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Primo Maggio 2016
Nel
regime capitalistico non può esserci
pace fra gli Stati
Che
sia invece guerra fra le classi
La pace sociale che ammorba l’aria di questo primo maggio 2016 è solo il sottile strato di cenere che ricopre un fuoco pronto a divampare nuovamente.
Lunghi anni di crisi hanno visto i maggiori capitalismi nazionali, da quelli europei agli Stati Uniti, dal Giappone alla Russia, dal Brasile, al Sud Africa, ridurre la propria produzione in una recessione senza fine. Il proletariato e le classi medie si sono impoveriti e la disoccupazione aumenta. Anche la Cina, ormai seconda potenza economica mondiale, che pareva sfidare la crisi, mostra chiari i segni della stagnazione.
La crisi economica spinge i capitalisti in ogni Paese, con ogni tipo di governo, a premere sempre più per licenziare ed aumentare lo sfruttamento dei lavoratori, in difesa dei profitti.
Gli Stati borghesi, nonostante i loro bilanci in rosso, aumentano la spesa per gli armamenti e si preparano a contendersi con le armi zone d’influenza, mercati e materie prime da arraffare a prezzi sempre più bassi.
Questa pace è solo una tregua prossima a saltare sotto i colpi di un nuovo aggravarsi della crisi economica, che non potrà che divenire anche politica, sociale e militare.
In Medio Oriente la fragile tregua nei combattimenti raggiunta in Siria nasconde una situazione di tensione estrema che prepara un nuovo più esteso scontro tra gli Stati che si contendono quella disastrata regione. L’Europa orientale, con l’appoggio degli Stati Uniti, si riarma contro l’imperialismo russo. Nel Caucaso meridionale si riaccende lo scontro tra Azerbaigian ed Armenia, alimentato dal crescente antagonismo tra Turchia e Russia. Nel Mar Cinese meridionale s’inasprisce la contesa tra Pechino e gli Stati rivieraschi: il Giappone accelera il riarmo, lo stesso fa l’Australia, mentre gli Stati Uniti dichiarano apertamente di avere nella Cina il loro principale avversario economico e militare.
L’Europa dei borghesi, che sino a pochi anni fa vantava falsi ed ipocriti “Stati sociali”, “libertà”, “democrazie”, “accoglienza”, mentre opprime con la sua appena dissimulata dittatura la propria classe operaia, paga la Turchia perché si occupi di ricacciare indietro i profughi siriani in fuga in centinaia di migliaia dalle bombe, dalle stragi, dalla guerra, dalla fame provocate dall’azione criminale di tutti gli imperialismi, di Europa, di America, di Asia.
Il terrorismo, mascherato dietro pretesti religiosi, è in realtà il prodotto della guerra fra gli imperialismi ed è foraggiato e protetto dagli Stati grandi e piccoli e dai loro servizi segreti, sia per comodo mercenariato sia per spargere ovunque nel mondo i semi dell’odio, calcolato ennesimo strumento per predisporre i popoli a nuove guerre.
Sta alla classe operaia mondiale rispondere a questa sfida mortale, rovesciare il potere borghese e i suoi Stati, abolire i rapporti di produzione capitalistici, che sono il lavoro salariato e il capitale, per fare spazio alla gestione comunista della produzione e della distribuzione.
Le avvisaglie di tutto questo ci sono. In molti paesi del Nord e del Sud del mondo, di Occidente e di Oriente, la classe operaia dà prova della sua combattività per la difesa dei suoi obbiettivi di classe. I proletari, spesso soli e disorganizzati, ricercano la smarrita solidarietà e fratellanza tra sfruttati, al di sopra delle divisioni di nazionalità, di sesso, di religione, di razza.
Affinché queste lotte si affermino, si rafforzino e siano infine vittoriose è necessario che in ogni Paese i lavoratori si organizzino in veri sindacati di classe, indipendenti e nemici dei regimi e delle istituzioni dei padroni borghesi, decisi a non cedere di fronte alle lusinghe del riformismo opportunista e anche a resistere alla repressione.
È necessario che si rafforzi il partito rivoluzionario di classe, il Partito Comunista Internazionale, strumento indispensabile per dirigere la lotta fino alla presa del potere e all’instaurazione della dittatura proletaria, che sola può aprire la strada al Comunismo.
Pronta a scoppiare la bomba “derivati” effetto della crisi del capitale produttivo
L’indebitamento, tanto pubblico quanto privato della nazioni è oggi considerevole. L’Asia, e in particolare la Cina, che rappresenta un immenso mercato, sono oggi in forte rallentamento e sull’orlo della recessione. In Cina non solo l’accumulazione del capitale segna un forte rallentamento, ma la sovrapproduzione si fa strada in diversi rami di industria, come l’acciaio, il cemento, l’edilizia e si manifesta anche nella produzione di elettricità. Venendo all’Italia, lo scorso inverno il nutrito popolo dei piccolo borghesi è entrato in fibrillazione dopo aver scoperto che il valore di gran parte dei suoi risparmi, investiti in prodotti finanziari propostigli dalle loro banche, si era azzerato. Gli erano stati rifilati con la menzognera assicurazione che erano solidi e sicuri come i Bot della Banca d’Italia, quando invece erano ad alto rischio e le banche in questione si affrettavano ad affibbiare ai risparmiatori inesperti. Erano quattro piccole banche a livello regionale, Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti, che hanno coinvolto nel disastro 140 mila risparmiatori per un danno di 430 milioni di euro. Il sistema bancario italiano è stato chiamato ad intervenire per 3,6 miliardi di euro nell’operazione “salva banche”.
Non entriamo nella storia e nel merito della faccenda che si snoda tra la complessa legislazione comunitaria e nazionale sul fallimento e l’eventuale salvataggio degli istituti bancari. Sopratutto dopo l’applicazione del “bail in” Italia dall’1 gennaio. Il termine, “salvataggio interno”, significa che i debiti e le perdite della banca saranno ripianati con i soldi degli azionisti e dei risparmiatori.
Al vibrato, ma sconsolato, coro dei correntisti delle quattro piccole banche non si associavano quelli delle grandi, che ritenevano i loro risparmi al sicuro in forzieri più grandi, sorvegliati da dirigenti onesti e scrupolosi, ma contando sull’acronimo che si applica ai colossi di Wall Street: “too big to fail”, troppo grandi per fallire.
Lasciamo questi illusi nella loro convinzione. La nostra teoria sulla concentrazione del capitale ci suggerisce il contrario e trova ulteriore conferma in un articolo di Graham Summers, responsabile strategico dei mercati per la Phoenix Capital Research, che ha scritto: “Un crash da 9 trilioni di dollari è alla porta”. Sono 9 milioni di miliardi, un 9 seguito da 15 zeri, cifra difficile da rapportare a grandezze fisiche. E poi saremmo noi i catastrofisti!
Occorre partire da cifre comprensibili.
La grande crisi che ancora perdura è iniziata nel 2008 come crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali. Ha inizialmente coinvolto il mercato dei “derivati”, i quali sono contratti o titoli il cui prezzo è basato sul valore di mercato di un altro strumento finanziario, come, ad esempio, azioni, indici finanziari, valute, tassi d’interesse o anche materie prime. Quanto di meglio quindi per propagare e far esplodere la crisi.
La crisi generale ha poi coinvolto importanti banche d’affari americane, tutte “too big to fail”. Ma quegli spericolati prodotti finanziari, il cui valore complessivo è calcolato in 0,6 trilioni di dollari, hanno continuato a crescere e a infettare tutti i bilanci bancari.
Summers riferisce che la tedesca Deutsche Bank, il forziere dell’imperialismo tedesco, era la banca europea più esposta sui derivati, che ingolfavano i suoi bilanci per un valore superiore ai 75 mila miliardi di dollari, corrispondenti a circa 20 volte il Pil della Germania e di poco inferiori al Pil mondiale, calcolato per il 2014 in 78 mila miliardi di dollari.
L’agenzia “indipendente” di valutazione finanziaria Moody’s ha così deciso di declassare la valutazione di alcuni titoli della Deutsche Bank ad un livello di appena due gradini al di sopra di “junk”, spazzatura. Il cancelliere signora Merkel tuona, ma dall’alto di un oltremodo traballante pulpito! Quella banca infatti non è la sola particolarmente esposta al mercato dei derivati.
Le banche americane hanno nei loro bilanci derivati per un valore superiore a 200 mila miliardi, di cui il 77% è rappresentato da contratti sui tassi d’interesse, cioè vere e proprie scommesse sul futuro dell’economia mondiale, e che condizionano la politica dei tassi d’interesse applicati dagli istituti d’emissione delle più importanti economie, tra cui l’americana Fed, che pretenderebbero dirigere la politica monetaria negli Usa, e non solo.
Summers conclude facendo notare che basterebbe che i derivati perdessero solo l’1% del loro valore per cancellare tutto il capitale delle grandi banche, trascinando l’intero sistema finanziario mondiale in una crisi finora mai conosciuta e dai risultati imprevedibili, enormemente superiori alla crisi del 1929!
È evidente che la crisi delle quattro piccole banche italiane è un fatto ancora marginale e sopportabile dalla finanza mondiale. Ma questa prima falla noi sappiamo, e lo sanno bene anche i nostri avversari di classe, è solo l’anticipo dei fallimenti a cui assisteremo quando l’intero sistema capitalistico imploderà sulle proprie fondamenta finanziarie, che gli sono necessarie per sostenerlo ed ingigantirlo. Non c’è spazio e possibilità per un “capitalismo dal volto umano”, né di una crescita controllata, tanto meno di una “decrescita felice”, come alcuni sostengono, ma un unico sbocco verso il collasso generale.
Si potrebbero ripetere domani altre crisi epocali della dimensione di quella in Russia alla fine degli anni Ottanta con una terribile recessione nella quale la produzione crollò del 56%, una caduta superiore a quella degli Stati Uniti nel corso degli anni Trenta.
Al capitalismo rimane solo la strada di sempre, quella della guerra tra gli imperialismi. A quel punto solo la rivoluzione comunista potrà salvare i proletari del vecchio e dei nuovi mondi, coloro che posseggono solo la loro forza lavoro, esclusi dalla proprietà dei mezzi di produzione, verso una forma di società liberata dal lavoro salariato, da capitale, mercato, banche e finanza ed organizzata in un grande progetto unico di sviluppo della specie umana. Per far questo i proletari dovranno, come suggerisce Marx: “trasformare l’arma della critica nella critica delle armi!”.
Le battaglie difensive dei lavoratori sono una catena che condurrà, quando dirette dal partito comunista, allo scontro mondiale con la borghesia e alla sua fine
Continua, per il Capitale, la ricerca della motivazione della crisi nel tentativo (ancora purtroppo riuscito) di assolvere sé stesso. Si continua a blaterare e ad appoggiare chiunque parli di “crisi della finanza” e di “finanzieri senza scrupoli”, e si predica che la soluzione non può che essere negli nelle agevolazioni da concedere al mercato.
La realtà, come noi comunisti sappiamo, e non possiamo tacere, è ben diversa. La crisi è di sovrapproduzione.
Il più efficace e “tecnologico” sistema produttivo che l’umanità abbia mai sviluppato impoverisce i lavoratori perché produce troppo. Troppo non per i bisogni degli uomini ma per quelli del mercato, dato che la produzione non ha lo scopo di soddisfare le necessità umane ma di accrescere il Capitale, in un ciclo che si vorrebbe ipoteticamente infinito ma materialmente destinato alla crisi per saturazione da una parte e per i profitti sempre minori dall’altra.
Investimenti per cosa se investire non porta profitto? Per il capitale è sempre meno il momento d’investire, di costruire, e sempre più il momento di distruggere. Oggi chiudere fabbriche, tagliare posti di lavoro, distruggere quello stesso Stato sociale che al Capitale è servito a sopire la lotta di classe. Domani riprendere la produzione ma solo per produrre armi, cioè per preparare la distruzione generali delle merci in eccesso – fra cui la merce forza-lavoro – con un nuovo macello mondiale su cui ricostruire un nuovo ciclo di produzione, di investimenti, di accumulazione del capitale.
La crisi di sovrapproduzione, a cui si vuole dare il significato di crisi finanziaria per mascherare i limiti intrinseci del sistema capitalista – sovrapproduzione con conseguente crollo dei profitti – sta costringendo la classe sociale borghese di tutto il mondo a dichiarare la propria guerra alla classe sociale del proletariato nel disperato tentativo di salvare quanto più possibile dei propri mancati profitti e di rimandare nel tempo la crisi definitiva.
Non una crisi passeggera e contingente, risolvibile con qualche aggiustamento, ristrutturazione e sacrificio, tale per cui è sufficiente restare a galla finché passa la tempesta, ma una crisi che ha, come radici, il funzionamento stesso del sistema produttivo attuale: l’incessante esigenza di trasformare il denaro in merce e la merce in denaro, senza nessuna logica legata al soddisfacimento delle umane necessità, quanto piuttosto di un’economia che con le sue leggi e meccanismi non risponde più neanche a chi vorrebbe governarla.
Non è un caso che ogni iniziativa politica decisa il giorno prima, produce danni peggiori di quelli che avrebbe dovuto risolvere se non ottiene, il giorno dopo, l’approvazione delle borse e dei mercati.
Ovunque licenziamenti, chiusure di imprese, concentrazioni di grandi aziende con dismissioni dei settori meno produttivi per il capitale, condizioni di vita e di lavoro sempre più precarie, smantellamento di quella previdenza sociale tanto decantata dalla borghesia stessa, richiesta di sacrifici in nome di un migliore futuro.
A questa guerra i proletari sono arrivati completamente disarmati.
Decenni di sviluppo industriale costruito su due guerre mondiali hanno creato l’illusione che la pace e la prosperità fossero ormai condizioni acquisite per l’umanità tutta (o quasi) e che nulla avrebbe potuto fermare questa corsa verso uno sviluppo ed un benessere possibile per tutti.
Questo ha contribuito, insieme alla scientifica disinformazione sull’argomento “Comunismo” attuata dai mezzi di propaganda borghesi, al considerare eventi di un passato ormai lontano e sepolto dalla Storia lo scontro tra le classi sociali, divenute, secondo questa visione, ormai protagoniste e beneficiarie tutte di questo sistema produttivo.
I lavoratori sono, quindi, arrivati in prossimità di questo appuntamento storico privi di quella che era e dovrebbe essere la loro tradizionale politica, autonoma e di classe, in cui difendere i propri interessi, come classe e non come lavoratori di questa o quella azienda, di questa o quella regione, di questa o quella nazione, o, peggio che mai, come individui.
Perché se la crisi è internazionale, se l’azione delle borghesie è internazionale, la risposta dei proletari non può rimanere limitata nell’ambito aziendale o di categoria, limiti che snervano le risposte che i primi proletari tentano di dare, e talvolta finiscono per rafforzare la convinzione che poco si possa comunque fare.
In mancanza di questa lotta generale della classe non rimangono che le soluzioni individuali e personalistiche, sgomitate e furberie, che danno l’illusione di poter sfuggire, almeno provvisoriamente, al problema contingente, rimandando al domani una soluzione che non arriverà, e quelle funzionali al capitale, ovvero vendere la propria forza lavoro a condizioni sempre peggiori, in una spietata concorrenza di tutti contro tutti, fino a giungere, una volta che i proletari avranno accettato come inevitabile tutto questo, alla unica e vera soluzione che il Capitale ha a sua disposizione per risolvere le sue, inevitabili e cicliche, crisi: la guerra capitalista in cui distruggere uomini e merci (c’è differenza per il Capitale?) di cui il Mercato non ha più necessità.
In tutto il mondo sono strumenti di questo smarrimento i partiti e i sindacati di regime che continuano a presentare ai lavoratori necessario ed inevitabile ciò che è necessario ed inevitabile per il mercato e il Capitale, per la concorrenza e le “compatibilità” aziendali e nazionali, allontanandoli progressivamente dai postulati che erano e devono tornare ad essere le loro.
Gli interessi della classe operaia, di tutta la classe lavoratrice, sono inconciliabili con quelli del capitalismo, e contro i suoi cardini politici, sociali ed economici: la nazione, l’azienda. Il solo vero interesse dei lavoratori è vivere e lavorare in una società liberata dalle inumane e anti-storiche leggi dell’economia capitalistica.
