi “di sinistra”, dichiara di “combattere per la pace”, contro quella “politica” che avrebbe “scelto” la guerra. Ostentando rametti d’ulivo cercano una “soluzione pacifica” (ma quale?) ai problemi posti dalla crisi economica, confidando nella radiosa prospettiva di un capitalismo mondiale che non abbia più bisogno della guerra.
Nessuno di questi borghesi, grandi e piccoli, può ammettere che la guerra è una necessità del capitalismo e che alla crisi economica mondiale il capitalismo non potrà che rispondere, come ha già fatto due volte, con un macello mondiale.
IL CAPITALISMO È GIUNTO AD UN PUNTO MORTO
Il capitalismo è costretto a produrre incessantemente enormi masse di merci, ma il mercato non è più in grado di assorbirle. Se i decenni successivi al Secondo conflitto Mondiale hanno permesso al Capitale una grandissima espansione, oggi i mercati sono saturi e gli Stati si contendono le residue “zone di influenza”. Oggi le tre maggiori potenze economiche sono, sullo scenario internazionale, le solite precedenti alla Prima e alla Seconda Guerra: Stati Uniti, Giappone, Germania.
Gli Stati Uniti combattono in Irak, come prima in Afghanistan, per contrastare i loro diretti avversari economici, Unione Europea e Giappone innanzitutto, per difendere i propri interessi vitali, raffrenare i concorrenti e cercare di dare alimento alla loro economia che percorre l’irreversibile strada del collasso. Allo stesso tempo gli Stati Uniti, in previsione della guerra futura, cominciano a riposizionare le basi militari a ridosso di Russia, Germania, Giappone e Cina e a saggiare le alleanze.
Il Giappone, intanto, si è liberato dalla illusione “difensiva” che doveva fingere dal 1945 e si è ridato un esercito, una flotta ed una aviazione di grandi capacità. La Germania e la Francia appaiono oggi “pacifiste” in quanto la guerra americana lede i loro interessi e perché allo stato attuale non sono in grado di difendere con la forza delle armi la loro politica estera, i mercati, le zone di influenza e i territori da cui ricavano le materie prime per le loro industrie.
In ogni paese i ceti medi che oggi parlano di pace, privi di qualsiasi autonomia dal grande capitale, domani potranno volgersi ad inneggiare alla guerra, come più volte hanno fatto nella storia. Il proletariato invece, sia nell’Occidente sia nei paesi del Sud del mondo, revocando ogni solidarietà alle proprie borghesie, si potrà ergere contro la guerra imperialista con le parole d’ordine del disfattismo rivoluzionario e della guerra di classe. La lotta dei salariati, dei senza riserve e dei senza garanzie, per la loro contingente difesa, maturerà sul terreno la necessità di abbattere la società capitalistica, cioè la causa delle guerre attuali e future.
DIFESA DI CLASSE, IN PACE E IN GUERRA!
La crisi economica produce sempre più miseria generalizzata. Precarietà del lavoro, bassi salari, turni massacranti, orari di lavoro dilatati, gabbie salariali, aumento degli infortuni e della mortalità sono i mezzi che il capitalismo usa nel tentativo di sopravvivere. Contro i lavoratori lo Stato schiera tutto il suo armamentario, che non è soltanto fatto di poliziotti e da un apparato mediatico di enorme influenza, ma anche dai sindacalisti venduti della Triplice Sindacale e dai partiti politici falsamente comunisti (eredità, ulteriormente incarognita, dei vecchi partiti stalinisti).
Gli operai di Melfi, che hanno risolutamente proseguito lo sciopero nonostante le cariche della polizia e nonostante gli accordi firmati dai sindacalisti traditori, e gli autoferrotranvieri che hanno dovuto infrangere la gabbia della legge sulla regolamentazione degli scioperi (approvata dai sindacati) ed ugualmente hanno rifiutato gli accordi confederali, hanno mostrato a tutti contro chi i lavoratori debbano combattere. L’importante lezione è che, tanto con un governo di destra quanto di sinistra, difendere le condizioni di lavoro significa essere capaci di non sottostare alle regole della “democrazia” borghese e della “concertazione” sindacale, ma porre da subito la questione della rinascita di un Sindacato di Classe, fedele solo ai reali interessi dei lavoratori, al di fuori di ogni “compatibilità”.
RINASCA IL SINDACATO DI CLASSE!
RISORGA IL PARTITO COMUNISTA RIVOLUZIONARIO!
PAGINA 2
Disamina e
bilancio dello sciopero dei tranvieri
(Continua dal numero scorso)
Abbiamo visto che, mentre governo, aziende e sindacati di regime lavoravano ai loro scopi, il Coordinamento Nazionale di Lotta degli Autoferrotranvieri il 3 gennaio si era riunito a Firenze in un’assemblea nazionale cui hanno partecipato oltre cento delegati in rappresentanza di cinquanta aziende. Dalla assemblea fiorentina era scaturito un documento in 7 punti, i primi 6 dei quali abbiamo illustrato e commentato ampiamente nella parte che precede.
Veniamo qui al settimo ed ultimo punto. È il caso di riportarlo così come fu scritto: il Coordinamento ha deciso di «invitare le associazioni degli utenti a solidarizzare con i tranvieri nonché a concordare iniziative unitarie per il rilancio del trasporto pubblico locale».
