Partito Comunista Internazionale
Il Partito Comunista N. 423 - Luglio-Agosto

anno L - [ Pdf ]

Indice dei numeri

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Aggiornato al 15 ottobre 2023

organo del partito comunista internazionale
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 La rivolta delle periferie francesi suona a morto per la pace sociale
Si ammutinano i mercenari in Russia. Sono tutti giganti imputriditi
Kosovo: mosse di guerra nei Balcani
Ancora morti lungo l’esodo dei migranti; La morte dei naufraghi diventa uno spot elettorale
PAGINA 2 Le contorsioni dell’imperialismo giapponese fra stagnazione ed esportazioni di capitali
Firenze, 13 maggio, Sciopero SI Cobas: Per la rinascita di un forte movimento sindacale di classe contro sfruttamento e repressione
– Per il regime bolivariano lo sciopero è “terrorismo lavorativo
Per il Sindacato di Classe – Ultime dal sindacalismo di regime in Italia: Sciopero dell’Adl Cobas alla Commit Siderurgica - Sciopero del SI Cobas al magazzino Coop di Pieve Emanuele - Sciopero del SI Cobas alla DHL - Lo sciopero Fiom alla Stellantis di Pomigliano - Lo sciopero nazionale Fim Fiom Uilm a luglio - Il rinnovo del Ccnl vigilanza privata e dei servizi di sicurezza
PAGINA 4 – La generosa battaglia proletaria contro la riforma delle pensioni in Francia - L’Intersindacale ha svigorito, poi chiuso la lotta
PAGINA 5 Negli Usa la borghesia abbandona la sua ipocrita moralità e cambia le leggi per sfruttare il lavoro di fanciulli e adolescenti
– Disastro ferroviario in India. Miliardi per i treni di lusso e poco per la sicurezza
PAGINA 6-7 Riunione Internazionale del Partito, 26-28 maggio (in teleconferenza). Per far tornare le parole del comunismo nei cuori dei proletari di tutti i paesi [RG146]: L’ideologia borghese, Le eresie - Il corso del capitalismo mondiale - Ancora una Turchia neo-ottomana, la borghesia turca e le elezioni; Un fragile compromesso; Le elezioni sono sempre contro gli interessi del proletariato - La guerra civile in Italia nel primo dopoguerra -La questione agraria, Aspetti storici
PAGINA 8 – I tre poli della guerra fra gli imperi: Stati Uniti - Europa - Cina: La guerra ucraina chiude le porte alla penetrazione cinese in Europa; Europa schiacciata dagli Stati Uniti contro il muro dell’Ucraina



PAGINA 1


La rivolta delle periferie francesi suona a morto per la pace sociale

È di questi giorni, in cui ci apprestiamo a chiudere questo numero del nostro giornale, la rivolta nelle periferie francesi. Non è la prima esplosione di malcontento, ma la più rabbiosa e diffusa delle banlieue francesi, estesa a centinaia di città grandi e piccole, e ha persino varcato i confini nazionali, contagiando Svizzera e Belgio.

Una rivolta certo senza organizzazione, senza progetto politico e senza obiettivi sociali immediati, come le precedenti, con gli assalti ai centri commerciali, ai bancomat, ai commissariati, compiuti per lo più da giovani e giovanissimi.

Questi caratteri di spontaneità e l’assenza di rivendicazioni prestano il fianco alle falsificazioni della stampa borghese la quale deve nascondere che il suo re è nudo e rendere presentabile e degna di essere difesa una società in decadenza, in disfacimento, in putrefazione.

La colpa dei disordini, secondo taluni, sarebbe degli immigrati di fede islamica, i cui figli, ormai cittadini francesi, non riescono e non vogliono integrarsi. Oppure dei genitori, del venir meno dell’autorità familiare. Due spiegazioni inconsistenti e fra loro incompatibili.

Sarà, almeno per adesso, senza programma politico né sociale questa rivolta, ma la sua intensità ed estensione ne fa espressione di un malessere profondo, non liquidabile con le miserevoli e impotenti spiegazioni giustificatorie dei partiti e della stampa borghesi. Un malessere espresso da migliaia di giovani disoccupati.

È una rivolta della gioventù proletaria in un’epoca in cui 100 anni di controrivoluzione – staliniana, fascista e democratica – hanno privato il proletariato mondiale del suo partito e dei suoi sindacati di classe. Forse solo adesso il proletariato ha ripreso la marcia della lotta, che lo porterà a riappropriarsi di queste sue fondamentali armi di guerra, con cui abbatterà la marcia società capitalistica. Probabilmente la Francia è uno dei teatri di questo nuovo inizio.

In queste condizioni storiche, non poteva essere altrimenti. Non è da stupirsi che tali rivolte non si leghino a partiti, sindacati e altri organismi della lotta sociale. Ma questo avverrà, nella misura in cui la classe operaia, in Francia e in tutti i paesi, saprà dotarsi di autentici sindacati, cacciando dalla guida delle attuali organizzazioni gli agenti della borghesia, e sconfiggendo tutte le forme dell’opportunismo politico-sindacale. Un processo il cui successo va di pari passo col rafforzarsi del partito comunista internazionale.

I proletari delle banlieue non vengono “integrati” nella società borghese francese perché è l’intero proletariato a esserlo sempre meno, venendo giorno dopo giorno ricacciato nella sua reale condizione di classe oppressa e sfruttata, per la quale le parole “cittadinanza”, “diritti”, “democrazia” sono solo orpelli odiosi e ingannevoli.

Non lamentiamo, quindi, la mancata integrazione nella società borghese dei proletari delle banlieue e di tutte le periferie dei mostri urbani capitalistici, ma occorre lavorare alla loro integrazione nella lotta anti-capitalista per la difesa dei bisogni immediati di tutta la classe operaia.

In Francia il movimento contro la riforma delle pensioni, e in precedenza gli scioperi per gli aumenti salariali, hanno segnato un importante passo in avanti nel rafforzare il sindacalismo di classe. Ma il peso del sindacalismo di regime è ancora grande e l’influenza dell’opportunismo nelle correnti sindacali conflittuali lo è altrettanto. Questo frena l’integrazione nella lotta proletaria di tutte le sue forze, comprese quelle preziosissime dei giovani disoccupati.

Di fronte alla rivolta, la nuova dirigenza confederale della Cgt non ha saputo far di meglio che pubblicare il 29 giugno il comunicato della sua federazione che inquadra i poliziotti: “Dramma a Nanterre: i poteri pubblici devono reagire!”.

La dirigenza della Cgt non si appella ai lavoratori per mobilitarsi contro la violenza poliziesca, ampiamente manifestatasi anche nel movimento di lotta contro la riforma delle pensioni, ma ai “pubblici poteri”, i quali non sono altro che gli ingranaggi di quel regime che brandisce tale violenza! Si appellano ai carnefici. D’altronde organizzano i violentatori nello stesso sindacato dei violentati.

“Unitè Cgt”, l’area nella quale confluisce la maggior parte delle correnti conflittuali di questo sindacato di regime, che all’ultimo congresso del marzo scorso ha guadagnato circa il 36% dei consensi, ha pubblicato un comunicato in cui chiede, nel caso in cui il governo avesse decretato lo Stato d’emergenza, che sia indetto uno sciopero nazionale generale per imporre le dimissioni del governo, lo scioglimento del parlamento, la riforma delle istituzioni e della polizia.

È un falso appello alla mobilitazione dei lavoratori: di fatto lo stato d’emergenza c’è già, con 45 mila agenti mobilitati ogni notte, migliaia di arresti e i tribunali a processare per direttissima e condannare ogni giorno centinaia di giovani. L’obiettivo di riformare le istituzioni, la polizia, cioè lo Stato borghese, rende esplicito il velleitarismo riformista di tali correnti conflittuali.

I giovani proletari e tutta la classe operaia hanno bisogno di un partito che dica chiaramente loro che è questo il vero volto del regime borghese, che la democrazia è solo un velo a nascondere la dittatura della classe capitalista sulla classe lavoratrice. L’obiettivo che si imporrà nei fatti non è la riforma, ma la distruzione dello Stato borghese, attraverso la conquista rivoluzionaria del potere e l’instaurazione della dittatura del proletariato. Solo il potere politico della classe operaia potrà schiacciare la resistenza degli spodestati capitalisti e attuare le riforme rivoluzionarie del programma comunista.








Si ammutinano i mercenari in Russia
Sono tutti giganti imputriditi

Cosa si aspettavano i tifosi dello “Stato di diritto” e dell’Ucraina? Pensavano che le truppe mercenarie guidate da Prigožin avrebbero riconquisto la “vera democrazia”? Per quanti odiano la rivoluzione, il crollo del fronte interno nemico in una guerra è possibile soltanto in termini di un’esplosione inaspettata di anarchia militare.

Seguendo la logica del male minore, molti si sono convinti, almeno per poche ore, che fra Putin e Prigožin si dovesse scegliere fra uno dei due, magari pensando che il secondo fosse soltanto un male passeggero, affinché l’Ucraina, l’Occidente e la democrazia prevalessero a spese della Russia, anche a costo di farne “coriandoli” come prevedono e auspicano certi esperti di geopolitica e di questioni militari.

Nella guerra, il capitalismo giunto alla fase imperialista, al di là del belletto democratico e parlamentare, rivela la sua autentica natura fascista dietro ogni fronte in lotta.

Noi comunisti non scegliamo tra due fazioni in lotta per il potere in uno Stato imperialista. Certo ci rammarichiamo di non vedere il proletariato insorgere contro questa guerra, infame su entrambi i lati del fronte: in mancanza del partito questa soluzione è impossibile.

Mentre i borghesi atlantici si dispiacciono di non avere visto Prigožin battere Putin, i partigiani di Putin vedono in quest’ultimo il traghettatore a un mondo “multipolare”, in cui sperano non ci sarà spazio per l’egemonia statunitense.

Ma devono prendere atto dell’ultimo episodio della serie in stile televisivo in cui si è svelata la progressiva abiura della rivoluzione russa dell’Ottobre 1917, la “coltellata alle spalle”, giustamente attribuita da Putin ai bolscevichi, contro la prima guerra mondiale imperialista, dello zar prima, e dei borghesi dopo Febbraio.

Diventa sempre più impossibile per il governo moscovita adottare un’ideologia di Stato che armonizzi il presente di una federazione di repubbliche con il passato storico della Russia madre dei popoli, rivendicato in toto a partire da Ivan il Terribile, passando per Pietro il Grande e arrivando fino allo sbiadito e inetto Nicola II.

Putin non potrà cessare di essere repubblicano e zarista a un tempo, quanto il suo omologo turco Erdoğan continuerà a essere moderatamente kemalista nelle forme ma ottomano nel cuore e nelle proiezioni imperialistiche della Turchia.

Non a caso entrambi i capi di Stato hanno dovuto difendersi da tentativi di colpo di Stato e non a caso ogni volta che questo è successo hanno dovuto sostenersi vicendevolmente, con buona pace della secolare retorica della storia patria, che da una parte voleva sottrarre i fedeli cristiani al sultano, dall’altra difendere i buoni credenti musulmani dagli odiati “Moskof”.

L’adozione di truppe mercenarie è sempre un’arma a doppio taglio. Se rassicura la popolazione mettendola almeno in parte al riparo dai lutti della guerra, i soldati di ventura sono sempre infidi e pronti a cambiare casacca: versati nel mestiere delle armi, si vendono al miglior offerente e prima del tempo abbandonano al suo destino chi non ha speranze di vittoria.

Gli equilibri di potere interni alla Russia restano instabili. La guerra si dovrà continuare con truppe decimate da pallottole nemiche e defezioni.

La ragion di Stato è quel paravento dietro cui si nasconde l’abominio della violenza organizzata della classe dominante. Ma è possibile che un giorno la coonestata ragion di Stato, fra guerre, rivolte e stermini, venga a scadere nell’anarchia militare. Le sovrastrutture statali, istituzionali e militari mostrano già crepe e cedimenti.

Allora che cada a terra questo immondo Behemoth del capitale, il proletariato vibrerà allora il suo fatale colpo di grazia e il futuro comunista sarà di nuovo davvero a portata di mano dell’umanità.








Kosovo
Mosse di guerra nei Balcani

La geopolitica dei Balcani, regione in gravissima crisi economica e sociale, è stata drasticamente influenzata dall’ultima fase della attuale “guerra fredda” tra Russia e Occidente, con il protrarsi della guerra in Ucraina che vi sta spargendo i suoi fetidi effluvi.

Nelle ultime settimane si sono avuti importanti sviluppi e sorprendenti in Kosovo, degenerati in una grave crisi.

Nei confronti della Russia la Serbia apparentemente rimane neutrale e si oppone all’adesione alle sanzioni economiche, il che consente al capitale finanziario russo di usare la Serbia come principale ponte con l’Europa per aggirare le sanzioni. Nonostante le costanti pressione dell’Occidente, il governo serbo, guidato dal Partito Progressista, continua a rifiutarsi di introdurre sanzioni, anche per i legami di una parte della cricca al potere con il capitale russo, soprattutto Gazprom.

Nel marzo scorso l’Unione Europea è tornata ad esercitare pressioni sulla Serbia affinché si allinei alla sua politica estera, sotto la minaccia di congelare il processo di adesione. L’alternativa intimata era, o imporre le sanzioni alla Russia o accettare la proposta franco-tedesca di accordo per il Kosovo, che comporta il suo effettivo riconoscimento. La Serbia accettò questa seconda.

Ma l’attuazione dell’accordo è stata bloccata dalla Associazione dei Comuni Serbi, composta dalle quattro municipalità del Nord del Kosovo a maggioranza serba, che rivendicano quella autonomia esecutiva e finanziaria che era stata loro concessa dall’Accordo di Bruxelles del 2013.

L’attuale Kosovo è governato dal partito Vetevendosje! (“Autodeterminazione!”), un partito nazionalista ad oltranza proveniente da una formazione di sinistra post-maoista. Persegue una politica più nazionalista e anti-occidentale rispetto agli altri partiti albanesi del Kosovo rivendicando l’unione con l’Albania.

Il primo ministro del Kosovo, Kurti, che si oppone all’attività dell’Associazione dei Comuni Serbi e a qualsiasi impedimento alla piena unità dello Stato, considera l’accordo del 2013 nullo e privo di effetti, il che ha impedito la normalizzazione dei rapporti fra le comunità. Ha inoltre portato a un inasprimento delle relazioni tra il Kosovo da un lato, e l’UE e gli Stati Uniti dall’altro.

Il 23 aprile in Kosovo si sono tenute le elezioni locali nei quattro comuni a popolazione serba. I serbi locali, che sono il 97% della popolazione, hanno deciso di boicottare le elezioni fino a quando non fosse iniziato il processo di implementazione dell’Associazione dei Comuni Serbi.

Le elezioni si sono tenute comunque, con il 2-3% degli albanesi locali che hanno eletto a sindaci dei nazionalisti albanesi. I serbi, in risposta, hanno barricato i Municipi, impedendo ai nuovi sindaci dall’assumere le loro funzioni. Per un mese la situazione è rimasta in stallo.

Nel frattempo, il 3 maggio, a Belgrado si è verificata una sparatoria in una scuola, che ha immediatamente scatenato un’altra sparatoria e diversi altri incidenti violenti, con un totale di 20 morti nell’arco di un solo giorno. L’indignazione e il dolore si sono presto trasformati in proteste di massa “contro la violenza”, chiedendo che i media ne dessero meno risonanza. L’ondata di protesta è stata immediatamente sfruttata dall’opposizione, che ha dato alle manifestazioni un carattere antigovernativo mobilitando tra le 50.000 e le 60.000 persone.