Tutte le presunte “conquiste” dei decenni passati sono da anni sotto attacco e la borghesia si sta riprendendo passo dopo passo tutto ciò che aveva ceduto. Il riformismo e lo stalinismo – ed oggi i suoi rottami – hanno sempre spacciato questi “diritti” come qualcosa di definitivamente acquisito in un capitalismo dipinto come nuovo, “democratico”. E hanno spinto i lavoratori ad abbandonare i metodi della lotta di classe convincendoli che li avrebbe tutelati non la loro forza ma le regole della democrazia elettorale.
La crisi dimostra come questa visione riformista sia falsa e fallimentare. Le conquiste passate per i lavoratori non sono nulla più che dei provvisori attestamenti nella lotta di classe, da difendere non nell’illusione che sia possibile mantenerle per sempre in questa società, ma per rafforzarsi e avanzare in una vera guerra sociale che terminerà solo con la rivoluzionaria soppressione della borghesia.
La lotta dei lavoratori contro gli attacchi degli industriali e dei governi borghesi di ogni colore, di “destra” o di “sinistra”, è una catena di battaglie che condurrà al suo esito finale, cioè all’alternativa fra la soluzione borghese e quella proletaria alla crisi del capitalismo: o guerra imperialista fra gli Stati capitalistici, in cui spartirsi i mercati mondiali, distruggere le merci in eccesso, far massacrare i lavoratori divisi sui fronti contrapposti, o rivoluzione proletaria internazionale.
La sola politica della classe lavoratrice è la milizia nel partito che ha chiaro questo percorso storico e ad esso vuole preparare i lavoratori.
PAGINA 2
Rapporti esposti
alla riunione generale
Parma, 22-23 gennaio 2016
[RG124]
Il concetto e la pratica della dittatura - Prima di Marx: Germinale e Pratile
Lo storico russo Evgheni V.Tarlé in “Germinale e Pratile” del 1937 scrive: «I termidoriani di sinistra, che i contemporanei distinsero con la qualifica di “La Crete” (cresta, sommità), simpatizzarono e cooperarono con quanti vollero la rovina di Robespierre, considerato “tiranno”, “Catilina” e via dicendo. Ma a mano a mano compresero il vero significato di quanto era avvenuto e si allontanarono chi aveva organizzato e diretto la tragedia termidoriana. Nel germinale e nel pratile 1795 vi erano nella Cresta della Convenzione uomini di forte tempra, atti a essere dei capi; e nei sobborghi Antoine e Marceau, nel rione del Temple e in rue Mouffetard vi erano masse pronte a decise azioni rivoluzionarie. Ma questi capi e queste masse non si conoscevano, non si capivano e non si incontrarono». Le condizioni in cui si dibattevano le plebi urbane erano spaventose, e le campagne non erano in situazioni migliori. Il 12 germinale alcune sezioni popolari si recarono alla Convenzione per chiedere “Pane, ristabilimento della Costituzione del 1793 e liberazione dei patrioti arrestati il 9 termidoro”. Il tutto si concluse con un nulla di fatto e la sera stessa cominciarono gli arresti e le deportazioni, ancora maggiori dopo la tentata insurrezione del 1 pratile. Mentre si arrestavano i Montagnardi della Cresta, venivano disarmati “i cattivi cittadini”, vale a dire i non possidenti, e venivano armati i “buoni cittadini”, e cioè i possidenti. I moscardini della Gioventù Dorata, sorta di squadracce al servizio della controrivoluzione, andavano a caccia di giacobini e di operai. Il membro della Convenzione Rovère scriverà poi: «La Convenzione non aveva mai corso un pericolo così grande come nei giorni di pratile. Essa fu salvata dai buoni cittadini, scelti uno per uno in ogni sezione e chiamati in sua difesa».
Jullian, capo della Gioventù Dorata, dirà poi che se gli insorti avessero avuto dei capi migliori e se avessero arrestato subito i membri dei comitati «il governo sarebbe stato disperso e il Terrore ristabilito».
Levasseur de la Sarthe, esponente della Cresta e membro della Convenzione il 1° pratile era in prigione. Nelle sue memorie dirà poi che gli insorti si lamentavano dell’armamento insufficiente e dell’inesperienza dei capi, e parlerà di rivolta della classe operaia contro l’aristocrazia borghese. Egli credeva nell’esistenza di un embrione di organizzazione che con la “dittatura di alcuni energici patrioti” restaurasse la Costituzione del 1793.
Se anche vi fu il risultato fu nullo. Levasseur, Jullian e gli altri testimoni sono concordi nel dire che per l’intera giornata del 1° pratile non vi fu alcuna direzione accentrata. In accordo con le richieste dei sanculotti, Romme e gli altri deputati della Cresta fecero vari interventi alla Convenzione; tra questi Soubrany propose di istituire una commissione di quattro membri in sostituzione di tutte le altre. Quando la sera del 1° pratile venne presa questa decisione era già tardi per esautorare i Comitati governativi, ed in particolare il Comitato di sicurezza generale da cui dipendeva la polizia della capitale.
Scrive Tarlé: «Un battaglione di una delle sezioni del sobborgo Antoine si avvicina con i cannoni alla Convenzione; un battaglione della sezione borghese dei Campi Elisi prende posizione di fronte ad esso, in difesa della Convenzione (...) Mai forse, durante l’intero corso della rivoluzione, si posero militarmente gli uni contro gli altri, non in senso figurato, ma nel significato letterale della parola, i possidenti e i non possidenti, la borghesia e la massa plebea, e mai ciò venne riconosciuto in modo così preciso e inequivocabile dai testimoni e dai protagonisti».
I giorni 2 e 3 videro ancora una situazione di incertezza. La mattina del 4 nel sobborgo Antoine le masse armate erano disposte in ordine di guerra, con i cannoni caricati a mitraglia. Le truppe di linea e la Guardia Nazionale forti di 25.000 uomini, chiamati a Parigi dalla Convenzione fin dal giorno 1, avevano circondato il sobborgo, che venne disarmato solo alle 10 di sera.
Torniamo a Tarlé: «In quel critico momento i “buoni cittadini”, all’interno dello stesso sobborgo, esercitarono una forte pressione sugli insorti. Ciò è pienamente comprensibile: poiché assieme agli operai vivevano colà anche i fabbricanti, i mercanti, i padroni di numerose botteghe artigiane, di negozi,ecc.».
Levasseur scrisse che dal 4 Pratile, da quando i cannoni furono sottratti al sobborgo Antoine, fino alla rivoluzione del luglio 1830 «sembrò che il popolo avesse dato le dimissioni».
Il rapporto di forze era tale che, come già detto, alle 10 di sera del giorno 4 l’opera di “pacificazione” era conclusa, e cominciavano gli arresti e il disarmo che continuarono per molti giorni. Fu istituita una commissione militare, una sorta di tribunale militare da campo, con un potere illimitato di giudicare e fucilare tutti coloro che avessero avuto parte all’insurrezione o che facevano propaganda sovversiva. In tali giudizi la difesa non era ammessa ed erano ascoltati solo i testimoni ritenuti utili. Secondo calcoli ufficiali, inferiori alla realtà, la commissione militare pronunciò 36 condanne a morte, tra cui 6 membri della Cresta della Convenzione, che si suicidarono passandosi lo stesso pugnale. Neanche questa Commissione, con i suoi poteri illimitati, riuscì a dimostrare un collegamento tra i deputati della Cresta e l’insurrezione.
In germinale e in pratile le plebi parigine, a differenza delle giornate del 1789, del 1792 e del 1793, non ebbero alcun alleato tra la media borghesia e pochissimi tra la piccola borghesia.
Levasseur e altri si resero conto della necessità di avere un centro dirigente della rivoluzione, e all’assenza di questo attribuirono la sconfitta. Tutto ciò portò poi l’anno successivo alla “Cospirazione per l’Eguaglianza detta di Babeuf”. In sette anni, dal 1789 al 1796, si era passati da Rousseau al primo partito comunista rivoluzionario della storia.
Storia del movimento operaio in Usa: I sindacati in guerra
Gli anni che precedono la guerra, e poi il periodo bellico, che per gli USA è relativamente breve, vedono compiersi un processo già iniziato con la prima amministrazione Wilson. Incombe sul paese la prospettiva della guerra, che lo porta a prepararvisi in modo piuttosto aperto ed esplicito: la preparazione. La borghesia nordamericana non intende perdere la splendida occasione di mostrare al mondo chi sarà a comandare nei decenni che seguiranno, di sfoderare un possente apparato produttivo, di fare affari d’oro con le commesse, di regolare qualche conto in sospeso con la classe operaia.
La creazione del Dipartimento del Lavoro, retto da un ex bonzo sindacale, rende visibile a tutti la linea che il Presidente seguirà: controllo centralizzato della conflittualità sociale, utilizzando i sindacati di mestiere e la AFL, ormai aggiogati al carro della borghesia e sua cinghia di trasmissione con la classe operaia. In cambio della acquiescenza allo sforzo bellico, qualche concessione (la principale sarà l’estensione delle 8 ore), ma anche persecuzione delle organizzazioni sindacali e politiche che non si assoggettano agli arbitrati, o che svolgono propaganda pacifista. I sindacati AFL si integrano sempre più nell’apparato statale, e si trovano con i loro rappresentanti al vertice delle varie Agenzie istituite per coordinare lo sforzo bellico. Così facendo perdono credito fra gli operai, mentre le lotte si intensificano. Lo Stato ricambia il favore ai sindacati perseguitando gli IWW e qualsiasi lotta che si svolga al di fuori dei canoni previsti centralmente, per esempio rifiutando i responsi degli arbitrati.
Non sempre i sindacati venduti riescono a controllare la classe; in questi casi, in alternativa al dispiegamento della forza repressiva, si deve talvolta concedere qualcosa agli scioperanti, visto il grande fabbisogno di lavoro per lo sforzo produttivo richiesto dalla guerra. Alcune aziende più lungimiranti puntano sul paternalismo, con la creazione di sindacati aziendali. Idea ripresa dallo Stato, che favorisce la nascita degli shop committees anche nelle piccole aziende, anch’essi svincolati da qualsiasi sindacato (venduto o no), per la composizione delle vertenze; a questi partecipano anche rappresentanti dei padroni, in uno spirito che qualche anno dopo avrebbe preso il nome di corporativismo.
Intanto avviene che di lavoro ce n’è molto e operai non tanti: l’immigrazione si è quasi arrestata per la guerra, e la classe operaia ha più forza per difendersi dagli attacchi padronali. Le fabbriche reclutano le donne e soprattutto si assiste a una grande migrazione interna, di lavoratori negri dal sud, spesso contadini rovinati dai cattivi raccolti. D’altronde gli immigrati dall’Europa, che nei decenni precedenti erano stati la soluzione, adesso sono divenuti un problema: non più disponibili a vendersi a basso prezzo, se non addirittura come crumiri, sono divenuti combattivi e al centro delle lotte nei grandi distretti industriali.
Un altro importante evento del periodo riguarda l’AFL e i sindacati affiliati, che divengono strutturali al sistema. Perdono seguito tra le masse durante la guerra, ma sono sempre più coinvolti dal governo nella gestione delle lotte e della produzione. La chiamarono cooperation, collaborazione.
Contemporaneamente, soprattutto a partire dalla fine del 1917, si intensifica la persecuzione di socialisti e IWW, sia con leggi che vietano anche l’espressione di opinione, e che demonizzano chi non è patriottico (Espionage Act, Criminal Syndicalism Act), sia con violenze finanziate direttamente dai capitalisti.
Con la guerra si compie un ciclo della classe operaia americana, che si troverà nel difficile dopoguerra a lottare con armi spuntate, con sindacati infeudati al potere borghese, con le organizzazioni combattive ridotte ai minimi termini, e soprattutto senza essere riuscita ad esprimere un vero partito marxista.
Questioni della moneta: la finanza non salva il capitale
Quello della liquidità è un argomento tra i più mistificati e contorti che ammorbano la povera opinione comune. Senza avere la pretesa di presentare le particolari teorie innovative nel campo borghese, il rapporto di gennaio su questo tema intendeva chiarire alcuni aspetti del processo di creazione, localizzazione, distribuzione ed impiego della liquidità.
Con questo termine non si indica solo il contante, cioè la massa del denaro che opera nella circolazione, ma la disponibilità totale monetaria, nelle sue varie forme, immediatamente utilizzabile per l’attività di pagamento.
Per meglio evidenziare il concetto, è sembrato opportuno parlare di aggregati monetari, che sono una classificazione delle diverse tipologie di liquidità. Si parte dal livello base, conosciuto come M0, la moneta, detta “ad alto potenziale”; poi conti correnti, che sommati a M0 definiscono l’aggregato M1, ed ancora conti di deposito vincolati che, insieme a M1, costituiscono M2. Con aggregazioni sempre più ampie di asset, cioè titoli di proprietà con rendimento, sempre meno “liquidi”, si definiscono via via livelli superiori, che però non interessano in questa presentazione.
Vale la pena di evidenziare che, salvo il contante, tutto il resto, M1 ed M2, che lo sovrasta di oltre 20, 30 volte, si presenta solo come semplice “scrittura” su un conto.
La liquidità si presenta quindi con diverse caratteristiche e localizzazioni: il circolante nel mercato; le riserve di valore (quanto accantonato come riserva per utilizzo futuro) e quanto circola nel sistema bancario; quanto risiede nei conti che ogni banca (ed anche lo Stato, con i suoi conti di tesoreria) possiede nella Banca Centrale.
La Banca Centrale non mette mai direttamente in circolazione moneta. Definisce e mantiene invece sui suoi conti la quantità di riserve obbligatorie bancarie, cioè le riserve che per legge sono imposte alle banche in proporzione alla loro passività, liquidità che circola e compensa le transazioni nel sistema interbancario. In altre parole la Banca Centrale è condizionata dalla dinamica del mercato interbancario nell’offerta di moneta per consentire il funzionamento del sistema dei pagamenti.
Questo meccanismo di contabilità, emissione e circolazione, tipico nelle sue astrattezze della fase finale del capitalismo, appare di notevole complessità ed opacità e induce spesso ad errori grossolani di interpretazione dei fatti monetari.
Per descriverlo in concreto il relatore ha mostrato il diagramma dell’andamento nell’ultimo decennio del tasso di interesse cosiddetto overnight (cioè su un prestito da rimborsare il giorno dopo!) che la Banca Centrale Federale americana paga sulle riserve che prende a prestito dalle banche.
A gennaio ne ha deciso l’aumento, dopo anni di “tassi a zero”: come emerge dalle cosiddette Minute, cioè dai verbali (o almeno quanto decidono di rendere pubblico) della riunione, il tasso non è passato che da 0-0,25 a 0,25-0,50.
I vari punti trattati sono serviti in particolare all’esposizione che: 1) la FED non “dirige i mercati”, ma subisce i loro movimenti, cioè la politica monetaria è determinata dall’economia, 2) che i ripetuti “alleggerimenti quantitativi” (quantitative easing) non hanno generato alcun effetto contrastante la fase deflazionistica attuale. Deflazione che si presenta come il pericolo più serio ed immediato per l’intero sistema economico capitalista e che le autorità monetarie internazionali cercano di contrastare con i mezzi a loro disposizione.
Quanto tratteggiato per la Banca Federale Americana, è caratteristico e valido, grosso modo, per tutte le Banche Centrali degli altri Stati.
Il QE praticato da molte Banche Centrali per “aumentare” la liquidità presente nel sistema finanziario, mediante l’acquisto di attività finanziarie dalle banche (rendendo cioè “liquidi” titoli che per loro natura non lo sono), produce soltanto un aumento delle riserve detenute dalle banche presso la Banca Centrale, riserve che creano una bolla finanziaria, ma non possono circolare nel sistema economico. L’abusata metafora delle “rotative”, che dovrebbero girare senza sosta per “creare moneta”, è una falsa concezione della produzione di liquidità.