Due sono le questioni: l’atteggiamento da tenere verso le associazioni degli utenti e quella del rilancio del TPL.
Per associazioni degli utenti si intendono quelle famose “dei consumatori”. La maggior parte di queste (Codacons, Altroconsumo, Acusp) si è schierata apertamente contro i tranvieri invocando provvedimenti giudiziari. Ma questo di per sé non basta a rigettare l’indicazione del Coordinamento perché il motivo per cui va bocciato questo invito alla solidarietà e ad iniziative comuni è più profondo. Esso fa pensare ai lavoratori che allo sviluppo della loro lotta sia necessaria la solidarietà dei “cittadini” e li illude che questi passeranno dalla loro parte, indistintamente dalla classe di appartenenza. Invece avverrà esattamente l’opposto: i cittadini si spaccheranno lungo le divisioni di classe. Seguendo la loro strada i lavoratori non incontreranno nuovi alleati al di fuori della loro classe, ma nuovi nemici. I tranvieri infatti non hanno dovuto lottare solo contro l’azienda, ma anche contro i sindacati di regime, gli enti locali, le forze dell’ordine, i mezzi di informazione.
L’avanzare inevitabile della crisi economica mondiale del capitalismo ed il conseguente estendersi ed approfondirsi della lotta dei lavoratori lacereranno sempre più la società, mostrando come categorie quali “cittadini”, “consumatori”, “utenti”, “società civile”, con cui tutti si riempiono la bocca, siano solo delle astrazioni inconsistenti e come la realtà sia invece fatta di classi sociali con interessi inconciliabili. Il sindacato di classe non deve confidare in future alleanze o collaborazioni, impossibili o mortifere, ma in una dura lotta che lo vedrà con a disposizione le sue sole forze. Esattamente l’opposto di quanto espresso da Aurelio Speranza, uno dei coordinatori nazionali del Coordinamento, che in esso rappresenta il Sult: «Sono convinto che un nuovo modello di sindacato non potrà prescindere dall’essere un soggetto aperto alla società civile. Sono molte le cose che si intrecciano fra il mondo del lavoro e il resto della società». La definizione “mondo del lavoro” non ci appartiene in alcun modo. Essa è volutamente fumosa, allargandosi e restringendosi a seconda delle necessità dell’opportunismo politico e sindacale. Ad essa dobbiamo sostituire quelle, fra loro equivalenti, di proletariato, classe operaia, classe lavoratrice o dei salariati. Quanto alle molte cose che “si intrecciano” fra la classe lavoratrice “e il resto della società” una è quella fondamentale: che il resto della società vive sulle spalle del proletariato.
Non che si possa ignorare il peso sociale degli strati intermedi, che vanno certamente almeno neutralizzati. Ma il meccanismo possibile non e “Saremo forti quando avremo l’appoggio dei piccolo-borghesi”. Esattamente il contrario: “Quando saremo forti, allora, come conseguenza, avremo, fra l’altro, anche l’appoggio dei piccoli-borghesi”.
La questione del “rilancio” del trasporto pubblico locale è anch’essa molto delicata. Di “riassetto” del TPL parlano anche governo e sindacati di regime. «Il problema principale è ricompattare i lavoratori per aprire la vertenza sul riassetto di un settore che è al collasso», dice Fabrizio Solari, segretario generale della FILT-CGIL, al Manifesto. Per costoro ovviamente l’obiettivo è di “economizzare” il settore, ossia renderlo il meno dispendioso possibile per le casse dello Stato, riempite di plusvalore estorto ai lavoratori. Questo passando per la divisione dei tranvieri, ottenuta mediante lo scorporo e la privatizzazione delle aziende, ed il contemporaneo e conseguente peggioramento delle condizioni normative e salariali. Ne consegue che, sebbene “rilancio” e “riassetto” siano due parole differenti, sono utilizzate non a caso insieme e si corre il rischio con questa indicazione di fare il gioco del nemico.
Ma questo è un aspetto della questione secondario. Quello centrale è un altro. In questa indicazione si fondono due tipiche posizioni dell’opportunismo sindacale, che infatti erano e sono anche della CGIL. La prima, nella sua forma originaria, essendo quella attuale un suo derivato, è quella della “gestione operaia” delle fabbriche. Questa torna alla ribalta nei momenti di parossismo della crisi economica, come attualmente in Argentina. Essa attribuisce i mali della produzione capitalistica, che inevitabilmente ricadono sui lavoratori, ad una cattiva gestione dell’azienda e non alla sua generale natura economica. Invece è inevitabile che, messi i lavoratori al posto dei manager, in un’azienda capitalistica non si può che ottenere il solo e pessimo risultato di far sfruttare i lavoratori da loro stessi, con conseguente confusione e demoralizzazione della classe. Finché sussiste la produzione aziendale e mercantile la sola cosa che possono fare i lavoratori è resistere al crescente sfruttamento, che cesserà solo con l’attuazione del programma rivoluzionario comunista. Programma che non prevede una impossibile “gestione operaia” delle aziende, bensì la comunista eliminazione della partizione aziendale della produzione, il che si concreta organizzando la produzione riferendosi non al bilancio aziendale ma ad un bilancio unitario sociale. Bilancio sociale conteggiato non su grandezze monetarie ma fisiche, essendo il suo fine non l’accumulazione del capitale ma la soddisfazione dei bisogni sociali e la cui attuazione può avvenire solo sul cadavere dei rapporti di produzione capitalistici quali lavoro salariato, capitale, merce, moneta e, appunto, azienda.
