Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 353 - maggio-giugno 2012
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organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Primo Maggio 2012 - Le macerie del riformismo porteranno i lavoratori alla rivoluzione e al Comunismo: La “soluzione borghese” alla crisi del Capitale - Riformismo arnese difensivo borghese - Riscossa del marxismo rivoluzionario e nuova degenerazione - Democrazia, post-riformismo e post-stalinismo ancora contro la classe operaia e contro il Comunismo - Tornare all’originale programma comunista rivoluzionario.
La crisi in Grecia e le false alternative parlamentari.
– Francia: La farsa delle presidenziali sguazza nel razzismo.
PAGINA 2 Dietro il bugiardo Diritto del Lavoro si conferma la brutale dittatura borghese
Contro il baraccone elettorale Per la lotta di classe.
PAGINA 3 Perché non parliamo “facile”.
– Quando i riformisti erano rivoluzionari: Una lettera dal carcere di Anna Kuliscioff.
PAGINA 4 – Contro una classe disorganizzata Governo e Sindacati fanno a gara nel sostenere i profitti: La manovra politica del governo “tecnico” - I cani da guardia confederali hanno ribadito il proprio ruolo storico - Reazioni scomposte di una classe disorganizzata.

 
 
 
 
 

PAGINA 1


Primo Maggio 2012
Le macerie del riformismo porteranno i lavoratori alla rivoluzione e al Comunismo

La “soluzione borghese” alla crisi del Capitale

Il capitalismo affonda nella crisi ogni giorno di più. I proclami dei governi borghesi d’ogni colore, di destra come di sinistra, che vagheggiano un superamento della crisi, più o meno remoto, sono mera propaganda per convincere i lavoratori ad accettare i sacrifici secondo la formuletta “stare peggio oggi per star meglio domani”. La crisi, al contrario, non farà che aggravarsi, avvitandosi in una spirale di cause ed effetti sempre più drammatici, fino al tracollo mondiale dell’economia capitalistica, perché ad essa non esiste soluzione.

Il capitalismo ha già attraversato nella sua storia crisi analoghe a quella odierna. L’ultima fu la Grande Depressione degli anni Trenta. Oggi, la cosiddetta politica economica keynesiana, ossia l’intervento dello Stato a sostegno dell’economia capitalistica, è invocata dalla sinistra borghese, sia moderata sia “radicale”. Allora, questa politica economica fu praticata indifferentemente da tutti i regimi borghesi, dai democratici come da quelli fascisti e nazisti, e non risolse affatto la crisi. Ciò che permise al capitalismo di tornare alla “crescita” – obiettivo, allora e oggi, spacciato come “bene comune” a borghesi e lavoratori – fu la Seconda Guerra mondiale. Il rimpianto dai borghesi “boom economico” degli anni ’50-‘60 fu figlio del sacrificio di 55 milioni di vite, quasi tutti proletari e contadini. Questo è il prezzo da pagare al Capitale per la sua “crescita!”

Fino al 1929 nessun “grande” economista o politico borghese aveva previsto che il capitalismo sarebbe precipitato nella crisi. Poi, in questo dopoguerra, affermavano che il capitale aveva ormai imparato ad indefinitivamente governarsi senza scosse tramite la programmazione e con i consumi “di massa”. Solo il marxismo rivoluzionario ha mantenuto la sua originaria previsione scientifica: le vere cause della crisi, indicate dal comunismo fin dal Manifesto del 1848 e nel Capitale di Marx, sono la sovrapproduzione e il calo del saggio del profitto, due fenomeni ineliminabili e inarrestabili dell’economia capitalistica perché impliciti nelle sue fondamentali leggi di funzionamento.

Queste leggi sono ormai a tutti evidenti, valide per tutti i paesi capitalistici maturi ed inevitabile destino anche dei nuovi giovani potenti capitalismi.

La borghesia non può fermare la crisi, ma al più frenarne l’avanzata. Questo è avvenuto, dalla crisi del 1973-’74, che segnò la fine del ciclo trentennale di forte crescita del secondo dopoguerra e l’inizio della crisi generale, agendo su tre leve: l’aumento del debito, l’allargamento del mercato mondiale, l’aumento dello sfruttamento della classe lavoratrice. Il capitalismo è riuscito così a dilazionare e rallentare il precipitare della crisi, permettendo altri 35 anni di crescita debole, ma non ha potuto fermarla: è esplosa quattro anni fa e continuerà fino al completo tracollo.

Non esiste dunque una soluzione economica alla crisi del capitalismo ma per la borghesia un’unica soluzione politica: una nuova guerra mondiale, per distruggere l’enorme massa di merci in eccesso, fra cui la merce forza-lavoro, e sottomettere la classe lavoratrice internazionale al massimo sfruttamento. Ed esiste un’unica soluzione politica proletaria: la Rivoluzione, per superare questo modo di produzione inumano e antistorico.
 

Riformismo arnese difensivo borghese

Nel periodo precedente l’imperialismo, e le guerre imperialiste, epoca che culminò nella proclamazione della giornata di lotta internazionale del 1° Maggio, marxismo rivoluzionario e riformismo si combattevano duramente ma all’interno dello stesso partito – la Seconda Internazionale, e, in Italia, il Partito Socialista – perché condividevano lo stesso obiettivo: la futura società senza classi. Esisteva cioè un riformismo di classe, che prospettava ai lavoratori il superamento graduale, con la lotta di classe ma senza la rivoluzione, del capitalismo: una sua pacifica evoluzione nel socialismo. La stessa CGL, fondata nel 1906, seppur diretta da riformisti, nel suo statuto proclamava obiettivo finale del movimento operaio e sindacale la “emancipazione dal lavoro salariato”.

La Prima Guerra imperialista mondiale segnò il fallimento del riformismo perché dimostrò che il capitalismo non marciava affatto, seppure gradualmente, verso il socialismo, ma portava alla più grande carneficina che la storia avesse mai fino allora conosciuto, e perché tutti i partiti socialisti, guidati dai riformisti, appoggiarono la guerra, abbandonarono in ogni paese la lotta di classe legando i lavoratori alla borghesia, portandoli al massacro fratricida sui fronti, calpestando l’internazionalismo proletario fino al giorno prima falsamente ossequiato. Il riformismo proletario moriva, divenendo da allora e per sempre uno strumento in mano alla borghesia: dal superamento graduale del capitalismo si passò al suo “miglioramento”; la abolizione del lavoro salariato fu sostituita con la “difesa della patria” e della “democrazia”.
 

Riscossa del marxismo rivoluzionario e nuova degenerazione

Di fronte al tradimento del riformismo e sull’onda rivoluzionaria che dopo la Prima Guerra imperialista mondiale attraversò tutta Europa, riuscendo però a portare al potere la classe operaia solo in Russia, le correnti marxiste rivoluzionarie si staccarono da quelle riformiste. In Italia nel 1921 l’estrema sinistra si scisse dal PSI per fondare a Livorno il Partito Comunista d’Italia. Ma la forza rivoluzionaria fu insufficiente a vincere l’influenza tradizionale dei vecchi partiti riformisti sulla classe operaia, determinante nel far fallire i tentativi insurrezionali in Germania e nell’impedire ai lavoratori di resistere alla reazione borghese, fascista in Italia democratica altrove.

Il potere comunista in Russia, isolato, privo della necessaria vittoria proletaria nel resto d’Europa, fu travolto dalla controrivoluzione staliniana, che si affermò fin dal 1926 con la teoria anti-comunista della “costruzione del socialismo in un solo paese”, e con la menzogna che da allora e per 60 anni avrebbe spacciato per Comunismo il ”capitalismo di Stato” russo. In pochi anni lo stalinismo liquidò il comunismo rivoluzionario in Russia, nella Terza Internazionale e nei suoi partiti. Anche in Italia la Sinistra Comunista, la corrente di sinistra del PCd’I che aveva fondato e guidato nei suoi primi anni il partito, fu sopraffatta dalla corrente stalinista e il PCd’I fu portato nell’alveo di quel riformismo, ormai borghese, da cui si era staccato nel ’21, sostituendo la parola della rivoluzione di classe per abbattere il capitalismo con quella della lotta interclassista contro il fascismo e per la democrazia.

Nella Seconda Guerra imperialista mondiale i lavoratori di tutto il mondo si trovarono nuovamente privi, come nella prima, di un partito che indicasse loro di trasformare la guerra imperialista nella rivoluzione di classe, volgendo contro i propri governi borghesi quelle armi consegnate loro per sparare sui proletari degli altri paesi. Lo stalinismo spinse i lavoratori al fronte così come aveva fatto il riformismo nella Prima Guerra, nascondendo con le menzogne del falso socialismo russo e della difesa della democrazia le finalità imperialistiche di entrambi i fronti di guerra.
 

Democrazia, post-riformismo e post-stalinismo ancora contro la classe operaia e contro il Comunismo

Sulle macerie della Seconda Guerra il capitalismo ritrovava lo slancio per quella sua orribile “nuova giovinezza” di cui oggi viviamo l’epilogo. Ma tutto ciò che la classe operaia ha conquistato lo ha fatto al prezzo di dure lotte, con scioperi preparati e condotti come autentiche prove di forza per piegare il padronato, costati anche la vita a decine di operai e braccianti uccisi nelle piazze dalle forze dell’ordine.

Il riformismo, in Italia il PCI, favorito dalla crescita economica del secondo dopoguerra, ha invece illuso i lavoratori che quei piccoli miglioramenti erano il frutto di un capitalismo nuovo in quanto democratico; che non erano suscettibili di essere messi in discussione in qualsiasi momento la borghesia lo ritenesse necessario, ma erano ormai acquisiti; che non erano conquiste difendibili solo con la stessa forza che le aveva procurate, ma diritti a cui appellarsi, abbandonati i metodi della lotta di classe, sulla base degli astratti e falsi principi della democrazia e del parlamentarismo.