Il quantitative easing dovrebbe invece consentire al sistema bancario commerciale di concedere prestiti e a tassi inferiori; cosa che invece non si verifica. Perché in effetti il concetto che il credito bancario, che genera la liquidità nel sistema commerciale, sia determinato dalla “creazione” da parte della Banca Centrale di moneta, e che questa nel suo flusso e riflusso generi inflazione, non è vero.
È un fatto assodato, nel suo aspetto esteriore, finanziario, verificato in anni di crisi, che nessun artificio monetario della Banca Centrale è riuscito a sanare. Con la finanza non si “rimette in carreggiata” l’economia. Quello che è cresciuto oltre ogni ragionevole misura, ovvero come dicono “loro”, è andato in bolla, è stato il prezzo sul mercato dei titoli, più o meno “liquidabili”. Inflazione virtuale, ha concluso il relatore.
La quantità di moneta presente nel sistema è invece al di fuori del controllo della Banca Centrale, e viene generata proprio nel sistema bancario all’apertura di una linea di credito. Insomma sono i prestiti a generare i depositi, e non il contrario. Non si risolve la disappetenza mortale del capitale offrendogli pranzi gratis.
I mezzi a disposizione delle Banche Centrali hanno quindi un limite intrinseco non superabile, su processi che sono detti “esogeni”, cioè non controllati dall’autorità monetaria.
Per quel che ci riguarda è proprio la teoria e la pratica della conduzione monetaria e della circolazione della liquidità che ci dimostrano pienamente l’incapacità di prevedere e risolvere le crisi del capitalismo, così come si presentano nel campo della finanza. E tanto ci basta.
Abbiamo ampiamente riferito della nostra attività sindacale, niente affatto trascurabile, di secondaria importanza e non di poco impegno per le nostre forze. Sono stati ben illustrate le recenti vicende della lotta di classe con le quali siamo in contatto, in particolare in Italia e in Venezuela, e gli atteggiamenti della nostra frazione comunista. È tutto dettagliatamente descritto nelle pagine sindacali inserite nei numeri di questo giornale e ad esse qui rimandiamo.
Manteniamo immutata, senza alcuna difficoltà o forzatura né incertezza al nostro interno, una continuità di impostazione vecchia quanto il marxismo, ed in particolare del nostro partito fin dalla sua rinascita in Italia nel secondo dopoguerra mondiale, quella della applicazione nella pratica della nozione teorica generale della necessaria funzione storica del sindacato come cinghia di trasmissione, che è in Marx e in Lenin, fra il partito e la classe.
Il partito comunista raggruppa l’avanguardia del proletariato in vista del rovesciamento con la forza della borghesia industriale, finanziaria e fondiaria, della sua espropriazione e del passaggio ad una gestione comunista della produzione e della distribuzione. Questo partito, che è organizzato su una base internazionale, opera al convergere di tutte le lotte proletarie, tanto economiche quanto politiche, in un solo fascio di forze, superando i limiti di spazio e di tempo. Per far questo auspica l’unificazione degli organismi di difesa, che nascono qua e là, in un grande sindacato di classe centralizzato.
L’organizzazione sindacale, la prima scuola di lotta di classe per i proletari, è permeabile all’azione del partito comunista che, cercando di acquisire una influenza decisiva in seno al proletariato, guida le sue lotte difensive in vista dello scopo finale, il passaggio ad una società comunista.
Relazione dei compagni venezuelani
Il compagno ha esordito descrivendoci la situazione economia in America Latina, dove la crisi si sta approfondendo né v’è segno di soluzioni capitalistiche a breve termine.
Le produzioni in Venezuela hanno rallentato fra il 7 ed il 10% nel 2015 e si stima che la contrazione sarà simile anche per il 2016. L’inflazione ufficiale fra il settembre 2014 e il settembre 2015 è stata del 140%, ma secondo il FMI nel 2015 è stata del 270%. Il FMI, la Banca Mondiale e la Commissione Economica per l’America Latina e i Caraibi pronosticano che l’economia di tutta l’America Latina non crescerà nel 2016 per il quinto anno consecutivo.
Tra i fattori più evidenti di questa situazione ci sono la caduta dei prezzi delle materie prime, il petrolio e il rame, per il rallentamento dell’economia cinese.
È previsto che l’economia del Brasile si contrarrà fra il 2 e il 2,5% nel 2016, dopo il calo di quasi il 4% nel 2015.
L’economia argentina dovrebbe crescere soltanto da 0,5 ad 1% nel 2016. Il nuovo governo argentino ha iniziato ad attuare l’amara ricetta anticrisi, che come sempre porta con sé massicci licenziamenti e riduzioni dei salari reali. Tutte le soluzioni capitalistiche scaricano il peso della crisi sui lavoratori.
È previsto in tutti i Paesi un rafforzamento delle misure governative volte alla riduzione della spesa corrente, il confermarsi della riduzione dei salari reali (anche se vi sono stati aumenti dei salari nominali), l’aumento delle categorie di lavoratori dipendenti costretti a pagare le tasse, la svalutazione della moneta rispetto al dollaro, facilitazioni e riduzione dei costi per i licenziamenti. È da aspettarsi anche un ulteriore aumento delle tariffe dei servizi pubblici.
Dato che, in termini generali, nella regione si sconta ancora una arretratezza tecnologica, e che in molte di queste economie in crisi, con monete svalutate rispetto al dollaro, gli investimenti in nuova tecnologia saranno più costosi, è da prevedere che lo sfruttamento capitalista si concentrerà maggiormente sull’ottenimento di plusvalore assoluto che di plusvalore relativo. Vale a dire che si prevede che gli imprenditori spingeranno per maggiori ore di lavoro per lavoratore con straordinari e ore extra.
Il compagno è poi passato a una disamina delle lotte recenti e in corso dei lavoratori salariati, studio che sarà pubblicato per intero sui nostri organi internazionali. In generale i sindacati di regime, nonostante la caduta della loro credibilità fra i lavoratori, riescono a frenare le lotte e a mantenerle separate l’una dall’altra. Sono ancora molto deboli le iniziative coordinate e di solidarietà fra i lavoratori, che mobilitano organizzati o meno ai sindacati ufficiali.
Quindi ha presentato lo schema classico del dominio democratico della borghesia, adottato in tutti i paesi della regione: dell’alternanza di partiti o coalizioni di partiti, che comunque rappresentano gli interessi del capitale. Questi si presentano come alternativa fra partiti o gruppi di partiti apertamente borghesi e conservatori, di destra, e partiti o gruppi “alternativi”, “riformisti”, di “sinistra”.
In Venezuela l’alternanza che si presenta di fronte alle masse è fra le forze rappresentate dal Tavolo di Unità Democratica (MUD) e i riformisti dal Polo Patriottico. Inoltre si è formata una coalizione, non ancora strutturata, di movimenti che chiamano ad un fronte sia contro il MUD sia contro il Polo Patriottico: questa terza coalizione si muove su posizioni opportuniste con forte influenza delle correnti trotskiste.
In Uruguay la situazione è simile e in questo caso è il Fronte Amplio che controlla il governo e amministra gli interessi della borghesia.
Infine abbiamo ascoltato del lavoro locale del partito, di organizzazione, di studio e, nei limiti del possibile, di propaganda.
Per l’attività nel movimento sindacale teniamo contatti con le lotte operaie di importanti fabbriche e fra alcune categorie di dipendenti pubblici, fra i quali abbiamo propagandato le posizioni del partito sul piano sindacale. Abbiamo anche rapporti con lavoratori della Compagnia petrolifera statale che criticano l’attuale sindacato e che si sono interessati alla organizzazione rivendicativa di base.
Lentamente abbiamo iniziato a tradurre i testi fondamentali dall’italiano allo spagnolo, lavoro che è cresciuto significativamente anche rispetto al recente passato.
(Fine del resoconto di Parma)
Il 27 aprile, a sera, ha cessato di battere il cuore di un comunista rivoluzionario, il compagno Gilberto Brizuela.
Nei primi anni ottanta aveva aderito al partito comunista internazionale, dopo alcuni anni di milizia fra i “guerriglieri”, nei decenni precedenti assai diffusi in America Latina ed in particolare in Venezuela. Fu lui ad aprire, insieme ad altri compagni, la prima sezione in Venezuela. Ben avveduto seppe riconoscere la giusta strada quando vennero a proporsi comportamenti che snaturavano le nostre classiche posizioni.
Con altri compagni riuscì a tenere in vita in Venezuela un piccolo gruppo di militanti che, benché isolati per anni, ebbero la forza di mantenersi sempre nel solco della Sinistra. Questo nucleo andò crescendo in numero e in qualità di lavoro, finché per incitamento del compagno Gilberto, si dispose a varcare l’Atlantico per ritrovare il partito nella vecchia Europa.
Gilberto, il nostro “poeta”, come era chiamato nel suo quartiere di Caracas, il “23 Gennaio”, era un compagno franco, forte, disciplinato, impegnato, allegro ed entusiasta, che tutti hanno apprezzato e rispettato.
Usava ripetere “il marxismo è pianta di ogni clima”, facendo allusione a come, nelle difficili circostanze del Venezuela, dove manca una significativa tradizione proletaria e dove le varie correnti dell’opportunismo hanno fatto di gran danni, anche in quelle condizioni fosse possibile il sorgere di un nucleo e di una sezione del Partito Comunista Internazionale.
La malattia ha strappato via da tutte le attività della sezione un compagno attivo e totalmente dedicato. Se ci mancherà molto la sua materiale presenza in compenso ci resteranno i suoi insegnamenti. A volte, quando colpiti da altre morti, piaceva dire a Gilberto: “la materia non muore mai”. Ora che anche lui è entrato nel circuito naturale della materia e dell’energia continuerà ad esser presente in ogni nostra azione, insieme a tutti i comunisti che ci hanno preceduto.
Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale | |
Per la rinascita del sindacato di classe fuori e contro il sindacalismo di regime. Per unificare le rivendicazioni e le lotte operaie, contro la sottomissione all’interesse nazionale. Per l’affermazione dell’indirizzo del partito comunista negli organi di difesa economica del proletariato, al fine della rivoluzionaria emancipazione dei lavoratori dal capitalismo |
Mercoledì 20 aprile - Sciopero generale dei metalmeccanici
Per
la ripresa di una vera lotta
contro il padronato
Per
la rinascita di un sindacato di classe che unifichi
le lotte dei lavoratori
Fuori
e contro il sindacalismo collaborazionista
Operai metalmeccanici,
oggi Fiom, Fim e Uilm vi chiamano a uno sciopero nazionale di 4 ore per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro.
I padroni di Federmeccanica vogliono spingere ulteriormente al ribasso il salario e le vostre condizioni di lavoro, per difendere i profitti aziendali colpiti dalla crisi economica mondiale del capitalismo.
Negli ultimi trent’anni tutti i contratti sono stati a perdere. Questo, nelle intenzioni degli industriali, dovrà essere ancora peggiore, deve segnare un cambio di passo nella loro offensiva contro la classe operaia: nessun aumento salariale per il 2016 e il 2017 per la maggioranza della categoria e solo pochi spiccioli per chi è ai livelli più bassi; drastico taglio dei permessi; peggioramento delle norme su straordinari, trasferimenti e trasferte; allentamento dei già irrisori limiti al ricorso agli appalti, escludendo ogni garanzia per gli occupati nei cambi di appalto; aumento della produttività.
Sul fronte sindacale la novità è che, dopo due rinnovi contrattuali “separati” – ossia firmati solo da Fim e Uilm, senza la Fiom – i tre sindacati si mostrano intenzionati a tornare a un contratto “unitario”. Questa ritrovata unità sindacale dovrebbe, a loro dire, difendere meglio i lavoratori. Ma non è affatto così.
Ciò che difende i lavoratori è la loro unità nell’azione di lotta: più è unito lo sciopero più è forte e può piegare il padronato. L’unità di Fiom, Fim e Uilm non è costruita sulla lotta bensì a discapito di essa. Fim e Uilm dichiaratamente rigettano la lotta di classe, come la Cgil che sostiene e difende la “concertazione”. La Fiom ha posto al centro della sua strategia l’unità con questi sindacati gialli. Il risultato sono le odierne 4 ore di sciopero.
Uno sciopero così non può che far sorridere gli industriali, oltre che per la sua brevità anche perché annunciato con settimane di anticipo, permettendo alle aziende di recuperare le poche ore di interruzione del lavoro con lo straordinario nei giorni precedenti e in quelli successivi. Lo sciopero costa un sacrificio ai lavoratori, deve colpire duramente il padronato, non essere sprecato per manifestare delle vaghe intenzioni.
Per difendersi i lavoratori hanno bisogno di organizzare una vera lotta, fatta di scioperi a sorpresa, con picchetti che blocchino merci e crumiri, che culmino in uno sciopero generale, non di poche ore ma a oltranza.
Queste lotte dure non appartengono solo al passato ma anche al presente: da ormai cinque anni agitano il settore della logistica in tutto il nord Italia, con centinaia di scioperi, molti dei quali vittoriosi, condotte dagli operai organizzati dal SI Cobas. Più recentemente hanno contagiato anche il settore alimentare, negli stabilimenti emiliani di macellazione delle carni. Devono essere estese al resto della classe operaia.
Questo può esser fatto non con ma contro Fim e Uilm. Se la Fiom avesse l’intenzione di intraprendere questa strada romperebbe l’unità con questi sindacati.
Spetta agli operai e ai delegati più combattivi costruire la vera unità che serve ai lavoratori, quella della lotta, unendosi a tal scopo al di sopra delle differenti sigle sindacali di appartenenza, primo passo per la rinascita del sindacato di classe, la quale si dimostrerà non poter avvenire che fuori e contro i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) e le loro manovre oscillanti fra unità e divisione con le quali da decenni tengono in scacco la classe operaia.
Va rigettata anche la pratica della maggior parte dei sindacati di base che boicottano gli scioperi proclamati da Cgil, Cisl e Uil, come ad esempio oggi hanno fatto CUB e USB. Bisogna invece partecipare agli scioperi a prescindere dall’organizzazione che li proclama – come in più occasioni fatto dal SI Cobas – per unire i lavoratori nella lotta e dare ad essa più forza possibile. Perché è quando si sentono forti che gli operai compiono passi in avanti sia nelle rivendicazioni sia nell’organizzazione necessaria per battersi e conseguirle.
Ciò che oggi avrebbe dovuto fare tutto il sindacalismo di base è aderire allo sciopero, proporre la sua estensione a tutta la giornata e fare agitazione fra i lavoratori per le corrette rivendicazioni classiste:
- forti aumenti salariali
- riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario
- abolizione dei subappalti
- mantenimento di occupazione e livelli retributivi nei cambi di appalto
- nessuna deroga peggiorativa al contratto nazionale nei contratti aziendali
- nessuna applicazione del Jobs Act.
I sindacati di base allo sciopero del 18 marzo e al Primo Maggio
Venerdì 18 marzo si è svolto lo sciopero generale indetto dalla CUB, dal SI Cobas e dall’USI-AIT, cui ha aderito anche il Sindacato Generale di Base, nato a febbraio da una scissione di USB in Emilia Romagna, Veneto e Lombardia.
Come quasi sempre avviene per gli scioperi generali proclamati dai sindacati di base anche questo ha mobilitato solo una minoranza della classe lavoratrice. Tuttavia lo sciopero aveva di positivo che chiamava a una mobilitazione generale in un periodo di generale stasi dell’iniziativa sindacale.
Nelle categorie in cui la CUB e il SI Cobas hanno influenza – rispettivamente nei trasporti e nella logistica – lo sciopero è andato piuttosto bene. Nei ferrovieri ha aderito anche il sindacato di base CAT e nella scuola una piccola organizzazione del personale ATA, il che ha avuto l’effetto di non permettere l’apertura di diversi istituti.
Le rivendicazioni dello sciopero erano quelle generali della classe operaia, non raggiungibili certo con quella mobilitazione, che aveva solo lo scopo, giustamente, di agitarle: il rigetto dei provvedimenti governativi anti-operai, con particolare riferimento al Jobs Act, la riduzione dell’orario di lavoro, forti aumenti salariali. A queste rivendicazioni era affiancata l’opposizione alla guerra imperialista, da apprezzare in quanto si tornava a parlare e a mobilitare su questo diretto attacco alla classe lavoratrice mondiale da parte del capitalismo in crisi.