Essendo questa della gestione operaia l’ultima carta che il capitalismo si gioca nelle fasi di estrema agonia, nelle sue fasi di relativa salute viene proposta ai lavoratori una sua forma derivata, meno radicale, che si limita a denunciare l’operato dei dirigenti aziendali e a proporre piani industriali alternativi. Non si pretende di gestire il capitale al posto dei padroni, ma ci si limita a fare umile richiesta affinché si seguano le sagge ricette sindacali. È quanto vediamo tutti i giorni per il susseguirsi di aziende in crisi come FIAT, Parmalat, Alitalia, Thissen-Krupp, Ferrania, comparto tessile, ecc., ecc. Il concetto generale alla base è questo: gestito dai lavoratori il capitalismo cesserebbe di essere una società basata sul loro sfruttamento.
Oltre a diffondere fra i lavoratori questa sballatissima idea, proponendo questi fantomatici “piani industriali” si fa di ogni lotta una questione a sé, un problema che nasce e deve essere risolto all’interno di ciascuna azienda. Invece di unire le lotte si mantengono isolate, anzi si oppongono le une alle altre essendo ogni azienda in concorrenza commerciale con le restanti. Invece, non solo i problemi dei lavoratori sono gli stessi in tutte le aziende e settori, ma la loro origine è al di fuori dell’azienda, nel generale modo di produzione capitalistico e nelle sue crisi che il padronato tenta di far pagare il più possibile ai lavoratori. Perciò come l’origine di ogni crisi aziendale sta nel rapporto fra le aziende, nel mercato, nel capitalismo, così i lavoratori che queste crisi pagano, devono affrontare il problema non a livello aziendale ma sociale, cioè di classe. Quindi è un problema di tutti i lavoratori, i cui interessi vanno a confliggere oggettivamente con gli interessi di tutti i padroni.
Proponendo di sviluppare un piano per il rilancio del TPL il Coordinamento cammina pericolosamente sul pendio scivoloso che conduce a questa posizione. Se non vi cade in pieno è per la particolare natura di questo settore, e cioè per il fatto che esso appartiene alla categoria dei servizi pubblici. È vero che i trasporti pubblici, specie quelli destinati ai pendolari, vanno sempre più degradandosi, ma di questo i tranvieri non sono certo i responsabili. Dire che dovrebbero lavorare di più o limitare le loro rivendicazioni affinché si possa “migliorare il servizio” per gli altri lavoratori è una infame ipocrisia: lavorerebbero di più sì, ma solo per il tornaconto delle aziende e del bilancio statale. Una eventuale lotta proletaria per il mantenimento del cosiddetto “Stato sociale” sarebbe il risultato di una mobilitazione generale di tutta la classe contro lo Stato, non un fatto “tecnico” per cui i tranvieri difendono i tram, i ferrovieri i treni, le maestre le scuole, gli infermieri gli ospedali, ecc.
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I giorni che precedono il 9, i sindacati di regime vanno avanti con la sottoscrizione degli accordi locali. L’8 sono conclusi, giusto in tempo per tagliare le gambe allo sciopero, quelli di Venezia e Roma. Nonostante questo lo sciopero è un successo: i lavoratori fermano gli autobus compatti in tutte le città dove sono presenti i sindacati di base ed anche in alcune dove sono assenti. A Genova l’adesione è del 90% a fronte di un’adesione agli scioperi precedentemente indetti dalla RDB-CUB che il Secolo XIX dice di essere dello 0,7%: un bel passo in avanti. Lo stesso accade a Treviso. Nonostante gli accordi locali a Roma aderisce oltre il 90% dei tranvieri e a Venezia il 100%. Solari, segretario generale della FILT, provando goffamente a minimizzarla, riconosce la vittoria del Coordinamento: «Non c’è dubbio che lo sciopero ha avuto una presa notevole, ma non è che ha scioperato il 100% dell’Italia». Il suo collega milanese, Franco Fedele, segretario della FILT di Milano, valuta invece «bassissima l’adesione», mostrando la stessa obiettività del sottosegretario al lavoro, Maurizio Sacconi, per cui: «Con l’eccezione di qualche grande città lo sciopero è fallito».
A Venezia si svolge un corteo cui partecipano anche un gruppo di lavoratori dei Vigili del Fuoco ed delle Finanze.
Come prevedibile lo sciopero non fa riaprire la trattativa nazionale. Per farlo sarebbe stato necessario ripartire con gli scioperi ad oltranza come a dicembre, ma questo difficilmente sarebbe stato sostenibile senza una solida ed estesa organizzazione. Il successo dello sciopero del 9 è importante proprio perché, rafforzando le organizzazioni sindacali di base e allargando il solco fra lavoratori e triplice, segna un passo in quella direzione.