Si vede oggi come non esista “diritto” dei lavoratori che non sia brutalmente revocato nell’interesse del capitale. Democrazia e parlamentarismo si stanno dimostrando solo un feroce inganno, in tutto asserviti agli interessi borghesi e giammai utilizzabili dalla classe operaia, come è sempre stato e come il comunismo rivoluzionario ha sempre affermato.

Pur di sopravvivere il capitalismo porterà i lavoratori alla fame, come si sta già del tutto democraticamente facendo in Grecia. E dopo alla guerra.
 

Tornare all’originale programma comunista rivoluzionario

La borghesia, di fronte all’incombente tracollo del modo di produzione da cui trae i suoi privilegi di classe, ai lavoratori intima: «siamo sull’orlo del baratro: per noi borghesi ma anche per voi lavoratori, o capitalismo o morte!». La sinistra borghese lo ribadisce ognora e là dove è al governo si fa artefice degli stessi provvedimenti messi in atto dai governi di destra. Quando è alla direzione dei sindacati, come in Italia con la CGIL, non organizza vere mobilitazioni per non danneggiare la economia nazionale colpita dalla crisi. Se i lavoratori si oppongono con veri scioperi li accusa di irresponsabilità, perché in questo modo mettono in pericolo quella che sarebbe la loro stessa fonte di vita: il Capitale.

Ma è vero il contrario: ciò che è un bene per il Capitale è dannoso ai lavoratori, e viceversa! Il riformismo predica da sempre il principio opposto, la conciliabilità degli interessi dei lavoratori con quelli dell’economia capitalistica, che chiamano il bene del paese. In realtà i richiami all’unità nazionale hanno sempre un solo significato: nuovi sacrifici operai per il Capitale. La sopravvivenza della classe lavoratrice non è nella “salvezza del paese” ma oltre questo modo di produzione, cioè contro il “bene del paese”, che altro non è che il bene del Capitale.

Non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di riscoprire e recuperare l’originale programma comunista rivoluzionario sgombrando le macerie dell’ultima e peggiore delle ondate opportuniste, quella dello stalinismo, che ha nascosto e mistificato davanti ai proletari perfino il significato di Comunismo.

Questo è possibile non certo con un’opera intellettuale ma di lotta politica, militando in quel partito, il Partito Comunista Internazionale che rivendica la tradizione di tre gloriose Internazionali e della Sinistra Comunista italiana, unica corrente che la degenerazione della Terza combatté dalla prima ora e che da quella sconfitta ha potuto trarre le lezioni per la riscossa proletaria futura.
 
 
 
 
 
 


La crisi in Grecia e le false alternative parlamentari

Negli ultimi tre anni la borghesia greca, per salvare i profitti della industria e della finanza, in alleanza col capitale internazionale ha mosso in guerra, riducendo i salari al proletariato e sottraendo ricchezza alle mezze classi. Negli ultimi mesi, infine, il regime è riuscito a cancellare i risultati di lunghi decenni di lotta operaia: ha abolito i contratti nazionali di lavoro e reintrodotto il contratto individuale; ha ulteriormente tagliato i salari, ad oggi si calcola già del 30%; ha ridotto le pensioni, tra le più basse d’Europa. Questo ha portato alla contrazione dei consumi, e non solo di quelli voluttuari.

Tutti i settori dell’industria sono in crisi, gravissima l’edilizia, ma lo stesso è per l’agricoltura e per il terziario. La disoccupazione ufficiale è al 20% degli atti al lavoro, e tra i giovani raggiunge il 50%: i disoccupati sono ormai più numerosi di chi ha un lavoro. Il governo ha preso l’impegno di licenziare ancora 150 mila impiegati pubblici entro il 2015.

Dopo aver messo queste pezze al passivo del bilancio dello Stato, il regime greco ha cercato di stemperare e deviare le tensioni sociali rilanciando l’ennesima trita commedia delle elezioni parlamentari.

Il cosiddetto “test” elettorale tenutosi il 6 maggio scorso ha solo confermato l’avversione della maggioranza della popolazione verso le cosiddette misure di austerità degli ultimi anni: quasi il 35% degli elettori non si è recato alle urne, un’alta percentuale per il Paese dove, dopo la dittatura militare, la liturgia democratica era sentita come una “conquista”, soprattutto dagli elettori “di sinistra”.

I due partiti che negli ultimi decenni si sono alternati al governo spartendosi potere e mazzette, cioè il Pasok (centro-sinistra) e Nuova Democrazia (centro-destra), ambedue sostenitori del governo “tecnico” di Papadimos, hanno subìto una debacle: il Pasok rispetto alle elezione del 2009, è sceso dal 44 al 13% e Nuova Democrazia dal 33 al 19%.

A “sinistra” i voti, di chi ha votato, si sono spostati dal Pasok su Syriza, la coalizione cosiddetta “radicale”, che è divenuta il secondo partito in Parlamento. Ma è un voto di “buon senso”, come da noi commenta il Manifesto, infatti Syriza è favorevole all’Unione Europea, pur dichiarandosi contraria ai diktat della Troika (Unione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale). La maggioranza della popolazione ha infatti ancora qualche cosa da perdere e teme il fallimento dello Stato e l’uscita dall’Unione europea.

L’Organizzazione Comunista di Grecia (Koe), una frangia di Syriza, proclama: «Oggi il popolo Greco ha sfiduciato i partiti pro-troika (Fmi-UE-BCE) ed ha provocato un vero e proprio terremoto che ha fatto tremare l’intero sistema politico. Il nostro popolo ha inviato un tuonante messaggio alla troika (...) Il cammino verso un altro tipo di rappresentanza, un altro sistema politico, il cammino verso la democrazia reale e una transizione politica radicale si è adesso aperto». Questi comunisti da operetta, con i loro “tuonanti messaggi”, vorrebbero incanalare nelle urne elettorali le energie di un movimento di scioperi e manifestazioni che da più di due anni percorre il paese, del quale sarebbero la maturazione e la rappresentazione politica. Se la classe operaia ci casca, per la borghesia il gioco è fatto.

Il demagogico e bugiardo programma di Syriza risponde a questo scopo: oggi nessun governo, sia pure di “sinistra”, potrebbe attuare una difesa della classe lavoratrice, né in Grecia, né in alcun altro paese. Il Parlamento e i governi, di qualunque colore siano, sono organi dello Stato borghese e difendono gli interessi della classe borghese; la classe operaia può difendersi solo con la lotta, al di fuori dell’aula parlamentare, ininfluente, corrotta, prezzolata.

Il Kke, un partito inserito a pieno titolo nello Stato borghese e che ha dato più volte prova, anche in tempi recenti, tramite il controllo di un importante sindacato com’è il Pame, di voler mantenere il movimento sociale all’interno dell’ordine borghese, opponendosi alla ricostruzione di veri sindacati di classe aperti a tutti i lavoratori, si mostra oggi “estremista”, e rivendica l’uscita dall’Unione Europea. Ma è solo una recita che fa anch’essa parte della sceneggiata parlamentare. In Italia abbiamo svergognato per decenni la politica del Pci, “partito di lotta e di governo”, che lasciava intendere tra i militanti di mantenere la politica dei “due cassetti”, uno con la via elettorale e l’altro, ben chiuso a chiave, avrebbe nascosto la rivoluzione. I due cassetti, le due “vie” tra le quali il partito avrebbe scelto “al momento giusto” non esistevano. Come sempre, o preparazione rivoluzionaria o preparazione elettorale. Oggi, dopo i disastri a cui la socialdemocrazia e lo stalinismo hanno condotto il proletariato internazionale, non possiamo che ribadirlo senza esitazioni.

A destra i voti sono passati da Nuova Democrazia ad alcuni partiti minori e al movimento nazional-socialista Alba Dorata. Questo attribuisce la crisi agli “strozzini ebrei”, agli immigrati che rubano il lavoro ai greci e agli zingari che scippano le vecchiette; gridano contro la dittatura dell’Europa e per “la Grecia ai greci”; col 7% dei voti le sue teste rasate avranno il loro degno posto a movimentare il democratico serraglio del Parlamento ellenico.

Come si vede il rito elettorale, lungi dall’essere quello spreco di quattrini che potrebbe sembrare, è ancora un utile strumento per portare fuori strada i lavoratori, per illuderli che da esso possa venire fuori “qualche cosa di buono”, che “uomini nuovi”, nuove forze politiche, un nuovo governo possano prendere una qualche iniziativa che difenda le loro condizioni. Se i lavoratori non riusciranno quindi ad organizzarsi e resistere sul piano di classe, con la forza della loro organizzazione, nelle strade e non con le schede elettorali, saranno costretti ad accettare sempre ulteriori peggioramenti.

Andando oltre i risultati della trappola elettorale e le convulsioni del sistema politico greco e dei suoi pagliacci, resta centrale la questione della crisi economica e sociale e le reali prospettive che si presentano per il proletariato.

La questione se la Grecia resterà o meno nella Comunità Europea, se ne uscirà perché spinta fuori dalla Germania o se l’abbandonerà per autonoma scelta, se svincolarsi dall’Euro e tornare alla Dracma, se nazionalizzare la proprietà delle banche, queste alternative saranno i fatti ad imporle, non una particolare politica di un qualche governo. La possibilità di manovra degli Stati borghesi è ormai ridotta al minimo, e tanto meno quanto grandi e potenti essi sono. Il borghese, “prepotente”, Stato di Germania è il più vincolato di tutti e il grande capitale che in Germania ha il centro di accumulazione quello che più ha da perdere.