La mobilitazione ha avuto anche di buono vedere tre organizzazioni sindacali di base agire unite. Purtroppo la dirigenza della CUB ha voluto inserire fra le rivendicazioni specifiche e immediate dello sciopero l’opposizione al Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, come a voler dividere nell’azione i lavoratori secondo l’appartenenza a sindacati di base aderenti e non aderenti a quell’accordo.
Il Coordinamento Iscritti USB per il Sindacato di Classe, cui i nostri compagni hanno continuato a collaborare nell’organizzazione e nell’indirizzo, ha pubblicato un comunicato per dichiarare il proprio sostegno allo sciopero e criticando la dirigenza USB per non avervi aderito, ma anche l’atteggiamento divisorio dei dirigenti degli altri sindacati di base. Allo sciopero hanno aderito anche i gruppi di iscritti USB legati al Coordinamento della Fondazione Saverio Maugeri di Tradate (Varese) e della Fca-Fiat di Termoli.
Un gruppo minoritario ma apprezzabile di tranvieri dell’ANM di Napoli ha anche aderito, grazie alla propaganda dello sciopero compiuta da alcune lavoratrici fuoriuscite a USB ma rimaste legate al Coordinamento.
Si sono tenute quattro manifestazioni: a Milano, Bologna, Firenze e Napoli. I nostri compagni hanno partecipato e diffuso un volantino a quelle di Milano e Bologna. Quella nel capoluogo lombardo è stata la maggiore, ben riuscita, con due cortei, uno del SI Cobas e l’altro di CUB, SGB e USI-AIT, confluiti per proseguire per un breve tratto uniti. Il corteo del SI Cobas, con circa mille partecipanti, era quello con la maggior presenza di operai, a conferma della vitalità di questo sindacato.
Il capo del governo, in serata ha attaccato lo sciopero, segno che la mobilitazione non è passata proprio senza lasciar segno.
* * *
Ma la incapacità delle dirigenze di questi sindacati di base nel perseguire l’unità d’azione, nonostante le loro dichiarazioni, si è presto manifestata. In vista del Primo Maggio le organizzazioni promotrici dello sciopero del 18 marzo hanno tentato di accordarsi per una nuova manifestazione unitaria a Milano. Questa volta però il tentativo è naufragato, col risultato che si sono avute tre piccole manifestazioni separate.
La maggiore è stata quella del SI Cobas, che ha organizzato un proprio corteo; però con minore partecipazione rispetto al 18 marzo, circa un terzo, nonché rispetto al notevole corteo per il Primo Maggio dell’anno passato, che a Milano aveva visto oltre un migliaio di lavoratori. L’SGB e l’USI-AIT hanno partecipato, con pochissimi numeri, alla ormai tradizionale quanto deteriore manifestazione di alcuni centri sociali della città, denominata May Day. La CUB non ha organizzato alcun corteo ma solo un piccolo presidio alla stazione centrale, su cui sono confluiti i due cortei, il che non è bastato a dar loro vigore.
* * *
Una categoria in cui, a dispetto dell’indirizzo delle rispettive Confederazioni, i sindacati di base perseguono l’unità dell’azione, è quella dei ferrovieri. Qui da oltre due anni CUB, CAT e USB si sono dati a organizzare scioperi unitari che, nonostante la debolezza di ciascuno dei tre sindacati, hanno trovato sempre una buona adesione.
Una battuta d’arresto a questa sana condotta si è avuta con l’adesione di USB al Testo Unico sulla Rappresentanza, avvenuta il 23 maggio dell’anno scorso. Lo sciopero del 12 settembre e quello del 24 ottobre sono stati disertati dall’USB, che però è tornata a scioperare insieme a CUB e CAT il 27 novembre.
Un secondo arresto si è avuto con la scissione di SGB da USB, che ha interessato direttamente i ferrovieri di USB, forti soprattutto a Bologna, epicentro della separazione. Ma, nonostante la gravità della separazione, i quattro sindacati – CUB, CAT, USB, SGB – hanno seguitato ad agire unitariamente, promuovendo la mobilitazione per il rinnovo del contratto nazionale, prima con un’assemblea nazionale svoltasi a Roma il 18 maggio, poi con lo sciopero il 24-25 maggio.
Quest’ultimo è stato un vero successo, con la adesione maggiore da quando questi sindacati di base hanno iniziato a proclamare unitariamente gli scioperi. Per la prima volta sono stati fermati alcune treni ad alta velocità (le “frecce”) e nell’azienda TreNord anche alcuni treni “garantiti”, che cioè avrebbero dovuto circolare secondo i limiti imposti dalla legge allo sciopero nei cosiddetti servizi pubblici essenziali.
Una eccellente prova della correttezza dell’indirizzo e della possibile realizzazione pratica dell’unità d’azione del sindacalismo di base e dei lavoratori tutti.
L’opposizione di facciata della Fiom spalleggia il corporativismo della Cgil
8
anni di tradimento degli interessi operai
Lo sciopero generale dei metalmeccanici del 20 aprile, proclamato da Fiom, Fim e Uilm e preparato da una serie di attivi unitari dei loro delegati in tutta Italia, ha suggellato la ritrovata unità sindacale fra le tre federazioni di questa importante categoria della classe operaia e con essa la chiusura di un ciclo durato oltre otto anni, apertosi all’indomani dell’ultimo precipitare della crisi economica mondiale del capitalismo, nel 2008. Qui ne ricapitoliamo le vicende per trarne le necessarie lezioni.
Prime manovre contro il contratto nazionale
Nel maggio 2008, con il varo di una Piattaforma Comune titolata “Linee di riforma della struttura della contrattazione”, Cgil, Cisl e Uil inaugurarono le grandi manovre contro il contratto nazionale, che già questi sindacati si erano dati ad indebolire negli anni precedenti.
La
Piattaforma infatti si proponeva di:
-
«migliorare gli spazi di manovra salariale e normativa della
contrattazione aziendale o territoriale»;
-
nella contrattazione aziendale legare gli aumenti salariali a
«parametri di produttività, qualità, redditività, efficienza,
efficacia»;
-
«superare il biennio economico e fissare la triennalità»;
-
rafforzare gli enti bilaterali «anche sui temi del welfare
contrattuale».
E,
sul piano dei rapporti fra organizzazioni sindacali:
-
la certificazione da parte dello Stato del numero degli iscritti alle
organizzazioni sindacali, analogamente a quanto già fatto nel
Pubblico Impiego;
-
il rafforzamento dell’unità fra Cgil, Cisl e Uil stabilendo che
nei rinnovi contrattuali le piattaforme sindacali sarebbero state
«proposte unitariamente».
Ma a gennaio 2009 questa unità d’intenti venne rotta: Cisl e Uil, insieme all’Ugl, firmarono con le associazioni padronali un “Accordo quadro per la riforma degli assetti contrattuali” che accolse i punti del documento del maggio 2008, escluse la certificazione della rappresentatività e, giocoforza, l’unità sindacale, e introdusse per il calcolo del “tasso di inflazione programmata”, stabilito con l’Accordo del luglio 1993 sulla “politica dei redditi”, un nuovo Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato (Ipca) per i paesi dell’Unione Europea, che non avrebbe tenuto conto conto dei prezzi dei beni energetici importati.
La
Cgil non firmò adducendo quali motivazioni che:
-
il nuovo indice Ipca non avrebbe difeso il potere d’acquisto dei
salari, il che era vero, ma lo era già col calcolo dell’inflazione
previsto dall’accordo del luglio 1993, che la Cgil allora promosse
e firmò;
-
l’accordo non favoriva lo sviluppo dei contratti aziendali.
Entrambe le motivazioni non riguardavano la difesa del contratto nazionale che quindi, si deduceva, non era affatto interesse della Cgil.
L’offensiva contro i metalmeccanici
Dopo questo accordo fra confederazioni l’iniziativa dell’attacco al contratto nazionale passò alle loro federazioni di categoria.
Il 20 gennaio 2008 Fim, Uilm e Fiom avevano firmato l’ultimo contratto nazionale unitario metalmeccanico, quello per il quadriennio 2008-2011.
A giugno 2009 Fim e Uilm comunicarono la disdetta della parte economica del contratto unitario e ad ottobre ne firmarono con Federmeccanica uno separato, di validità triennale sia per la parte economica sia per quella normativa (2010-2012).
L’assemblea nazionale dei delegati Fiom del 29 ottobre 2009 a Bologna decise allora la rottura del “Patto di solidarietà” con Fim e Uilm.
In base all’accordo sulle RSU del 23 luglio 1993 un terzo dei seggi RSU era riservato alle organizzazioni firmatarie dei contratti nazionali di categoria: un modo per meglio garantire a Fim, Fiom e Uilm il controllo di queste rappresentanze aziendali, privando “statuariamente” i sindacati di base, laddove presenti in azienda, di un terzo dei seggi. In forza del “Patto di solidarietà” i tre sindacati si spartivano ugualmente fra loro quei delegati, ad evidente svantaggio della Fiom, primo sindacato nella categoria, che però accettava questo sacrificio considerandosi da sempre alleata a Fim e Uilm e ostile al sindacalismo di base.
L’attacco della Fiat
Dopo le manovre confederali e quelle delle loro federazioni metalmeccaniche entrò in gioco la Fiat.
Sabato 16 maggio 2009 si svolse a Torino una manifestazione nazionale dei lavoratori del gruppo automobilistico indetta da Fim, Fiom, Uilm e Fismic che solo chiedevano, al solito, “chiarezza” sul piano industriale dell’azienda.
Alla manifestazione partecipò un consistente spezzone di operai iscritti allo Slai Cobas, molti dei quali erano parte di quei 316, in buona parte di questo sindacato, trasferiti dalla fabbrica di Pomigliano al reparto “confino” di Nola, a 20 chilometri di distanza, per isolarli e spezzare la forza che lo Slai aveva in quella fabbrica da anni (alle elezioni RSU del 1994 aveva ottenuto circa 1.500 voti, come la Fiom). Questo era avvenuto con un accordo sindacale firmato, oltre che da Fim e Uilm, anche dalla Fiom.
Durante il comizio finale, tenuto dal pianale di un camioncino, i lavoratori dello Slai contestarono i bonzi confederali e cercarono di far parlare il loro responsabile nazionale. Quando finalmente questo riuscì a salire sul camion, il segretario della Fiom Rinaldini, non si sa per quale ragione, ne cadde giù trascinando con sé il microfono. Nacque una parapiglia che inficiò l’efficacia dell’intervento del dirigente dello Slai Cobas, il quale, per altro, aveva cercato di evitare il goffo scivolone del segretario Fiom. I giornali invece fecero passare la caduta come provocata da una aggressione: “I Cobas contro la Fiom. Rinaldini buttato giù dal palco”, titolò la Repubblica. Tesi che i vertici Fiom avvallarono: «Un episodio deplorevole, costruito in modo organizzato; un’aggressione di alcuni teppisti dello Slai Cobas», commentò Giorgio Airaudo, allora segretario generale della Fiom torinese, dal 2010 nella segreteria nazionale e responsabile del settore auto.
Quella di Torino sarebbe stata l’ultima manifestazione di forza dello Slai Cobas.
Il 22 aprile 2010 la Fiat presentò – per la soddisfazione dei sindacati confederali – il piano industriale denominato “Fabbrica Italia”, il quale prevedeva la produzione di 1.400.000 auto nel 2014, con incremento dal 2011, in corrispondenza della ripresa produttiva allo stabilimento di Pomigliano, dopo il rinnovo degli impianti.
Rinaldini – come già aveva fatto nel 2008 – prese «atto positivamente del piano industriale», secondo la tesi fondante del sindacalismo collaborazionista per la quale il sindacato non deve “limitarsi” a difendere il salario, le condizioni di lavoro e l’unità degli operai, ma anche esigere e consigliare gli investimenti all’azienda.
Pochi giorni dopo la Fiat dettava le condizioni cui subordinare gli investimenti a Pomigliano, volti ad aumentare sensibilmente lo sfruttamento degli operai. A tal scopo diveniva inservibile la finzione della democrazia in fabbrica, cioè la cosiddetta concertazione, che contestualmente l’azienda pretendeva drasticamente di ridimensionare, facendola divenire aperta collaborazione.
L’amministratore delegato Marchionne – nominato nel 2006 Cavaliere del Lavoro dall’allora presidente della Repubblica Napolitano – espresse efficacemente la sua intenzione di imporre, sul piano delle condizioni di lavoro e su quello delle relazioni fra azienda e sindacati, una svolta storica: «Io vivo nell’epoca del dopo Cristo, tutto ciò che è avvenuto prima di Cristo non lo so e non mi interessa», disse.
Quanto ai livelli produttivi, dopo le 661 mila auto prodotte nel 2009 e le 573 mila nel 2010, si passò a 485 mila nel 2011, 396 mila nel 2012, 388 mila nel 2013 (grosso modo il livello del 1958!), 401 mila nel 2014 e 663 mila nel 2015.
Il 15 giugno, Fim, Uilm, Fismic e Uglm accettavano le condizioni poste dalla Fiat e firmavano l’accordo per Pomigliano che stabiliva: aumento a 18 turni settimanali; aumento dello straordinario obbligatorio da 40 a 120 ore; riduzione delle pause da 40 a 30 minuti; possibilità di spostare la pausa di mezzora per la mensa a fine turno; discrezionalità dell’azienda di non pagare i primi tre giorni di malattia; esigibilità degli accordi, cioè, in caso di mancata adesione all’accordo o della sua violazione, blocco delle prerogative sindacali: versamento delle quote sindacali col metodo della delega, permessi sindacali, possibilità di convocare assemblee retribuite sul posto di lavoro, disponibilità di una bacheca sindacale.
Il XVI congresso della Cgil
Dal 5 all’8 maggio 2010 si era tenuta a Rimini l’assise nazionale confederale a conclusione del XVI Congresso della Cgil, con ospiti invitati, in perfetto stile corporativo, il ministro del welfare Maurizio Sacconi, il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia e la ex segretaria dell’Ugl Renata Polverini.
Al Congresso fu approvata una modifica allo Statuto che consentiva al Direttivo confederale di decidere su eventuali accordi interconfederali senza consultare preliminarmente le federazioni di categoria. Strumento che sarebbe stato utilizzato un anno dopo con l’Accordo interconfederale sulla Rappresentanza del 28 giugno 2011.
La mozione congressuale di maggioranza – con primo firmatario il segretario generale Guglielmo Epifani – ottenne l’82% di preferenze.
La corrente di sinistra “Lavoro e Società” appoggiò la mozione di maggioranza, così come già aveva fatto al XV congresso, nel 2006, col cosiddetto “Patto dei 12 segretari” che, in cambio del sostegno alla maggioranza, le dava in garanzia il mantenimento nelle segreterie e nei direttivi della stessa percentuale conquistata nel precedente congresso.
La mozione di minoranza, denominata “La Cgil che vogliamo”, aveva quali primi firmatari il segretario generale della Fiom Rinaldini, l’ex segretario generale della Funzione Pubblica Carlo Podda e il segretario generale della Fisac, la federazione dei bancari, Mimmo Moccia. Ottenne il 17% dei voti, un risultato che deluse per le aspettative di uno schieramento eterogeneo costituito solo allo scopo di far numero.
Infine il Congresso confermò la carica a segretario generale a Epifani, fino alla scadenza del mandato, a fine settembre 2010, quando gli sarebbe succeduta Susanna Camusso, entrambi compagni dei ministri Sacconi e Brunetta nel Partito Socialista di Craxi all’epoca del primo attacco alla scala mobile, con il decreto di S. Valentino nel 1984.
La Fiom difende la concertazione
La Fiom, che il 1° giugno 2010 aveva eletto a nuovo segretario Landini, alla Fiat rifiutò di sottoscrivere l’accordo di Pomigliano, e per questo fu presentata da stampa e televisione come il solo baluardo a questo storico attacco contro la classe operaia, enfatizzando la sua contrapposizione con la Cgil. Questa invece aveva assecondato il piano Fiat, con la sua struttura provinciale napoletana che indicò di votare a favore al referendum aziendale e con Epifani che infine affermò: «Ad occhio e croce i lavoratori voteranno sì e sarà un sì all’occupazione, al lavoro, agli investimenti».