Il presidente Vučić ha risposto cercando di organizzare proteste ancora più grandi, fornendo trasporti gratuiti da tutta la Serbia, oltre che dalle province del nord del Kosovo abitate da serbi.

Il 26 maggio si è quindi tenuta una grande contromanifestazione filogovernativa a Belgrado, che ha portato molti sostenitori di Vučić dal Kosovo, lasciando sguarnite le barricate dinanzi ai Municipi. Questo ha dato alle forze speciali di polizia kosovare l’opportunità di prenderle d’assalto e reprimere la protesta con l’uso di una violenza estrema, nonostante gli appelli dell’Occidente a ridurre le tensioni senza l’uso della forza.

Non sorprende che ciò abbia portato a una catastrofe, con cinque giorni ininterrotti di corpo a corpo tra i tre fronti: la polizia speciale albanese del Kosovo, le forze “di pace” internazionali della KFOR e i civili serbi armati dall’altra. I serbi coinvolti nel conflitto sono per lo più locali, ma è quasi certo il coinvolgimento di un gruppo di provocatori organizzati. Non è certo che siano stati mandati dal governo serbo, ma i cappelli che indossavano sono quelli di un’organizzazione criminale i cui referenti nel Partito Progressista sono recentemente passati all’opposizione. È molto probabile quindi che siano stati mandati da quella parte dell’opposizione sostenuta dall’Occidente.

In risposta alle violenze il Quintetto, formato da Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia e Italia ma guidato dagli Stati Uniti, ha inizialmente emesso una condanna congiunta delle “violenze da parte delle autorità di Priština” (un significativo precedente retorico), redatta dal Dipartimento di Stato americano. Questa è stata presto seguito da sanzioni simboliche imposte dagli USA al Kosovo: la cancellazione della prevista esercitazione militare “Defender 23” e l’espulsione del Kosovo dall’iniziativa, il boicottaggio diplomatico di qualsiasi tipo di contatto ufficiale tra i rappresentanti degli Stati Uniti e del Kosovo e la richiesta di bloccare immediatamente l’adesione del Kosovo alle istituzioni internazionali e qualsiasi nuovo riconoscimento internazionale.

Pare evidente che gli Stati Uniti abbiano deciso di tradire i loro alleati in Kosovo in cambio di una maggiore forza di contrattazione con la Serbia sulla questione delle sanzioni alla Russia. È probabile che questo risultato si raggiunga attraverso un cambio di regime in Serbia.

L’opposizione, eterogenea, estremamente ampia ma per lo più liberale, si è mostrata molto più aperta alla possibilità di sanzioni, ma ha anche adottato in larga misura una retorica nazionalista nei confronti del partito al governo, in particolare in relazione alla sua politica nei confronti del Kosovo, descritta come eccessivamente rinunciataria. Inoltre la scorsa settimana molti aderenti al Partito Progressista l’hanno abbandonato per passare alle file dell’opposizione: una cosca che era stata screditata per la vicenda della fabbrica di armi di Krušik, per i legami con la criminalità organizzata e gli scandali di corruzione di alto profilo, silenziosamente estromessa da ogni posizione di potere significativa. Anche per i suoi interessi privati questo clan era la fazione più filo-occidentale del governo. L’opposizione naturalmente ha deciso di accoglierla a braccia aperte.

È dunque probabile che nelle prossime settimane gli Stati Uniti favoriscano l’opposizione unita nel mettere in crisi il governo attuale, rovesciarlo e assumere il potere. Gli Stati Uniti gli darebbero carta bianca per “proteggere la minoranza serba” da un possibile ripetersi di un evento come il pogrom etnico del marzo 2004, e probabilmente si arriverebbe anche a una modifica degli attuali confini. Questo procurerebbe un buon appoggio al nuovo governo, che in cambio dovrebbe aderire alle sanzioni contro la Russia.

Naturalmente l’attuale governo, e anche Mosca, sono consci di questo pericolo. La situazione è molto critica e, per la prima volta in 15 anni, dopo il continuo “gridare al lupo” da parte dei media internazionali, adesso c’è il rischio concreto di una escalation e persino di un possibile conflitto armato, anche se questa volta i media internazionali sono sorprendentemente silenziosi.

In questo sporco gioco tra opposti imperialismi il proletariato di Serbia e del Kosovo è schiacciato e senza voce. Le sue condizioni peggiorano mentre i partiti borghesi danno la colpa di tutti i mali al “nemico alle porte” per nascondere invece che è in casa. Il nemico sono i padroni, i loro partiti, i loro giornali e televisioni, che si servono di tutti i mezzi, compresa la criminalità organizzata per aumentare i loro profitti e non si fermano neppure dinanzi alla prospettiva di scatenare una guerra generale pur di mantenere il loro potere.







Ancora morti lungo l’esodo dei migranti

“Stanotte sarà l’ultima della nostra vita”, queste le parole di uno dei passeggeri del peschereccio stracarico che si è inabissato in uno dei punti più profondi dell’Egeo. Partito forse dall’Egitto, imbarcando 750 esseri umani, il 14 giugno si è inabissato mentre cercava di raggiungere l’Italia. Si sono salvati solo poco più di cento. Gli altri sono annegati. Nessuno aveva il giubbotto salvagente. Dopo cinque giorni di viaggio, l’acqua era finita, il conducente dell’imbarcazione li aveva abbandonati in mare aperto, il motore in avaria e con sei cadaveri a bordo.

Nessuno li ha soccorsi nonostante tutti sapessero. I governi di Europa versano lacrime, che non costano nulla. Quello greco con cinismo ha proclamato tre giorni di lutto nazionale.

Si rifiutano di soccorrere i naufraghi, li perseguitano se giungono a terra, alzano muri e filo spinato per fermarli. Migliaia di proletari, che con i loro figli piccoli, in Europa e in America, muoiono di freddo e di fame nei boschi, nell’attraversare i fiumi, massacrati di botte e derubati dai poliziotti, rappresentano la condanna storica del capitalismo.

Lo scopo di questa moderna tratta è rifornire in abbondanza le fabbriche e i cantieri di nuovi schiavi salariati, costretti alla clandestinità, a un lavoro massacrante, insicuro e sottopagato, per ritirarsi poi in giacigli pagati a caro prezzo. Tutto in nome del profitto, dello sfruttamento, del privilegio di classe borghese.

Questo finché la solidarietà fra proletari autoctoni e immigrati e la lotta comune non riuscirà a imporre la loro difesa. La piena redenzione dell’umanità lavoratrice arriverà con la rivoluzione sociale, di tutta la classe internazionale dei senza patria, che abbatterà infine questo morente regime


La morte dei naufraghi diventa uno spot elettorale

«La maggioranza dei cittadini apprezza la politica migratoria equa ma rigorosa del governo», ha dichiarato il premier greco Mitsotakis, spiegando il proprio successo nel secondo turno delle elezioni politiche.

Perché il tragico naufragio nel mare fra Grecia e Italia costato la vita a 650 disgraziati è andato a beneficio della sua campagna elettorale. Il signor premier ha potuto così vantarsi per salvarli che la guardia costiera del suo paese non ha fatto nulla! La quale infatti non ha nemmeno tentato di evacuare l’imbarcazione in avaria. Mitsotakis per di più ha avvalorato la vergognosa menzogna che i media totalitari del regime borghese hanno dato in pasto alla cosiddetta opinione pubblica – il cui orientamento è esso stesso un artefatto mediatico – che gli stessi naufraghi avrebbero rifiutando l’aiuto. La versione ufficiale ha quindi attribuito la tragedia alla fatalità, alla testardaggine a completare il disperato viaggio, al cinismo dei “trafficanti”.

Questo stravolgimento della realtà risponde all’esigenza di rafforzare la presa dell’ideologia dominante sugli strati subalterni della società. Tutti i governi borghesi, di destra e di sinistra, diffondono la brutta favola, priva di ogni logica, affermata col tempo in versione sempre più spudorata: innumeri africani e asiatici, annoiati di vivere a casa loro con le loro risorse, non troppo scarse se hanno soldi per pagare i “trafficanti”, istigati da organizzazioni criminali, scelgono di avventurarsi in un periglioso viaggio salendo a bordo di carrette del mare, spesso con la colpevole imprevidenza di portare con loro anche i figli in tenera età.

Alle favole non è richiesta la coerenza, belle e significative quando rispondono al bisogno di arricchire conoscenze e sentimenti di fanciulli e adulti nel contemplare le fasi arcaiche della loro filogenesi storico-culturale. Tanto meno possono essere coerenti le fiabe che rispondono all’esigenza di Stati e governi di conservare l’attuale ignobile e distruttivo ordine sociale. Evocano gli idoli delle più ottuse e reazionarie superstizioni: ”emergenza immigrazione”, “sostituzione etnica”, “tradizioni patrie” contaminate dai “troppi stranieri”.

Fino al “traffico di esseri umani”, mantra che vorrebbe far credere che ci siano proprietari di anime e corpi trasportati incatenati come sulle navi negriere che fino a poco più di due secoli fa solcavano l’Atlantico fra l’Africa e le Americhe. Sembra quasi che il vocabolario italiano abbia perso il sostantivo “passatore”, colui che, per compenso, aiuta ad attraversare clandestinamente le frontiere.
Ma anche i politicanti greci sanno quanto certe formule al solo pronunciarle siano foriere di valanghe di voti: la colpa ufficiale della tragedia nello Ionio è, ovvio dei “trafficanti”!

Noi non contestiamo i pregiudizi dei borghesi scendendo al loro livello. Né disponiamo dei potenti mezzi con cui li impongono. Oltretutto, a porsi sul piano del luogo comune, nel tentativo di negare la menzogna, si rischia di portare con sé, sia pure capovolte, le stimmate della menzogna stessa. Rifuggiamo dalle spiegazioni troppo semplici e immediate, strumento privilegiato della classe nemica, per porci sul piano dell’analisi materialistica e dialettica dei processi storici e sociali.

Talora è però utile esprimere questa complessa realtà in una formula sintetica. Qui lo facciamo con le parole di Lenin, maestro in questo, scritte oltre un secolo fa nel suo ”Imperialismo”: «Una delle particolarità dell’imperialismo è la diminuzione dell’emigrazione dai paesi imperialisti e l’aumento dell’immigrazione in essi di uomini provenienti da paesi più arretrati, con salari inferiori».









PAGINA 2
Le contorsioni dell’imperialismo giapponese fra stagnazione ed esportazioni di capitali

I cosiddetti analisti sembrano non riuscire a valutare le implicazioni dei cambiamenti avvenuti nella politica della Bank of Japan (BoJ) a ridosso dell’avvicendamento al vertice, avvenuto nell’aprile scorso, con cui Ueda Kazuo è subentrato al presidente uscente Kuroda Haruhiko, al termine del suo secondo mandato.

L’insieme dei mercati finanziari, il capitalismo d’impresa, le istituzioni internazionali incaricate di elaborare regolamenti finanziari e commerciali e il sistema creditizio mondiale devono ora tener conto dell’imprevisto ritorno di 3.400 miliardi di dollari di liquidità, che ha origine dall’economia giapponese. Questo rientro di capitali avvenuto sotto la guida di Kuroda dal 2016 in poi, è il risultato della combinazione di un cambio di passo sull’inflazione e sui tassi di interesse, che vede il Giappone sul punto di decidere di abbandonare la sua precedente politica molto accomodante dal punto di vista creditizio.

Un sommovimento di così grandi proporzioni avrebbe come prima vittima il mercato globale delle obbligazioni, che peraltro risente ancora delle pesanti conseguenze dell’essere stato al centro della strategia per la riduzione dell’inflazione intrapresa dalla FED statunitense.
Per espandere i propri profitti infatti gli investitori giapponesi si sono focalizzati per un lungo periodo sulle opportunità nei paesi stranieri. I capitalisti locali sono famosi per essere avidi acquirenti di proprietà in giro per il mondo: le loro acquisizioni spaziano dalle proprietà immobiliari alle quote di debiti sovrani di molti paesi, fra cui il Brasile.

Questo stile di investimento su larga scala risale all’epoca di Nakasone, premier dal 1982 al 1987, quando la borghesia giapponese aveva abbracciato l’idea di controllare tutto il mondo aziendale e bancario investendo i propri capitali ovunque.

Una volta portata all’estremo, la mentalità di espandere l’influenza giapponese solo attraverso l’ampliamento della diffusione del capitale si è evoluta in una profezia autoavverante, ossia che le persone fisiche e le entità proprietarie dei principali beni del Paese avrebbero raggiunto una potenza sufficiente a garantire al Giappone un elevato grado di controllo sull’intera economia capitalistica globale.

Questi sogni sfrenati sono stati abbandonati alla fine degli anni ‘80, dopo che una crisi ha colpito il Paese, ponendo così fine all’avanzata del capitale giapponese e dando inizio a un’altra era di crescita piatta, di bassi aumenti salariali e di contenimento della spesa pubblica.
La politica di Kuroda, che era stata attuata in stretto coordinamento con l’Abenomics, sta lasciando il posto a una politica più restrittiva, o di “buyback”, come avevamo già accennato in alcuni rapporti precedenti. Questa mossa è stata apertamente stigmatizzata da altri attori dell’economia capitalistica, come il fondo BlackRock, preoccupati dall’incapacità del mercato di assorbire le forti “fluttuazioni” sui prezzi e dalla “troppa forza” con cui essa si rovescerebbe sui mercati.

La maggior parte degli indicatori segnala un rischio di impatto significativo per l’industria tecnologica giapponese, sulla scia di un’escalation globale della faida imperialista tra Stati Uniti, Nato, Russia e Cina, con i rispettivi alleati. La contrazione del PIL, ritenuta probabile sia per il primo trimestre dell’anno sia per il secondo, è un’importante indicazione di questo risultato, tanto che ufficiosamente diverse fonti li collegano tra loro in un rapporto causale.

La tendenza dell’inflazione è la stessa osservata ovunque, così come la sua lenta diminuzione: questo è il risultato dell’impossibilità per i banchieri centrali di riportarla sotto controllo in tempi ragionevoli. I prezzi al consumo “core” (“primaria”, esclusi energia e alimentari) sono infatti aumentati del 3,2% a marzo rispetto a un anno prima, rallentando rispetto ai massimi nell’arco di 42 anni, del 4,3% di gennaio e del 3,3% di febbraio, come effetto dei sussidi governativi per ridurre la spesa per l’energia dei privati. Questo dato è ampiamente superiore all’obiettivo della BoJ, a confermare ulteriormente che la discesa dei prezzi non sarà così rapida.

Le vendite al dettaglio in Giappone si sono mantenute al +6,6% annuo, battendo la precedente previsione del +5,8%, trainate dal settore automobilistico e da quello domestico, in particolare dai grandi magazzini. Anche la produzione industriale relativa alla produzione nazionale è aumentata del 4,5% a febbraio rispetto a gennaio, superando le previsioni di un aumento del 2,7%. Se mai questi dati fossero reali, e non pregiudicati dal moderno trucco dell’economia borghese di diminuire le aspettative sugli indicatori economici, in modo che siano più facilmente e frequentemente superati dalla realtà, vari indicatori sembrerebbero convergere e indicare che la fine dell’attuale slancio è già in vista.

Con i divieti di esportazione recentemente annunciati, che affliggono la produzione di macchine per la fabbricazione di circuiti integrati, la seconda metà dell’anno concretizzerà quanto si presenta già oggi sotto forma di previsioni di mercato. Le debolezze del settore dell’informatica hanno portato a una diminuzione della domanda di servizi, toccando il fondo proprio nel momento in cui i capitalisti giapponesi si aspettavano il “grande rimbalzo” post-pandemia. Tutto nel capitalismo giapponese sembra reggere solo grazie al calo dei prezzi dell’energia, che sta pompando nuovo ossigeno nella spesa per i consumi, altrimenti non guidata dalla crescita netta e nemmeno da ulteriori fattori strutturali.