A un certo momento l’unica “libera” scelta possibile sarà la guerra fra gli imperialismi. Di fronte a questa minaccia la salvezza della classe operaia può stare solo non nel nazionalismo, che già monta, nell’illusione di sfuggire alla morsa dell’imperialismo tedesco, come predicano in Grecia da destra e da sinistra, ma, al contrario, nell’unione internazionale del movimento dei lavoratori, nell’alleanza tra i proletari dei vari paesi, nella comune prospettiva del rovesciamento rivoluzionario del capitalismo al di fuori da ogni mortifera visione parlamentare, nazionale, pacifista e interclassista.
 
 
 
 
 
 
 


Francia
La farsa delle presidenziali sguazza nel razzismo

Nel 1995 il giovane Khaled Kelkal, di origine algerina, implicato nell’attentato ad un TGV a Lione, ucciso dalle truppe scelte dell’esercito, finì sulle prime pagine dei giornali. Ne abbiamo riferito nell’articolo “Il terrorismo islamico e la rivolta delle banlieues” nel nostro organo “La Gauche Communiste” del luglio 1997 e nel numero 235 di questo giornale: “Uno strumento di contenimento della rivolta di classe”. Vi denunciavamo allora lo sfruttamento orchestrato dalla classe borghese e dai suoi sbirri mediatici come mezzo per fuorviare la lotta di classe dei proletari, in particolare di origine magrebina, e come strumento di terrore e di repressione contro i proletari in generale. L’apparato di leggi “di sicurezza” difatti divideva i lavoratori secondo le comunità, e rafforzava lo strumento repressivo destinato a contenere ogni movimento di contestazione dell’ordine sociale in genere.

Scrivevamo: «La storia del proletario Khaled è esemplare. La radicalizzazione religiosa dei giovani francesi provenienti dall’immigrazione e dei proletari magrebini in generale di fatto rappresenta per la borghesia, in una situazione sociale di recessione economica, di paralisi proletaria, di assenza quasi completa di indirizzo rivoluzionario comunista, un mezzo per deviare la rivolta degli oppressi, per evitare che il loro odio non le si volga contro».

Se le rivolte delle banlieues degli anni ‘90, manifestazioni di una gioventù disperata, esclusa dal mercato del lavoro e vivente di sussidi di Stato e di delinquenza, si sono relativamente spente, le cause del malessere sono sempre lì; questi ghetti rimangono di fatto un vivaio di frustrazioni, di illegalità, e di terrore per i lavoratori che vi vivono. Sembra che sia finito anche il reclutamento di giovani occidentali da parte dell’estremismo islamista; il salafismo si dichiara ormai non violento, come conseguenza sia della repressione del movimento terrorista islamico, sia, e ancora di più, per l’emergere dei movimenti di orientamento “democratico” in Nordafrica.

Tuttavia Mohamed Merah ripercorre la strada di Khaled. Di origine algerina, abbandonato dal padre all’età di 5 anni e disordinatamente cresciuto dalla madre con quattro fratelli e sorelle nella periferia di Tolosa, abbandona la scuola a 16 anni e scivola verso la piccola delinquenza. Messo in prigione nel 2007 e nel 2009, a seguito di un furto con scippo di una borsa, dove, a seguito di un tentativo di suicidio, è annotato come depresso, fa conoscenza dell’islam nella sua versione radicale, il salafismo. Il Corano gli dà dei punti di riferimento, delle giustificazioni, delle spiegazioni che non ha ricevuto dalla scuola pubblica, immersa nel marasma sociale, piena di contraddizioni e dove le parole fraternità ed uguaglianza appaiono incomprensibili.

Nell’estate del 2010, con i propri mezzi parte per l’Afghanistan, ma è arrestato ad un blocco stradale dalla polizia afgana, consegnato alle truppe americane e rimandato in Francia. Nell’estate successiva riparte per i campi di formazione islamisti alla frontiera pachistano-afghana, ma il suo soggiorno è di nuovo interrotto da un’epatite A.

È sorvegliato dalla polizia, ma appare come un giovane che ama divertirsi con i petardi, le automobili e le motociclette. Sei mesi più tardi, nel 2012, a 23 anni, incoraggiato pare dal fratello di 29 anni, conosciuto come salafista, scatta la sua macabra impresa uccidendo all’impronta l’11 marzo un soldato che sospettava volesse vendere la sua moto, gridando: «Hai ucciso i miei fratelli, ed io ti uccido”. Quattro giorni dopo assassina a Montauban, vicino a Tolosa, dove si trova una caserma di paracadutisti, due altri soldati di origine magrebina, forse per lui traditori della causa musulmana. Il 19 marzo in una scuola ebraica vicino a casa sua uccide un adulto e tre bambini fra i quali una di 7 anni che fuggiva, rincorrendola e sparandole un colpo in testa. È braccato per due giorni e rintracciato nel suo appartamento dal quale terrà testa alle truppe scelte per 32 ore prima di essere abbattuto dopo un intenso scambio di colpi.

La morale della orribile storia è presto spiegata ai telespettatori: Mohamed Merah è il colpevole, l’uccisore di bambini – ed ebrei per giunta – e di soldati, è il terrorismo islamista che si vuole vendicare degli occidentali e di Israele, il nemico pubblico numero uno che aggredisce la Nazione.

Ma tutto questo cade in piena campagna elettorale per la presidenza della Repubblica: era proprio quello che ci voleva! I candidati di sicuro non vogliono parlare delle misure economiche che tutti loro intendono far inghiottire agli elettori, il che li scoraggerebbe dall’andare a votare, il numero degli astensionisti non cessando di diminuire! Misure che, per non far la fine di Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda, ecc., bisogna far passare... Allora tutti i mezzi sono buoni per confondere, per trovare delle diversioni, per appellarsi alla Patria, alla Nazione, per additare un nemico interno e far sparire ogni ricordo della lotta di classe! Chi se ne importa se saranno stigmatizzate e faranno le spese dello spettacolo elettorale la comunità musulmana, quella dei francesi arabi, poi i francesi di origine immigrata, ed infine i proletari più sfavoriti in generale, che, per altro, nemmeno votano!

Marine Lepen, candidata del Fronte Nazionale, populista della prima ora, e alla quale si ispirano senza vergogna molti dei candidati di ogni sponda, rivolta alle classi popolari e alle classi medie aveva già iniziato denunciando la macellazione rituale della carne “halal”, i tagli non utilizzati degli animali, quelli non ammessi dalla religione, finirebbero, scandalo!, nei piatti dei non musulmani. Gli elettori conoscono ormai tutti i particolari della macellazione rituale dei musulmani, che sono d’altronde gli stessi degli ebrei!

Per contro si accenna appena alle mirabilia in programma col piano di austerità che sta per cadere sulla testa dei lavoratori.

È stata data la stura a tutta la retorica ipocrita sull’antisemitismo. Per i funerali delle quattro vittime di confessione ebraica, tenuti in gran pompa a Gerusalemme, il ministro francese degli affari esteri Alain Juppe ha accompagnato le bare. Lo Stato israeliano, rappresentante dell’ordine delle borghesie occidentali contro il proletariato mediorientale, ebraico e musulmano, non poteva non approfittare di simile occasione per nascondere ancora la sua natura di classe dietro il martirologio nella storia del suo popolo, disprezzando le vittime attuali della borghesia israeliana, i palestinesi che, imprigionati, il suo esercito regolarmente bombarda, bambini compresi! Il ministro francese non poteva non aggrapparsi al sillogismo: chiunque critica lo Stato di Israele è un antisemita.

Ma il razzismo in Francia ha forse solo il volto antisemita? La borghesia non ha memoria, o per lo meno cerca di proibirla. In particolare quando si parla di razzismo non richiama le cause che di fatto oppongono le comunità religiose, e che non servono alla fine che a dividere le forze del proletariato. Dividere il proletariato con provocazioni razziste, ecco ancora la vecchia tattica utilizzata regolarmente nella storia dalla classe al potere!

Prendendo a pretesto anche questo raccapricciante episodio, l’apparato repressivo degli Stati non fa che rinforzarsi, come è stato negli Stati Uniti dopo i drammatici avvenimenti dell’11 settembre 2001. Nicolas Sarkosy invoca la “sicurezza della Nazione”, intendendo con questo, evidentemente, la sicurezza dei borghesi. La Francia deve “restare unita e concorde”, affermano i parlamentari. Nessun riferimento ai problemi della classe operaia, ai giovani abbandonati ad un avvenire di sotto-lavoro, precario e mal pagato, privo di ogni prospettiva di progresso con prestazioni dello Stato sempre di peggiore qualità: scuole, cure mediche, alloggi, pensioni.

Solo la lotta di classe condurrà alla fraternità e alla solidarietà, non di nazione, razza o credo, ma dei proletari di tutti i paesi! Che rinascano grandi organizzazioni dei lavoratori per rintuzzare le menzogne borghesi ed affrontare anche il suo bastone statale!

È tempo anche che il proletariato arabo non si lasci più deviare dalla propaganda dell’islamismo radicale, dall’odio cieco e dalle imprese di disperati verso indirizzi senza sbocco, sia quelli promessi della religione sia quelli illusori del nazionalismo, della democrazia e delle sue farse elettorali! Queste sono le strade della borghesia, dei clan borghesi sovente in opposizione fra loro; il proletariato unendosi ad essi ne diventa cieco strumento e ha soltanto da perdere e niente da guadagnare, nemmeno una medaglia sulla tomba! Democratici ed estremisti, laici e religiosi, razionalisti e mistici, organizzati o cani sciolti, foraggiati dai servizi segreti o ribelli isolati, questi “combattenti” sono tutti, di fatto, complici nel sabotare la ripresa della internazionale lotta proletaria di classe.
 
 
 
 
 
 
 
 

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Dietro il bugiardo Diritto del Lavoro si conferma la brutale dittatura borghese

Il materialismo storico insegna che l’impalcatura giuridica di una determinata società è modellata sui rapporti di produzione. Il diritto non vive autonomo; è una sovrastruttura chiamata a difendere i rapporti sociali tipici di un determinato modo di produzione; deriva dalla struttura, cioè dall’economia. Ogni formazione socio-economica, schiavista, servile, ecc., si è data, a modo suo, anche un suo “diritto del lavoro”.