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Alle 4 del mattino di lunedì 12 dai depositi milanesi non esce nessuno. Sorprendendo tutti i tranvieri del capoluogo lombardo ripartono con lo sciopero duro fuori dalla 146/1990. In mattinata un corteo di un centinaio di lavoratori dal deposito di Palmanova raggiunge il Comune. Le reazioni del fronte padronale sono quelle ormai abituali viste a dicembre. A metà mattinata il prefetto Ferrante convoca sindacati, azienda e sindaco. La trattativa locale viene riaperta. CGIL-CISL e UIL invitano i lavoratori della Atm a riprendere immediatamente il lavoro. Il ministro dell’Interno Pisanu invita il prefetto di Milano «se sarà necessario, a ricorrere alla precettazione e a denunciare all’autorità giudiziaria tutti i comportamenti illeciti». In serata la precettazione è disposta dal prefetto per ben cinque giorni fino a sabato 17.
La trattativa di Milano ha un valore particolare. Se infatti da un lato il suo successo indebolirebbe la lotta di livello nazionale, sottraendo alla causa una delle sue roccheforti, dall’altro lato, essendo i milanesi che hanno dato il via a questo ciclo di lotte e lo hanno anche in buona parte guidato, la loro vittoria, o sconfitta, anche solo sul piano locale, assume un valore simbolico: darla vinta a Milano significherebbe per il padronato riconoscere il valore di questo tipo di lotta. Quindi nell’interesse dei padroni va bene l’accordo locale, che però non deve apparire una vittoria dei “duri” ma il risultato della contrattazione dei “ragionevoli”. Questo nodo si manifesta intorno alla questione “salario in cambio di produttività”. Il Comune ne fa una bandiera. Lo Slai Cobas, che non partecipa alla trattativa, altrettanto, ovviamente in senso opposto. I Confederali, al solito, a parole si dicono contro lo scambio, nei fatti lo avvallano. In ogni caso si dichiarano disponibili ad «impegnarsi in una lunga trattativa sulla produttività dell’impresa in generale, dopo il riconoscimento economico». Insomma, con una trattativa lunga e su un piano generale, ma le intenzioni, sotto queste parole fumose, sono chiare. L’azienda dal canto suo già da tempo aveva stilato una lista di ben 14 diversi modi per aumentare la produttività.
Martedì 13, per la prima volta tornando a violare la precettazione, lo sciopero prosegue compatto. Gli scioperi fuori dalla 146/1990 sono a Milano quelli dell’1, del 20, e del 21 dicembre e del 12 e 13 gennaio, in tutto cinque. A questi vanno aggiunti quelli, all’interno della legge, del 15 dicembre, indetto dai sindacati di regime, e del 9 gennaio, indetto dal Coordinamento Nazionale.
Alle 8 del mattino il prefetto chiede a Polizia e Carabinieri di «inviare oggi stesso alla Procura della Repubblica il rapporto giudiziario con i nomi del personale Atm che non ha ottemperato alla precettazione, di coloro che ieri si sono astenuti dal lavoro in violazione della legge». Nel pomeriggio l’azienda fornisce tutti i nomi degli scioperanti.
Lo sciopero si estende. A Monza si sciopera nonostante la precettazione sia valida anche per l’azienda locale. A Bergamo incrociano le braccia i lavoratori della società che gestisce il servizio in città e in 18 paesi della cintura. A mezzogiorno arriva la precettazione ma lo sciopero va avanti ugualmente fino a sera, esclusi solo i lavoratori col contratto di formazione lavoro. Anche a Brescia si sciopera; al deposito di via S. Donino si presentano i segretari confederali locali di categoria per convincere i lavoratori a riprendere il lavoro; non bastando giunge tempestiva la precettazione alle 8 del mattino; si resiste fino alle 10.
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In serata a Milano i tre sindacati di regime firmano l’accordo. Vale la pena soffermarsi.
Intanto tutti i firmatari sono soddisfatti. Per il sindaco Albertini «si tratta di un accordo che non rinnova il contratto nazionale e, in sostanza, si caratterizza con uno scambio tra aumento dell’efficienza e della produttività del lavoro a fronte di un aumento delle retribuzioni». Per CGIL-CISL-UIL l’accordo è «pienamente soddisfacente»; per Epifani «positivo». Ma allora, si chiede lo Slai Cobas in un documento del 21 gennaio, chi ha vinto, i padroni o i lavoratori?
L’accordo è composto di otto articoli. Le parti si pongono gli obiettivi «di efficacia ed efficienza nella gestione», proseguendo nelle «politiche di ottimizzazione dell’organizzazione lavoro, con il coinvolgimento e la partecipazione dei lavoratori». Che cosa significhino “efficacia”, “efficienza” e “politiche di ottimizzazione dell’organizzazione del lavoro” per i tranvieri è ormai chiaro da tempo: aumento dei ritmi, quindi della produttività, quindi dello sfruttamento. Spesso anche semplicemente aumento dell’orario di lavoro. Quanto al “coinvolgimento” ed alla “partecipazione dei lavoratori” si tratta della ovvia doratura della pillola. Nei fatti consisterà nel coinvolgimento e nella partecipazione dei ben 95 delegati confederali, al fine di dare più garanzie di successo alla strategia aziendale.
L’accordo aziendale si propone di recuperare produttività con successivi accordi mediante un’ulteriore trattativa da farsi entro il 3 marzo, in cui l’azienda si propone di riconsiderare le pause.