Per aumentare i consumi occorrerebbe aumentare i salari, ma i “colloqui di primavera” su questo tema sono stati a lungo rimandati. Questo si deve al fatto che la BoJ non decelererà presto il ritmo del rialzo dei tassi, e quindi cerca ancora di vantare il rimbalzo della produzione industriale per presentare il Paese come “stabile”. Nel contesto di un mercato del lavoro peggiorato, è il modo in cui Kishida sta cercando di far credere temporanea e recuperabile la difficile situazione dei lavoratori. I dati di marzo mostrano un aumento del tasso di disoccupazione (2,6% a febbraio rispetto al 2,4% di gennaio); negli stessi mesi il rapporto tra posti di lavoro e domande di assunzione è sceso da 1,35 a 1,34.

La debolezza del settore manifatturiero e la solidità di quello dei servizi hanno guidato questa tendenza. Questi stessi settori sono in gran parte responsabili dell’impennata della produzione fino a gennaio, il che induce a considerare il loro miglioramento come momentaneo.
La politica di aumento dei salari, al centro della strategia sostenuta dalla Confederazione Sindacale Giapponese, è stata affrontata dalle imprese e dall’industria aziendale con un aumento dei salari in stile “ordine sparso”, pari a +1,4% in aprile (mese di inizio dell’anno fiscale giapponese), ma limitato a un mese. Però i dati di aprile hanno mostrato anche una diminuzione dello 0,3% delle retribuzioni degli straordinari, per la prima volta in due anni.

L’effetto dello “shunto”, le trattative salariali primaverili, non è andato oltre, ed è stato condizionato da Kishida, che ha affermato di sostenere un aumento della crescita dei salari nominali solo a condizione che l’inflazione a lungo termine si mantenga intorno al 2% I dati ufficiali del governo continuano a negare che tale condizione sia stata raggiunta. La serie storica dei salari reali, corretti dall’inflazione, mostra il tredicesimo calo consecutivo su base annua (-3,0%), sotto l’attacco del forte rialzo dei prezzi al consumo che continua a erodere la crescita dei salari nominali.

La spesa delle famiglie, scesa del 4,4% ad aprile, segna a sua volta il calo più elevato da febbraio 2021, configurando una situazione in cui i consumi non riescono a trainare l’economia in modo significativo; anzi, il Paese sta risentendo del rallentamento dell’economia globale, a causa del suo posizionamento, di grande paese esportatore, nel quadro più ampio del capitalismo internazionale.

La spesa per i servizi è diminuita del 1,9%, mentre un calo molto più marcato si è avuto nella domanda di beni, diminuita del 3,4%. I prodotti fisici guidano la flessione della domanda, lasciando spazio a una situazione simile a quella italiana, in cui il mercato interno è troppo debole per compensare la perdita di proiezione sui mercati esterni. L’attuale contesto, simile alla guerra fredda, non offre le stesse opportunità, mostrando la vulnerabilità delle imprese di diversi settori industriali, che potrebbero soffrire un ulteriore shock finanziario atteso da tempo e che potrebbe materializzarsi nel caso in cui il piano di riacquisto del debito messo in atto dalla BoJ andasse a monte.

La politica estera vede il Giappone sempre più impegnato nella faida imperialista tra le potenze borghesi e schierato con gli Stati Uniti e la NATO contro la Russia, mentre si intensificano le offerte di aiuto all’esercito ucraino (a maggio è stato consegnato a Kiev un certo numero di veicoli militari). Ma l’imperialismo giapponese è nelle condizioni per vedere una ripresa su larga scala, per cui si attesta su una tattica di basso profilo che consiste nello schierarsi ogni volta che è conveniente: probabilmente la tempestiva offerta di aiuti umanitari alle vittime dell’inondazione di Kherson è un caso esemplare di questa strategia.

Tuttavia i già citati ostacoli all’espansione dell’economia giapponese obbligano lo Stato a compromettere il proprio controllo sugli asset vitali del Paese, come la grande industria, trasferendo Toshiba al controllo privato con un accordo da 14 miliardi di dollari con il gruppo Japan Industrial Partners (JIP). I commenti ufficiali indicano che la mossa è dovuta agli alti tassi di interesse e alla minore disponibilità di condizioni favorevoli per i prestiti.

Anche la sicurezza energetica continua a essere un elemento di debolezza, visto che le recenti decisioni del governo sulle nuove sanzioni alla Russia hanno continuato a escludere lo sfruttamento del giacimento di petrolio e di gas su cui si era sviluppato il progetto Sakhalin-2, che all’epoca era stato oggetto di enormi investimenti sia da parte russa sia dell’industria giapponese gestita dallo Stato.

Questi segnali di una possibile crescente insicurezza nei confronti dei combustibili fossili stanno spingendo la borghesia giapponese a cercare di ottenere progressi significativi nell’alternativa dell’alimentazione a idrogeno. L’obiettivo, recentemente fissato dal gabinetto Kishida nella prima settimana di giugno, è quello di portare la produzione di idrogeno a 12 milioni di tonnellate entro il 2040, un livello sei volte superiore a quello attuale. Il piano è sostenuto da un finanziamento di 107 miliardi di dollari in 15 anni, indirizzato a creare catene di approvvigionamento basate sull’idrogeno per il settore pubblico e per quello privato: realisticamente, il governo considera questa operazione solo come una delle opzioni, tra cui il “carbone pulito” e l’energia proveniente da centrali nucleari, per far fronte ai complessi problemi relativi alla decarbonizzazione.

L’impatto di queste particolari politiche sul territorio giapponese sarà significativo. Le ragioni alla base degli spettacolari proclami del gabinetto Kishida di volere trasformare il Giappone in una “società dell’idrogeno”, in cui la domanda e l’offerta di energia devono essere incentrate sull’idrogeno, sono la carenza di GNL, che si prevede persisterà almeno fino al 2025, e la concorrenza dei Paesi europei per ottenere questa fonte energetica che ne aggraveranno ulteriormente la scarsità.

Così, la commercializzazione dell’idrogeno puro e dell’ammoniaca è vista dalla grande industria, che ha le chiavi per dirigere la maggior parte, se non tutte, le azioni del governo, come la sua ultima risorsa per non perdere ulteriori posizioni nella classifica delle potenze globali.
Dietro la pomposa affermazione di Matsuno Hirokazu, che assicura che il Giappone ha tutto ciò di cui ha bisogno per raggiungere il triplice obiettivo della decarbonizzazione, della stabilità dell’approvvigionamento energetico e della crescita economica, il Paese dovrà affrontare le conseguenze dell’incidente alla centrale di Fukushima per molti anni a venire.

Questa strategia è stata combinata con la previsione di un avanzamento nella produzione di microchip, di cui la TSMC di Taiwan è destinata a fornire le conoscenze al mondo aziendale giapponese, al fine di recuperare le posizioni di vertice nel mercato globale che aveva un tempo. Più realisticamente, il Giappone deve competere con i piani degli Stati Uniti per il trasferimento di impianti di produzione di chip nel proprio territorio, che a loro volta portano a una competizione congiunta e alla corsa contro il tempo per la sottrazione di materie prime e semilavorati.

Al di là delle forti somiglianze con l’Italia, in particolare con il percorso intrapreso dalla borghesia italiana per continuare ad abbracciare la sua politica pluridecennale di bassi salari, questo tipo di sviluppo dell’economia indica chiaramente che in Giappone la ripresa post-Covid19 è già ampiamente terminata. La fase attuale dimostra l’incedere furioso a livello mondiale della crisi economica e finanziaria, che la borghesia giapponese è parzialmente e sempre più incapace di affrontare, e che così la costringe a ripiegare su una strategia di diluizione della guerra tra le classi.










Sciopero SiCobas - Firenze - 13 maggio
Per la rinascita di un forte movimento sindacale di classe contro sfruttamento e repressione

Il foglio di via ai due Coordinatori del SI Cobas di Prato e Firenze è un nuovo atto repressivo dello Stato borghese italiano contro la lotta operaia e il sindacalismo di classe, che va ad aggiungersi agli sgomberi polizieschi dei picchetti – da ultimo al magazzino Coop di Pieve Emanuele (Milano) contro gli operai in sciopero col SI Cobas e, poche settimane prima, alla Italtrans di Bergamo contro gli operai in sciopero con l’Usb – alle denunce, alle montature giudiziarie delle procure e ai conseguenti processi.

Affianco e prima della repressione statale, i lavoratori subiscono quella padronale, coi ricatti, le discriminazioni, i licenziamenti, il ricorso al crumiraggio negli scioperi e sino alle squadre di picchiatori privati. Migliaia di aziende fioriscono nel sistema di appalti e subappalti il quale alimenta un vasto strato di piccola borghesia che si arricchisce coi salari miseri dei lavoratori e garantisce enormi profitti alla grande borghesia delle aziende committenti.

La macchina statale borghese, quanto è pronta ed efficiente a dispiegarsi contro i lavoratori e il sindacalismo conflittuale, tanto è lenta e inefficace a perseguire le aziende per le violazioni di legge e contrattuali che vanno a danno dei lavoratori. Democrazia e legalità sono a senso unico: valgono solo laddove utili agli interessi padronali. Sono una finzione per nascondere la natura borghese del presente regime politico. Per i lavoratori sono un turpe inganno, non uno strumento di difesa. I partiti operai opportunisti che invocano democrazia e legalità per difendere i lavoratori non fanno che avallare questo inganno ideologico della classe dominante.

La Costituzione della Repubblica “fondata sul lavoro” – supremo valore dell’opportunismo politico e sindacale – è l’emblema di questo inganno antiproletario: mai è servita a fermare le imprese militariste dell’imperialismo italiano né a garantire salari dignitosi ai lavoratori che, laddove hanno conquistato miglioramenti salariali e nelle condizioni di lavoro, lo hanno fatto solo grazie alle loro lotte.


I lavoratori per difendersi dallo sfruttamento capitalista possono contare solo sulla forza della loro lotta e delle loro organizzazioni.

Per questo il regime borghese ha varato le leggi contro la libertà di sciopero: leggi fasciste approvate in piena democrazia, da un governo democristiano (De Mita, legge 146 del 1990) e da uno di centro-sinistra (D’Alema, legge 83 del 2000). La classe dominante non ha avuto certo bisogno di attendere un governo di destra per colpire la lotta operaia e il sindacalismo di classe!

Queste leggi rendono illegale scioperare in modo efficace – cioè a oltranza e senza preavviso – a una parte consistente della classe lavoratrice, proprio a quelle categorie che sono state alla testa dei movimenti di sciopero in Francia e in Gran Bretagna in questi mesi. Si capisce quanto tali leggi siano fondamentali per la borghesia al fine del mantenimento della pace sociale e quanto dannose per i lavoratori e per il sindacalismo di classe!

I partiti della sinistra borghese che in questi mesi agitano la questione del “salario minimo” per raccogliere qualche simpatia fra i lavoratori, tacciono sulle leggi antisciopero perché mai saranno disposti ad abrogarle. Questo perché sono contro la lotta operaia non meno di quanto lo sono i partiti borghesi di destra!

Le leggi antisciopero furono invocate dai sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil) per fermare l’avanzata del sindacalismo di base e preparate dai cosiddetti “codici di autoregolamentazione dello sciopero” promossi da questi sindacati tricolore fin dalla fine degli anni settanta.

Insieme alla repressione padronale e a quella dello Stato borghese, il sindacalismo di regime è il terzo fondamentale anello della catena che tiene oppressa la classe operaia. Cgil Cisl e Uil sono gigantesche macchine organizzative diffuse capillarmente sul territorio, sostenute dallo Stato e dagli industriali allo scopo di tenere ferma la classe lavoratrice, di rimandarne quanto più possibile il suo inevitabile ritorno alla lotta.

Quanto accaduto nel distretto tessile di Prato è la limpida conferma di questo processo. Per decenni la Cgil non ha mosso un dito contro il più bieco sfruttamento degli operai. Quando i lavoratori si sono organizzati nel SI Cobas e hanno iniziato a scioperare, padroni e Stato borghese hanno iniziato le azioni repressive, col silenzio/assenso delle istituzioni democratiche locali e dei sindacati di regime.

La sola strada che hanno i lavoratori per difendersi dallo sfruttamento capitalistico è quella di unire le loro lotte e, a questo fine, unire l’azione del sindacalismo conflittuale.

Oggi tutto il sindacalismo conflittuale di Firenze è sceso unito in piazza in difesa della libertà di sciopero e di organizzazione sindacale. Ma purtroppo, da anni, le dirigenze dei maggiori sindacati di base hanno dimostrato di non essere in grado di perseguire l’unità d’azione sindacale, promuovendo invece azioni separate e in concorrenza, che danneggiano il già duro compito di ricostruzione del movimento sindacale di classe.

È compito fondamentale e ineludibile dei lavoratori e dei militanti sindacali combattivi battersi contro la pratica opportunista di divisione delle azioni sindacali per imporre l’unità d’azione di tutto il sindacalismo conflittuale – sindacati di base e aree conflittuali in Cgil – quale via maestra per la ricostruzione di un forte movimento sindacale di classe, in grado di unire le lotte dei lavoratori al di sopra delle false divisioni fra aziende, categorie, territori, per le rivendicazioni che accomunano tutti i proletari:
     - Forti aumenti salariali, maggiori per le categorie e le qualifiche peggio pagate
     - Riduzione della giornata lavorativa a parità di salario
     - Salario pieno ai lavoratori disoccupati
     - Abbassamento dell’età pensionabile e forti aumenti degli assegni pensionistici, maggiori per gli importi più bassi.








Per il regime bolivariano lo sciopero è terrorismo lavorativo

Il malcontento serpeggia fra i siderurgici dell’impresa statale venezuelana SIDOR (Siderúrgica del Orinoco). Sono circa 12 mila, ma da anni l’impianto è semiparalizzato e in 5 mila sono a casa con salario decurtato. Una delle loro richieste è il loro ritorno al lavoro. Giovedì 6 giugno si sono concentrati in sciopero dinanzi ai cancelli della fabbrica, superato il contenimento dei poliziotti, rivendicando anche miglioramenti nelle condizioni d’impiego, già ottenuti in passato ma poi revocati.

Lo sciopero è proseguito a oltranza. La notte fra sabato 9 e domenica 10 giugno gli uomini della Direzione Generale del Controspionaggio Militare (DGCIM) hanno arrestato il segretario del SUTISS (Sindicato Único de trabajadores de la industria siderúrgica y sus similares) della fabbrica Leonardo Azocar, il delegato sindacale Daniel Romero e il lavoratore Juan Cabrera. Questo è stato liberato poco dopo, mentre i due dirigenti sono rimasti agli arresti con le imputazioni di incitazione all’odio, associazione a delinquere e boicottaggio.

Lo sciopero è proseguito lunedì. Ma martedì gli operai, circondati dai militari, hanno ripreso il lavoro. La notte del martedì il Tribunale del Lavoro di Prima Istanza ha inflitto una pena cautelare contro 22 operai della SIDOR. Il Tribunale ha intimato agli operai:
     1) di astenersi da qualsiasi azione di forza o minaccia di perturbare, sospendere, ostacolare, interrompere l’attività amministrativa e operativa della SIDOR;
     2) di astenersi dal promuovere scontri, violenze verbali, affiggere manifesti, volantini, eseguire scritte e in generale di incitare all’odio, l’intolleranza, la violenza, intimidire con qualsiasi strumento di comunicazione all’interno dell’impresa;
     3) di astenersi dall’occupare o promuovere occupazioni di aree dell’impresa, di disporre dei beni e dei servizi dell’impresa messi a disposizione degli operai per il compimento delle attività aziendali;
     4) di astenersi dall’intralciare le vie di accesso alla fabbrica e la zona perimetrale all’impianto e dall’entrare nell’impianto senza adempiere alle procedure stabilite.