Le grandi codificazioni borghesi dell’Ottocento, incentrate sui due pilastri della proprietà privata e della libertà contrattuale fra persone, dettero a questa visione del mondo la sua configurazione classica. Il padre dell’economia politica borghese, Smith, aveva elaborato la teoria della “mano invisibile”: i singoli soggetti economici avrebbero dovuto essere lasciati liberi di perseguire il proprio egoistico interesse, perché la “mano invisibile” del mercato avrebbe determinato automaticamente un accrescimento della ricchezza complessiva, il mercato eliminando a posteriori i temporanei squilibri.

Ma, se la ideologia borghese si raffigurava la “libertà” solo in senso negativo, di liberazione dai lacci delle vecchie corporazioni e con la astensione dello Stato dal regolamentare le attività produttive e mercantili, in realtà nel capitalismo l’intervento dello Stato nell’economia è originario e costante. L’anarchia del mercato e delle produzioni non è opponibile al suo necessario contenimento statale.

Anche la questione del lavoro avrebbe dovuto risolversi in termini di “libero mercato”, cioè lasciando libere di incontrarsi domanda e offerta attorno al saggio salariale che così, “naturalmente”, si sarebbe determinato.

Ma la nascita dell’industria moderna creava, accanto alla classe dei cittadini-borghesi, quella sconfinata dei cittadini-proletari. Davanti alla borghesia esplodeva la cosiddetta “questione sociale”: masse di contadini sradicati dalle campagne, artigiani spiazzati dal progredire delle macchine, uomini, donne e fanciulli che non possedevano altro che la propria forza lavoro invadevano le città in cerca di lavoro e riempivano le fabbriche. Sono gli albori della nostra classe; e della nostra lotta.

Citando il Manifesto: «Da principio singoli operai, poi gli operai di una fabbrica, poi gli operai di una branca di lavoro in un dato luogo lottano contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente. Essi non dirigono i loro attacchi soltanto contro i rapporti borghesi di produzione, ma contro gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci straniere che fan loro concorrenza, fracassano le macchine, danno fuoco alle fabbriche».

Le innovazioni tecniche avevano consentito un incremento esponenziale della produttività del lavoro, quindi della ricchezza prodotta. La nascita dell’industria moderna si intrecciava con il processo, che culminerà nella Rivoluzione francese, per l’affrancamento dai vincoli del mondo feudale e per l’affermarsi della politica borghese, che mette la sua libertà economica a principio fondante del nuovo ordine.

La borghesia fu costretta allora a dare una disciplina statale anche al “mercato del lavoro”. Già dalle origini del diritto del lavoro emergono le mistificazioni che ne caratterizzeranno la storia: per la borghesia “illuminata”, poi per la socialdemocrazia, sarebbe lo strumento per risolvere la “questione sociale”, cioè la lotta di classe, restando ben saldi all’interno del regime capitalistico, progressivamente accompagnando e favorendo lo Stato il miglioramento delle condizioni di vita dei salariati, che tali però rimarrebbero.

È una illusione tutta borghese. Di fatto lo Stato, in questo ambito, non viene a calare sulla società suoi principi astratti, ma solo raccoglie e sancisce l’equilibrio raggiunto in uno scontro di sottostanti forze di classe: i “diritti” riconosciuti ai lavoratori non sono il frutto di una amorevole premura della società borghese, ma il risultato, contingente ed assai variabile nel tempo e nello spazio, delle lotte della classe operaia. Infatti quanto concesso in tempi di crescita economica o di robusta organizzazione operaia, la borghesia toglierà senza pietà in tempi di crisi o di disorganizzazione e sbandamento operaio.

E quel che viene concesso, anche in tempi favorevoli, sono soltanto briciole in quanto nessuna legge o riforma potrà mai scalfire la sostanza del rapporto di lavoro salariato, moderna e ultima forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dal quale deriva l’estorsione di plusvalore e quindi il fondamento dell’intero mondo del capitale.

I primi sindacati nacquero in Inghilterra, le Trade Unions, e, sulla scia della Rivoluzione industriale, in tutta Europa e negli Stati Uniti. L’obiettivo fondamentale dei sindacati era quello di resistere collettivamente alla tendenza dei capitalisti a peggiorare le condizioni di lavoro e a ridurre i salari. Il singolo lavoratore, lasciato solo davanti al capitalista, si trova in condizioni contrattuali di debolezza, avendo quello bisogno di lavorare in misura maggiore di quanto questo abbia bisogno di assumerlo, potendo trovare sempre chi sia disposto ad offrirsi al suo posto: il singolo lavoratore si trova davanti alla “libera” alternativa fra accettare le condizioni offerte o morir di fame. La contrattazione collettiva, e lo sciopero come strumento di lotta, oppongono al monopolio dei mezzi di produzione, in mano ai capitalisti, il monopolio dell’offerta di forza lavoro: non più da una parte un capitalista dall’altra cento operai ma la loro unica associazione.

Il borghese “diritto del lavoro” si trovò quindi a dover fare i conti con i sindacati e la contrattazione collettiva.

All’inizio la borghesia non voleva accettare che i proletari si organizzassero per difendere i propri interessi: l’ideologia borghese vedeva nell’azione di organizzazioni collettive rappresentative degli interessi dei lavoratori, pur allo stato nascente, un attentato alla “libertà di commercio”. In conseguenza di ciò, si instaurò in tutti i paesi, a partire dalla Legge Le Chapelier emanata in Francia già nel 1791, un regime di repressione penale del sindacalismo.

In Inghilterra la repressione penale del sindacati verrà arginata solo con la legislazione del 1871-1875, ma rimarrà una ulteriore e più sottile forma di persecuzione legale: i dirigenti sindacali potevano esser chiamati in giudizio in quanto civilmente responsabili dei danni causati da uno sciopero.

In Italia l’esistenza delle prime società operaie e delle prime Camere del Lavoro venne inizialmente tollerata, ma era punito penalmente lo sciopero. Il Codice Civile del 1865 contemplava il contratto di lavoro come “locazione d’opere” ma la sua disciplina era condensata in pochissime ed ininfluenti norme. Il Codice Zanardelli del 1889 rese non punibile lo sciopero ma riaffermò la responsabilità civile degli scioperanti. Le prime norme si presentarono come una legislazione speciale parallela al Codice Civile: la legge del 1886 in materia di tutela del lavoro dei fanciulli, la legge del 1898 sugli infortuni sul lavoro e ancora la legge del 1910 per le lavoratrici madri. Nel 1893 furono istituiti i Collegi dei Probiviri, che avrebbero dovuto decidere sulle controversie di lavoro.

Nel 1906 fu fondata la Confederazione Generale del Lavoro.

In Italia il fascismo non proibì l’organizzazione operaia ma riconobbe solo le associazioni sindacali fasciste. Con il Patto di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, la Confindustria si impegnava a trattare solo con questi. Con la legge del 3 aprile 1926, pur mantenendo astrattamente la libertà di associazione sindacale, il governo fascista conferiva il riconoscimento giuridico ad un solo sindacato, purché esprimesse almeno il 10% dei lavoratori della categoria e fosse guidato da persone “di sicura fede nazionale”. Il contratto collettivo stipulato da tali sindacati era dotato di efficacia “erga omnes”, ossia estesa a tutti i soggetti appartenenti alla categoria, padroni e lavoratori, ed era inderogabile. Nel Codice Penale del 1930 divennero reati sia lo sciopero sia la serrata.

L’attività legislativa produsse la legge sull’orario di lavoro del 1925, quella sul riposo settimanale del 1934 e l’istituzione delle forme pensionistiche facenti capo all’Inps.

Dopo la guerra, nei giorni immediatamente successivi alla costituzione del governo militare alleato, con l’ordinanza 28 del 1944, dispose l’eliminazione delle strutture sindacali corporative e riconobbe un regime di “libertà sindacale”. Cosa intendeva la borghesia per “libertà sindacale” lo aveva dimostrato il Governo Badoglio, orgogliosamente protagonista di sanguinose repressioni di ogni tentativo di lotta operaia.

La Cgil verrà ricostituita il 3 giugno ’44 con il Patto di Roma, ma sono ormai lontani i tempi del sindacalismo di classe della vecchia Confederazione Generale del Lavoro: la Cgil nasce “di regime”, ossia votata a subordinare le necessità dei lavoratori a quelle del capitale, fatto, allora ed oggi, ideologicamente camuffato con la formula del “bene del paese”. Ovviamente la nuova Cgil abbraccia e fa propria l’illusione progressista borghese del “diritto del lavoro”.

La Costituzione della Repubblica del 1948 rinnova la legittimazione al “diritto del lavoro”, a cominciare dall’Articolo 1 in cui si afferma che la Repubblica è “fondata sul Lavoro”, cinica retirca assonante col non diverso “lavoro che rende liberi”.

Negli anni ’50, le uniche leggi significative in materia di diritto del lavoro saranno la 264 del 1949 sul collocamento pubblico e la 860 del 1950 sulle lavoratrici madri.

A partire dal 1960 i rapporti di forza fra padronato e classe operaia vennero a spostarsi un poco a favore di quest’ultima: in virtù della forte crescita economica del periodo, dovuta alla ricostruzione post-bellica, gli industriali erano in condizioni di poter concedere qualcosa dei loro enormi profitti. Si susseguirono robusti scioperi, che i sindacati di regime non riuscivano ad impedire del tutto. A seguito di queste mobilitazioni lo Stato dovette adeguare la sua legislazione, che venne a dare sanzione di legge ai risultati raggiunti dalla contrattazione collettiva. Furono emanate, una dopo l’altra, la legge 1369 del 1960 contro il caporalato, la legge 230 del 1962 che limitava le assunzioni a tempo determinato, la legge 604 del 1966 sulle condizioni per il licenziamento individuale, e nel 1970, dopo una serie di forti scioperi, venne varato, con la legge 300, lo “Statuto dei diritti dei lavoratori”, che comprendeva quell’Articolo 18, oggi in discussione, dedicato al reintegro nel posto di lavoro del lavoratore licenziato senza giusta causa.