Ma l’opposizione della Fiom fu solo verbale – e “legale” – senza il dispiegamento di alcun vero movimento di sciopero, né prima del referendum di Pomigliano, che il 22 giugno avallò l’accordo, né nei mesi successivi, per impedirne l’estensione agli altri stabilimenti.
Nemmeno lo Slai Cobas fu in grado di promuovere una mobilitazione generale degli operai del gruppo e dei metalmeccanici, l’unica che avrebbe potuto fermare l’offensiva padronale. Lo Slai era forte a Pomigliano, dove però parte degli operai da mesi lavoravano pochi giorni al mese e gli altri erano in cassa integrazione, ma debole, come il resto del sindacalismo di base, nelle altre fabbriche.
La posizione della Fiom fu subito chiara: «La Fiat riapra la trattativa – disse Landini – siamo disposti a una turnistica massacrante e a una redistribuzione delle pause che aumenti la produzione. Ma sia tolto dal tavolo ciò che mette in discussione i diritti civili dei lavoratori, come l’eliminazione del diritto di sciopero e la malattia» (“La Repubblica”, 2 luglio).
In discussione, però, non era il diritto di sciopero bensì le prerogative sindacali per quelle organizzazioni sindacali che avessero combattuto gli accordi, scioperando. Una differenza importante: ciò che la Fiom difendeva era il suo posto al tavolo delle trattative e il godimento delle prerogative al pari degli altri sindacati apertamente collaborazionisti; per mantenerli si diceva pronta a cedere sulle condizioni di lavoro degli operai e, molto presto, si sarebbe dimostrata disponibile anche ad accettare la limitazione della libertà di sciopero.
D’altronde non era affatto una novità. Per quanto riguarda il passaggio ai 18 turni giova ricordare che furono applicati per la prima volta a Melfi nel 1993, poi a Termoli nel 1994 e nel 2008 alle Meccaniche di Mirafiori, e sempre col consenso della Fiom. A Melfi si passò dai 18 turni con doppia battuta ai 15 turni nel 2004 solo grazie allo sciopero ad oltranza di 21 giorni degli operai, cui la Fiom non fece che accodarsi.
Finta mobilitazione
Dentro la Cgil, intanto, il 6 luglio lo schieramento che aveva sostenuto la mozione di minoranza al XVI Congresso si costituì in area interna “La Cgil che vogliamo”, contando su 27 membri del direttivo nazionale confederale Cgil, sulla maggioranza Fiom – col segretario Landini e il suo predecessore Rinaldini quale coordinatore nazionale – e sulla Rete 28 Aprile di Cremaschi e Bellavita.
Dentro la Fiom il Comitato Centrale del 20 luglio elesse la nuova segreteria nazionale che vide confermata Laura Spezia, uscire Rinaldini e Cremaschi e subentrare Airaudo e Bellavita. Cremaschi fu confermato presidente del Comitato Centrale.
Sul piano della lotta, solo ben quattro mesi dopo il referendum di Pomigliano, la Fiom organizzò – il 16 ottobre 2010, sabato – una manifestazione nazionale dei metalmeccanici a Roma che, grazie alla grande partecipazione di decine di migliaia di lavoratori, accreditò il suo preteso ruolo di sindacato “duro”.
Ma una manifestazione non è uno sciopero, non colpisce la sola cosa che sta a cuore al padronato: il profitto. Fecero finta di ignorarlo tutti nella sinistra Cgil – e in molti anche a sinistra della Cgil, nel sindacalismo di base – contribuendo così ad accreditare e puntellare la falsa azione difensiva di questo sindacato.
Dal palco fece il suo ultimo comizio da segretario generale Guglielmo Epifani, simbolicamente affiancato da Cremaschi e Landini – e più defilato Bellavita – i quali fecero mostra di applaudire vistosamente i passaggi cruciali del suo discorso e di calmare con ampi gesti i “contestatori”. Il significato era chiaro: anche se la Cgil pugnalava i metalmeccanici – alleandosi a Cisl e Uil al servizio della Fiat e di tutti gli industriali – la sua unità non poteva essere messa in pericolo con una lotta veramente a fondo contro la sua direzione antioperaia.
A novembre la Camusso succedette a Epifani, che avrebbe proseguito la sua carriera al servizio della classe dominante in parlamento, in particolare votando a favore del Jobs Act.
L’autunno passò senza che alcuno sciopero fosse organizzato dalla Fiom. Il 23 dicembre 2010 Fim, Uilm, Fismic e Uglm firmarono l’estensione dell’accordo di Pomigliano a Mirafiori, stabilendo di sottoporlo anche qui alla validazione di un referendum, il 14 gennaio. La Fiom questa volta organizzò uno sciopero ma... due settimane dopo, il 28 gennaio!
In
Fiat la partita era chiusa, con piena vittoria padronale. Lo
sancirono nei mesi successivi due importanti vertenze:
-
a maggio, allo stabilimento ex Bertone di Grugliasco (Torino), i
delegati RSU Fiom, pur in maggioranza assoluta con otto seggi sui
dieci, accettarono l’estensione dell’accordo di Pomigliano;
-
a settembre, alla Lear di Caivano (Napoli), azienda dell’indotto,
la RSU Fiom non solo firmò un analogo accordo ma, dopo che in questa
occasione fu respinto al referendum, grazie all’azione dello Slai
Cobas presente in fabbrica, giunse a riproporlo sostanzialmente
identico per farlo approvare con una seconda votazione.
Il “doppio referendum” per spezzare la lotta operaia non è una novità nella storia della Fiom e più volte abbiamo ricordato la storica vicenda di Termoli nel 1994, quando l’accordo per il passaggio ai 18 turni, firmato da Fim, Uil e per la Fiom dall’allora responsabile del settore auto Susanna Camusso, fu respinto dai lavoratori nel referendum con il 64% di voti contrari. Nelle assemblee i delegati Fiom, insieme a quelli Fim e Uilm, terrorizzarono i lavoratori avvalorando la minaccia aziendale dello spostamento della produzione del nuovo motore “Fire” a sedici valvole da Termoli a Mirafiori. Per spezzare l’opposizione operaia scesero in fabbrica i segretari generali dei tre sindacati. Queste le belle parole dell’allora segretario generale Fiom Claudio Sabattini: «Se deciderete per il no [come se col referendum gli operai non avessero già deciso!] noi rispetteremo la vostra decisione. Però non si dica che non vi abbiamo avvisato che così veniva distrutta una realtà industriale al Sud» (“La Repubblica”, 15 dicembre 1994).
Almeno oggi Marchionne non ha l’ipocrisia di affermare che in caso di voto contrario rispetterebbe l’opinione espressa dai lavoratori! Fu nel fuoco di quella lotta, l’ennesima spezzata dalla Fiom, che nacque con forza anche a Termoli lo Slai Cobas, con un numero di iscritti uguale a quello della Fiom.
Manovre di rientro
Inferta la sconfitta agli operai in Fiat, padronato e sindacati di regime tornarono a manovrare sul terreno confederale.
Il 28 giugno 2011 Cgil, Cisl e Uil ritrovarono l’unità perduta nel gennaio 2009 siglando con Confindustria un primo Accordo sulla Rappresentanza, che avrebbe portato, tre anni dopo, al Testo Unico del 10 gennaio 2014.
La Cgil ottenne la misurazione statale della rappresentanza, risultante dalla media fra iscritti e voti alle elezioni per le RSU, e posta a base del riconoscimento della rappresentatività, che era stata esclusa dall’accordo separato del gennaio 2009.
In
cambio accettò:
1)
che si andasse oltre a quanto stabilito dall’accordo del gennaio
2009 nell’attacco al contratto nazionale, ampliando lo spettro di
materie su cui i contratti aziendali potevano derogare ad esso (tutte
tranne i minimi salariali). Se, all’indomani dell’accordo del
gennaio 2009, Maurizio Sacconi – allora Ministro del Lavoro del
governo Berlusconi – affermò che esso comportava «lo spostamento
del cuore della contrattazione dal livello nazionale alla dimensione
aziendale e territoriale», si può capire bene come l’accordo
sulla rappresentanza del 28 giugno 2011, e le sue versioni
successive, inferissero un colpo decisivo al contratto nazionale;
2)
che fosse introdotta l’esigibilità degli accordi;
3)
che non si facesse menzione dell’indice Ipca, l’unica fra le
motivazioni per cui la Cgil aveva rifiutato la firma dell’accordo
di gennaio 2009 che interessasse i lavoratori, in quanto con esso «il
livello nazionale del salario non avrebbe recuperato mai l’inflazione
reale», e che ora, sotto silenzio, accettava.
Ciò a conferma del fatto che la ragione per cui la Cgil non aveva firmato l’accordo quadro del 2009 non era la difesa del contratto nazionale e del salario, ma la possibilità di stare ai tavoli di trattativa con Cisl e Uil, garantita dall’introduzione della misurazione certificata dallo Stato della rappresentanza.
L’accordo del 28 giugno sulla rappresentanza fu anche un primo tentativo di ricucire le relazioni dentro il sindacalismo di regime – fra la Fiom e gli altri sindacati – e fra questo e il principale gruppo industriale in Italia, la Fiat.
Da un lato le deroghe al contratto nazionale e l’esigibilità furono una mano tesa alla Fiat che per applicare gli accordi di Pomigliano e Mirafiori, i quali andavano in deroga al contratto nazionale e introducevano l’esigibilità, aveva costituito due nuove società – le New. Co. – che non avevano aderito a Confindustria e minacciava di farne uscire l’intero gruppo.
Dall’altro, con l’introduzione della misurazione della rappresentanza si offriva alla Fiom la possibilità di tornare ai tavoli di trattativa con Federmeccanica e con Fiat, in quanto primo sindacato nella categoria. Infatti, dopo una iniziale opposizione di facciata, la Fiom accettò l’accordo e poi passò a difenderlo.
La Fiom getta la maschera ma la sua sinistra difende “l’unità del sindacato”
Il Comitato Direttivo Cgil del 5 luglio 2011 stabilì una consultazione degli iscritti delle varie federazioni di categoria in merito all’accordo interconfederale del 28 giugno. Il 21 settembre 2011 la Cgil – senza nemmeno attendere l’esito della consultazione referendaria degli iscritti della Fiom – lo ratificò.
Il giorno dopo la Fiom riunì a Cervia l’Assemblea Nazionale dei delegati. La ratifica dell’accordo venne accettata e bocciata la proposta della sinistra di rifiutarsi di applicarlo, che si appoggiava sul mancato rispetto formale della consultazione democratica. Quella degli iscritti Fiom fu completata il 25 ottobre, vide la vittoria dei contrari all’accordo con il 77% dei voti ma non ebbe quindi alcun effetto pratico.
All’assemblea di Cervia del 22 settembre 2011 fu affrontata un’altra questione cruciale: la definizione della nuova piattaforma contrattuale, in vista della scadenza a fine anno del contratto unitario del 2008. Nonostante la disdetta da parte di Fim e Uilm nel giugno 2009 del contratto nazionale, la firma a ottobre 2009 del contratto separato con Federmeccanica e gli accordi separati di Pomigliano e Mirafiori, la chiave di volta della piattaforma fu ancora una volta la ricerca dell’unità con questi sindacati ancora più apertamente antioperai. Ciò non poteva avvenire che offrendo nella piattaforma un parziale cedimento alle loro posizioni. La strada della lotta contro Federmeccanica separatamente dagli altri sindacati, minoritari, venne liquidata da Landini come «follia: noi non firmeremo mai un contratto senza Fim e Uilm».
Dal canto suo, la corrente più a sinistra nella Cgil, formalmente ancora sciolta all’interno della generale ed eterogenea area “La Cgil che vogliamo”, nonostante la mancata organizzazione di un reale movimento di sciopero nei sei mesi intercorsi dall’accordo di Pomigliano a quello di Mirafiori, nonostante l’accettazione dell’Accordo sulla Rappresentanza del 28 giugno, che dava un colpo decisivo al contratto nazionale e introduceva l’esigibilità degli accordi, in nome della unità della Fiom votò a favore della piattaforma che fu approvata con 506 voti favorevoli, 1 voto contrario, 7 astenuti.
In nome dell’unità sindacale, cosa diversa e spesso opposta all’unità d’azione di lotta dei lavoratori, la sinistra Fiom restava unita alla sua maggioranza, la Fiom alla maggioranza Cgil, questa a Fim e Uilm.
La Fiat – nonostante l’accordo del 28 giugno che apriva alle deroghe al contratto nazionale e introduceva l’esigibilità – tirò dritto per la sua strada e uscì da Confindustria, e il 13 dicembre estese gli accordi di Pomigliano e Mirafiori a tutte le fabbriche italiane del gruppo con un Contratto collettivo specifico di primo livello (Ccs1L), senza la Fiom, valido dal 1° gennaio al 31 dicembre 2012.
Ugualmente dritto tirarono Fim e Uilm che, ignorando l’offerta della Fiom con la piattaforma approvata a settembre a Cervia, il 22 dicembre firmarono con Federmeccanica un protocollo d’intesa sulla disciplina specifica per il comparto auto, cioè per le fabbriche dell’indotto.
Lo stesso giorno il parlamento approvò la peggior controriforma delle pensioni nella storia d’Italia, e secondo alcuni d’Europa, quella del governo Monti. La Fiom fece finta di contrapporvisi con 8 ore di sciopero. Quanto bastò a distinguersi dalla Cgil che ne proclamò, per le restanti categorie del settore privato, solo tre!
Il Comitato centrale Fiom del gennaio 2012, in riferimento all’estensione a tutte le fabbriche italiane del gruppo Fiat dell’accordo di Pomigliano, con il Ccs1L, recitò: «Tale intesa, firmata anche da Fim-Cisl e Uilm-Uil, si pone al di fuori e in contrasto con l’accordo unitario del 28 giugno 2011». In sei mesi la Fiom quindi era passata dal rigetto di quell’Accordo, al rifiuto di non applicarlo – proposto dalla sua sinistra – una volta ratificato dalla Cgil, alla sua difesa ed utilizzo quale preteso strumento di difesa dei lavoratori.
La “riforma del lavoro” che si cerca di imporre ai lavoratori francesi, del tutto simile alle analoghe in Italia e in altri paesi, dimostra che, di fronte a questo attacco generale, è una evidente urgenza l’unità nella lotta dei lavoratori delle diverse categorie, almeno a livello nazionale.
Purtroppo si conferma invece che in Italia per i dirigenti dei vari sindacati di base questa necessità rimane solo un mito lontano, da scrivere negli statuti e agitare nei comizi e nelle assemblee, per poi smentire nella pratica di ogni giorno ed in ogni occasione.
Sicuramente esistono molti ostacoli oggettivi nella difficile pratica di un sindacato di classe per organizzare anche una sola categoria, nel crescere dello scontro dalla dimensione aziendale a quella territoriale e nazionale. Difficoltà che aumentano quando si tratta del convergere nella lotta e nell’organizzazione di diverse categorie e settori del mondo del lavoro: si pensi solo alla diffidenza che esiste tra i lavoratori del settore pubblico e quelli del privato.
Sono questi retaggi e pregiudizi, in parte con una base reale, che hanno determinato il nascere separato, la contrapposizione e concorrenza fra le diverse sigle del sindacalismo di base: ognuno si difende come può, e, quasi sempre, come non può.
Le dirigenze dei vari sindacati di base si sono formate, in questi lunghi decenni di crisi del sindacalismo concertativo, in una attività prigioniera, anche per forza di cose, in un sindacalismo minimo, che sovente, accanto all’organizzazione delle lotte, ha visto crescere un’attività solo di testimonianza, di pratiche legali e di patronato. Questa inerzia di abitudini e di concezioni, proprie più di una setta che di un sindacato, le sta ancora permeando nonostante le condizioni esterne, e la stessa volontà dei lavoratori più combattivi, spingano per superarle. Solo per questo l’indirizzo delle diverse sigle sindacali, benché critico verso il sindacalismo concertativo, rifiuta, si direbbe inspiegabilmente, di accettare la indizione di lotte unitarie, il che non trova alcuna giustificazione nel rapporto delle forze, nelle richieste dei lavoratori, nelle necessità delle lotte.