Il regime borghese venezuelano qualifica abitualmente le rivendicazioni operaie come “incitamento all’odio” e “intimidazioni” (“terrorismo laboral”).

Anche il regime borghese italiano ha una legge, l’art.415 del codice penale, che così recita: «Chiunque pubblicamente istiga (...) all’odio fra le classi sociali, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni». È del 1930, risale cioè al regime mussoliniano. Negli anni ’70 una sentenza della Corte Costituzionale ne dichiarò l’illegittimità «nella parte in cui non specifica che tale istigazione deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». Cioè borghesi e padroni debbono comunque restare “tranquilli”. Contemporaneamente, negli anni ‘70, gli operai combattivi che lottavano contro il tradimento dei capi della Cgil venivano accusati, non solo di “odiare” ma peggio ancora, di “affinità col terrorismo”. Più recentemente, dirigenti e militanti sindacali del SI Cobas e dell’Usb sono stati oggetto di procedimenti giudiziari a Piacenza e a Genova con l’accusa di “associazione a delinquere”.

Purtroppo, fra i dirigenti dei sindacati di base, in particolare fra quelli dell’Usb, vi è chi vede in Venezuela non un regime anti-proletario e borghese da abbattere al pari degli altri bensì un governo ammantato di socialismo (!) nonostante innumeri episodi di repressione antioperaia. La stessa Federazione Sindacale Mondiale, di cui l’Usb fa parte, esprime apertamente simpatie per il regime venezuelano, come scriviamo in altro articolo su questo numero.

La Central Bolivariana Socialista de Trabajadores (CBST), filogovernativa e membro della FSM, non ha espresso alcuna solidarietà con gli operai della SIDOR in lotta e colpiti dalla repressione, mantenendo un silenzio complice.









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Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale

Ultime dal sindacalismo di regime in Italia

Pur nel perdurare del generale stato di passività delle masse lavoratrici in Italia, la Cgil e gli altri sindacati di regime riescono ugualmente a dare riprove del loro ruolo di strumenti fondamentali per la classe padronale al fine di impedire la ripresa generale della lotta della classe operaia e di conservare la pace sociale.


Sciopero dell’Adl Cobas alla Commit Siderurgica

L’8 maggio sono entrati in sciopero gli operai della Work Service Group, l’azienda a cui La Commit Siderurgica di Veggiano, vicino a Padova, ha dato in appalto la gestione del magazzino. La cosiddetta “esternalizzazione” di parti di attività in un posto di lavoro è prassi ormai divenuta comune, finalizzata a dividere i lavoratori per sfruttarli meglio e aumentare i profitti. Gli operai del magazzino logistico della Commit hanno condizioni d’impiego peggiori rispetto a quelli siderurgici, sono tutti immigrati – al 90% indiani e gli altri dello Sri Lanka – e sono stati organizzati dall’Adl Cobas, sindacato di base operante in Emilia Romagna e soprattutto nel Veneto, il quale da anni opera fianco a fianco con il SI Cobas nel settore logistico.

Quando sono emerse anomalie sulle buste paga relative ai differenti livelli di inquadramento i primi lavoratori si sono iscritti a quel sindacato di base e hanno cominciato a rivendicare competenze di diverse migliaia di euro. L’azienda, con la complicità della Uil Trasporti, ha costretto sotto minaccia i lavoratori non iscritti all’Adl Cobas a firmare rinunce alle retribuzioni in cambio di soli € 350 di arretrati e di un livello di inquadramento. Quando però gli iscritti all’Adl Cobas hanno ottenuto quanto loro spettava, oltre al livello, quasi tutti i lavoratori sono passati a questo sindacato.

È iniziata una lunga trattativa su altre rivendicazioni, ma dopo un mese e mezzo i dirigenti della Work Service hanno comunicato di aver siglato un accordo con la Filt Cgil, a cui nel frattempo si era iscritta la minoranza di operai dello Sri Lanka. La cosa particolarmente curiosa è che l’accordo fu firmato dalla Filt Cgil di Venezia, per un’azienda di Padova. È iniziato così lo sciopero, durato una settimana. Il terzo giorno per cercare di convincere i lavoratori a cessare lo sciopero e a tornare al lavoro si è presentato ai cancelli niente di meno che il segretario provinciale della Filt Cgil Venezia! È stato mandato via dai lavoratori.

L’azienda ha infine accettato di aprire una trattativa.


Sciopero del SI Cobas al magazzino Coop di Pieve Emanuele

Le attività al magazzino logistico Coop di Pieve Emanuele, a sud di Milano, sono assegnate in appalto alla Cooperativa Lavoratori Ortomercato. Il 2 maggio i lavoratori organizzati col SI Cobas hanno iniziato a scioperare. La reazione aziendale è stata violenta. Un gruppo formato da crumiri, capetti e altri loschi figuri ha aggredito il picchetto. Il confronto è stato alquanto duro ma alla fine il gruppo al servizio della cooperativa ha dovuto desistere. Ciò ha dato il senso della determinazione degli operai. La sera del terzo giorno di sciopero alcuni individui non identificati hanno persino sparato tre colpi di pistola in aria nei pressi degli scioperanti. A ciò si sono aggiunti ripetuti sgomberi del picchetto da parte delle forze dell’ordine. Ma lo sciopero è continuato per ben 15 giorni costringendo infine la CLO a firmare il 17 maggio un accordo migliorativo che gli operai in assemblea hanno accolto molto favorevolmente, manifestando grande entusiasmo e fiducia nel SI Cobas.

Il 22 maggio la Filt Cgil Milano – Dipartimento Merci, Logistica e Cooperative – ha reso pubblica una lettera inviata alla CLO, firmata dal segretario provinciale e da un funzionario del sindacato, che merita un posto d’onore nelle nefandezze del sindacalismo di regime. Vi si afferma che l’accordo firmato fra CLO e SI Cobas modifica in alcuni punti un altro accordo firmato dalla CLO e dalla Filt Cgil e dalla Fit Cisl il 10 maggio, cioè durante lo sciopero, che, come nella consuetudine dei sindacati di regime, si proponeva di spezzare la lotta operaia, questa volta però senza riuscirci.

Ma qui si va oltre. La lettera si distingue sia per la goffaggine sia per la sudditanza agli interessi aziendali. Dichiara che la Filt Cgil avrebbe chiesto l’estensione dell’accordo migliorativo applicato nell’appalto Coop di Pieve Emanuele, grazie alla lotta degli operai organizzati col SI Cobas, negli altri appalti affidati alla CLO affinché non vi sia discriminazione fra i lavoratori-soci della cooperativa: «Quanto da voi sottoscritto […] con il SI Cobas […] non potrà riguardare il solo sito di Pieve Emanuele per una questione di uguaglianza tra i soci lavoratori e per il principio di discriminazione tra gli stessi, per tale motivo vi comunichiamo fin da subito che ne chiederemo l’estensione a tutti i soci lavoratori di CLO».

Bene, verrebbe da dire. Ma durante i 15 giorni di sciopero del SI Cobas, la Filt Cgil non lo ha sostenuto bensì boicottato, siglando l’altro accordo insieme alla Fit Cisl, e non chiamando allo sciopero i soci-lavoratori negli altri appalti in cui opera la CLO. Infatti la lettera prosegue affermando che «la modifica delle pattuizioni in essere […] porterebbe all’apertura di scenari […] con stati di crisi e decurtazioni salariali». Il segretario provinciale della Filt Cgil di Milano afferma che i miglioramenti conquistati dal SI Cobas nel magazzino Coop di Pieve Emanuele non possono essere estesi negli altri siti in cui opera la CLO, in quanto “non sostenibili” dalla cooperativa/azienda, “come dichiarato dai suoi dirigenti”.

La lettera termina diffidando la CLO dal disattendere quanto pattuito con Filt Cgil e Fit Cisl le quali, in caso contrario, avrebbero aperto lo stato di agitazione. Una lettera tanto contraddittoria e scomposta quanto infame, in cui il sindacato di regime si oppone a un accordo migliorativo e alla sua estensione ad altri lavoratori in quanto danneggerebbe – come ovvio che sia! – i conti aziendali.


Sciopero del SI Cobas alla DHL

Dal 26 al 29 maggio si sono svolti tre giorni di sciopero dei lavoratori organizzati dal SI Cobas presso i magazzini logistici di Settala (Milano), Livraga (Lodi), Corteolona (Pavia), Piacenza e Novara.

Uno dei modi con cui i sindacati di regime – Cgil, Cisl, Uil – hanno cercato, di intesa con le direzioni aziendali, di recuperare terreno nei magazzini logistici, in cui negli anni passati tanti operai si sono iscritti ai sindacati di base, è stato siglare accordi per l’assunzione diretta, ponendo fine al sistema degli appalti, con un processo di internalizzazione inverso alle esternalizzazioni praticate negli ultimi anni assai di sovente. Ciò avviene però a due condizioni: favorendo le assunzioni degli iscritti ai sindacati di regime o lasciando intendere che il cambio di tessera favorirebbe tale assunzione; in secondo luogo, in cambio dell’assunzione diretta, viene imposto un peggioramento delle condizioni d’impiego, revocando parte di quei miglioramenti conquistati con le lotte compiute negli anni precedenti guidate dai sindacati di base.

Ciò è quanto accaduto alla Fedex-Tnt di Padova nel 2021 per colpire l’Adl Cobas, e in altri magazzini in varie parti d’Italia contro il SI Cobas. Ora questo è riproposto alla DHL. Al magazzino di Settala il picchetto è stato aggredito dalle forze dell’ordine. L’anno scorso era giunta l’assoluzione – in secondo grado – per il Coordinatore nazionale e per il delegato del SI Cobas alla DHL di Settala dalle accuse di violenza privata a seguito del picchetto durante uno sciopero nel 2015. In primo grado erano stati condannati entrambi a 1 anno e 8 mesi.

Dopo questo sciopero di 3 giorni, il 29 maggio Filt Cgil, Fit Cisl e Uil Trasporti Lombardia hanno pubblicato un comunicato unitario, che si contende la palma dell’infamia con quello sopra citato, relativo all’accordo fra SI Cobas e CLO nell’appalto presso il magazzino logistico Coop di Pieve Emanuele. In esso si legge: «i sindacati autonomi […] bloccano i cancelli (solo quello sanno fare...) agitando rivendicazioni e pericoli confusi. Parlano e scrivono di problemi sulla malattia, su straordinari, tickets a 8 (perché non a 9 10 11 12?) livelli a pioggia fuori dalla logica e dal CCNL etc. Tutta roba pesante per chi non ha voglia di lavorare […] Il tutto a discapito dei lavoratori, delle loro retribuzioni e dei danni che fanno alle aziende […] Il Sindacato confederale pensa al futuro dei lavoratori di DHL Supply Chain. Temi che sono lunari per i ricattatori dei cancelli […] La multinazionale non è roba per voi... Tornate nell’habitat del lavoro nero».

I lavoratori del SI Cobas sono accusati di non aver voglia di lavorare, di saper solo scioperare e bloccare i cancelli, di far danno alle aziende e quindi a loro stessi, di non esser degni di lavorare in una grande azienda. La voce del padrone!


Lo sciopero Fiom alla Stellantis di Pomigliano

La fabbrica ex FIAT, poi FCA, ora Stellantis di Pomigliano d’Arco (Napoli) da anni non vedeva gli operai lottare. Venne alla ribalta delle cronache per l’attacco dell’azienda ai lavoratori, allora diretta da Marchionne, attraverso un accordo e un referendum nel giugno 2010, con Landini eletto segretario generale Fiom da poche settimane, non vi fu alcuna azione di lotta. Non a caso la FIAT iniziò lì il suo attacco, per poi portarlo nel gennaio successivo a Mirafiori, senza che nel frattempo il finto combattivo Landini organizzasse una vera lotta. La sua natura di bonzo sindacale agente della borghesia nella classe operaia, e quella della Fiom di sindacato di regime non erano certo cambiate. Noi lo denunciammo subito (“I padroni disdicono il contratto dei metalmeccanici con l’accordo di FIM e UILM e la passiva complicità della FIOM”), a differenza di molti nell’area conflittuale in Cgil e anche nei sindacati di base che caddero nell’inganno.

Lo Slai Cobas, un tempo con una robusta presenza nella fabbrica di Pomigliano (1.500 voti alle elezioni Rsu nel 1994), era stato duramente indebolito con la sconfitta, nel 2007, nella lotta sul trasferimento di tanti suoi iscritti (316 operai) nel polo logistico di Nola. L’ultima manifestazione di forza dello Slai Cobas fu la contestazione ai vertici Fiom, quando il segretario generale era Gianni Rinaldini, durante una manifestazione nazionale del gruppo FIAT a Torino nel maggio 2009.

Quello iniziato il 10 maggio scorso è perciò stato il primo potente sciopero in fabbrica dopo almeno 15 anni. Un segnale importante, si spera una svolta. Ciò che non è cambiata e la condotta della Fiom, che si è guardata dal rafforzare il finalmente rinato spirito di lotta che ha fatto di tutto per frenare e isolare.

Il malumore covava da tempo fra gli operai per il peggioramento delle condizioni di lavoro. Un delegato Fiom dello stabilimento, dell’area alternativa conflittuale “Le giornate di marzo”, ha raccontato in un suo intervento il 1° giugno a Torino che Stellantis ricorre al ventesimo e anche al ventunesimo turno, previsti dalla contrattazione peggiorativa introdotta nel 2010.

Il 9 maggio l’azienda ha comunicato l’incremento del carico di lavoro da 300 a 306 vetture prodotte al giorno. In poco tempo vi è stato un aumento della cadenza della catena pari a 20 vetture, senza aumentare il numero dei lavoratori.

Gli operai si sono rivolti ai delegati della Fiom, che ha proclamato uno sciopero di due ore a partire dal secondo turno del 10 maggio. Ma la rabbia ha scavalcato la proposta di azione della Fiom di fabbrica: gli operai non solo hanno aderito allo sciopero quasi al 100% ma lo hanno prolungato per tutta la durata del turno di 8 ore e hanno fatto un corteo interno allo stabilimento per poi uscire dai cancelli.

Lo sciopero, iniziato nei reparti lastratura e stampaggio, si è diffuso al resto della fabbrica, bloccando la produzione della Panda e rallentando quella del suv Alfa Romeo Tonale, ed è continuato a oltranza. È proseguito l’11 maggio, sempre per 8 ore. Poi la Rsa Fiom prima lo ha ridotto a 4 ore, infine lo ha interrotto, come scritto nel suo comunicato, “per senso di responsabilità”! Ma responsabilità verso chi?
Due giorni dopo, il 15 maggio, si è presentato a volantinare davanti alla fabbrica persino il nuovo segretario generale della Fiom Cgil, Michele De Palma, in precedenza responsabile nazionale della Fiom per il settore automobilistico.

La Fiom ha denunciato come l’azienda non abbia concesso la benché minima apertura alle richieste dei lavoratori e del sindacato. Per tutta risposta, invece di tentare di estendere lo sciopero ad altri stabilimenti della Stellantis, per rafforzarlo, lo ha mantenuto isolato, poi ne ha ridotto la durata e infine lo ha interrotto. Il delegato dell’area di alternativa nello stabilimento di Pomigliano ha anche raccontato che dopo lo sciopero sono iniziate azioni ritorsive verso i delegati e i lavoratori combattivi.