A completamento di questo ciclo di lotte operaie e di corrispondente legislazione borghese, nel 1973 si istituisce il rito speciale del lavoro e nel 1975 si giunge al nuovo accordo sulla “scala mobile” con l’istituzione del punto unico, che sarebbe dovuto entrare a regime solo nel 1977.

Ma queste conquiste non erano affatto definitive. Con la crisi del 1973-’74 il trentennio di forte crescita del dopoguerra termina e inizia il lungo processo della crisi generale del capitalismo mondiale, di cui la crisi attuale, esplosa nel 2008, è solo un nuovo capitolo.

Cambiati i rapporti di forza, la borghesia progressivamente si riprende quanto concesso a seguito delle lotte operaie dei decenni precedenti. Ed i sindacati di regime assecondano questo contrattacco padronale: nel 1977 la Cgil inaugura con la “svolta dell’EUR” la politica di moderazione salariale; nel 1983 inizia l’attacco alla scala mobile con il “protocollo Scotti”, completato nel 1992 con l’accordo Amato-Trentin; nel luglio 1993 è formalizzata la “concertazione” e varata la nuova “politica dei redditi”; nel 1995 il governo Dini riesce dove aveva fallito il precedente governo Berlusconi, facendo approvare la controriforma del sistema pensionistico; nel 1997 la legge Treu apre le porte al precariato nei rapporti di lavoro, sanzionata e peggiorata dalla legge 30 del 2003.

Oggi il Governo Monti, dopo aver portato avanti un nuovo brutale colpo alle pensioni, si appresta a varare una nuova “riforma” del mercato del lavoro.

Crollano le illusioni su di uno Stato-assistenziale e protettore dei deboli, quando tutti i suoi provvedimenti sono diametralmente opposti agli interessi della classe operaia.

La borghese dottrina giuslavoristica già a partire dagli anni ‘90 è quindi costretta ad accusare una “crisi del diritto del lavoro”. Il capitalismo per sua natura è ribelle ad ogni regolamentazione e contenimento. Per nostra fortuna, affermiamo noi comunisti, poiché le regole imposte dallo Stato borghese, o quelle che vorrebbe imporre, anche quando sembrano dirette a difesa della classe dei lavoratori, hanno per unico scopo la conservazione del capitalismo.

Di fronte alle forti maree della sovrapproduzione di merci ogni precedente regolazione appare un eccesso, un ipertrofico esercizio di volontarismo e un male infine intollerabile, per il capitale, ma in generale per tutte le classi. Anche l’apparato di norme relative al diritto del lavoro, oltre a non corrispondere più ed essere inapplicabile, ed ampiamente inapplicato, alla realtà empirica del “mercato del lavoro”, determina un sovraccarico di costi ed ostacola la “flessibilità” necessaria a competere nel ritmo vorticoso della crisi capitalistica mondiale.

La necessaria “riforma strutturale” si compendia quindi nella parola magica della “flessibilità”: nelle assunzioni, nei licenziamenti, nell’assegnazione delle mansioni, nella determinazione degli orari di lavoro, nei livelli retributivi, perché solo una impresa “flessibile” è in grado di ridurre i costi e reggere la competizione mondiale. Niente di nuovo da quando Carlo Marx scriveva Il Capitale.

Oggi, quando la finzione del “diritto del lavoro” costa troppo, l’illusione borghese si svela di fronte alla realtà, che la forza lavoro è una merce come le altre e che il salario non è un diritto ma il corrispettivo di una data prestazione di lavoro. La corazza giuridica che contiene i rapporti sociali deve a questi nuovamente adattarsi.

Oggi l’istanza di flessibilità, portata alle estreme conseguenze, prefigurerebbe uno scenario nel quale il diritto del lavoro sarebbe gradualmente riassunto nel generale diritto privato sulle obbligazioni, tornandosi a trattare il lavoratore salariato come contraente “normale”, non più bisognoso di protezione.

Ma se così potrà essere nella dottrina, significando la fine di una delle tante illusioni borghesi, di fatto il violento intervento continua inesorabile ed oggi è lo stesso Stato che, democraticamente, riduce per legge salari e pensioni. La invocata “semplificazione” delle norme e riduzione della “ingerenza” e del “costo” degli apparati statali non sarà possibile ed il legislatore continuerà a sovrapporre toppe su toppe. La macchina degli Stati, per sua natura, non è smontabile, se non per violento intervento dall’esterno.

Il diritto non ha mai protetto i lavoratori, quando anche, per caso, tornava a loro favore, ma il regime borghese, ed ha sempre ostacolato la loro sana organizzazione ed il loro deciso mobilitarsi. La garanzia della difesa della classe operaia non sta nel mantenimento di un determinato apparato giurisprudenziale, ma nella lotta di classe del proletariato che, sola, tende a distruggere ogni diritto, per aprire la via all’organico e non mediato rapportarsi tra uomini, non più divisi in classi contrapposte.
 
 
 
 
 
 


Contro il baraccone elettorale
Per la lotta di classe

Questo il manifesto che abbiamo affisso a Genova in occasione delle elezioni comunali.

COMUNQUE VADANO LE ELEZIONI IL PROLETARIATO NE ESCE SEMPRE SCONFITTO
    Con il voto i lavoratori possono solo scegliere la cricca di politicanti borghesi, di destra, centro o sinistra, che, per un certo numero di anni, coordinerà gli interessi del Capitale.

LA DEMOCRAZIA È UNA MASCHERA DELLA DITTATURA DEL CAPITALE
    La politica borghese è una fogna in cui non vi sono partiti contrapposti, ma bande di affaristi, tutti alle dipendenze del grande capitale, italiano e internazionale. Il Capitale sostituisce periodicamente questo suo “personale di servizio” attraverso il meccanismo elettorale solo perché ciò è utile a confondere il proletariato. Potrà anche decidere di disfarsene, come fatto in passato, assumendo un nuovo Mussolini, anch’esso sacrificabile al momento opportuno, sempre per mantenere integro il suo regime: fascismo e democrazia sono due facce del regime borghese.

I LAVORATORI HANNO UN SOLO MODO DI FARE LA LORO POLITICA: CON LA LOTTA DI CLASSE
    Sul piano difensivo ed immediato lotta di classe significa condurre veri scioperi: senza preavviso, a oltranza, che uniscano il più possibile i lavoratori al di sopra delle artificiose divisioni fra aziende e categorie.
    Questo è possibile solo organizzandosi fuori e contro i sindacati di regime (Cgil-Cisl-Uil-Ugl), costruendo un fronte unico dal basso di tutti i lavoratori, primo passo per la rinascita di un vero sindacato di classe, strumento indispensabile per unificare le singole lotte dei lavoratori, a partire dalle categorie più sfruttate, perseguendo gli obiettivi comuni di sempre: difesa del salario, riduzione dell’orario, salario ai lavoratori disoccupati.
    La lotta di classe economica è necessaria ma non è sufficiente: è una lotta contro gli effetti del sistema di produzione capitalistico ed è destinata alla sconfitta se non diventa lotta di classe politica, ossia lotta per abbattere il capitalismo stesso.

IL SOLO OBIETTIVO POLITICO DELLA CLASSE LAVORATRICE È LA RIVOLUZIONE
    Alla crisi mondiale del capitalismo non esiste alcuna soluzione sul piano della politica economica all’interno del capitalismo stesso. Esiste solo una soluzione politica borghese: una nuova guerra mondiale. Ed esiste una sola soluzione proletaria: la Rivoluzione.
    Il Partito Comunista Internazionale è l’autentica continuazione del Partito Comunista d’Italia nato a Livorno nel 1921 e della Sinistra Comunista italiana che lo costituì, unica corrente politica che combatté dalla prima ora la degenerazione staliniana che per oltre 60 anni ha spacciato per Comunismo il capitalismo di Stato russo (cinese, cubano, ecc. ecc.), nascondendo e mistificando agli occhi dei proletari il senso e il significato del COMUNISMO, e i cui degni eredi sono oggi tutti dichiarati difensori del capitalismo. Non si tratta di inventare nulla di nuovo ma di riscoprire e recuperare l’ORIGINALE PROGRAMMA COMUNISTA RIVOLUZIONARIO.
    Per questa, che è l’unica strada della classe lavoratrice di tutti i paesi, il Partito Comunista Internazionale chiama alla milizia nelle sue file.
 
 
 
 
 
 

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Perché non parliamo “facile”

L’opportunismo ci ha invece sempre accusato di utilizzare un linguaggio “difficile”, non comprensibile ai lavoratori, concetti che potrebbero essere afferrati solo da “iniziati”; è la classica accusa di “settarismo”, di indifferenza verso il corso della lotta di classe in un atteggiamento contemplativo di “testi sacri” sopra cui pontificare. La “soluzione” che ci consigliano dai nostri critici è sempre la stessa: utilizzare “parole semplici”, “alla portata di tutti”, a volte perfino “alla moda”.

Il partito schernisce e fugge ogni vezzo intellettualistico e il criptico linguaggio degli “specialisti”. Marx diceva di aver scritto Il Capitale “per gli operai”, nelle parole della scienza, che vuole essere diretta e accessibile, in principio, agli individui, di tutte le classi, che si dispongano a studiarla.

In realtà sono sovente proprio i portavoce della borghesia, i suoi politici, i suoi sindacalisti e professori che, mentre invocano il “parlar facile”, in realtà adottano un linguaggio sacerdotale e codificato perché non vogliono farsi capire, per imbrogliare le carte o per nascondere la loro ignoranza e malafede.