La triplice aveva giustificato lo stallo della trattativa con la sua intransigenza circa lo scambio “salario per produttività”. In realtà, come abbiamo visto, anche a parole aveva già messo le mani avanti, promettendo future “lunghe trattative sulla produttività dell’impresa in generale”. Oltre a ciò il trucco è stato quello di ridurre tutta la questione dello scambio salario-produttività al problema delle riduzione delle pause quando, come abbiamo già visto, l’azienda aveva già stilato una lista di ben 14 differenti modi per aumentare i ritmi.
Inoltre l’accordo stabilisce che le località di cambio potranno aumentare fino a quattro per ogni linea, in modo da saturare al massimo l’orario di lavoro, cosicché le pause verranno utilizzate dai conducenti non più come recupero psico-fisico ma per gli spostamenti atti a raggiungere le varie località di cambio. La durata delle pause non è tagliata, ma è compromesso il loro utilizzo.
Per la parte economica:
1) a gennaio viene anticipata, a tutti i lavoratori, la quota del premio
di risultato del 2003, 250 euro. Quindi è un falso aumento: viene
solo anticipato quanto già pattuito. A giugno questa somma verrà
conguagliata, cioè decurtata in caso di malattia, infortunio o assenze
varie (superiori a 30 giorni);
2) a febbraio vengono riconosciuti 300 euro una-tantum quindi non validi
né per il TFR né ai fini pensionistici. Questi diventeranno
“strutturali” solo nel 2005: 25 euro per 12 mesi e non per 14, non validi
ai fini TFR né pensionistici; il tutto fermo restando l’aumento
di produttività (art. 5 e 6.2). Di questi 300 euro ai lavoratori
con contratto di formazione lavoro verrà riconosciuto solo il 50%;
viene dato loro il contentino del riconoscimento del cosiddetto “superminimo”,
ma anche qui nella misura del 50%.
Inoltre:
1) CGIL, CISL e UIL hanno proposto, come contropartita dell’aumento
della flessibilità dei cambi sulla linea, la riduzione degli straordinari
che nel 2003 sono stati di 2 milioni di ore; l’accordo ne prevede una diminuzione
del 10% ma non dice come, né prevede assunzioni. Anzi riduce a 15
minuti la mezz’ora di “chiamata” per ogni bonifico, abbassando il costo
dello straordinario per l’azienda e rendendolo ancora più vantaggioso
rispetto ad una nuova assunzione. Il risultato è che le ore di straordinario
aumenteranno: bello scambio!
2) è prevista maggiore flessibilità per la manutenzione
e l’area amministrativa da concordare di volta in volta con le Rsu;
3) verrà riaperta la trattativa per la “proceduralizzazione
del conflitto” (art. 7), ovvero ulteriori limiti alla possibilità
di scioperare che diviene così sempre più illegale;
4) È avallata la privatizzazione attraverso gli appalti.
Triplice e azienda insomma hanno preparato un nuovo bel regalino ai lavoratori milanesi. L’accordo è pieno d’inganni e pone le premesse per ulteriori futuri peggioramenti. Tuttavia, se, a fronte della proposta iniziale dell’azienda di 12 euro, poniamo l’accordo nazionale del 20 dicembre e questo accordo aziendale, risultati unicamente della lotta, è giusto quanto dice lo Slai Cobas, titolando il succitato documento: «Nessuno si senta sconfitto».
* * *
Mercoledì 14 dall’alba si fermano i tranvieri di Bologna, Imola, Pavia e Venezia. A Bologna, dove su 1.800 tranvieri il 50% non è sindacalizzato, 550 sono iscritti alla CGIL e 300 ai sindacati di base, i dirigenti giungono subito nei tre depositi a intimidire i lavoratori. All’esterno la polizia si fa vedere a presidiare le uscite. Alle 6,40 arriva la precettazione. I mezzi cominciano ad uscire solo verso le 8. La precettazione colpisce anche Imola e pure qui interrompe lo sciopero. Stesso copione a Pavia dove i 60 lavoratori della Linea spa si fermano dalle 6,30 fino alle 11, ed a Venezia.
Giovedì 15, proprio a Milano, si riunisce il Coordinamento Nazionale che fissa un nuovo sciopero per il 26 gennaio. Dopo il successo del 9 questo del 26 è una nuova prova di forza, obbligata e però assai più dura. Il tempo gioca contro allontanando ogni giorno che passa la possibilità di riapertura della trattativa nazionale. Su questo in realtà nessuno si fa illusioni. Come quello del 9 anche questo sciopero vale soprattutto in quanto occasione per rafforzare le organizzazioni di base.
Giocando proprio sui tempi la Commissione di Garanzia dichiara, ricorrendo ad un cavillo, illegittimo lo sciopero del 26 e costringe il Coordinamento a rinviarlo al 30. Oltre al tempo giocano contro il nuovo sciopero gli accordi locali che i confederali nel frattempo continuano a firmare. Al 28 gennaio sono circa una ventina, quasi tutti al Nord, e coprono quasi la metà degli autoferrotranvieri. Il più pesante è chiaramente quello di Milano dove, dopo 5 scioperi fuori legge e due regolari in 45 giorni, i tranvieri sembrano accontentarsi. Il 30 a Milano è previsto anche un blocco dei tassisti. La Commissione di Garanzia fa presente che, fra tassisti e tranvieri, qualcuno dovrà rinunciare: lo fa lo Slai-Cobas probabilmente nel timore di non figurare bene come nel precedente sciopero del 9 gennaio.