Un comunicato distribuito a Mirafiori i giorni successivi allo sciopero di Pomigliano dai Cobas Lavoro Privato e dai Lavoratori Metalmeccanici Organizzati correttamente affermava: «Le lotte e le rivendicazioni dei singoli reparti e dei singoli stabilimenti vanno unificate. Questo è il messaggio che ci hanno lanciato gli operai di Pomigliano. La nostra unità e organizzazione nella lotta è l’unico strumento che abbiamo per battere le scelte di Stellantis che continua a fare profitti sulla nostra pelle».

Questa corretta indicazione è assente invece nel comunicato dell’area di alternativa in Cgil “Le giornate di marzo”, da cui non traspare alcuna critica all’operato né della Fiom di fabbrica (Rsa) né della Fiom nazionale. Il delegato di quest’area conflittuale nella fabbrica Stellantis di Pomigliano ha indicato solo in un suo intervento, dal tono assai moderato, all’assemblea generale Fiom del 29 maggio, la necessità di una mobilitazione generale degli operai del gruppo.

Il nuovo responsabile nazionale della Fiom per il settore automobilistico, Samuele Lodi, ha dichiarato: «Sull’organizzazione del lavoro, ritmi, saturazioni e cadenze ci deve essere un confronto e una contrattazione e la Fiom deve potere agire il proprio ruolo». È chiaro che ciò a cui punta la Fiom è il riconoscimento sindacale e cosa sia disposta a cedere per ottenere questo obiettivo lo rammenta quanto dichiarò l’allora neo-segretario generale Fiom Maurizio Landini all’indomani dell’accordo di Pomigliano nel giugno 2010: «La Fiat riapra la trattativa [...] siamo disposti a una turnistica massacrante e a una redistribuzione delle pause che aumenti la produzione» (“La Repubblica”, 2 luglio 2010).


Lo sciopero nazionale Fim Fiom Uilm a luglio

Nello scorso numero, nell’articolo titolato “Miraggio del salario minimo per deviare la combattività operaia” () raccontavamo come al diciannovesimo congresso della Cgil a Rimini, il bonzo Landini avesse dichiarato che «il fisco è la madre di tutte le battaglie» e come il maggiore esponente della frazione sindacale del gruppo politico che da anni dirige la Fiom provinciale genovese (frazione sindacale che si vuole “per il sindacato di classe”) si fosse detto d’accordo.

Spiegavamo come quello della riduzione del cosiddetto “cuneo fiscale” sia lo stratagemma col quale la Cgil cerca di camuffare la volontà di non lottare contro il padronato per ottenere aumenti salariali, al fine di mantenere la pace sociale, e come ciò implichi l’avallo alla riduzione del potere d’acquisto dei salari, cioè del salario reale, per altro in atto dal 1975 per i lavoratori giovani e dal 1990 per gli anziani (“Il declino costante dei salari in Italia ().

Raccontavamo infine come per darsi l’aria di fare qualcosa, Cgil Cisl e Uil avevano proclamato tre manifestazioni (non scioperi!) in tre sabati, una a Bologna (6 maggio), una a Milano (13 maggio) e una a Napoli (20 maggio) «al fine di ottenere un cambiamento delle politiche industriali, economiche, sociali e occupazionali».

Nelle tre manifestazioni le aree conflittuali in Cgil (che ora sono denominate “Le radici del sindacato” e “Le giornate di marzo”) hanno preso posizione salutando le mobilitazioni, ma affermando che dovevano essere il primo passo verso uno sciopero generale che avesse al centro la rivendicazione degli aumenti salariali.

All’Assemblea Generale Fiom del 29 maggio è stato approvato un documento conclusivo in cui si afferma che «la grande partecipazione di lavoratori e lavoratrici, impongono al sindacato confederale tutto e alla Cgil di dare continuità alla mobilitazione in un percorso che, in assenza di risposte sugli obiettivi delle piattaforme Cgil Cisl Uil su salario, fisco, mercato del lavoro, pensioni, sanità, istruzione pubblica e più in generale sui diritti sociali, preveda iniziative di sciopero come deciso nel documento finale del Congresso […] In assenza di iniziative condivise la Segreteria darà corso al mandato ricevuto dall’Assemblea generale del Comitato centrale Fiom di Aprile con la proclamazione di iniziative di sciopero coordinate e articolate».

Le due aree di minoranza conflittuale hanno quindi votato a favore. Ma di null’altro si trattava che dell’abusato gioco con cui la Fiom vuole apparire più combattiva della sua confederazione sindacale, senza però minimamente mettere in discussione i fondamenti della sua azione sindacale collaborazionista, anzi sancendoli, riducendo la sua differenza alla richiesta di una manciata di ore di sciopero. I precedenti sono innumerevoli, emblematico quello della riforma delle pensioni FFornero, nel dicembre 2012, quando la Cgil proclamò 3 ore di sciopero generale per il settore privato e la Fiom 8 ore!

Anche il giudizio dato dalle aree di minoranza sulle manifestazioni di maggio è fuorviante: non si trattava del primo passo di un percorso di mobilitazione ma dell’inizio delle solite manovre diversive delle dirigenze dei sindacati di regime volte a evitare la mobilitazione e la lotta della classe lavoratrice.

Il 7 giugno, il nuovo segretario generale della Fiom, Michele De Palma, lodava il Ccnl firmato dal suo sindacato insieme a Fim e Uilm: «Il Ccnl dei metalmeccanici difende il potere d’acquisto dei salari […] A giugno 2023 […] i metalmeccanici riceveranno un incremento sui minimi pari a 123,40 euro mensili (livello C3), equivalenti a 6,6 punti percentuali. Gli aumenti salariali sono stati conquistati grazie alla clausola di garanzia inserita nell’ultimo rinnovo contrattuale del 5 febbraio 2021 che adegua le retribuzioni all’aumentare del costo della vita». Aggiungeva: «Il Governo deve intervenire con un provvedimento legislativo per detassare il salario in paga base dei lavoratori».

Questa breve dichiarazione conferma e chiarisce molte cose. Innanzitutto che la dirigenza Fiom considera la contrattazione effettuata soddisfacente e non intende ingaggiare una battaglia per l’aumento dei salari, ma seguire la linea dettata dal bonzo Landini a Rimini, cioè piatire dal governo la riduzione del cuneo fiscale.

In secondo luogo, per quanto 123 euro lordi siano una boccata di ossigeno, il segretario Fiom sa benissimo che ciò significa sanzionare il calo del salario reale, dato che l’inflazione ha iniziato a salire da fine 2021, gli aumenti previsti dalla clausola del Ccnl sono in busta paga da giugno 2023 mentre il tasso d’inflazione è stato ben superiore al 6,6%.

A tal proposito, in un articolo istruttivo sul calo dei salari dei lavoratori statali di un delegato Rsu del Comune di Milano, pubblicato il 13 giugno su “Progetto lavoro”, il periodico dell’area “Le radici del sindacato”, si legge: «L’inflazione […] calcolata con l’indice IPCA […] è dell’8,7% per il 2022» (“Salari pubblici? Sempre più poveri”). Come noto, l’indice IPCA è depurato dai prezzi dei beni energetici importati, quelli il cui prezzo è salito di più nei mesi di picco dell’inflazione. Sicché l’aumento dei prezzi è ben maggiore di quello dell’indice. Quindi il Ccnl firmato da Fiom Fim e Uilm non difende affatto i salari dei metalmeccanici, come affermato dal segretario Fiom, al contrario ne protrae la riduzione in corso da anni.

Sempre nello stesso articolo su “Progetto lavoro” si legge: «nonostante le piattaforme di quelle manifestazioni [di maggio] riportavano tra gli obiettivi l’aumento dei salari reali, nei discorsi conclusivi dei leader sindacali la questione contrattuale è stata affrontata solo in modo incidentale, con uno spazio incredibilmente meno importante di quello che hanno avuto invece le detrazioni, questa elargizione padronale unilaterale che da anni pretende di sostituirsi a contratti decenti».

In una conferenza stampa insieme ai segretari nazionali di Fim e Uilm, De Palma il 15 giugno ribadiva per l’ennesima volta di non aver nessuna intenzione di promuovere la lotta per aumenti salariali: «Attraverso il contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici siamo riusciti a salvaguardare il potere di acquisto dei salari […] ma è necessario un intervento del Governo di detassazione».

In quella occasione i segretari dei tre sindacati di regime, che controllano e impongono la pace sociale fra i metalmeccanici, annunciavano 4 ore di sciopero, divise fra Nord e Sud, il 7 e il 10 luglio. Fra le rivendicazioni non compare quella degli aumenti salariali bensì “rilancio industriale”, “occupazione”, “investimenti”, “transazione sostenibile” e soluzione delle “crisi aperte”. Tutte richieste di carattere generico, che sottoscriverebbe qualsiasi industriale, mentre per gli operai non significano nulla di concreto. In pratica si riducono a chiedere che l’economia capitalistica torni a crescere, quando nei paesi capitalisticamente maturi è entrata nella fase di crisi di sovrapproduzione da 50 anni. Di recente a questo stesso fatale traguardo è sopraggiunto anche il capitalismo in Cina. E solo dal buon andamento del capitalismo, Fim Fiom e Uilm, fanno dipendere la difesa dei bisogni immediati dei lavoratori.

Per ciò che attiene ai salari, nel testo della piattaforma si afferma: «Fim Fiom e Uilm chiedono […] di valorizzare e sostenere il reddito da lavoro». Nemmeno hanno il coraggio di nominarlo, il salario! Questa formula equivoca non è che la conferma della volontà di chiedere il taglio del cuneo fiscale e nulla più.

Nella prima pagina di Progetto Lavoro del 13 giugno, la portavoce nazionale dell’area “Le radici del sindacato” giustamente affermava: «occorre aumentare il salario lordo […] chiamando in causa il convitato di pietra per eccellenza nelle discussioni sindacali: la Confindustria». Ma poco prima sosteneva che: «Dobbiamo cogliere in primo luogo il segnale che la Fiom ha inviato a tutta la Confederazione, chiedendo di radicalizzare le iniziative per mettere in campo una mobilitazione che conduca allo sciopero generale». I dirigenti delle aree conflittuali in Cgil, con questo dar credito alle manovrine delle dirigenze dei sindacati di regime, che fingono di virare appena un poco in senso conflittuale per meglio continuare a incatenare la classe operaia alla passività e alla rassegnazione, si danno da fare per illudere i lavoratori che sia possibile spostare davvero in quella direzione la linea d’azione di questo sindacato. Ma il risultato è sempre di segno opposto. La vicenda di Pomigliano, la più importante nella storia recente del movimento sindacale in Italia, lo conferma nettamente.

Nel giro di 5 anni, i capi della opposizione in Cgil e in Fiom, che erano sul palco della grande manifestazione romana del 16 ottobre 2010 a fianco ad Epifani e a Landini ad applaudirli, si sono ritrovati cacciati, emarginati, schiacciati da colui al quale avevano dato credito e che oggi continua a dar prova del suo talento di traditore della classe lavoratrice, degno discepolo dei suoi predecessori.
La strada da indicare con chiarezza non è nel chiuso della Cgil, negli illusori tatticismi al suo interno, ma nel rivolgersi fuori di essa, al sindacalismo di base, indicando l’unità d’azione con esso, aiutando a combattere l’opportunismo delle sue dirigenze che ostacola l’azione unitaria, contrapponendo l’unità d’azione del sindacalismo di classe all’unità sindacale collaborazionista e di regime fra Cgil Cisl e Uil.


Il rinnovo del Ccnl vigilanza privata e dei servizi di sicurezza

L’ultimo risultato in queste settimane dell’opera anti-operaia del sindacalismo di regime è stato il rinnovo del contratto nazionale della vigilanza privata e dei servizi di sicurezza, contratto che riguarda circa 100 mila lavoratori. È stato firmato il 30 maggio da Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs che hanno espresso «soddisfazione per un rinnovo contrattuale che, dopo 7 anni, chiude la lunga fase vertenziale, assicura incrementi salariali significativi».

L’ipotesi di rinnovo contrattuale firmata il 30 maggio è arrivata, dopo che il precedente era scaduto da ben 7 anni. Nemmeno il ministro Brunetta, che impose nel 2010 il blocco dei contratti dei lavoratori statali per legge, giunse a tanto, giacché nel 2016 la Corte Costituzionale lo giudicò illegittimo. Gli “aumenti significativi”, dopo sette anni di blocco salariale, sono – in media – di 140 euro lordi. E non subito, in quattro anni: 50 euro a giugno 2023, 25 euro a giugno 2024, altri 25 euro a giugno 2025 e 20 euro a dicembre 2025, 20 euro nel 2026. Si è calcolato che si tratta di un aumento di 28 centesimi l’ora! La retribuzione è di 800 euro netti al mese per ben 40 ore di lavoro alla settimana.
Ma c’è un aspetto che rende ancora più afflittiva la condizione dei lavoratori della vigilanza privata: la categoria è soggetta alle leggi anti-sciopero (la 146 del 1990 e la 83 del 2000), volute da Cgil Cisl e Uil per fermare l’avanzata del sindacalismo di base, ed è perciò impossibile opporsi efficacemente alle aziende al fine di ottenere adeguati aumenti salariali, senza scioperare in modo illegale.

Fra le associazioni padronali che hanno firmato il contratto troviamo la “rossa” Legacoop che, come si legge sul suo sito internet, «riunisce oggi oltre 15 mila imprese cooperative […] capaci di creare sviluppo e ricchezza mettendo sempre al centro le persone». Le “persone” “al centro” del girone infernale dello sfruttamento capitalistico, certamente.

L’Assemblea Generale nazionale della Filcams Cgil – la federazione di categoria della Cgil con più iscritti, a parte il sindacato dei pensionati (lo SPI) – del 31 maggio e 1° giugno ha votato un ordine del giorno con un giudizio positivo sul rinnovo di questo contratto e ha dato mandato di organizzare, insieme a Fisascat e Uiltucs, la consultazione dei lavoratori.

La corrente di sinistra “Lavoro Società”, che sostiene la maggioranza, si è dichiarata favorevole in quanto «è stato certamente il risultato migliore possibile”, come si legge in “Sinistra Sindacale”, periodico di questa “aggregazione programmatica”. La prima pagina dell’ultimo numero di questo periodico sindacale è titolata “Ripartiamo dalla Costituzione”: con 28 centesimi in più all’ora. Sono essi stessi ad ammettere che la legge fondamentale dello Stato è carta straccia a buon mercato!

Eppure il 6 aprile scorso, dunque prima della firma dell’accordo, una sentenza del tribunale del lavoro di Milano aveva condannato un’azienda, a seguito di un’azione legale promossa dall’Adl Cobas, a risarcire una lavoratrice perché il Ccnl applicato non garantiva «un trattamento retributivo proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36 della Costituzione). Si trattava del contratto vigilanza e servizi fiduciari siglato da Cgil Cisl e Uil. Quindi la Cgil, che difende la Costituzione borghese, firma contratti che la stessa magistratura borghese afferma violino la Costituzione! Difficile credere che la condizione di quel lavoratore sia diventata “più libera e dignitosa” con un aumento della paga oraria di 28 centesimi d’euro.