Ma si tratta solo di una polemica lessicale? No. Dietro il paravento linguistico si nascondono due tesi fondamentali dell’ideologia demopopolare: che la coscienza di classe possa diventare patrimonio di ogni singolo suo componente, e questo già nell’epoca attuale, e non solamente in seguito alla definitiva vittoria proletaria e trasformazione sociale; che il partito (quando non sia considerato un organismo superfluo) debba “andare dalle masse” e farsi “partito di masse” in qualunque circostanza storica indipendentemente dalle condizioni storiche.

Marx ed Engels nella “Ideologia Tedesca” affermavano: «Gli uomini, mentre sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali, trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza». Nel 1951 il partito ne espresse il complemento dialettico: «La coscienza del singolo e anche della massa segue l’azione (...) l’azione segue la spinta dell’interesse economico. Solo nel partito di classe la coscienza e, in date fasi, la decisione di azione precede lo scontro di classe. Ma tale possibilità è inseparabile organicamente dal gioco molecolare delle spinte iniziali fisiche ed economiche». Questo è il percorso che dalle spinte economiche di base conduce al “rovesciamento della prassi”, alla teoria che precede l’azione.

Questo schema marxista oggi non sarebbe più valido: la “cultura” (ma quale? quella borghese) avrebbe a tal punto permeato anche la classe operaia da permettere a questa di arrivare spontaneamente all’elaborazione di una teoria anticapitalista; con il che il marxismo sarebbe da buttare al macero e con esso il partito quale organo della classe.

In realtà la base economica determina l’azione sia dei singoli proletari sia della classe nel suo complesso, dove però se ne esaltano tutte le forze. Queste spinte per un lungo arco storico sono confluite nel partito e hanno permesso così l’elaborazione di una visione teorica dei fenomeni sociali, che può oggi essere ritornata nella classe, assieme alle decisioni d’azione. In questo senso i comunisti sono deterministi, nel senso che, mentre escludono per il singolo possibilità di volontà e coscienza premesse all’azione, le ammettono nel partito come il risultato di una generale elaborazione storica.

Dunque partito come circolo di intellettuali di professione? No, perché il partito rivoluzionario è un fattore cosciente e volontario degli eventi, oltre che risultato di essi e del conflitto che essi contengono fra antiche forme di produzione e nuove forze produttive. Il Partito è tanto prodotto quanto attore del corso storico.

La Terza Internazionale Comunista definì il partito come una frazione della classe operaia, la parte più avanzata; quindi necessariamente non un partito di massa quando i fattori oggettivi non lo possono permettere, anzi in date condizioni storiche in seno alla classe operaia sussistono numerosi gruppi conservatori. La Sinistra Comunista preferì indicare il partito come organo, non frazione, della classe operaia. Parlare di frazione può portare, ed ha portato, a varie deviazioni, da quella operaista a quella socialdemocratica. Come quantificare l’estensione di questa frazione? Sarebbe un criterio antimarxista quello di «voler stabilire che il partito comunista debba avere come suoi organizzati o come suoi simpatizzanti un numero di lavoratori che stia al di sopra o al di sotto di una certa frazione della massa proletaria». Il rapporto con la classe non è di tipo democratico-numerico, di una parte col tutto, ma organico.

Questo rigetto della impostura democratica pervade anche l’interno del partito, da qui il nostro modulo organizzativo, il centralismo organico, non metodo astrattamente costruito a tavolino in quanto ritenuto perfetto secondo canoni estetici o morali. Vi è un rapporto necessario fra come il partito vive e si organizza ed il suo carattere programmatico e politico. Questa corrispondenza non basta a garantirlo contro le degenerazioni opportuniste, ma il partito non è un cumulo di granelli equivalenti bensì un organismo reale suscitato dalle determinanti sociali e storiche, con organi differenziati per l’adempimento dei diversi compiti. Il buon rapporto fra tali esigenze reali e la migliore funzione conduce alla buona organizzazione e non viceversa.

Da dove derivano le regole di organizzazione? Non sono prese a prestito da quelle della società borghese. Il partito – esprimendo gli interessi di una sola classe, in lotta per la eliminazione delle classi – non presenta al suo interno contrasti di interessi sociali; di conseguenza è in grado di realizzare la sua gerarchia di funzioni organiche senza bisogno di meccanismi con valore legale. La struttura operante del partito, con i suoi organi differenziati, è direttamente la risultante delle necessità funzionali della sua attività, non la realizzazione di uno schema giuridico, statutario, fisso, separato, precedente, opposto al suo essere e al suo fare. L’unica regola e norma interna al partito è il comunismo, e la strada segnata per raggiungerlo: ci basta e avanza.

Siamo passati da una formula quantitativa, il partito frazione della classe, ad una qualitativa: non solo il partito è un particolare organo della classe, ma, per di più, è solo quando esso esiste che la classe agisce come forza storica.

I concetti rimandano sempre ai rapporti sociali che li determinano, non sono vuoti contenitori da poter riempire a piacimento pensando che un partito centralizzato e disciplinato possa azzardare qualsiasi manovra, anche la più ardita. Per questo non può “volgarizzare” più di tanto la sua terminologia. Un esempio storico: “governo operaio” o “dittatura del proletariato”? La Sinistra si oppose fermamente nella Terza Internazionale all’adozione della parola d’ordine del “governo operaio” nonostante l’Internazionale pretendesse (tardivamente) che i due termini fossero “sinonimi”. Perché agitarsi tanto? Perché il pericolo era dietro l’angolo e si nascondeva mascherato apparentemente da una disputa sui “termini” che sinonimi non erano ed esprimevano due concetti ben distinti. Come lo avrebbe inteso il proletariato? E soprattutto, quale sarebbe stata la tattica adottata dai partiti comunisti?Accoppiato all’applicazione del fronte unico non solo in campo sindacale ma anche politico sarebbe diventato sinonimo di governo di coalizione, un cambio di governo al posto della lotta mortale – dittatura proletaria contrapposta a dittatura borghese – per la presa del potere.

Parlare di “governo operaio” è più comprensibile agli operai? Lo negammo. La dittatura del proletariato implica il potere proletario esercitato senza dare nessuna rappresentanza politica alla borghesia e può essere conquistato soltanto con l’azione rivoluzionaria, con l’insurrezione armata delle masse. Governo operaio potrebbe anche voler dire questo, ma si potrebbe intendere (e questo accadde quando l’Internazionale cadde vittima della controrivoluzione) anche un governo che non sia caratterizzato dal fatto di escludere la borghesia dagli organi di rappresentanza politica e tanto meno dal fatto che la conquista del potere si sia verificata con mezzi rivoluzionari e non con mezzi legali.

Che la grande massa del proletariato – in epoche controrivoluzionarie come l’attuale – non intenda le parole d’ordine del partito non solo è “normale” ma è la conferma della loro giustezza rivoluzionaria. A questo ritardo della coscienza nella classe rispetto all’azione non è possibile sopperire con l’utilizzo di un linguaggio diverso, “semplice”; non è un problema di “comunicazione” quello che separa l’avanguardia politica dalla classe perché le ideologie che annebbiano la mente dei lavoratori non sono errori che questi si costruiscono per “mancanza di cultura”, ma il riflesso intellettivo di forze economiche materiali. La ricerca di termini “facili” conduce alla banalizzazione del programma comunista, a ritenere inutile il partito politico, che esiste per precedere le masse, e indicare loro il cammino.
 
 
 
 
 


Quando i riformisti erano rivoluzionari
Una lettera dal carcere di Anna Kuliscioff

I fatti accaduti a Milano tra il 7 e il 10 maggio 1898, anche se tra molte imprecisioni ed inesattezze, sono, nel loro complesso, generalmente noti.

Dopo le indiscriminate stragi della popolazione inerme ordinate dal generale Bava Beccaris, si assisté ad altrettanti indiscriminati arresti di anonimi proletari e di qualche personaggio illustre. Tra questi tre deputati: Turati, De Andreis e Morgari. Furono pure arrestati Romussi, direttore del “Secolo”; Gustavo Chiesi, direttore del repubblicano “Italia del Popolo”, l’avvocato Federici, collaboratore, Ulisse Cerretani, cronista, e Arnaldo Senesi, amministratore dello stesso giornale; don Davide Albertario, direttore dell’”Osservatore Cattolico”; Paolo Valera, Costantino Lazzari, già direttore di “Lotta di Classe”; ed Anna Kuliscioff.

Nei loro confronti furono istruiti due distinti processi: il primo venne denominato “il processo dei deputati” ed il secondo prese il nome di “processo dei giornalisti”. La Kuliscioff quindi non fu imputata nello stesso processo in cui fu giudicato Filippo Turati, come da molti si ritiene, ma in un processo a sé.

Il “processo dei giornalisti” iniziò il 10 giugno e terminò il 23.

Per cavalleria militare nei confronti della donna e del clero, la Kuliscioff e Davide Albertario non furono sistemati nelle panche di legno assieme agli altri imputati, ma su due sedie, quasi a fianco dei giudici.

La Kuliscioff non era imputata di aver partecipato alle barricate ma, così diceva l’atto d’accusa, dei reati di cui agli artt. 118, 120, 134, 246, 248, 252 codice penale: «per essersi, allo scopo finale, concertato e stabilito, di mutare violentemente la costituzione dello Stato e la forma di Governo e far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i poteri dello Stato, associata con altri, con l’istituire circoli, comitati, riunioni e leghe di resistenza, con discorsi e conferenze pubbliche o private, e con scritti pubblicati per mezzo della stampa, essendo così causa diretta ed immediata dell’insurrezione, cooperando efficacemente con tali mezzi di istigazione alla guerra civile ed alle devastazioni, che ebbero luogo in Milano nei giorni: 6, 7, 8, 9 maggio ultimo decorso».