Tenuto conto di tutte queste difficoltà lo sciopero del 30 è forse un successo superiore a quello del 9. La tenuta infatti è ottima. Totale nelle città in cui le organizzazioni di base sono da tempo radicate, come a Venezia (400 iscritti su 2.700 dipendenti), Bologna e Firenze, con adesioni oltre l’80%. A Roma nonostante il giorno prima fosse stato firmato un nuovo accordo locale, dopo quello dell’8, sempre il giorno prima dello sciopero, il risultato è nuovamente ottimo col 70% di adesioni. Oltre l’80% anche Trieste, Brescia, Napoli, Bari e Potenza. Tengono meno, ma tengono, Torino e Genova col 30% di scioperanti; scarsissima la presenza fra i tranvieri dei sindacati di base in queste due città, almeno fino a prima di queste lotte. A Bologna al corteo di 200 tranvieri si unisce quello di una cinquantina di lavoratori del Gruppo Telecom in sciopero con l’Flmu-CUB. Piccoli significativi esempi.
* * *
Il 31 CGIL-CISL e UIL sciolgono la formale riserva prevista nell’accordo del 20 dicembre che entra così pienamente in vigore. Gli autoferrotranvieri, dopo due scioperi illegali (21 e 22 dicembre) e due all’interno delle regole (9 e 30 gennaio) contro l’accordo bidone del 20 dicembre, si rassegnano ad accettarlo. Perdono così 25 euro di aumento e 2.000 euro di arretrati sul contratto nazionale. Con i contratti locali, come dice il Manifesto, quotidiano nettamente dalla parte della CGIL, «per la prima volta è stata praticata una contrattazione territoriale che, all’insegna del “si salvi chi può”, assomiglia terribilmente alle gabbie salariali».
Di azioni successive abbiamo notizia di quella di Potenza. Alcune settimane dopo lo sciopero del 30 gennaio a Potenza i dipendenti della STI, la società a cui è affidata la mobilità pubblica, hanno ingaggiato battaglia. I lavoratori hanno interrotto il lavoro per alcuni giorni, decisi a fermare un cambiamento di piano voluto da Comune ed Azienda e che avrebbe peggiorato le loro condizioni di lavoro. Contestavano soprattutto la tabella di marcia con le troppe incongruenze sugli orari di arrivo e le partenze delle nuove corse.
Con il traffico bloccato il prefetto ha risposto con la precettazione, come da direttiva governativa. Ma l’emanazione del decreto ha visto compatti i 110 lavoratori fermi sulle loro posizioni e in quegli 8 e 9 febbraio anziché ripristinare il servizio hanno fatto un picchetto davanti ai cancelli dell’azienda, al freddo, per ore. Pochi mezzi sono usciti nella fascia protetta. Il comportamento dei lavoratori ha scavalcato i sindacati confederali che al tavolo delle trattative erano seduti pensando di chiudere la vertenza alla svelta. È significativo che nella città meridionale oggetto della rivendicazione non era il salario quanto le condizioni e l’orario di lavoro. CGIL-CISL-UIL hanno boicottato la lotta, rimasta isolata: i lavoratori della STI alla fine hanno dovuto cedere davanti ad un compromesso temporaneo: che il nuovo piano di trasporti inizi a livello “sperimentale”.
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La lotta dei tranvieri, momentaneamente sospesa, riprenderà presto per il nuovo contratto nazionale 2004-2007. Sia il Coordinamento Nazionale di Lotta degli Autoferrotranvieri sia la Triplice hanno già presentato le loro piattaforme. In estrema sintesi, per la parte salariale i confederali chiedono un aumento medio mensile di 131 euro (comprensivo dei 25 euro da recuperare); il Coordinamento Nazionale 230 euro al mese, ottenuti sommando i 25 euro pregressi, i 100 euro di “recupero salariale uguale per tutti”, 55 per l’inflazione “attesa” nel primo biennio, 50 per quella “attesa” nel secondo. Il Coordinamento ha avviato la “procedura di raffreddamento” in modo da scioperare alla prima data utile.
Alla lotta per il contratto si aggiunge quella contro i provvedimenti repressivi che stanno colpendo i lavoratori, in ritorsione alle lotte di dicembre e gennaio.
A Brescia dopo le giornate di sospensione inflitte dall’azienda a decine di autoferrotranviari, nelle scorse settimane sono arrivati agli scioperanti (su segnalazione dell’azienda) 22 avvisi di garanzia per “violenza privata”. Immediata è stata la mobilitazione dei lavoratori la cui protesta, arrivata in Consiglio Comunale, ha strappato al sindaco un vago impegno d’intervento moderatore sui furori repressivi della direzione aziendale. Ma l’azienda, che aveva accennato una parziale marcia indietro con la proposta di trasformare le giornate di sospensione in ore di multa (non cancellando quindi le sanzioni), nel frattempo era già ripartita con la sua politica di attacco ai lavoratori segnalando i 22 lavoratori già oggetto di denuncia giudiziaria alla Commissione Nazionale di Garanzia. Questa, con altrettanta solerzia, ha subito aperto l’iter di 22 provvedimenti disciplinari, le cui notifiche sono giunte ai lavoratori il 18 marzo, i quali vengono così colpiti tre volte: dalle sanzioni dell’azienda, dalle denunce penali, dalle sanzioni della Commissione Nazionale di Garanzia.