Landini, nel direttivo nazionale di inizio giugno, ha affermato che «un contratto è valido quando lo votano i lavoratori». La consultazione referendaria, con voto segreto dei lavoratori, in ossequio al principio democratico “una testa un voto”, è una importante risorsa per il sindacalismo di regime. La lotta dei lavoratori è una questione di forza, non di presa di coscienza ideologica e individuale. In assenza di lotta, o con un movimento di sciopero già piegato ed estenuato, i bonzi del sindacalismo di regime sanno bene che, nel segreto dell’urna, prevalgono la maggior parte delle volte le posizioni più arrendevoli. Inoltre, le strutture organizzative capillari dei sindacati di regime, nonché l’appoggio ricevuto dalle aziende, consentono loro di controllare facilmente il voto: chiamare al voto i fidati, svolgere lo spoglio delle schede senza controlli. Il sindacalismo di classe deve rigettare questo strumento come nemico della lotta, perché fa pesare allo stesso modo il voto di un lavoratore combattivo col voto di un crumiro. Deve essere la forza della lotta a decidere. In una categoria una minoranza nazionale sufficientemente robusta e concentrata nei centri di lavoro principali può piegare il padronato e conquistare miglioramenti per tutti i lavoratori. Quando si ricorre al voto lo si deve fare in modo palese, nelle assemblee, operando così una selezione fra i lavoratori attivi e gli incerti o, peggio ancora, crumiri.

Ad ogni modo, non mancano esempi di votazioni andate male per i sindacati di regime, solitamente però nell’ambito di una singola azienda e mai nel quadro di una categoria nazionale, a seguito delle quali i bonzi sindacali hanno calpestato il voto espresso dai lavoratori. Questo accadde alla FIAT di Termoli nel 1994, quando gli operai votarono contro il passaggio da 15 a 18 turni (oggi a Pomigliano siamo ai 21 con approvazione di Landini!), e l’allora segretario generale Fiom Sabattini li minacciò in maniera ignobile col ricatto della disoccupazione come avrebbe fatto qualsiasi schifoso padrone dicendo in assemblea: «Se deciderete per il no [come se col referendum gli operai non avessero già deciso!] noi rispetteremo la vostra decisione. Però non si dica che non vi abbiamo avvisato che così veniva distrutta una realtà industriale al Sud». Da quella lotta nacque lo Slai Cobas nella fabbrica di Termoli.

Altro esempio fu quello della Lear di Caivano, l’unico caso in cui l’estensione dell’accordo di Pomigliano fu respinta nel 2010 grazie all’opposizione dello Slai Cobas, mentre la maggioranza della Rsu Fiom era favorevole. Ma «l’accordo fu riproposto da Fim Fiom e Uilm sostanzialmente identico un mese dopo in un nuovo referendum, e fecero in modo che passasse», scrivemmo in “Amazon in Alabama. Un referendum contro l’organizzazione dei lavoratori”.

La Cgil ha organizzato il 24 giugno a Roma una manifestazione nazionale in difesa della sanità pubblica e della Costituzione. Viene da chiedersi con che faccia si chiamino i lavoratori a manifestare in difesa della sanità pubblica, laddove in tutti i rinnovi contrattuali nazionali di categoria ci si batte per il rafforzamento delle assicurazioni sanitarie private, come da ultimo nel rinnovo del Ccnl Pelli e succedanei, siglato il 26 maggio, con il fondo di assistenza sanitaria integrativa Sanimoda.





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La generosa battaglia proletaria contro la riforma delle pensioni in Francia
L’Intersindacale ha svigorito, poi chiuso la lotta

Nello scorso numero di questo giornale abbiamo presentato un resoconto del grande movimento di lotta contro la riforma delle pensioni in Francia, soffermandoci sui riflessi all’interno della CGT. A marzo si è celebrato il suo 53° congresso, nel corso del quale si è registrato il ragguardevole rafforzarsi della opposizione interna, contraddistinta da posizioni opportuniste in campo politico-sindacale, che convivono con un certo carattere conflittuale rispetto alla dirigenza collaborazionista. Qui aggiorniamo sull’evoluzione del movimento di lotta e sulla sua conclusione.

L’apice del movimento si era avuto a marzo, in corrispondenza dell’approssimarsi della discussione della riforma delle pensioni in parlamento, poi a seguito della sua approvazione, per ottenere la quale il governo ha fatto ricorso all’articolo 49-3 della Costituzione (un istituto simile al “voto di fiducia” in Italia), il quale permette di eludere la discussione parlamentare.

Martedì 4 aprile i capi degli otto sindacati formanti l’Intersindacale si erano riuniti per preparare l’incontro del giorno successivo con il Primo Ministro Elisabeth Borne all’Hôtel Matignon (la residenza del primo ministro a Parigi), concordando di non discutere che del ritiro della riforma delle pensioni. Ma il ministro ha ribadito la determinazione del governo a non arretrare dalle sue posizioni.

Giovedì 6 si è svolta l’undicesima giornata di mobilitazione-sciopero nazionale, con un’affluenza ancora elevata: 2 milioni di manifestanti secondo i sindacati (500.000 secondo il Ministero dell’Interno), di cui 400.000 a Parigi. Anche gli scioperi sono stati meno numerosi, soprattutto sui trasporti parigini (RATP) e sui treni (SNCF).

I lavoratori dell’elettricità e del gas, pur continuando a scioperare per alcune ore e bloccare la produzione, nelle assemblee sui posti di lavoro sempre meno rinnovavano gli scioperi di giorno in giorno. Lo stesso è successo per i petrolchimici delle raffinerie e dei depositi. I lavoratori di alcuni di questi impianti pochi giorni prima erano stati condannati e precettati dal tribunale.

La tattica dell’Intersindacale, con singole giornale di mobilitazione nazionale cadenzate a una o più settimane l’una dall’altra, è rimasta la stessa dal principio della mobilitazione, il 19 gennaio. Vista la forza espressa, è stata considerata dalla sua componente più combattiva come un modo non per far crescere ma per smorzare e infine spegnere il movimento.

Il giorno successivo all’incontro col governo, l’Intersindacale riunita ha fissato per giovedì 13 aprile la dodicesima giornata di sciopero intercategoriale nazionale e di manifestazioni. La data è stata scelta in quanto il giorno dopo il Consiglio Costituzionale si sarebbe pronunciato circa la legittimità della riforma. Ma cosa si aspettava l’Intersindacale da questa istituzione dello Stato borghese? Incurante del malcontento espresso nelle manifestazioni, il Consiglio, composto da 9 “saggi”, ha, ovviamente, convalidato la riforma previdenziale nella sua interezza e nemmeno ha dato la sua approvazione al richiesto referendum popolare, visto con favore dall’Intersindacale e invocato da “France Insoumise”.

Quello del referendum popolare è sempre uno strumento da rigettare da parte del sindacalismo di classe giacché sottopone gli interessi dei lavoratori al voto anche delle classi che si garantiscono i loro privilegi sullo sfruttamento dei salariati. La democrazia interclassista, principio fondante della borghesia, è l’opposto della lotta operaia, che si basa sul principio opposto: la consapevolezza che solo con la forza dello sciopero può essere piegata la classe padronale, che altrimenti è in posizione di forza rispetto alla classe lavoratrice ed è nella sua capacità di dividerla. Per questo i lavoratori devono rifiutarsi di subordinare le loro condizioni di vita all’opinione dei membri delle classi parassite e sfruttatrici!

Dopo il verdetto del Consiglio Costituzionale, emesso il 14 aprile, l’Intersindacale ha stabilito una nuova giornata di mobilitazione unitaria per il Primo Maggio. La giornata internazionale di lotta dei lavoratori è divenuta così la 13a mobilitazione. Pur senza raggiungere le cifre delle giornate migliori (3,5 milioni di manifestanti secondo l’Intersindacale il 7, il 23 e il 28 marzo) ha riunito 2,3 milioni di manifestanti in tutta la Francia (782.000 secondo la prefettura). L’ultima marcia unitaria per il Primo Maggio risaliva in Francia al 2009. In Italia siamo ancora in attesa che le dirigenze dei sindacati di base riescano a realizzare la prima!

L’Intersindacale è tornata a riunirsi il 2 maggio e ha concordato una nuova giornata di azione il 6 giugno. Ciò perché l’8 giugno un piccolo gruppo parlamentare, il LIOT (Liberté Indépendants Outre mer et Territoires), composto da deputati indipendenti e dei Territori d’Oltremare, avrebbe presentato all’Assemblea Nazionale (il Parlamento) una proposta di legge per abrogare la riforma e confermare l’età di 62 anni per le pensioni. L’Intersindacale ha così subordinato il movimento alle scadenze degli organismi delle istituzioni borghesi, siano esse il Parlamento o la Corte Costituzionale, illudendo i lavoratori circa la loro natura e la possibilità del loro utilizzo a difesa degli interessi proletari, confondendo e allontanando i lavoratori dalla consapevolezza che è solo sulla forza dello sciopero, esteso e generalizzato, che possono difendersi.

Quindi, già dopo il verdetto della Corte Costituzionale l’Intersindacale ha iniziato a diradare le giornate di mobilitazione nazionale, convocando la successiva dopo 17 giorni (il Primo Maggio) e la seguente il 6 giugno, dopo ulteriori 36 giorni.

Dopo la quattordicesima giornata di mobilitazione nazionale, il 6 giugno, l’Intersindacale ha fischiato la fine della partita.
Ma non la classe operaia. La giornata ha infatti dimostrato la persistenza della mobilitazione, nonostante una perdita di slancio: 900.000 manifestanti in tutta la Francia, di cui 300.000 a Parigi, secondo la CGT.

A manifestazione iniziata, il segretario generale della CFDT Berger ha fatto capire che la intendeva l’atto finale della vertenza: «la partita è alla fine», e ha invitato i sindacati a «far valere il loro peso nei futuri equilibri di potere» su altre questioni: potere d’acquisto dei salari, alloggi, condizioni di lavoro, ecc. Un modo contorto per dire che la CFDT, e la maggioranza dell’Intersindacale, intendevano dismettere la mobilitazione per le pensioni e riaprire il “dialogo sociale”, che in Italia chiamiamo concertazione.

Il 7 giugno, come prevedibile, il Presidente del Parlamento contro la mozione del gruppo LIOT ha invocato l’articolo 40 della Costituzione (rifiuto di una proposta di legge se crea costi aggiuntivi per lo Stato). L’indomani il gruppo LIOT ha ritirato la proposta di legge. Questo l’ennesimo misero risultato della tattica sindacale che confida nelle istituzioni del regime borghese.

Il 16 giugno l’Intersindacale si è riunita per l’ultima volta prima dell’estate. Sulla scia di quanto annunciato dal capo della CFDT, il comunicato congiunto ha “preso atto della sconfitta”: «L’intersindacale e i manifestanti non sono riusciti a convincere il governo a fare marcia indietro sull’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni». Sophie Binet, della CGT, da parte sua ha aggiunto che «con un altro Presidente della Repubblica, in un altro paese, avremmo vinto».

In altre parole, secondo i capi dei due maggiori sindacati di regime francesi per la classe operaia era impossibile vincere: la sconfitta sarebbe stata il risultato della “negazione della democrazia” e delle “numerose forzature” di Macron, non della combinazione dei fattori inerenti la lotta di classe: la condotta d’azione dell’Intersindacale e il grado di combattività del proletariato. Per costoro non esiste lotta di classe bensì la contrapposizione fra “democrazia” e “autoritarismo”.

Il proletariato francese, in un tessuto sociale cambiato dagli anni ‘80 con la destrutturazione delle grandi aziende e la precarietà, si è trovato di fronte a un governo deciso a non cedere, a un apparato repressivo rafforzato, e recentemente allenatosi contro i Gilet Gialli. E di fronte i sindacati di regime, preoccupati di evitare lo scontro di classe, deviarlo sul parlamentarismo, imploranti il governo di trattare per infine imporre la sconfitta e tornare al più presto al tavolo del “dialogo sociale”.

Incassata la vittoria, oggi il governo francese annuncia di voler continuare l’offensiva con la riforma del Reddito di Solidarietà Attiva (Revenu de Solidarité Active - RSA), una prestazione sociale per i più indigenti, e una nuova legge sull’immigrazione per dividere ulteriormente i lavoratori. Intanto sono aumentate le spese per gli armamenti, destinati sia alla guerra in Ucraina sia alla repressione interna.


Un primo bilancio

Il movimento era iniziato già prima della presentazione della riforma. Il 2022 era stato un anno particolarmente intenso per le lotte sindacali in vari settori: i lavoratori della scuola a gennaio, poi degli asili nido, lo sciopero dei precari delle poste, guidato dal sindacato di base SUD, gli scioperi nella RATP con rivendicazioni sulla questione della manutenzione e della sicurezza, le interruzioni delle centrali nucleari guidate dalla FNME-CGT (Fédération Nationale des Mines et de l’Energie), e soprattutto gli scioperi delle raffinerie e dei depositi guidati dalla combattiva FNIC-CGT nell’ottobre per chiedere aumenti salariali (“Le lotte operaie in Francia”). Infine c’è stato lo sciopero dei controllori dei treni SNCF del 23-25 dicembre, organizzato da un gruppo di lavoratori al di fuori dei sindacati.

Da ricordare a novembre anche il movimento dei segnalatori SNCF della stazione di smistamento del Bourget 2022, nella regione parigina (80 ferrovieri), spesso nuovi assunti senza alcuna tradizione di sciopero, organizzati con la sezione Sud Rail. Inizialmente hanno optato per scioperi di 59 minuti al giorno nelle ore di punta, che corrispondevano a 3 ore di blocco del traffico a causa delle procedure di arresto e riavvio del servizio. Nel gennaio 2023, in assenza di risposte da parte della direzione, sono passati a due scioperi di 59 minuti per servizio, e così fino ad aprile. Poi, con l’avvio della riforma delle pensioni, sono state decise intere giornate di sciopero, a rotazione, di 23 giorni a partire dal 7 marzo e con un numero elevato di scioperanti.

Nel movimento contro la riforma delle pensioni, da gennaio a giugno 2023 – a parte le 14 giornate che hanno visto gran numero di manifestanti, dalle città più grandi ai centri più piccoli – la partecipazione agli scioperi è rimasta al di sotto di quelli del 1995 e del 2010, soprattutto per i lavoratori di SNCF e RATP, da anni la parte più combattiva della classe operaia. I settori che più hanno scioperato, soprattutto sotto la guida dei militanti della CGT, sono stati quelli dell’energia, petrolchimico e della nettezza urbana, principalmente a Parigi. Gli autotrasportatori non si sono impegnati.

Mentre i delegati sindacali hanno riconosciuto l’importanza dell’unità e dell’organizzazione sindacale, soprattutto tra i più giovani e senza tradizione di lotte e tra i precari, l’atteggiamento dell’Intersindacale è stato criticato dalla parte più combattiva della CGT e dal sindacato di base Sud. Per cinque mesi l’Intersindacale non si è impegnata a estendere gli scioperi rinnovabili, isolando i petrolchimici, i netturbini, i lavoratori dell’energia e i ferrovieri, che sono stati lasciati soli ad affrontare precettazioni e repressioni. Questa condotta è coerente col rifiuto esplicito di un ampio sciopero a tempo indeterminato e con una organizzazione centralizzata, che avrebbe significato accomunare le rivendicazioni, sostenere l’organizzazione alla base, con l’obiettivo di bloccare l’economia. L’unità sindacale si è basata invece su una strategia di pressione sulle istituzioni, che gran parte dei lavoratori ha capito non avere nulla a che fare con loro.

Alcuni militanti sindacali erano favorevoli ad arrivare a bloccare le produzioni mobilitando e coordinando le forze per colpire alcuni punti strategici e logistici (trasporti, energia, porti, ecc.). Ma l’Intersindacale non intendeva bloccare l’economia del capitale nazionale. Come ha sottolineato Alexis Antonioli, segretario della CGT nella raffineria Total Normandy: «Sapevamo che tutte le giornate di sciopero isolate non avrebbe piegato il governo. Quando si ha una forza del genere, non si può dire che non si è stati abbastanza forti (...) Avevamo una base radicale, ma una dirigenza la cui linea era quella di dire che non ci sarebbe stato uno sciopero a rotazione».