L’atto d’accusa della Kuliscioff, firmato dal generale Bacci, diceva: «È fervente socialista e propagandista efficace quanto tenace; cooperò alla costituzione di circoli, pubblicazioni di giornali, di programmi e di statuti figurando indefessamente nei congressi, nelle riunioni, nelle pubbliche passeggiate. Nel 1894, come dirigente del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani, fu condannata al confino. Dopo l’elezione del suo amico Turati a deputato, raddoppiò di attività per la propaganda delle teorie socialiste; ed, all’intento di mantenere ad esso salda la base elettorale del suo Collegio tenne parecchie conferenze pubbliche al Circolo Cappellini, cercando di organizzare in Leghe di resistenza, inscrivendoli nel partito, gli operai dello stabilimento Pirelli, i quali, perché ben trattati avevano fino a questi ultimi tempi resistito; e come essa riuscisse nelle sue mire, lo prova il fatto che già 1280 operai si erano iscritti alla Lega, ed, imbevuti di massime sovversive, di sentimento d’odio si segnalavano nel primo giorno della sommossa a Ponte Seveso e Via Napo Torriani, e specialmente le donne, sulle quali la Kuliscioff esercitava molto ascendente, dimostrarono maggior ferocia».

L’interrogatorio fu tutto uno scoppiettio di frasi secche, di botta e risposta tra il Presidente, il pingue e rosso colonnello di fanteria Parvopassu e la minuta e pallida figura della Kuliscioff in un semplice vestito nero e con il cappellino allora d’uso, nero con le piume.

La difesa fu sostenuta dal tenente Domenico Forzani del XVIII Fanteria, questo perché davanti ai Tribunali di Guerra, in regime di stato d’assedio, non si ammettevano che difensori militari, delegati d’ufficio. In tal modo lo Stato faceva tre parti nella stessa commedia: l’accusatore, il difensore ed il giudice.

In situazioni del genere all’imputato restano poche speranze. Invece, ad onore del vero e soprattutto ad onore loro, dobbiamo riconoscere che in quei tristi giorni molti furono gli ufficiali che si rivelarono non solo difensori indipendenti e coraggiosi, ma, per la loro oratoria, in grado anche di dare dei punti a molti illustri avvocati in borghese.

Il difensore della Kuliscioff sostenne la linea di difesa dell’imputata producendo i documenti relativi alle conferenze contestate e dimostrando che, in linea giuridica, non potevano entrare negli articoli portati in accusa, essendo stata esclusa ogni sua partecipazione ai tumulti, e concluse: «Dico che non invoco la pietà perché stimo che in un processo politico un verdetto strappato da sentimenti di commiserazione non fa che menomare la figura dell’imputato ed abbatterne tutta la forza morale. Domandando l’assoluzione della Kuliscioff, non domando che l’applicazione della legge, nient’altro che la legge, e della sua compagna augusta, la Giustizia, dagli occhi luminosi e raggianti e, soprattutto, bene aperti».

La sentenza condannò la Kuliscioff a due anni di detenzione e mille lire di multa con la seguente motivazione: «ritenuto, in ordine a Lazzari, Gatti Ghiglione, Valera, Valsecchi e signora Kuliscioff, che tutti appartengono alla parte militante più attiva del socialismo, che tutti sono propagandisti e da molto tempo non hanno trascurato occasioni di riunioni e conferenze per eccitare gli operai e, per parte della Signora Kuliscioff, le operaie, a premunirsi contro i loro padroni, eccitando l’odio di classe, preparando il terreno alla rivolta, continuando nell’opera loro fino a che la rivolta scoppiò e della quale devono quindi ritenersi in varia misura istigatori».

Mentre tutti gli altri condannati furono inviati al reclusorio di Finalborgo, la Kuliscioff fu trattenuta, per ragioni di salute, nelle carceri di Milano.

Quando gli imputati dei due processi “grossi” vennero tradotti al carcere, fecero il percorso di Piazza della Scala, Via Santa Margherita e Via Dante, a piedi, in mezzo a due ali di soldati di cavalleria con il revolver in pugno. Per la solita cavalleria militare nei confronti delle donne e del clero la Kuliscioff e Davide Albertario fecero il medesimo tragitto, ma trasportati da due broughams, carrozze chiuse.

Due anni di galera ai quali la Kuliscioff era stata condannata, minata nella salute, avrebbero potuto anche significarne la morte. La lettera dal carcere che ripubblichiamo è indirizzata al compagno di partito Camillo Prampolini. Altro non diciamo; ognuno legga e valuti.
 

«31 agosto 1898
«Carceri giudiziarie di Milano
 (Sezione donne)

«Grazie, carissimo Prampolini, della vostra affettuosa lettera. So anch’io che i nevrotici sono resistenti assai e superano tutti i disagi, pur soffrendo più degli altri; ma, se non temo per Filippo una catastrofe, temo però molto che l’iperestesia psichica non gli cagioni delle vere alterazioni mentali. Speriamo, speriamo che tutta la burrasca passerà senza portare grandi danni, senza lasciare rovine di qualsiasi genere.

«Questo mio saluto a voi, caro amico, è l’ultimo: ci rivedremo dunque di sicuro nel 1900 e vi impegno fin d’ora di venire a farci quella tanto sospirata visita, che non avete mai trovato il tempo di farci. Dico a noi, perché spero fermamente che nel 1900 anche Filippo rivedrà il sole ed usciremo ancora abbastanza forti fisicamente e saldi moralmente, da continuare il nostro lavoro e riprendere il nostro posto, ora per forza abbandonato.

«Sentite, caro Prampolini: voi sapete che non sono ipocondriaca, che non sono portata alla esagerazione dei miei malanni fisici, anzi sono fatalista e piuttosto fiduciosa nella mia resistenza. Ho tante volte vista vicino la morte e le ho sempre resistito: perché dovrei proprio morire in questi due anni?

«Ma, dall’altro lato, sono osservatrice e sono medico. Vedo che i sintomi dell’idremia si aggravano; temo che il medico, per rassicurarmi, non mi dica tutta la verità, asserendo che non vi siano alterazioni renali. Caso mai, dunque, che il mio stato si aggravasse, lascio a voi e a Leonida la tutela della mia dignità. Vi prego a mani giunte di opporvi a qualunque passo che si volesse fare per ottenere la mia libertà con una grazia personale o con un indulto speciale.

«Impedite a chicchessia, per amor di chicchessia, fosse anche la mia figlia, che mi sia fatta un’offesa morale. Se dovessi conquistare la libertà a questo prezzo, sarei tanto avvilita, tanto diminuita, tanto degradata, che nulla mi sarebbe la libertà, l’affetto dei miei cari, l’affetto degli amici buoni. Questa, caro Prampolini, è l’unica preghiera che rivolgo agli amici, prima che si rinchiuda la nostra tomba. Voi però potete scrivermi, mi farete sempre piacere... Bacio la bambina; salutatemi la sorella e gli amici. Vi stringo la mano con affetto.
 

Vostra Anna Kuliscioff».

 
 
 
 
 
 

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Contro una classe disorganizzata Governo e Sindacati fanno a gara nel sostenere i profitti

La manovra politica del governo “tecnico”

La memoria storica è assai difficile da mantenere per una classe lavoratrice che da troppi decenni subisce i colpi martellanti dell’ideologia dominante e non scorge i caratteri di una formazione sociale che procede a passi da gigante verso la catastrofe e fa terra bruciata cosparsa di tragedie.

Il nuovo plenipotenziario del capitale internazionale Mario Monti sta svolgendo diligente il compito affidatogli: il varo della manovra economica cosiddetta “Salva-Italia” prosegue nel comprimere i salari per pompare ancora plusvalore nelle imprese. L’affondo si aggiunge a decenni di peggioramenti: cancellazione della pensione d’anzianità; aumento dei requisiti per l’accesso a quella di vecchiaia; peggioramento nel calcolo della pensione stessa; sostanziale blocco delle pensioni per molti dei lavoratori in mobilità; ulteriore prelievo ai danni dei lavoratori e pensionati dei cosiddetti Fondi Speciali (autoferrotranvieri, elettrici, telefonici, ecc.).

La motivazione della stangata è che l’economia del “Paese” è in grave difficoltà a causa della crisi dei mercati finanziari, pertanto tutti i “cittadini” devono essere chiamati a “fare dei sacrifici” per poter “uscire rafforzati dalla crisi”. La dottrina marxista ci insegna che la “economia del Paese” non esiste in sé, potendosi solamente ragionare in termini di quote in competizione tra di loro di un unico capitale globale. E la crisi non è “dei mercati finanziari”, contrapponendo un capitalismo “produttivo” – che sarebbe sano – alla “cattiva” finanza: il capitalismo è un tutto unico, del quale la finanza è una parte necessaria e interconnessa.

Infine, nonostante questo ennesimo prelievo ai danni dei lavoratori ed il trasferimento di valore dai salari ai profitti, la crisi continuerà a ingolfare il capitalismo; si dovranno allora varare in tutta fretta ulteriori manovre economiche, e di maggiore entità dell’attuale; la perenne emergenza finanziaria cesserà solo con un nuovo ciclo d’accumulazione, ma in seguito allo spargimento di un fiume di sangue proletario: guerra mondiale o rivoluzione comunista!

La stessa politica antiproletaria lega tra di loro i vari governi che si sono succeduti dimostrando come non si possano contrapporre i governi “tecnici” ai “politici”, essendo entrambi niente altro che governi borghesi. Oggi che il capitalismo è ripiombato in una crisi nera non c’è più spazio neppure per le poche briciole che nel periodo di espansione erano lasciate cadere dal tavolo padronale e che costituivano un’aristocrazia operaia. Tutti i lavoratori salariati si rivelano per quello che sono sempre stati: dei senza riserve costretti a vendersi quotidianamente (quando il capitalismo lo consente) al miglior offerente.