A Milano, scrive il Sole 24 Ore del 13 marzo, «preso atto della delibera della Commissione di garanzia, che definisce “illegittima” la protesta dei tranvieri milanesi del 1° dicembre 2003, l’azienda dei trasporti ha avviato il provvedimento disciplinare interno. I conducenti coinvolti rischiano una sospensione dal servizio da un minimo di uno a un massimo di 10 giorni (va notato che, storicamente, all’Atm di Milano non sono mai state attribuite sospensioni superiori ai cinque giorni). Al momento – precisa il direttore dell’azienda Roberto Massetti – risultano inviate circa 800 lettere di avviso ad altrettanti lavoratori, ma i sindacati temono che possano diventare anche molte di più». E questo solo per lo sciopero del primo dicembre senza ancora contare i quattro successivi, ugualmente “illegittimi”. «I singoli dipendenti – prosegue il quotidiano della Confindustria – potranno chiedere di essere ascoltati per fornire delle “controdeduzioni” che li mettano al riparo dalla eventuale punizione. Anche il numero dei giorni di sospensione verrà stabilito caso per caso, a seconda del curriculum “disciplinare” di ciascun dipendente (se un lavoratore è recidivo corre rischi maggiori)».
Alle questioni già affrontate, si interseca e si somma quella del processo in atto di smembramento e privatizzazione delle singole aziende del trasporto pubblico locale. Anche nel corso della lotta nazionale, i sindacati di regime hanno utilizzato questo problema al fine di deviare l’attenzione dei lavoratori sulla questione locale, in modo da sfaldare l’unità di azione a livello nazionale. Un rinato sindacato di classe non deve certo disinteressarsi delle questioni locali, ma deve cercare di utilizzare ogni singola questione per l’unificazione delle lotte, non al loro isolamento locale, aziendale, o settoriale. Ci si oppone alle privatizzazioni, allo smembramento delle aziende e alle esternalizzazioni non in adorazione del principio “pubblico è bello” o in “difesa dell’azienda” ma perché quelle sono attuate proprio come metodi di attacco alla condizione operaia e di divisione. A Genova, dopo tre scioperi indetti da triplice e Faisa contro gli scorpori, uno dei quali conclusosi anche con l’occupazione, pacifica, della Regione, i “quattro porcellini” hanno fatto dietro front, accettando il piano di divisione. Ai lavoratori che in assemblea chiedevano spiegazioni, rispondevano con la solita tiritera con cui risponde qualsiasi padrone: mancano i soldi. Contro lo scorporo e contro le misure repressive nel capoluogo ligure il 12 marzo la Fltu-CUB trasporti ha indetto uno sciopero di quattro ore. Lo sciopero è stato organizzato dal neonato gruppo di tranvieri che, sull’onda della lotta di dicembre-gennaio, ha aderito a questo sindacato di base. L’adesione è stata valutata nell’ordine del 30-40% che è un buon risultato tenuto conto della fase di riflusso delle energie e considerando che si trattava di fatto dell’esordio del sindacato di base nella città.
* * *
Come abbiamo scritto nel numero scorso, questa lotta è stata per la borghesia e per il suo sindacalismo un duro colpo: si è approfondito il solco fra tranvieri e confederali e si sono rafforzate le organizzazioni di base nel settore; i tranvieri si sono riappropriati dell’arma dello sciopero dando l’esempio a tutti gli altri lavoratori. Molti per la prima volta si sono impegnati personalmente nell’organizzare la lotta, invertendo una tendenza decennale che li vedeva delegare la difesa dei loro interessi ai professionisti del sindacalismo. È importante che queste forze nuove si leghino alle organizzazioni di base così da non disperdersi.
Questa lotta inoltre ha posto in evidenza il problema della frammentazione e dei divergenti indirizzi delle sigle del sindacalismo di base. Noi comunisti – che siamo prima di tutto attenti spettatori di un processo che si svolge davanti ai nostri occhi, con modalità storicamente determinate e non secondo i nostri desideri – lavoriamo in queste organizzazioni per accelerare il loro processo di maturazione ed unificazione tendente alla formazione di qualcosa che va oltre quello che sono adesso, il rinato sindacato unitario della classe operaia.
PAGINA 3
ALGERIA,
IERI E OGGI
10. CAPITALISMO A VISO SCOPERTO
(continua dal n. 304)
Terrorismo contro le masse povere
(Continua dal numero
scorso)
Uno sguardo al Congresso 2003 delle Trade Unions
Subito prima del congresso annuale del TUC, in settembre a Brighton, fu pubblicato un articolo intitolato “Un’unione perfetta”: gli iscritti al TUC, che erano circa 12 milioni negli anni ’70, si sono circa dimezzati negli anni ’90 per poi stabilizzarsi sui 6,6 milioni. Vi sarebbe quindi spazio per una espansione se il sindacato rappresentasse davvero i lavoratori.
Ma il nuovo segretario generale del TUC, da pochi mesi, Brendano Barber, ha subito chiarito quale sarebbe stato l’atteggiamento suo, e del TUC. Nel suo primo discorso pubblico da dirigente del TUC, alla City University a Londra, ha affermato come i diritti di voto in mano ai sindacati dei fondi pensioni e delle società di assicurazione avrebbero dovuto essere usati per influenzate le decisioni delle grandi compagnie. «Quasi metà delle azioni delle società inglesi sono detenute da investitori istituzionali – i nostri fondi pensione e le compagnie di assicurazione. È tempo che noi ne traiamo la conseguenza ed iniziamo ad influenzare il modo in cui quest’investimento è impiegato».