Nemmeno dopo che il 16 marzo il governo ha imposto l’approvazione della riforma, suscitando l’indignazione e la rabbia di estesi strati della classe lavoratrice e un ulteriore acuirsi della combattività, l’Intersindacale ha cambiato condotta. Nemmeno ha reagito alle azioni repressive, padronali e poliziesche, che hanno colpito lavoratori e militanti sindacali, con forza e brutalità maggiori che in passato.
Oggi i lavoratori si trovano di fronte a un regime più determinato a non cedere, pronto ad usare la repressione più violenta per ottenere i suoi obiettivi, che in ultima analisi si riducono ad intensificare lo sfruttamento della classe operaia. Si approssima quindi per il proletariato il momento dello scontro fisico con la borghesia. Ma i lavoratori devono ancora ricostruire le loro organizzazioni sindacali di classe e ricollegarsi al partito rivoluzionario.

Perché niente fermerà Macron e la sua cricca, anche se dovessero perdere le loro poltrone. Per la borghesia è meglio avere un partito di destra, o di estrema destra come Marine Lepen, che darla vinta al movimento dei lavoratori.

Sarà la combattività del proletariato – che a livello mondiale manda chiari segnali di aver ripreso la sua storica marcia – a permettere di riannodare il legame col suo partito, fattore di una vittoria decisiva all’interno delle organizzazioni sindacali contro le dirigenze opportuniste e contro il sindacalismo collaborazionista e di regime.





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Negli Usa la borghesia abbandona la sua ipocrita moralità e cambia le leggi per sfruttare il lavoro di fanciulli e adolescenti

Negli anni ‘30 negli Stati Uniti la legislazione del New Deal eliminò la maggior parte del lavoro minorile, ma solo dopo neanche 10 anni la borghesia ha iniziato progressivamente a smantellarla, per i profitti del capitale.

Oggi, da quando sono state revocate le misure di blocco per la pandemia, i capitalisti lamentano la mancanza di lavoratori. Lanciano l’allarme che non stanno incamerando plusvalore, quanto vorrebbero, perché non trovano lavoratori a produrlo.

Nel paese 1,13 milioni sono stati i morti a causa del Covid-19. Inoltre l’età media della popolazione sta aumentando rapidamente, con gli anziani, che si ritirano dal lavoro, più numerosi dei giovani.

Oltre ciò per molti salariati le condizioni di lavoro sono così terribili, a fronte di paghe bassissime, da indurli ad abbandonare l’impiego: per molti la speranza di trovare un lavoro più retribuito e in un ambiente migliore ha superato il timore di perdere ogni fonte di reddito.
In realtà, nonostante questa geremiade dei padroni, il numero di lavoratori non è diminuito dall’inizio della pandemia e le richieste di sussidi di disoccupazione sono ai minimi storici.

La carenza di forza lavoro per le aziende, prodotta dallo stesso meccanismo capitalistico, sta inducendo grande preoccupazione nei governi degli Stati i quali si ingegnano di porvi rimedio. Cosa hanno escogitato? un allentamento delle norme, “troppo restrittive”, sul lavoro minorile. Ovviamente nulla di nuovo: i datori di lavoro hanno violato le stesse leggi borghesi sul lavoro minorile ben prima che vi si apportassero le modifiche.

Nel novembre del 2022, la Packers Sanitation Services, un’azienda con sede nel Wisconsin, è stata sorpresa mentre impiegava bambini in 13 impianti di confezionamento della carne sparsi in tutto il Paese. In Arkansas, Colorado, Kansas, Minnesota, Nebraska, Tennessee e Texas i bambini sono stati adibiti alla pulizia degli impianti di confezionamento della carne per conto della JBS e della Cargill, e hanno maneggiato ogni genere di macchinari anche i più pericolosi, dai nastri trasportatori alle seghe industriali per le ossa degli animali.

Packers Sanitation Services suggeriva ai dipendenti minorenni di mentire sulla loro età eludendo le verifiche che avrebbe dovuto fare. Inoltre ha sostenuto che quei ragazzi sorpresi a lavorare e i dirigenti che li avevano assunti non erano più dipendenti dell’azienda. Il vicepresidente ha sostenuto addirittura la “tolleranza zero” della società nei confronti dell’assunzione di lavoratori di età inferiore ai 18 anni. Ma perfino l’ispettore del Dipartimento del Lavoro ha dichiarato: «Non si tratta di un errore amministrativo o di azioni compiute da individui disonesti o di dirigenti perversi, ma del comportamento dell’intera organizzazione aziendale. In molti casi i capi-reparto segnalavano che questi bambini erano troppo giovani per lavorare, eppure continuavano ad essere impiegati».

Nel dicembre del 2022, è stato scoperto che anche i fornitori dell’Alabama di Huyndai Motor e di Kia impiegavano bambini nelle loro fabbriche. Nel corso delle indagini le aziende hanno affermato di combattere la cosiddetta “tratta di esseri umani”. Ma quando gli ispettori sono arrivati negli stabilimenti hanno visto fuggire dal retro alcuni giovanissimi lavoratori per evitare di essere interrogati.

In entrambi i casi la risposta del governo è stata la comminazione di multe. Ma queste non sono che un buffetto, e solo per queste due imprese. Nel caso della Packers Sanitation Services il Dipartimento del Lavoro ha comminato una multa per 1,5 milioni di dollari. Una assai modica ammenda per un’azienda con un fatturato dichiarato di oltre 500 milioni, dei quali gran parte frutto del lavoro di minorenni. Si può dire che lo Stato non abbia fatto altro che informare l’azienda di avere violato la legge.

L’atteggiamento lassista degli Stati nei confronti dell’impiego dei bambini è stato presente in tutta la storia del capitalismo, in particolare di quello americano. Qui di recente si è rinnovato a causa del peggioramento delle norme sul lavoro minorile, già attuato in diversi Stati.
In Wisconsin, l’anno scorso, è stata approvata una legge che ha modificato l’orario massimo in cui i minori possono lavorare, portandolo dalle 19:00 alle 21:30 nei giorni di scuola e fino alle 23:00 quando le scuole sono chiuse. La senatrice Mary Felzkowski, autrice della legge, ha dichiarato che mira ad aiutare le piccole imprese a far fronte alla carenza di lavoratori a livello nazionale. La misura è stata sostenuta dalle industrie alberghiere, di ristorazione e alimentari dello Stato, che sarebbero le più colpite dalla presunta carenza di manodopera. L’Associazione dei ristoranti del Wisconsin ha dichiarato nel giugno del 2022 di essere a favore dell’estensione dell’orario di lavoro per gli adolescenti per “risolvere i problemi di personale”.

Quest’anno, sempre in Wisconsin, è stata presentata una legge per abbassare l’età minima per servire alcolici nei pubblici esercizi. Attualmente nello Stato è necessario avere almeno 18 anni, limite che si abbasserebbe a 14 anni. Secondo i presentatori della legge «l’attuale limite di età causa problemi ai dipendenti minorenni di un locale che possono svolgere solo una parte del loro lavoro».

In Ohio è all’esame un disegno di legge simile, il Senate Bill 30, che consentirebbe ai ragazzi di 14 anni di lavorare fino alle 21, mentre attualmente i ragazzi durante l’anno scolastico non possono lavorare oltre le 19. Perché lavorare fino alle 21 sarà “una opportunità” di cui i giovani “potranno usufruire”, con “il permesso dei genitori”, anche durante l’anno scolastico.

Anche i legislatori dell’Iowa hanno approvato una legge, la Senate File 542, che consente ai ragazzi di 14 anni di servire alcolici e di lavorare oltre le 19. Brad Epperly, un lobbista dell’Associazione dell’industria alimentare dell’Iowa, ha dichiarato davanti a una commissione statale: «Tutti hanno bisogno di lavoratori in questo momento, credo che le ultime statistiche riguardino i giovani dai 16 ai 24 anni, il cui tasso di partecipazione al lavoro del 56% è terribilmente basso».

La legge ha esteso il numero di attività cui si possono adibire i ragazzi, come l’assemblaggio leggero negli impianti manifatturieri, ma dando ai funzionari statali l’autorità di rilasciare deroghe per consentire di impiegarli altrimenti. Questa scappatoia permette di destinare gli adolescenti a qualsiasi lavorazione, purché lo facciano “in relazione a un apprendimento basato sul lavoro o a un programma legato al lavoro gestito dalla scuola o dal datore di lavoro”.

In Italia abbiamo avuto la cosiddetta riforma della “Buona Scuola” e il sistema dell’”alternanza scuola-lavoro”, resi obbligatorio dal governo Renzi con la legge 107 del 2015.

Secondo il Federal Fair Labour Standards Act, la legge federale che disciplina il lavoro giovanile, durante l’anno scolastico i minori non potrebbero lavorare oltre le 19. La legge del Wisconsin viola anche questo limite escludendo le aziende con un fatturato inferiore a 500.000 dollari o che operano nel commercio interstatale. La borghesia dell’Ohio intende chiedere la modifica della legislazione federale in modo da rendere generale l’ordinanza statale: resta da vedere come andrà a finire.

A marzo lo Stato dell’Arkansas ha tolto l’obbligo per i minori che cercano occupazione di ottenere un permesso di lavoro. Inoltre i datori di lavoro non sono più tenuti a verificare l’età di un dipendente e se un ragazzo ha il consenso dei tutori. Il governatore ha sostenuto che le vecchie disposizioni erano “obsolete” e un onere troppo pesante per i datori di lavoro: «proteggere i bambini è la cosa più importante, ma questo permesso rappresentava un onere arbitrario per i genitori che dovevano ottenere il permesso dal governo per far lavorare i propri figli». Questo significa che lo Stato concede ai genitori il diritto “utendi et abutendi”, di usare e di abusare, dei figli.

Una legge attualmente all’esame della Camera dei rappresentanti dello Stato del Minnesota consentirebbe ai ragazzi di 16 anni di lavorare nell’edilizia.

In questi casi si tende a rendere “più flessibile” il mercato del lavoro, in particolare nei settori da sempre poco retribuiti, come nella ristorazione, o per la manodopera non specializzata. La reintroduzione del lavoro minorile farà diminuire il costo del lavoro nelle categorie in cui sarà consentito, oltre a sottoporre i bambini a condizioni pericolose, con orari di lavoro prolungati anche durante l’anno scolastico.

Di fronte all’edificio di un’economia in rovina, con un saggio del profitto in costante diminuzione, nessuna morale progressista impedirà al capitalismo di tornare ai suoi comportamenti primordiali, ovvero consumare quanta più forza lavoro per generare profitti e garantirsi la possibilità di farne di più in futuro. L’inebriante febbre dell’accumulazione non deve fermarsi e dunque ben venga l’abbandono di oltre 100 anni di regolamentazione liberale progressista sul lavoro minorile.

Le lacrime di coccodrillo dei borghesi per il declino dei profitti non sono una novità. Già nel 1848, nel “Manifesto del partito comunista”, Marx aveva denunciato i capitalisti per la loro visione di classe nei confronti delle nuove generazioni.
     «Abolizione della famiglia! Anche i più estremisti si riscaldano parlando di questa ignominiosa intenzione dei comunisti.
     «Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario, e nella prostituzione pubblica.
     «La famiglia del borghese cade naturalmente col cadere di questo suo complemento, ed entrambi scompaiono con la scomparsa del capitale.
     «Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei genitori? Denunciamo questo delitto. Ma voi dite che sostituendo l’educazione sociale a quella familiare noi aboliamo i rapporti più cari.
     «E anche la vostra educazione, non è determinata dalla società? Non è determinata dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dalla interferenza più o meno diretta o indiretta della società mediante la scuola e così via? I comunisti non inventano l’influenza della società sull’educazione, si limitano a cambiare il carattere di tale influenza, e strappano l’educazione all’influenza della classe dominante.
     «La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sull’affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro».

Quale vantaggio trae il capitalista dall’impiego di bambini? Che giustificazione dava la borghesia inglese all’impiego dei bambini nella seconda metà dell’Ottocento? Marx, nella terza sezione del primo volume del Capitale, si limita a citare i rapporti dei medici e degli ispettori di fabbrica autorizzati dalla Corona: «Se Senior ha dimostrato che dall’”ultima ora di lavoro” dipende l’utile dei fabbricanti, l’esistenza della industria cotoniera inglese e il peso dell’Inghilterra sul mercato mondiale, a sua volta il dott. Andrew Ure ha anche dimostrato come i fanciulli operai e gli adolescenti minori di 18 anni che non vengono confinati per 12 ore buone nella calda e pura atmosfera morale delle fabbriche, ma ne vengono espulsi “un’ora” prima lasciandoli in balia del cinico e frivolo mondo esterno, perdano la salute dell’anima a causa degli allettamenti dell’ozio e dei vizi».

I fanciulli nel “rifugio” della fabbrica da cosa sono protetti? Di certo non dai macchinari e materiali pesanti che sfrecciano loro davanti, sempre a un passo da un pericolo mortale.

Anche gli ispettori degli stabilimenti dell’epoca erano a conoscenza delle condizioni atroci in cui le aziende costringevano i bambini a lavorare:
     «L’atmosfera delle filature di lino, nelle quali i figli di questi genitori così teneri e virtuosi lavorano, è greve di una tale quantità di particelle di polvere e di fibre della materia prima, che trascorrere anche solo 10 minuti nei locali dei filatoi riesce straordinariamente penoso [...] Lo stesso lavoro, a causa del ritmo febbrile del macchinario, esige un dispendio incessante di destrezza e di moto sotto il controllo di un’attenzione instancabile, e sembra una crudeltà costringere genitori ad [...] inchiodare i propri figli [...] a una simile occupazione, in una simile atmosfera per 10 ore [...] Questi fanciulli lavorano più a lungo dei servi agricoli dei villaggi circonvicini».

Quello che la borghesia dell’Ottocento mostrava era l’atteggiamento generale dei capitalisti nei confronti della classe operaia quando sono in gioco i profitti. Il loro orientamento “morale” va insieme al loro disprezzo per l’umanità da cui dipendono in larga misura i loro privilegi.

Marx dimostrò come padroni sacrificavano il benessere dei bambini per aumentare i profitti, prolungando la loro giornata lavorativa.
Ancora oggi si mistifica che il lavoro in fabbrica degli adolescenti sarebbe una “opportunità” per essere considerati come elementi che “contribuiscono alla società”, che è capitalista. Si dice che l’aumento della giornata lavorativa dei bambini sia la soluzione alla mancanza di lavoratori adulti.

In realtà questi bambini sono impiegati per ottenere fino al massimo di pluslavoro possibile dalla popolazione impiegata in fabbrica, fino all’ultima ora, e per avere il vanto, alla fine dell’anno fiscale, di aver superato la massa del plusvalore prodotto nell’anno precedente.
Nell’Ottocento la regolamentazione legale era limitata o inesistente, oggi negli Stati Uniti la regolamentazione legale viene modificata in nome degli stessi diritti di cui godevano i capitalisti 160 anni fa.

La borghesia può far questo perché la classe operaia non la minaccia realmente, e finché la forza organizzata dei lavoratori non tornerà ad imporre la sua difesa.









Disastro ferroviario in India
Miliardi per i treni di lusso e poco per la sicurezza

La catastrofe ferroviaria che si è verificata in India è un’altra conferma di quanto andiamo ripetendo: in una società dominata dal profitto ogni nuovo progresso nel dominio della natura da parte dell’uomo minaccia di accrescere le probabilità di incidenti, i cui effetti assumono dimensioni sempre più disastrose.