La manovra Monti porterà con sé pesanti conseguenze già nell’immediato futuro; si andrà in pensione molto più tardi e con un trattamento peggiorato. Per molti lavoratori la pensione sarà un miraggio difficilmente raggiungibile se non a costo di immensi sacrifici. Tutti quei proletari che hanno aderito alle procedure di mobilità, ai fondi di solidarietà, ecc. non sanno che sorte toccherà loro al termine del trattamento di sostegno al reddito; e, anche se questo dovesse venire prolungato, questi anni in mobilità incideranno pesantemente sul calcolo della pensione. A questo punto è ovvia la strategia che ha incentivato quelle procedure di licenziamento: sgravare le aziende da lavoratori anziani che hanno per esse un costo elevato e scaricare quei costi sui conti dell’Inps, cioè sulla classe operaia intera!
 

I cani da guardia confederali hanno ribadito il proprio ruolo storico

Chiusa la partita previdenziale se n’è aperta subito un’altra: la “riforma” del mercato del lavoro. I confederali in quest’occasione hanno finto di fare la voce grossa e hanno chiesto al governo di essere interpellati e non messi di fronte ad una scelta già compiuta, come è avvenuto per la riforma pensionistica. Come si vede, già da questo atteggiamento si capisce benissimo come Cgil, Cisl e Uil non difendano assolutamente la classe operaia ma si limitino a svolgere l’infame compito dell’intermediario con il governo borghese; invece di mobilitare prontamente l’intera classe si limitano ad appellarsi al rispetto dei “protocolli concertativi”, che hanno avuto il grande merito di ridurre in brandelli decenni di lotte.

Riforma del mercato del lavoro e riforma delle pensioni nei piani governativi sono collegate; ed il padronato dimostra di conoscere le leggi dell’economia meglio dei propri alleati confederali. Lavoratori, pensionati e disoccupati sono solamente gabbie con le quali il modo di produzione capitalistico rompe l’unità della classe operaia. Sondato il terreno su di una parte dei lavoratori, i pensionati, e visto che la reazione all’attacco è stata debole e scomposta, il governo ha deciso di vibrare un altro colpo decisivo volgendo la sua interessata attenzione prima sull’esercito attivo e, a breve, sull’esercito industriale di riserva.

I ministri in coro hanno già avvertito preventivamente la Triplice: l’articolo 18 non dev’essere un tabù. Non si preoccupino i commissari del capitale perché i sindacati tricolore hanno dimostrato con una costanza pluridecennale di saper abbandonare al momento opportuno posizioni che avevano definito poco prima irrinunciabili (citiamo a mo’ d’esempio Trentin Bruno: “la scala mobile non si tocca”... Amen). Il balletto “concertativo” può quindi cominciare.

Il nodo attorno a cui si svolgeranno gli incontri trilaterali può essere così sintetizzato: ancora maggiore libertà per le imprese di licenziare; in cambio si offre una “ristrutturazione” della giungla contrattuale con fusione dei diversi contratti a tempo determinato. In questi decenni i lavoratori (con pochissime eccezioni) hanno potuto sperimentare sulla propria pelle come non sia mai stato difficile licenziare anche centinaia di operai. Allora dove sta il problema? Si tratta di poter operare un turnover al ribasso, potendo liberarsi, anche nelle grandi imprese a cui si applica l’articolo 18, dello Statuto dei Lavoratori, di lavoratori anziani che hanno un costo superiore ed assumere al loro posto giovani a cui applicare proprio i nuovi contratti.

Che si tratti di questo è rintracciabile nella contemporanea riforma dei cosiddetti “ammortizzatori sociali”. Gettare sul marciapiede una massa enorme di lavoratori potrebbe provocare una mobilitazione spontanea della classe, forse anche contro i sindacati confederali; occorre prevedere un “salvagente” che permetta lo svolgimento quanto più possibile ordinato dell’operazione. Quale ha funzionato meglio in questi anni? cassa integrazione e mobilità. In una combinazione di entrambi o prolungando nel tempo l’indennità di disoccupazione si potrebbe sia abbassare il costo del lavoro pagato dalle imprese sia ridurre il salario sociale di classe perché i trattamenti sono inferiori alla paga già percepita. Il mito dello Stato Sociale, dopo aver annebbiato la mente dei lavoratori più anziani, potrà così produrre i propri effetti deleteri anche sulle nuove generazioni e contro la riorganizzazione del proletariato.

Nel momento in cui scriviamo siamo ancora nel campo delle ipotesi ma siamo certi che, se la classe operaia non saprà reagire in maniera rabbiosa ma organizzata, non si concederà nessun indennizzo ai disoccupati, si arriverà semplicemente alla cancellazione dell’articolo 18 e la discussione sulla riforma dei contratti sarà rinviata alle calende greche.

Il capitalismo è il regno della precarietà. Il Capitale per primo, aziendale, nazionale, mondiale, precariamente vive, sempre investito e sovente travolto dalla instabilità da esso stesso generata. La classe operaia non può non essere trascinata nella medesima condizione, come Engels e Marx dimostrarono sulla esperienza del primo capitalismo in Inghilterra. Il precariato, salvo transitorie eccezioni, è la dolorosa condizione normale dei lavoratori sotto il capitalismo.

Recentemente, in tutti i paesi, a questa imprevidenza è stata data veste giuridica con l’utilizzo di figure come i collaboratori a progetto, gli apprendisti, gli stagisti, ecc, che ha permesso alle imprese un ingente risparmio in termini sia di salario diretto, in quanto la busta paga di questi lavoratori è sempre molto più leggera rispetto a quella dei più anziani, sia indiretto per l’azzeramento pressoché totale dei contributi da versare alla previdenza obbligatoria. Una volta che il lavoro cala a causa degli alti e bassi del mercato, è sufficiente non rinnovare loro il contratto e il rapporto di lavoro va a cessare senza troppi problemi. Molto spesso questi contratti mascherano reale lavoro subordinato, con un orario prestabilito, con l’enorme vantaggio di risparmiare anche sugli straordinari, il lavoro notturno e festivo, la malattia, le ferie, ecc.

I sindacati confederali, in Italia, quali proposte avanzano? Niente più che varianti di poco conto rispetto alle corrispondenti ipotesi di parte governativa: gli ammortizzatori sociali dovrebbero garantire un “atterraggio morbido” dalla perdita del lavoro prevedendo delle forme di “accompagnamento alla pensione” per i lavoratori anziani “incollocabili”, e dei “percorsi di formazione” per i più giovani, magari utilizzando proprio i “contratti d’inserimento”, altra bella invenzione che permette di erogare salari da fame a fronte di prestazioni di lavoro maggiorate. La logica è sempre quella del salvataggio dell’economia in difficoltà, della compatibilità delle rivendicazioni con le variabili dell’economia borghese, senza distinzione tra capitalista e proletario.
 

Reazioni scomposte di una classe disorganizzata

La Fiom si atteggia ad organizzazione di lotta, ma a livello territoriale sottoscrive tranquillamente accordi di secondo livello che ricalcano ed a volte peggiorano quello osteggiato alla Fiat di Pomigliano e Mirafiori; in realtà recita la parte di sinistra sindacale, ultima e più efficiente stampella della “destra” sindacale.

Ma, se il ruolo storico di cani da guardia dei sindacati tricolore è stato ancora una volta confermato, neppure i sindacati di base, che si pretendono diversi e nuovi in quanto conflittuali, hanno saputo anche solo impostare i termini di una resistenza ad un attacco di una simile portata. Nonostante il giusto sdegno per tutto l’arco confederale, anche i piccoli sindacati di base hanno portato avanti una politica di divisione persino delle sparute minoranze che li seguono, hanno indetto scioperi separati da quelli di Cgil, Cisl e Uil e persino tra di loro, in un misero tentativo di “contarsi”. Le dirigenze nazionali adottano gli stessi metodi dei confederali (riscossione dei contributi per delega, uso ed abuso dei distacchi retribuiti, ecc.) e spesso si prestano a bassi giochi di politicantismo con interi gruppi mossi e manovrati dai partiti della sinistra istituzionale che si spostano da un sindacato all’altro accampando motivazioni miserevoli e mascherandosi in questa “campagna elettorale” da corrente sindacale. È corretto contrastare lo strapotere del sindacalismo di regime, è anzi il primo dovere di ogni organismo che nasce in aperto contrasto rispetto alla Triplice, ma anche i metodi di lotta devono andare nella direzione opposta.

Il settarismo imperversa. Bisogna esserci senza incertezze in ogni momento di mobilitazione operaia, è profondamente sbagliato isolarsi dal resto dei lavoratori pensando di costituire piccoli sindacati “rivoluzionari” o, peggio, degli ibridi a metà strada tra il partito politico ed il sindacato, riuscendo così a sabotare la rinascita di questo e di quello.

Dagli errori dei sindacati di base escono rafforzate le classiche tesi comuniste.
- La crisi che lacera il capitalismo spinge il proletariato a reagire agli attacchi portatigli dalla classe nemica.
- Questo sarà possibile ai lavoratori solo se disporranno di una loro organizzazione di difesa nel campo economico, il sindacato di classe.
- Il permanere in massa nei sindacati di regime mostra che la crisi deve ancora scavare. Le ideologie dominanti penetrate all’interno della classe hanno la loro inerzia e decenni di propaganda riformista e conciliatoria hanno lasciato il segno.
- Cgil, Cisl e Uil sono organismi irrecuperabili alla lotta di classe proletaria, pertanto l’organizzazione di difesa economica indipendente dallo Stato dei padroni potrà avvenire solo fuori e contro quei sindacati di regime.
- I militanti più combattivi nei sindacati di base devono lavorare per il fronte unico sindacale dal basso, aperto a tutti i lavoratori senza distinzioni politiche, fondendo tra loro tutte le organizzazioni locali, di fabbrica o di categoria che si pongono sul terreno della classe.