Il progredire della crisi economica mondiale del capitalismo piano piano avvicina le condizioni materiali di vita di tutti i lavoratori, che si renderanno sempre più coscienti della necessità di una loro risposta coordinata all’attacco coordinato del padronato e degli Stati. Sarà presto la base degli iscritti a premere per la costituzione di un fronte sindacale unitario.
La crescita numerica e l’estensione intercategoriale del sindacato di classe che dovrà risorgere porranno sicuramente dei difficili problemi, una serie di questioni che occorrerà affrontare al suo interno. E non è detto che la soluzione sia univoca ed immediata e da tutti sempre condivisa. Sono aperte al movimento le questioni della cosiddetta “democrazia interna”, della giusta proporzione fra centralismo e federalismo organizzativo, dell’utilizzo e della ripartizione delle risorse finanziarie, della gestione dei distacchi e dei permessi, delle modalità di riscossione delle quote, e molte altre gravi e pressanti questioni si porranno al momento della indizione e della conduzione degli scioperi.
La risposta a tutti questi problemi si potrà trovare nel movimento solo sulla base dell’esperienza, con la verifica nella pratica delle diverse soluzioni che sono anticipate e proposte dai vari partiti che hanno seguito nella classe operaia e che su questi pressanti temi nel sindacato si confrontano ed anche si scontrano.
Il compito dei dirigenti, non di una setta ma di un sindacato, che verrà ad accogliere lavoratori delle più diverse condizioni materiali, esperienze e tradizioni e con convinzioni politiche e religiose le più disparate, è quindi porre al primo posto il mantenimento della integrità organizzativa del sindacato. Se un partito scindendosi, tranne casi degenerativi, si rafforza perché la sua efficacia dipende dalla chiarezza e coerenza del suo programma, per un sindacato il primo fattore di forza è il numero.
In nome della salute del movimento si impone, superate scorciatoie, illusioni e personalismi, il riconoscimento della necessità della coabitazione all’interno del sindacato di diversi orientamenti ideali e politici. Occorre accettare la presenza di un dibattito interno a tutti i livelli, e che le diverse espressioni di contestazione della linea del sindacato si possano esprimere. In regolari assemblee periferiche e nazionali si deve poter svolgere un confronto aperto tra le diverse tendenze che esistono, e devono coesistere, nel sindacato. I conflitti sono inerenti ad ogni organismo sindacale, ma bisogna saperli mantenere entro dei confini tali da non compromettere l’unità e la funzione del sindacato. Non si risolvono i problemi con i personalismi, gli anatemi e le accuse reciproche.
Per contro, a questa piena legittimità del confronto ideale fra proletari, sia i delegati a tutti i livelli sia i singoli iscritti debbono far corrispondere una rigorosa disciplina delle direttive esecutive del sindacato. I casi di “indisciplina”, in tale ambiente di sano scontro fra le opinioni di compagni di sfruttamento e di battaglia, si ridurrebbero a casi eccezionali.
Non ci sono scorciatoie in questo percorso.
Per altro, quel che chiedono i lavoratori ai sindacati cui hanno aderito spesso non corrisponde affatto alle intenzioni e alle illusioni politiche dei loro dirigenti, che, a forza di volontà, manovre e proclami, cercano talvolta di trasformare l’organizzazione sindacale in qualcosa di diverso, un ibrido partito-sindacato, venendo a tradire quella reale e pressante domanda di difesa di classe.
I sindacati devono tendere a raggruppare tutti i lavoratori sulla base della difesa dei loro interessi immediati, qualunque siano le loro convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Quindi l’organizzazione sindacale non può essere confusa con un partito politico, o un qualcosa di intermedio, come sognano alcune correnti. Un simile organismo richiederebbe l’adesione a un programma politico, sociale e filosofico, il che in un organismo di difesa degli interessi materiali immediati escluderebbe la grande maggioranza dei lavoratori. Il sindacato raggruppa tanto i lavoratori che hanno una propria visione generale del mondo quanto quelli che non ne hanno alcuna di preciso e che, per il momento, ne costituiscono l’immensa maggioranza.
Alla base della formazione di un sindacato c’è un forte sentimento di unità, di solidarietà, di disinteresse personale, di fraternità proletaria. È solo su questa materiale base di classe che dallo scontro fra diversi indirizzi emergerà la giusta linea di condotta per l’organizzazione sindacale. Che si materializzerà in regole statutarie e regolamenti ai quali tutti, base e vertice sono tenuti a prestare disciplina.
Solo con queste premesse e comportamenti potremo costruire un organismo capace di contenere la enorme potenzialità della lotta della nostra classe ed accogliere, nel maturare del movimento, l’indirizzo di quel partito che meglio dimostrerà di poter accompagnare l’emancipazione della classe operaia fuori da questa infame società borghese.
Per motivi di spazio dobbiamo rimandare al prossimo numero la prevista pubblicazione di “Il fronte unico rivoluzionario ?” da Il Soviet numero 25 del 15 giugno 1919
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Quarant’anni di crisi mondiale del Capitale
Scrivevamo nel Dialogato coi morti, anno 1956, «Il decennio post bellico di avanzata della produzione capitalistica mondiale continui ancora alcuni anni. Poi la crisi di interguerra, analoga a quella che scoppiò in America nel 1929. Macello sociale delle classi medie e dei lavoratori imborghesiti. Ripresa di un movimento della classe operaia mondiale, reietto ogni alleato. Nuovissima vittoria teorica delle sue vecchie tesi. Partito comunista unico per tutti gli Stati del mondo. Verso il termine del ventennio, l’alternativa del difficile secolo: terza guerra dei mostri imperiali – o rivoluzione internazionale comunista».
Questo auspicio – più che profezia – del nostro Partito di allora, dopo altri lunghi sessanta anni non è ancora sciolto. Però una cosa è certa: l’inizio degli anni Settanta ha segnato una delle cesure decisive del XX secolo, con la fine della crescita economica post seconda guerra mondiale e l’inizio di una fase caratterizzata da inflazione, disoccupazione e grandi cambiamenti nelle relazioni economiche e politiche internazionali a colpi di guerre e sconvolgimenti ricorrenti. Comunemente si colloca la presa di coscienza della crisi all’autunno 1973, quando quadruplicò il prezzo del petrolio; per la verità gli elementi che prefiguravano la crisi dell’economia capitalistica erano già presenti nel periodo d’oro della ricostruzione, quello dei cosiddetti “Trenta Gloriosi” (1945-1975): prima di palesarsi come crisi delle materie prime, la crisi si era manifestata nella sua forma monetaria con la fine della convertibilità del dollaro in oro.
L’andamento economico degli anni Cinquanta e Sessanta aveva progressivamente scalzato le basi su cui si reggeva il sistema di Bretton Woods. Il primo segnale si ebbe nel 1959 quando si verificò un disavanzo nelle partite correnti statunitensi, facendo suonare un campanello d’allarme sulla fino ad allora indiscussa tenuta dell’egemonia economica degli Stati uniti, ormai minacciata dalle economie, già disastrate dalla guerra, europee e giapponese, che crescevano a ritmi superiori.
L’architettura finanziaria messa in piedi nel 1944, propedeutica alla creazione di organismi internazionali quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, dichiarava l’obiettivo di assicurare la stabilità nella politica monetaria internazionale necessaria per sostenere la ripresa post-bellica. In realtà la Conferenza serviva soprattutto a ratificare la volontà degli Stati Uniti e della Gran Bretagna di mantenersi i vantaggi del vecchio gold standard, per garantire la stabilità dei tassi di cambio e l’aggiustamento tra i paesi in surplus e quelli in deficit nella bilancia dei pagamenti. Per evitare le svalutazioni competitive, si lasciava ai paesi in deficit una certa flessibilità nel ricorrere a prestiti a breve termine presso il Fondo e si concedeva ai governi la possibilità di intervenire sulle politiche di lungo periodo e sui livelli di occupazione e di inflazione.
Allo stesso tempo però si cercava di impedire politiche di tipo protezionistico e controlli troppo restrittivi sui flussi di capitali che impedissero la ripresa del commercio internazionale, esigenza sostenuta in modo particolare dalle banche commerciali americane. Gli accordi prevedevano che il valore del dollaro e della sterlina fossero ancorati all’oro, mentre le altre monete avrebbero rapportato il loro valore a quello dell’oro o del dollaro, con una oscillazione massima dell’1%. Ma se in teoria tutte le valute nazionali stavano su di un piano paritario, nella realtà il dollaro assunse un peso predominante, poiché il ruolo dell’oro come numerario era fittizio dal momento che tutti i paesi scelsero di determinare le proprie parità in dollari. Alla resa dei conti, la stabilità del sistema dipendeva dalla buona volontà degli Stati Uniti di mantenere una base nominale stabile, assumendo il ruolo di creditore internazionale e tenendo sotto controllo il proprio deficit fiscale.
Ma già dal 1958 la bilancia dei pagamenti Usa cominciò a virare verso il rosso a causa del deflusso esterno di capitali, non sufficientemente compensato dalle esportazioni. Per mantenere la preminenza politica e militare a livello mondiale, e nello stesso tempo per impedire che tassi di interesse crescenti rallentassero l’economia, il governo Usa scelse la strada di una politica monetaria espansiva, iniziando a stampare dollari il cui valore era garantito dalle riserve di oro detenute a Fort Knox (sulla decisione pesò non poco la necessità di finanziare i costi della guerra nel Vietnam). Ma la liquidità immessa nel sistema ebbe l’effetto di esportare l’inflazione verso i paesi in attivo, come erano quelli esportatori di petrolio. Non solo, l’impossibilità di svalutare il dollaro produsse una ulteriore perdita di competitività internazionale dei prodotti americani, il che ebbe immediate ripercussioni negative sulle partite correnti. Nello svolto degli anni 1965-66, i profitti delle imprese americane cominciarono a scendere, e con essi gli investimenti netti e gli indicatori della produttività.
I primi venti di crisi spingeranno gli Stati Uniti a ripensare la politica mondiale e mettere in cantiere il progetto di un nuovo ordine economico che farà perno letteralmente sulla “deregolamentazione”, la messa in discussione delle vecchie regole, il cui frutto maturo sarà il cosiddetto “neoliberismo” degli anni Ottanta. Gli Usa affosseranno le regole del vecchio ordine per salvare il sistema monetario internazionale da una crisi ancora maggiore. Di fatto, proprio la progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari insieme al superamento del gold standard, ossia del definitivo sganciamento del denaro dall’oro e la fine del sistema regolato dei tassi di cambio, hanno contribuito a procrastinare a lungo lo scoppio della crisi. Ma nello stesso tempo sono state gettate le basi per una enorme bolla di offerta di moneta a cui hanno partecipato attivamente governi, banche centrali e organismi finanziari internazionali.
Il primo sovvertimento importante delle regole va fatto risalire al 1961, quando fu creata una riserva comune di oro – pool dell’oro – che in parte liberava gli Usa della responsabilità del mantenimento del prezzo dell’oro al livello di 35 dollari l’oncia. La fiducia nei confronti del dollaro cominciò a scricchiolare: massicce operazioni di acquisto di oro sul mercato di Londra condussero, nel 1968, alla rinuncia unilaterale degli Usa all’obbligo di vendere oro ai compratori privati al prezzo prefissato. La visita del presidente americano Nixon in Europa all’inizio del 1969 era tesa alla ricerca di un compromesso con la Francia e con gli altri paesi europei perché si astenessero dal convertire in oro i dollari detenuti come riserva dalle autorità monetarie nazionali. Ma i paesi europei si trovavano su posizioni contrastanti: se da un lato la Francia deteneva grosse quantità di oro, Germania ed Italia, al contrario, avevano gran parte delle proprie riserve in dollari. In caso di aumento del prezzo dell’oro la prima si sarebbe trovata in una condizione di vantaggio, le seconde di perdita.
Nonostante i tentativi di arrivare ad un compromesso, già alla fine di marzo il governo americano ventilò l’ipotesi di agire unilateralmente a salvaguardia dei propri interessi nazionali. La combinazione di inflazione interna, deterioramento delle partite correnti e speculazione, creò una situazione alla lunga insostenibile per gli Stati Uniti: nell’agosto del 1971 arrivò la decisione unilaterale da parte di Nixon di bloccare la fornitura di oro anche ai compratori ufficiali, decretando così l’inconvertibilità del dollaro in oro, e di procedere ad una consistente svalutazione della moneta americana allo scopo di recuperare la competitività del sistema industriale nei confronti soprattutto di Germania e Giappone, che si erano sempre rifiutate di rivalutare le proprie monete.
L’oro fu inizialmente rivalutato a 38 dollari l’oncia, quindi a 42 ed infine lasciato libero di fluttuare fino a raggiungere, alla metà del 1973, il tetto di 90,5 dollari. Da quel momento il dollaro valeva di per sé, come puro spirito incorporeo, scisso da ogni riferimento a beni concreti e garantito solo dalla forza politica e militare del governo americano. Non potendo più gli Stati Uniti garantire la convertibilità del dollaro, l’aggancio delle valute occidentali alle riserve auree americane non era più praticabile: di fatto, con quei provvedimenti, si decretò la fine del sistema dei cambi fissi e si passò ad un sistema senza moneta di riferimento.
La spregiudicata operazione di Nixon fu resa possibile anche dalla mancanza di reali alternative al dollaro quale mezzo di pagamento internazionale e moneta di riserva. Non c’era pericolo di una diversificazione delle riserve internazionali in altre valute, anzi le crisi petrolifere del 1973 e 1979, che furono molto più pesanti per le economie europee e giapponese che per quella americana, consolideranno ulteriormente il ruolo del dollaro: cominciava l’era del dollar standard.
In punta di teoria, al ristagno relativo dell’economia americana non era estranea la natura specifica dei rapporti capitalistici, che si oppongono alla realizzazione completa delle potenzialità che lo sviluppo della tecnica e della scienza mette a disposizione delle forze produttive. Secondo Marx, lo sviluppo delle forze produttive sociali è anche il motore dello sviluppo storico, perché attraverso l’acquisizione di nuove forze produttive gli uomini cambiano il modo di produrre e di procacciarsi da vivere e con esso tutto il complesso dei rapporti sociali. Come sistema economico il capitalismo ha la missione storica di portare le forze produttive della società ad un grado di sviluppo sconosciuto ai precedenti modi di produzione. Esaminando il capitalismo da un punto di vista storico e non in termini congiunturali, come invece preferiscono fare gli interessati economisti borghesi, risulta evidente che come sistema storicamente progressivo esso ha raggiunto l’apice del suo sviluppo già da un pezzo. Nel capitalismo, alla base dello sviluppo delle forze produttive è la corsa al profitto: per questo, non appena tale sviluppo entra in conflitto con la necessità assoluta del profitto, il capitale diventa un ostacolo all’ulteriore progresso delle forze produttive. Come è scritto nel Libro I del Capitale «il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso; la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico».
L’orientamento espansivo della politica monetaria della Federal Reserve attuata all’inizio degli anni Settanta ebbe diverse conseguenze: in primo luogo, il deprezzamento del dollaro determinò un sostanziale miglioramento della competitività internazionale dei prodotti statunitensi e quindi un arresto del peggioramento delle partite correnti; in secondo luogo, la spirale inflazionistica impedì il consolidamento della nuova distribuzione del reddito all’interno delle economie capitalistiche, dove il ciclo di lotte operaie aveva spinto i salari verso l’alto, mentre a livello internazionale l’aumento dei prezzi delle materie prime rischiava di drenare ricchezza verso i paesi produttori.
Attraverso gli interventi politici degli Stati, grazie ad un’enorme centralizzazione economica e al crescente ricorso al credito, il capitale seppe dispiegare i mezzi per neutralizzare la crisi, ma al prezzo di utilizzare masse crescenti di plusvalore improduttivamente (come per esempio nella spesa per armamenti, che, se di fatto sostiene la cosiddetta domanda aggregata, in ultima analisi sottrae plusvalore per le crescenti esigenze di sostituzione ed espansione del capitale costante).