Democrazia degli azionisti! Proviamo a far votare uno sciopero ai lavoratori di una fabbrica qualsiasi e scopriremo come questa “democrazia” sia solo per i padroni. Barber però precisa: «Noi non siamo interessati nel Casinò capitalistico: noi vogliamo sostenere la prosperità. Forse il nostro compito adesso è quello di salvare il capitalismo dai capitalisti (...) Se vogliamo delle buone pensioni abbiamo bisogno di compagnie nelle quali in nostri fondi pensione siano investiti al meglio». La logica è che il TUC deve continuare ad assistere il capitalismo nello sfruttamento dei lavoratori, in modo che possa trarne profitti sufficienti a mantenere in marcia l’intero sistema.
Lo stalinista “Morning Star” ha pubblicato un animoso articolo e un’intervista al “Demone Barber”. Il “Demone” inizia: «I sindacati devono essere controparti credibili, che lavorano costruttivamente con gli imprenditori, ma devono avere abbastanza potere sul posto di lavoro per distinguersi realmente dalle decisioni padronali».
Dopo aver così sistemato i padroni il “Demone Barber” si volge verso Downing Street per affrontare il coinvolgimento dei sindacati nelle decisioni governative. Avanza l’idea di un Forum speciale per i servizi pubblici nel quale dei sindacalisti anziani darebbero consiglio alle scelte del governo. Blair dette a questa proposta una “risposta positiva” tanto che anche un ministro del governo, si dice, avrebbe fatto parte del Forum. Ma la Confederazione degli industriali inglesi, la CBI, protestò che questo Forum fosse riservato ai sindacati ed insisté che anche gli uomini di affari avrebbero dovuto avere la stessa facoltà di dire la loro; e perché non non rappresentanti del settore del volontariato? e dei consumatori? Insomma tutti pretendono, tenendosi per mano, di venire alla ribalta.
Sempre più fiochi lamenti
Il governo Blair e i funzionari del TUC, abilmente assistiti dalla CBI, collaborano nel rintuzzare ogni opposizione nel TUC.
Una volta un certo grado di scontento era consentito esprimerlo nelle riunioni del TUC. Passavano dei voti contro le leggi antisciopero, furono denunciati i progetti del governo di riforma ospedaliera. Si “minacciava” che se il governo non avesse ascoltato i sindacati avrebbe perduto alle successive elezioni! Ma talvolta il governo si sentiva sotto pressione perché erano nell’aria delle azioni di sciopero e non poteva ignorare qualunque malcontento, che si rifletteva anche nelle sedute del TUC.
Il ministro delle finanze, Gordon Brown, venne a spiegare i piani per la riforma dei sevizi pubblici e le riduzioni salariali (solo per il lavoratori, naturalmente). Il “fratello Brown” (così ci si chiama fra iscritti alle Unions: infatti il signor ministro è ancora regolarmente iscritto al Transport and General Workers Union, come Tony Blair) si presentava come il meno peggio portavoce della politica di governo. Sbrodolò liricamente sulla corrispondenza delle paghe secondo l’istruzione e le capacità. Non che convinse molto, ma era lì per ammorbidire il congresso per il successivo dibattito sulla politica industriale. che fu difesa dal ministro per l’Industria Patricia Hewitt e dal capo della CBI, Digby Jones, i quali intrattennero piacevolmente i dirigenti sindacali sulla necessità di mantenere efficiente l’economia.
Questo doppia battuta era per preparare i delegati sindacali al discorso che Tony Blair avrebbe tenuto la sera stessa al un pranzo “privato”. Alla stampa nel frattempo era stata fornita una versione ben più esplicita del discorso, che dichiarava le politiche della sinistra laburista un’illusione e che il laburismo stava battendo l’altra strada, la sola possibile. Dopo la cena i giornalisti chiesero ai sindacalisti il parere sul discorso di Blair, descritto come sull’informativa della stampa, ed essi domandarono se fosse lo stesso discorso che avevano appena ascoltato. Il surrealismo evidentemente non appartiene solo al campo dell’arte.
Il dibattito sulle “questioni internazionali” si offrì ai capi sindacali come opportunità di dar voce alle critiche al governo evitando la questione operaia, trascurando le scelte circa la lotta di classe per fumose e retoriche richieste circa l’atteggiamento verso la guerra o altra questione diplomatica mondiale.
Qualcuno ha chiesto che Blair desse le dimissioni da primo ministro (il che non gli provocherebbe un gran danno poiché si è già assicurato una pensione multimilionaria) ma questo è stato chiesto tutt’altro che risolutezza, come ha facilmente rilevato la stampa. Quelli che si sono espressi per le dimissioni di Blair sono stati Woodley del TGWU, Crow del RMT e Mick Rix, un segretario generale uscente. Rix non è stato nemmeno rieletto, con meno di metà dei 15.500 suoi potenziali elettori che nemmeno si è incomodato di andare a votare.
Non è certo questa, cosiddetta, “squadra dei coscritti”, che sarà capace di difendere i lavoratori, sia pure ad un livello del tutto elementare.