La stagnazione economica mondiale provocata dalla crisi di sovrapproduzione dirottò una quota significativa del capitale in eccesso, che non si riusciva più a impiegare produttivamente, nei mercati finanziari internazionali, dove fu investita dapprima e soprattutto sotto forma di prestiti statali e successivamente sempre più anche in titoli azionari e obbligazionari.
Questo scivolamento nella sfera finanziaria è di per sé una forma del tutto normale che assume la valorizzazione del capitale durante le crisi. Già in occasione della crisi del 1857, Marx aveva parlato di “capitale fittizio”, cioè di capitale creditizio e speculativo che agisce solo in apparenza come capitale. Noi sappiamo che gli investimenti sono fatti sempre in funzione di un profitto, ma può capitare che la valorizzazione del capitale risulti insufficiente, dal momento che essa presuppone lavoro sociale impiegato nella produzione di merci e che una parte di esso lavoro venga estratto come plusvalore. Invece il reddito “prodotto” dal capitale fittizio proviene da altre fonti, siano esse tasse o nuovi crediti (come nel caso dell’aumento del debito pubblico), siano esse scommesse sul futuro (vedi le speculazioni di borsa), o siano esse la svendita dello Stato (proventi derivanti dalle privatizzazioni). Questo denaro, che dal punto di vista del creditore appare come “capitale” perché frutta interessi, in realtà è stato già speso da tempo, anche se questo fatto ufficialmente viene rimosso: ciò che conta è che il denaro continui a sgorgare da qualche parte.
Questo sviluppo senza precedenti della speculazione finanziaria abbaglierà la vista agli economisti, che parleranno di finanziarizzazione tout-court, ed impedirà loro di vedere le difficoltà e i limiti del capitalismo che hanno origine nei suoi rapporti di produzione. In linea di principio, il capitale commerciale e quello bancario crescono con il volume della produzione e mediano il processo di riproduzione del capitale, ma il momento della circolazione non porta alla creazione di nuovo valore bensì soltanto alla sua realizzazione, sicché è strutturalmente dipendente dal capitale produttivo di merci: è un suo semplice prolungamento, anche se esteriormente si autonomizza. Un’accelerazione febbrile degli scambi, in una fase di congiuntura favorevole, porta alla moltiplicazione delle operazioni di compravendita e del credito, agendo come stimolo alla funzione di mezzo di pagamento del denaro.
L’autonomizzazione esteriore del capitale commerciale e bancario ha l’effetto di farli muovere al di là dei limiti imposti loro dalla riproduzione del capitale industriale, violando la dipendenza interna che li lega a quest’ultimo. Perciò la loro connessione intrinseca dev’essere ristabilita attraverso una crisi commerciale e bancaria (o finanziaria), forme apparenti della crisi reale. Come afferma Marx nel Terzo Libro del Capitale: «Il credito accelera le eruzioni violente della contraddizione – la crisi – e, pertanto, gli elementi di disintegrazione dell’antico modo di produzione. Il sistema del credito appare come il primo livello di sovrapproduzione e sovraspeculazione nel commercio perché una parte più grande del capitale sociale è impiegato da soggetti che non ne sono i proprietari e che, conseguentemente, lo vedono in maniera differente dal proprietario (...) Ciò dimostra semplicemente che l’auto-espansione del capitale permette un libero sviluppo reale solo fino a un certo punto, sicché, di fatto, costituisce un freno e una barriera posti dalla produzione che sono continuamente trasgrediti dal sistema del credito».
Anche Henry Grossmann aveva criticato i tentativi di separare la speculazione dalla crisi della produzione. Alla fine degli anni Venti scriveva che «la speculazione permette ai capitali sovraccumulati una “accumulazione” lucrativa (...) tali guadagni non provengono dagli utili ma sono trasferimenti di capitale. L’economia politica borghese non vuole vedere tali connessioni. Essa osserva solo i fenomeni così come si presentano alla superficie e si perde perciò nell’apparenza. Perché il capitale è esportato? Perché si acquistano sempre più titoli stranieri?... Con l’avanzamento dell’accumulazione di capitale e con l’aumento della massa dei grandi e piccoli capitali, la necessità dell’estensione della speculazione borsistica si presenta a larghe masse di capitalisti, dato che la massa dei capitali che rimangono inoperosi durante la crisi e la depressione sono ogni volta maggiori» (“La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista”).
La bolla del capitale fittizio dà così agli investitori una possibilità alternativa di guadagno, oltre a servire da un punto di vista più generale a procrastinare lo scoppio della crisi. Il ricorso ai mercati finanziari non solo cela la difficoltà di valorizzazione del surplus di capitali ma crea anche potere d’acquisto addizionale. In questo senso, il capitale fittizio è tutt’altro che un peso morto che grava sull’economia cosiddetta reale frenandola nel suo funzionamento; al contrario, esso consente lo svolgimento delle normali attività capitalistiche. Di fatto, il processo speculativo è stato il palliativo all’eccesso di capitale degli anni Settanta, anche se il lungo differimento della crisi finirà inevitabilmente per generare una moltiplicazione dei suoi effetti in proporzioni imprevedibili.
La crisi è sempre una manifestazione della caduta più o meno accentuata del saggio di profitto nella sfera della produzione, che ostacola o impedisce la riproduzione di tutta la massa di capitale e spinge il capitale alla spasmodica ricerca del profitto a qualsiasi costo, non importa se mediante un maggiore sfruttamento dei lavoratori oppure a spese dei rivali capitalisti. La speculazione, gemella inseparabile della crisi, è il risultato di una valorizzazione fittizia del capitale che non dà luogo ad alcun accrescimento della ricchezza materiale.
Sbaglia chi ritiene che l’attuale fase di crisi internazionale sia il segno di un collasso recente, dopo il decennio degli anni Ottanta impropriamente ritenuto di ripresa o sviluppo, o peggio ancora dovuta alla più recente bolla dei cosiddetti subprime. Il processo di turbolenza del mercato mondiale iniziato negli anni Sessanta e che nel giro di pochi anni fece saltare gli equilibri postbellici fondati sugli accordi di Bretton Woods allunga la sua ombra anche sul nostro tempo: quegli equilibri da allora non sono stati ristabiliti mai più, anzi possiamo dire che essi potranno essere ripristinati, naturalmente su altre basi, soltanto quando e se l’imperialismo sarà in grado di imporre, mediante la forza, in un generale regresso della storia, la distruzione della enorme sovrapproduzione di merci, sacrificio imposto alla classe operaia dai bisogni di valorizzazione del capitale.
La forma che lo sviluppo del capitale assume in ciascun momento storico condiziona il carattere e la profondità delle sue crisi, come pure il ruolo politico che esse possono svolgere: distruggere le forze produttive e restaurare le condizioni di valorizzazione del capitale, oppure creare – come noi ci auguriamo – le condizioni per la distruzione degli attuali rapporti di produzione.
Nel
Venezuela in crisi
Alleanza
fra classi un altro sostegno alla borghesia
In Venezuela, come si esaspera la crisi capitalistica, crescono gli appelli agli imprenditori, ai proprietari fondiari e ai lavoratori da parte dei rappresentanti della borghesia, sia che si trovino al governo, sia all’opposizione, sia nelle strutture dello Stato: “facciamo ripartire l’economia nazionale”. Tutto l’apparato educativo, mediatico e politicante si rivolge “alla società”, “al popolo” perché deponga la lotta di classe affinché i capitalisti possano superare loro crisi e le loro imprese tornino redditizie. Solo lì starebbe la possibilità di difesa anche del proletariato.
Nel concerto fanno coro tanto i partiti che si definiscono di destra come quelli che altrettanto si definiscono di sinistra, e perfino socialisti e comunisti. Anche da quei gruppi e movimenti di falsa sinistra, che rimproverano gli altri gruppi e movimenti che oggi sono al governo (come in Venezuela, Ecuador, Nicaragua, Brasile, Bolivia e Argentina) di non essere conseguentemente “socialisti”, provengono appelli all’unità interclassista, benché pretendano di essere contro la borghesia e il capitalismo. “Di fronte alla catastrofe economica e sociale la sola alternativa è un piano di emergenza, una legge di iniziativa popolare”. “La vera uscita dalla crisi sta nei lavoratori, gli operai, gli studenti, le classi medie”.
È ricorrente negli opportunisti l’invito ad alleanze interclassiste, per soffocare il programma e le rivendicazioni della classe operaia nel pantano dei programmi tipici dalla piccola borghesia, che non vanno oltre la conferma, sotto una fraseologia pseudo-rivoluzionaria, dello sfruttamento capitalista. Tutti questi opportunisti, che chiamano alla unità fra classi e mezze classi, finiscono per presentare come rimedi per “uscire dalla crisi” capitalista la lotta contro la corruzione, contro la delinquenza, per il rimpatrio dei capitali, per la difesa della sovranità nazionale, per la ripresa della produzione nazionale, rivendicazioni che non significano la sostituzione del regime capitalista, ma solo un cambio di governo o delle parole e delle forme sotto le quali dare continuità allo sfruttamento del lavoro salariato nel quadro di una relativa pace sociale. Le rivendicazioni operaie ne sono solo un complemento demagogico. L’unica “uscita dalla crisi” che si propone a partire da queste alleanze interclassiste è una uscita all’interno del capitalismo.
Diversi ceti sociali che si muovono in risposta o contro le politiche del governo borghese (contadini, ecologisti, studenti, ecc., i cosiddetti “movimenti sociali”) possono avere talvolta degli obbiettivi contingenti in comune con il movimento di lotta dei lavoratori, però questo non giustifica l’utilità della costruzione di fronti e programmi interclassisti, nemmeno sul piano immediato e strettamente rivendicativo.
I lavoratori debbono costruire la loro unità organizzandosi in quanto tali, solo fra salariati, e costruire piattaforme rivendicative proprie che riflettano il loro scontro con la borghesia. Questo è uno degli aspetti chiave per il riannodarsi della lotta di classe del proletariato e che contribuirà al passaggio dalla lotta economica alla lotta politica, la lotta per il potere. Questo è un processo nel quale è imprescindibile la presenza del partito comunista rivoluzionario.
In questo percorso la classe operaia dovrà rompere con i sindacati attuali e assumere una nuova organizzazione delle sue lotte tramite dei sindacati di classe che permettano la unità al di sopra dei muri della fabbrica e dell’azienda, oltre le frontiere artificiali associate alla nazionalità, la razza e le credenze religiose. In questa direzione debbono concentrarsi le energie proletarie, e non nei fronti multicolore con la piccola borghesia, che finiscono per essere movimenti di ricambio per ringiovanire la sembianza della dittatura borghese di classe.
Chi invece sogna una vittoria del “popolo” sopra gli “oppressori”, ignora o nasconde la antica lotta fra gli elementi antagonistici interni a questo “popolo”: la borghesia e il proletariato. La dottrina marxista ha sempre condannato le generalizzazioni demagogiche di “oppressi”, “popolo”, “società” e le corrispondenti rivendicazioni di governi “popolari”, “contadini”, ecc.
Nella fase storica attuale le masse proletarie si potranno mobilitare di nuovo in forma rivoluzionaria solo portando fino in fondo la loro unità di classe, diretti soltanto dal loro partito, unico, compatto nella teoria, nell’azione, nella preparazione dell’attacco insurrezionale, nella gestione del potere. Solo il partito comunista internazionale proclama le finalità massime del proletariato, il suo totalitarismo di partito e i rigidi limiti che lo separano dai vari agenti della borghesia, in particolare da quelli che fanno uso ed abuso di una fraseologia falsamente rivoluzionaria e radicale.
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Le migrazioni di una classe di senza patria
Conclusioni
L’analisi del fenomeno migratorio è stata da sempre affrontata dal marxismo, a cominciare da Engels nel 1845 nel suo libro su “La situazione della classe operaia in Inghilterra”.
Questo scrive Marx ne Il Capitale, Libro, I, 7,25): «Nella misura in cui il progresso industriale sviluppa le potenzialità produttive del lavoro e fa dunque ottenere più prodotti da meno lavoro, il sistema capitalista sviluppa anche i mezzi per ottenere più lavoro dal salariato, sia prolungando la giornata lavorativa, sia aumentando l’intensità del suo lavoro, o ancora aumentando in apparenza il numero dei lavoratori impiegati rimpiazzando una forza superiore e più cara con più forze inferiori e meno care, l’uomo con la donna, l’adulto con l’adolescente e il bambino, uno yankee con tre cinesi. Ecco diversi metodi per diminuire la domanda di lavoro e rendere l’offerta sovrabbondante, in una parola per fabbricare una sovrappopolazione. L’eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest’ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale».
La borghesia utilizza l’importazione di lavoratori stranieri per ingrossare l’esercito industriale di riserva e aumentare la concorrenza fra proletari.
Marx analizza profondamente il fenomeno della concorrenza fra operai indigeni e immigrati, tanto cara alla borghesia che ne è l’artefice, osservando i casi degli operai irlandesi in Inghilterra, nei quali possiamo ravvedere facilmente anche la situazione odierna: «Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L’operaio inglese medio odia l’operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese si sente un membro della nazione dominante, e così si fa strumento degli aristocratici e dei capitalisti del suo paese contro l’Irlanda, rafforzando in questo modo il loro dominio su lui stesso. Si nutre di pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro il lavoratore irlandese (...) L’Irlandese lo ripaga con gli interessi».
E nella lettera a S. Meyer e A. Vogt del 1870 scrive: «Questo antagonismo è artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. È il segreto grazie al quale la classe capitalista mantiene il suo potere. E questa classe ne è perfettamente cosciente»
Nell’epoca matura del capitalismo, l’imperialismo, assistiamo ad una compiuta divisione del lavoro su scala internazionale e sempre maggiore è il fenomeno migratorio, alle origini circoscritto allo spostamento campagna-città, tra paesi e continenti.
Circa la valenza rivoluzionaria della unificazione dei mercati scrive Marx nel 1848, in “Discorso sulla questione del libero scambio”: «Quando avrete lasciato cadere quei pochi ostacoli nazionali che raffrenano ancora la marcia del capitale, non avrete fatto altro che liberarne completamente l’azione (...) Il risultato sarà che l’opposizione fra il lavoro salariato e il capitale si delineerà più nettamente ancora (...) Designare col nome di fraternità universale lo sfruttamento giunto al suo stadio internazionale è un’idea che non poteva che avere origine in seno alla borghesia. Tutti i fenomeni di distruzione che la libera concorrenza fa sorgere all’interno di un paese si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato mondiale (...) In generale ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale».
Marx già prevede dunque come il capitalismo, inasprendo lo sfruttamento della forza lavoro divenuta merce internazionale, affretta la rivoluzione delineando sempre più nettamente l’opposizione fra il lavoro salariato e il capitale mondiale, unificando la lotta di classe del proletariato.
Il ruolo importante dell’immigrazione per la lotta proletaria e per la sua estensione internazionale è sottolineato da Lenin in “Il capitalismo e l’immigrazione operaia”, del 1913:
«Il capitalismo ha creato un tipo particolare di migrazione di popoli. I paesi che si sviluppano industrialmente in fretta, introducendo più macchine e soppiantando i paesi arretrati nel mercato mondiale, elevano il salario al di sopra della media e attirano gli operai salariati di quei paesi. Centinaia di migliaia di operai si spostano in questo modo per centinaia e migliaia di chilometri. Il capitalismo avanzato li assorbe violentemente nel suo vortice, li strappa dalle località sperdute, li fa partecipare al movimento storico mondiale, li mette faccia a faccia con la possente, unita classe internazionale degli industriali.
«Non c’è dubbio che solo l’estrema povertà costringe gli uomini ad abbandonare la loro terra e che i capitalisti sfruttano nella maniera più disonesta gli operai immigrati. Ma solo i reazionari possono chiudere gli occhi sul significato progressivo di questa migrazione moderna dei popoli. La liberazione dall’oppressione del capitale non avviene e non può avvenire senza un ulteriore sviluppo del capitalismo, senza la lotta di classe sul terreno del capitalismo stesso. E proprio a questa lotta il capitalismo trascina le masse lavoratrici di tutto il mondo, spezzando il ristagno e l’arretratezza della vita locale, distruggendo le barriere e i pregiudizi nazionali, unendo gli operai di tutti i paesi nelle più grandi fabbriche e miniere dell’America, della Germania, ecc.»
Ed aggiunge: «La borghesia aizza gli operai di una nazione contro gli operai di un’altra, cercando di dividerli. Gli operai coscienti, comprendendo l’inevitabilità e il carattere progressivo della distruzione di tutte le barriere nazionali operata dal capitalismo, cercano di aiutare a illuminare e a organizzare i loro compagni dei paesi arretrati».
Da questo scritto di Lenin, vivido nella sua estrema scientifica chiarezza, sono passati molti anni. La controrivoluzione ha sedato a lungo il proletariato internazionale, ma oggi, nella sua fase senile e putrescente, mentre il capitalismo cerca di nuovo la sua sopravvivenza tra guerre e utilizzo di capitale fittizio, si conferma, suo malgrado, il carattere progressivo della migrazione di lavoratori salariati.
Però il collasso di intere regioni produce ingenti flussi di “migranti economici” mentre dalle guerre fugge un gran numero di profughi, masse che esorbitano le quantità necessarie al mantenimento dell’esercito industriale di riserva.
Il progresso tecnico asservito alle esigenze del capitale, anziché garantire un tempo di lavoro estremamente inferiore e una fatica di lavoro ugualmente ridotta, in tempi di crisi mondiale di sovrapproduzione espelle milioni di salariati dal mercato del lavoro gettandoli nella miseria.
Il capitale delle metropoli tende quindi attualmente a chiudersi all’arrivo di nuove braccia, delle quali non ha momentaneamente bisogno e delle quali non può assumersi nemmeno il minimo costo del mantenimento. Il capitale si divincola nel tentativo di salvarsi. Ed è costretto a cercare di rimandare indietro gli immigrati, che non può assimilare né come lavoratori né come consumatori. Sempre più il capitale non può mantenere i suoi schiavi.
Compiuto ogni suo ciclo progressivo, il capitale torna ad erigere quei muri che si era vantato di aver abbattuto. Ma a poco serviranno perché esso stesso ha gettato le fondamenta di un’unica società mondiale del capitale, di un unico mercato, di una unica classe mondiale degli sfruttati: quei proletari che, per la natura dei rapporti di produzione che li definiscono, non hanno patria e che sono sospinti dalle cose a rivoluzionariamente approfittare di questa loro condizione.
La
questione nazionale e coloniale al Primo Congresso
dei Popoli d’Oriente
Bakù,
settembre 1920
Elementi
dell’analisi marxista della questione nazionale
e coloniale
Il metodo marxista aveva ammesso nel XIX secolo il coinvolgimento dei partiti operai dell’Europa occidentale in alleanze con partiti nazionalisti rivoluzionari per un periodo che si è chiuso con lo schiacciamento della Comune di Parigi nel 1871: «Ormai tutti gli eserciti nazionali sono alleati contro il proletariato insorto» scrisse Marx nel 1871 nell’Indirizzo per il Consiglio generale dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori. «L’appoggio ai moti democratici e indipendentistici era logico in Europa nella prima metà del XIX secolo, sul terreno della insurrezione. Questa basilare posizione marxista resta in piedi oggi nell’Oriente, come lo era in Russia prima del 1917» abbiamo scritto noi in Pressione “razziale” del contadiname, pressione classista dei popoli colorati, "Il Programma Comunista”, n. 14, 1953).
Il periodo rivoluzionario 1905-1917 avrebbe aperto il ciclo nazionale e anti-coloniale in Oriente e posto la questione dell’aiuto da fornire a questi movimenti borghesi da parte del proletariato comunista.
La rivoluzione russa del 1905 aveva avuto ripercussioni profonde in tutto l’Oriente, dalla Turchia alla Persia, dalla Cina all’India, poiché era divenuto allora possibile per i popoli violentemente oppressi dalle borghesie imperialiste occidentali ribellarsi e liberarsi dal giogo dello sfruttamento brutale che stavano soffrendo. La potente ondata rivoluzionaria del 1917, successiva ai massacri della Prima Guerra mondiale, dopo aver raggiunto la Germania, l’Ungheria, la Finlandia, l’Italia, doveva espandersi dalle regioni musulmane dell’ex Impero russo e del Medio Oriente fino ai popoli dell’Asia orientale. Questi, costituiti in gran parte da contadini, schiacciati dal peso dell’imperialismo, soprattutto inglese, avrebbero anch’essi iniziato a muoversi per unirsi alla Terza Internazionale e alla rivoluzione mondiale?
Lenin dichiarò al Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista, tenutosi nella Mosca rivoluzionaria nel mese di luglio 1920, nel suo Rapporto sulla situazione internazionale e sui compiti fondamentali dell’Internazionale Comunista: «La guerra imperialistica ha aiutato la rivoluzione, la borghesia ha preso soldati dalle colonie, dai paesi arretrati, dalle regioni più lontane per farli partecipare alla guerra imperialistica. La borghesia inglese ha insegnato ai soldati dell’India che i contadini indù avevano il dovere di difendere la Gran Bretagna contro la Germania, la borghesia francese ha insegnato ai soldati delle sue colonie africane che i negri avevano il dovere di difendere la Francia (...) La guerra imperialista ha coinvolto i popoli dipendenti nella storia mondiale. E oggi uno dei nostri compiti più importanti è quello di riflettere sul modo di porre la prima pietra dell’organizzazione di un movimento sovietico nei paesi non capitalistici».
La questione restava all’ordine del giorno dopo la Seconda Guerra mondiale. Nel citato Filo del Tempo del 1953 si affermava che era allora venuto il momento – guerra in Indocina dal 1946, fine della guerra di Corea – di fissare la nostra attenzione su due questioni strettamente legate l’una con l’altra, la agraria e la nazionale e coloniale, basandoci sui risultati stabiliti da Marx ed Engels e ripresi da Lenin, come sui testi fondamentali scritti negli anni 1920-1926 dall’opposizione di sinistra nell’Internazionale e dal Partito Comunista d’Italia.
In quel testo era precisato: «Si deve questo intendere: in campi geografici e in fasi storiche date e ben individuate nella teoria generale del corso storico (...) molte volte accade che l’urto di una massa di piccoli contadini contro il padronato terriero acceleri la rivoluzione borghese e la liberazione da catene tradizionali di forze produttive moderne, sola premessa della lotta e delle rivendicazioni operaie successive». L’essenziale è definire questi movimenti come aventi un fine democratico e capitalista e quindi come una forma borghese e non proletaria. Si tratta di cogliere il significato storico degli eventi: «Cercare, benché sia difficile, di dare una mano ai borghesi, tuttavia senza pensare con la loro testa».
La situazione internazionale
Nel gennaio 1918,con la Prima Guerra mondiale ancora in corso, le armate bianche aiutate dalle tedesche avevano ferocemente represso la rivoluzione in Finlandia, facendo migliaia di morti. L’Intesa aveva organizzato un embargo contro il nuovo Stato russo e dei distaccamenti inglesi dell’Esercito d’Oriente si erano messi in marcia verso i campi petroliferi di Baku, dove prosperava la compagnia petrolifera anglo-olandese Shell. Nel marzo 1918 i bolscevichi firmarono la pace separata con la Germania, il trattato di Brest-Litovsk; in base a questo trattato Mosca restituiva all’Impero Ottomano i territori che la Russia aveva occupato nel 1878, cioè la parte russa dell’Armenia, e abbandonava l’Ucraina alle truppe tedesche, che misero alla fame il contadiname e privarono la Russia del suo approvvigionamento di grano. Dall’aprile 1918 gli inglesi e i francesi intervennero nel Nord e nel Sud del Paese per contrastare l’occupazione tedesca. Le truppe austriache occuparono Odessa sul Mar Nero, i giapponesi sbarcarono a Vladivostok. Le truppe ottomane penetrarono nel Caucaso per attaccare le forze armene alle quali si erano unite quelle della Georgia e dell’Azerbaijan, con il pretesto di difendere gli azeri (di origine turca) contro gli Armeni. L’Armenia, l’Azerbaigian e la Georgia, che avevano chiesto la protezione tedesca, proclamarono la loro indipendenza nel maggio 1918. La guerra civile russa doveva durare fino al 1922 e avrebbe causato milioni di morti.
Anche le truppe polacche molestavano il nuovo Stato sovietico.
La parte del Caucaso appartenuta alla Russia zarista divenne di nuovo zona di conflitto. Montuosa, con vette che superano i 5.000 m, è lunga 1.200 km e larga circa 600. La regione separa il Mar Nero dal Mar Caspio, l’Europa dall’Asia e dal Medio Oriente. Nel corso della storia ha sempre costituito una zona di passaggio e anche di rifugio per molte popolazioni in fuga dalle invasioni. Nella preistoria fu attraversata dalle popolazioni che dall’Africa si spostavano verso l’Europa e il resto del mondo. Si compone di un mosaico di popoli raggruppati in tre famiglie (la più antica quella caucasica; quella indo-europea; quella turco-tartara, proveniente dalle grandi steppe asiatiche), vi si trovano una grande varietà di lingue (43) e di religioni. Con la sua posizione strategica a sud della Russia e la sua ricchezza di gas e petrolio, la regione non poteva sfuggire alle dispute tra gli Stati imperialisti. Gli Alleati dunque cercavano di metterci sopra le mani.
Il Medio Oriente, così come è attualmente strutturato, nasce a seguito della prima guerra mondiale e della divisione arbitraria dell’Impero Ottomano attuata dalle due maggiori potenze imperialiste nell’area, la Gran Bretagna e la Francia. Appena costituiti i nuovi Stati iniziarono movimenti di rivolta. Già nel luglio 1919 il Congresso Nazionale Siriano rivendicava uno Stato unitario. Scioperi dei ferrovieri e focolai di effervescenza nazionalista scoppiarono tra il 1919 e il 1924 in diversi paesi della regione, in Egitto, in Siria, in Libia. Rivolte arabe anti-britanniche, spesso guidate da religiosi sciiti, si ripeterono nel luglio del 1922 e nel 1924 in Siria e in Palestina, e rivolte anti-sioniste, come a Jaffa nel 1921, in risposta alle divisioni artificiali imposte dai cosiddetti Mandati. Tutti questi movimenti furono influenzati dalla rivoluzione russa e dal movimento nazionalista di Mustafa Kemal in Turchia.
Di fatto solo l’energia dei nazionalisti turchi, e con loro quella della popolazione in maggioranza contadina che si raccoglieva dietro Mustafa Kemal, l’eroe della battaglia di Gallipoli, permisero, dopo una feroce guerra civile, la creazione di una Turchia indipendente evitando lo smembramento predisposto dal famigerato trattato di Sèvres. Mustafa Kemal cominciò respingendo senza pietà gli armeni al di là delle frontiere. Le truppe bolsceviche lo aiutarono perché la Repubblica Armena, fondata dall’Intesa, serviva come base per pericolose forze controrivoluzionarie e antibolsceviche. Le formazioni kemaliste si volsero quindi contro i curdi, infliggendo pesanti perdite. Poi nel Sud liberarono la Cilicia dalle truppe francesi e l’Anatolia centrale di quelle italiane. Attaccarono infine le truppe d’occupazione a Costantinopoli, ridotte a qualche migliaio d’uomini.
Nel 1920 la situazione cominciò a capovolgersi per il nuovo Stato comunista. In un discorso pronunciato alla 9ª conferenza del PCR del 22 settembre 1920, quando l’Armata Rossa si avvicinava a Varsavia, Lenin affermò: «L’ultimo bastione contro i bolscevichi, la Polonia, che si trova interamente nelle mani dell’Intesa, costituisce un fattore talmente potente di questo sistema che quando l’Armata Rossa minaccia questo bastione, tutto il sistema ne risulta scosso. La Repubblica dei Soviet è diventato un fattore di prima importanza nella politica internazionale. Nella nuova situazione così creata, un fatto d’enorme importanza si è verificato: in primo luogo la borghesia dei paesi che vivono sotto il giogo dell’Intesa e che costituiscono il 70% dell’insieme dell’umanità, è in gran parte per noi». Negli anni 1919-20 tutti i servizi d’informazione inglesi e francesi e la stampa coloniale evocavano il “pericolo comunista”.
1920, apogeo del movimento rivoluzionario bolscevico
Nel marzo 1920 Lenin faceva il punto sul movimento rivoluzionario occidentale. Nel Discorso alla sezione solenne del soviet di Mosca in onore dell’anniversario della Terza Internazionale, 6 marzo 1920, si legge:
«Un anno è trascorso dalla fondazione dell’Internazionale Comunista. L’Internazionale ha riportato nel corso di quest’anno delle vittorie insperate (...) Nei primi tempi della rivoluzione molti attendevano che la rivoluzione socialista sarebbe esplosa in Europa occidentale subito dopo la fine della guerra imperialista; perché nel momento in cui le masse erano armate, la rivoluzione aveva anche il massimo delle possibilità di successo in qualche paese occidentale, se il tradimento degli ex-capi socialisti non fosse stato così grande (...) Se la Seconda Internazionale non fosse stata nelle mani di traditori che salvarono la borghesia nel momento critico, la rivoluzione avrebbe avuto buone possibilità di compiersi rapidamente dopo la fine della guerra in numerosi paesi belligeranti, così come in certi paesi neutrali dove i popoli erano armati; il risultato sarebbe stato molto diverso.
«Purtroppo non è accaduto che la rivoluzione avvenisse in tempi rapidi, ed è stato necessario rifare il percorso intrapreso precedentemente alla nostra prima rivoluzione, prima del 1905; è solamente perché più di dieci anni sono trascorsi prima del 1917 che abbiamo potuto dimostrare di essere capaci di dirigere il proletariato.
«Il 1917 è stato in qualche modo la ripetizione della rivoluzione, ed è stato in parte tutto ciò di cui abbiamo potuto avvantaggiarci in Russia dal fallimento della guerra imperialista che ha dato il potere al proletariato. Gli avvenimenti storici, la completa decomposizione dell’autocrazia hanno permesso che ci impegnassimo senza difficoltà nella rivoluzione; ma più è stato facile cominciarla, più è stato difficile, in un paese isolato, proseguirla; dopo l’anno che abbiamo superato, possiamo constatare che lo sviluppo della rivoluzione ha seguito un corso meno rapido negli altri paesi dove gli operai sono più avanzati e molto più numerosi, dove ci sono più industrie. Ha seguito la nostra strada ma molto più lentamente. Gli operai continuano a seguire lentamente questa strada aprendo il percorso alla vittoria del proletariato che s’avvicina con una rapidità sicuramente più grande di quella del nostro paese».
Gli anni 1920-1921 videro la formazione dei partiti comunisti aderenti alla III Internazionale, e uno dei compiti fondamentali dell’I.C. era quello di definire chiaramente le condizioni d’ammissione, in modo da eliminare i partiti, i gruppi e le frazioni che volevano entrare nell’Internazionale per delle ragioni di opportunismo sociale, o per fini elettorali (come nel caso della destra tedesca e francese). E il mondo orientale che s’agitava non restava certo indietro.
Le tesi del Secondo Congresso
«Questa era la grande prospettiva rivoluzionaria russa fin dal principio: alleanza, con lo Stato dei Soviet, da una parte della classe operaia dei paesi occidentali, dall’altra dei popoli oppressi di colore, per abbattere l’imperialismo capitalista (...) Nel settembre del 1920, dunque tra il secondo e il terzo Congresso della III Internazionale, ben ferma sulle direttive del marxismo rivoluzionario, si tiene a Baku il Congresso dei popoli di Oriente. Quasi duemila delegati, dalla Cina all’Egitto, dalla Persia alla Libia» (Oriente, "Prometeo”, n. 2, 1951).
Ai bolscevichi era ben chiaro che la capacità di resistenza delle borghesie occidentali si appoggiava sullo sfruttamento spudorato dei popoli coloniali, permettendo loro di estorcere enormi ricchezze con le quali comperare la complicità dell’aristocrazia proletaria europea. Dal punto di vista militare i movimenti nelle colonie potevano impegnare le potenze imperialiste e contribuire ad allentare la morsa attorno alla fortezza rivoluzionaria. Una questione che si poneva quindi ai rivoluzionari era la tattica che doveva condurre il proletariato delle colonie di fronte alla sua borghesia nazionalista.