Lo scontro che la mattina di venerdì 2 giugno ha coinvolto tre treni nei pressi della stazione di Bahanga Bazar nel distretto di Balasore, nello stato dell’Orissa nell’India orientale, ha provocato oltre 300 morti e 1.200 feriti. Per questo tragico tributo di lutti e per le sofferenze provocate a coloro che sono sopravvissuti viene classificato come il più grave incidente ferroviario degli ultimi 20 anni.

L’incidente è avvenuto quando uno dei treni, il Coromandel Express, partito da Calcutta in direzione di Chennai, mentre viaggiava a 130 chilometri orari è uscito dal binario scontrandosi con un treno merci fermo in un altro binario. I resti sparpagliati del treno viaggiatori hanno provocato il deragliamento di un terzo treno sopraggiungente, lo Howrah Superfast Express che, in direzione opposta, era partito da Bangalore diretto a Calcutta. L’urto ha prodotto un enorme ammasso di lamiere che i soccorritori hanno impiegato diversi giorni a districare.

Le carrozze più danneggiate dei due treni passeggeri sono state quelle di categoria ultraeconomica, le più affollate, e questo spiega l’altissimo numero di vittime.

La rete ferroviaria indiana, che vanta una storia ultrasecolare, con i suoi 115.000 chilometri di lunghezza è una delle maggiori del mondo, trasporta 20 milioni di passeggeri al giorno e 8 miliardi all’anno.

La proprietà e la gestione delle ferrovie indiane è interamente statale, dunque l’ampliamento e la manutenzione della rete e del materiale rotabile e la sua sostituzione e ammodernamento fanno capo all’apparato di governo.

L’ascesa impetuosa dell’economia indiana e la crescita demografica, che da qualche tempo ha reso l’India il paese più popoloso del mondo, hanno portato anche a un aumento degli investimenti nel sistema delle ferrovie. Il primo ministro Narendra Modi ha fatto dell’ammodernamento delle infrastrutture uno dei punti centrali della sua campagna propagandistica in vista delle elezioni generali previste per la primavera del 2024 in cui sarà in lizza per ottenere la riconferma per il terzo mandato.

Anche se le spese per le infrastrutture sono lievitate negli ultimi anni, un’inchiesta ufficiale dell’amministrazione delle ferrovie ha rivelato come sia aumentata enormemente la sperequazione nella destinazione degli investimenti nel sistema ferroviario. Nell’ultimo anno si sono raggiunti i 30 miliardi di dollari, con un incremento del 15% sull’anno precedente. Molti di questi soldi sono serviti per incrementare la sicurezza di una nuova flotta di treni ad alta velocità, ma secondo lo stesso rapporto sono diminuiti i fondi destinati alla manutenzione di oltre 13.000 treni più antiquati, destinati al trasporto degli strati più poveri della popolazione: evidentemente anche la borghesia indiana cerca di far profitti con i treni per i ricchi.

Certo negli ultimi decenni il miglioramento complessivo della rete ha comportato una diminuzione significativa del numero di incidenti. I deragliamenti che nel 1980 erano stati 475, nel 2021 erano scesi a 50. Parallelamente era sceso anche il numero dei morti: se fino al 2017 nelle ferrovie indiane si registrava una media di oltre 100 morti l’anno, per due anni prima della pandemia non c’era stato neanche un morto.
Ma ogni progresso nel regime capitalistico si paga caro e ha il suo contrappasso: ogni incremento nell’efficienza dei macchinari industriali e dei mezzi di trasporto di ogni genere ne moltiplica anche la capacità distruttiva, specialmente se finalizzati alla riduzione dei tempi e se si combinano nello stesso sistema i ritrovati della tecnica più avanzati e sofisticati con le anticaglie più malconce e obsolete.

Così anche l’incidente della stazione di Bahanga Bazar rappresenta uno dei più perfetti approdi della scienza e della tecnica di quest’epoca di decadenza sociale borghese: le forze produttive continuano a crescere, ma accanto a un accresciuto “benessere” soltanto per pochi, questo sviluppo porta con sé effetti sempre più devastanti e mortiferi, inusitati e anche impossibili con un minore grado di progresso tecnico.

L’amministrazione ferroviaria si è vantata di aver ripristinate le linee e ripreso la circolazione prima del previsto. Anche i mezzi di soccorso sarebbero stati efficienti. A riempire gli ospedali e i cimiteri, o le pire del rito. Promettono che la tratta e il sistema degli scambi nella stazione di Bahanga Bazar saranno ammodernati e resi più sicuri. “Messi in sicurezza”, come si ama dire oggi, mentre il mondo intero precipita nell’insicurezza. Ecco un’altra occasione per fare girare i soldi: suvvia, la vita continua, gli affari prosperano, mentre si approntano le condizioni per rendere i disastri sempre più disastrosi.









PAGINA 6-7



Riunione internazionale del partito
Per far tornare le parole del comunismo nei cuori dei proletari di tutti i paesi

(26-28 maggio, in videoconferenza) [RG146]
 

Come convenuto per tempo e su convocazione del centro internazionale del partito, nei giorni da venerdì 26 maggio a domenica 28 si è tenuta la sua riunione generale. In modalità di tele-conferenza si sono collegati singoli e gruppi locali.

Alla riunione preparatoria del venerdì, riservata ai compagni, erano rappresentati 11 paesi, alle sedute del sabato e della domenica, aperte anche a candidati di provata serietà, 13.

Anche a questa riunione la comunicazione fra le diverse lingue si è felicemente risolta fornendo ai presenti la traduzione per iscritto, in inglese italiano e spagnolo, tanto dei rapporti delle sezioni e dei gruppi per il venerdì (anche questi redatti e fatti pervenire al centro in anticipo) quanto le relazioni estese del sabato e della domenica. Gli ulteriori completamenti, informazioni, richieste di chiarimenti e proposte dei singoli sono via via subito tradotti. Una predisposizione tale che tutti i compagni possano conoscere appieno ed apprezzare il nostro lavoro ovunque e complessivo.

Come è vanto del partito, l’andamento di tutta la sua attività, riunioni comprese – benché richieda sempre grande impegno e debba affrontare a volte questioni di non facile e immediata soluzione – si svolge nei più totali ordine e disciplina. In modo naturale e spontaneo lavoriamo assieme per il comunismo, senza doverci appoggiare a statuti, leggi, regolamenti. Non perché saremmo attratti dal mito borghesuccio della libertà e dell’anarchia, sempre individualista, ma perché possiamo andare oltre queste miserie, essendo il partito una compagine non attraversata da interessi contrapposti di classi.

Così sarà per la società comunista, e prima di essa, anche per il rinato partito forte ed esteso a scala mondiale.

Questo il programma dei lavori.

VENERDÌ
- L’ideologia borghese, parte III, le eresie
SABATO
- Il corso del capitalismo mondiale
- Nuova combattività operaia negli Stati Uniti
- La classe operaia in America Latina
- La teoria marxista delle crisi - David Ricardo
- Lo sviluppo del capitalismo in Messico
- Origini del comunismo in Turchia
- Ancora una Turchia neo ottomana
DOMENICA
- Riforma delle pensioni in Francia
- La guerra civile Italia nel primo dopoguerra
- Attività sindacale del partito in Italia
- La questione militare: la guerra civile in Russia
- La questione agraria, aspetti storici
- Le origini del Partito Comunista di Cina

 

Segue qui il riassunto delle relazioni.

Il resoconto sugli scioperi in Francia contro la riforma delle pensioni appare già per intero in altra pagina di questo stesso numero.




L’ideologia borghese - Le eresie

Nell’XI e XII secolo nascono o rinascono le città, in particolare nell’Italia centro-settentrionale e nelle Fiandre, ma anche nel Nord della Francia, in Borgogna, in Provenza e nella Germania renana. Vi si insediano quei ceti pre-borghesi, mercantili e di piccola nobiltà, che si scontrano per poi fondersi e dare origine, intorno al XIII secolo, alla borghesia. Nell’Italia centro-settentrionale, sempre in quei secoli, si affermano i Comuni, i quali tendono ad un’autonomia reale dall’impero e all’autogoverno, in maniera più marcata rispetto alle altre regioni dell’ex Impero carolingio.

Insieme alle città e alla borghesia compaiono le “eresie”, in maniera incomparabilmente più evidente rispetto ai secoli precedenti. Tali concezioni religiose, eretiche e non, avevano sempre alla base il “millenarismo”, l’attesa della fine dei tempi, il messianismo e il modello delle prime comunità cristiane, dove tutti i beni erano messi in comune.

Queste concezioni non costituivano una ideologia utile alla borghesia, ma furono spesso fatte proprie anche da mercanti e borghesi. A questo possiamo dare due spiegazioni. La prima, e più ovvia, consiste nel dominio di una ideologia religiosa che vedeva nel ritorno alle origini l’unico rimedio possibile contro un presente “degenerato” a causa della “corruzione” della Chiesa e dell’Impero, istituzioni che avrebbero invece dovuto marciare sui binari della Provvidenza divina. Tale ideologia, oltre che da borghesi e nobili, era condivisa anche da contadini e plebe urbana.

La seconda spiegazione, che più ci interessa, consiste nel fatto che la nascente borghesia sentiva, seppure confusamente, il bisogno di opporsi all’intero sistema feudale, che tutte le concezioni millenaristiche e pauperistiche criticavano. In assenza di una propria ideologia, la borghesia si serviva di tali censure, accettando insieme ad esse le concezioni di cui erano parte, fossero esse eretiche o meno.

Il sogno-bisogno del comunismo

Patari, catari, valdesi, spirituali, fraticelli, micheliti, dolciniani: queste le principali eresie tra XI e XIV secolo.

Sulla nostra stampa abbiamo trattato del “sogno-bisogno del comunismo”. Il comunismo diventa una possibilità reale solo con l’affermarsi del capitalismo, quando al sentimento comunista si unisce la ragione comunista, e cioè il nostro scientifico programma storico, dalla metà del XIX secolo. Prima di allora il sentimento comunista, presente fin dall’antichità in contrapposizione alle succedutesi società di classe, non poteva che prendere le forme del millenarismo, del messianismo e dell’utopismo.

Generalmente le eresie non nascevano come tali, e finché restavano divergenze dottrinali erano spesso tollerate. Non lo erano più quando non obbedivano all’autorità del papa e dei vescovi, predicando nuovi principi e creando nuovi ordini religiosi senza il loro permesso.

Nell’XI e XII secolo l’atteggiamento della Chiesa non era ancora univoco: le misure contro gli eretici oscillavano tra la conversione, la confisca degli averi (misura sicuramente più diffusa) e nei casi più “ostinati” il carcere e la pena di morte.

Ci fu una svolta con papa Innocenzo III e la sua decretale “Vergentis in senium” del 1199, che si richiamava al diritto romano, ai codici di Teodosio e Giustiniano e alle pene allora riservate ai manichei. L’eresia venne assimilata al crimine di lesa maestà, e il crimine contro l’Imperatore diventò un crimine contro Dio. Per contro i crimini contro l’Imperatore poterono essere puniti come eresie. Talvolta il popolo minuto delle città e i contadini uccidevano e bruciavano i presunti eretici prima che la Chiesa si pronunciasse, ma è anche vero che le istituzioni cittadine partecipavano spesso senza alcuna voglia alle iniziative vescovili e inquisitoriali contro gli eretici. Questo a volte per simpatia verso di essi, ma soprattutto per il timore di veder limitare la propria autonomia a favore del vescovo, dell’Inquisizione e della Chiesa.

L’Apocalisse

Il termine deriva dal greco “apocalipsis”, che significa manifestazione, rivelazione, apparizione, scoprimento. L’Apocalisse di Giovanni, scritta alla fine del I secolo, aveva questo significato. Nei secoli successivi il termine ha assunto il significato di morte, paura e terrore.

Oggi la visione apocalittica è maggiore nella borghesia atea e razionalista che in chi ha una credenza religiosa. I borghesi, atei o religiosi che siano, sentono l’odore di morte della loro classe che non ha futuro, perché non possono e non vogliono credere a un futuro senza capitalismo, senza borghesi. “Il mondo non ha futuro” – dicono. Di qui le loro nere e cupe angosciose visioni del futuro, popolato dagli incubi del disastro ambientale, climatico, alimentare, nucleare, demografico, ecc. Naturalmente tutto ciò per essi non è dovuto al sistema di produzione capitalistico, ma alla imperfezione, o alla malvagità, della natura umana.

Anche la fantascienza crea mondi, al di là delle apparenze, molto simili a quello reale: neanche nella fantasia la borghesia sa concepire un mondo non plasmato dai rapporti di produzione capitalistici.

La speranza, la certezza nel “regno dei cieli”, il futuro delle classi subalterne che hanno preceduto la nascita del proletariato, sono stati ereditati dai comunisti.

Sentimento e ragione comunista

Tutti i gruppi dei secoli medioevali in questione, eretici e non, intrisi di millenarismo, messianismo e gioachimismo, possono farci sorridere per le loro visioni ideologiche, ma sono dalla nostra parte della storia. Il termine “compagni” deriva dal latino “cum panis”, e indica coloro che mangiano alla stessa mensa. Tale termine era comunemente usato dai francescani.

È solo con la nascita del capitalismo e la riflessione su di esso, culminata nel Manifesto del Partito comunista del 1848, che il sentimento si unisce alla ragione e alla scienza, dando origine al nostro programma storico. In nome del comune sentimento comunista, con i vari Valdo, Francesco e Dolcino, sediamo alla stessa mensa e condividiamo lo stesso pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo.

Lo stesso pane che il capitalismo trasforma in pietra. Quest’ultima non è solo una metafora: Marx stesso descrive come già al suo tempo alla farina venisse mescolata della polvere di marmo, per aumentare il peso del pane, e quindi venderlo a prezzo e profitto maggiore.

La realtà del capitalismo è peggiore di qualsiasi fantasia, ed è peggiore di qualsiasi “complotto” i borghesi si inventino, per dare una facile spiegazione a ciò che essi non sanno, non possono, e non vogliono comprendere.




Il corso del capitalismo mondiale

Gli ultimi due anni sono stati particolarmente caotici.

L’inflazione è tornata, dopo anni di deflazione a seguito della grande crisi del 2008-2009. Per un breve periodo la produzione non è riuscita a tenere il passo con la domanda, i porti erano congestionati e non erano disponibili abbastanza navi porta-container, i prezzi dei trasporti, delle materie prime e dell’energia sono quindi saliti alle stelle; così i prezzi dei cereali a seguito di una generale siccità e della grande domanda della Cina per alimentare la popolazione e i suoi allevamenti animali. A partire dal febbraio 2022 si è aggiunta la guerra imperialista fra la Russia e l’Ucraina, facendo impennare momentaneamente i prezzi dell’energia e dei cereali.

Per di più a partire dal marzo 2022 la FED ha iniziato ad aumentare i tassi di interesse per combattere l’inflazione e tornare a una situazione “normale”, una mossa seguita poi da tutte le altre principali banche centrali, ad eccezione del Giappone. Ma dopo anni di tassi di interesse prossimi allo zero, o addirittura negativi, un tale rialzo non può essere senza conseguenze, e, a sua volta, accrescere il caos.

Le cause occasionali e di fondo del ritorno dell’inflazione sono state spiegate nei precedenti rapporti. Un ulteriore fattore è stato la pratica del “just in time” delle imprese che, per abbassare i costi di produzione, riducono al minimo le scorte. Così, quando il periodo di confinamento per il Covid è terminato nella maggior parte dei grandi centri imperialisti le aziende per rifornirsi hanno contemporaneamente emesso ordinativi ai fornitori. La domanda è stata così improvvisa e colossale che questi non sono riusciti a soddisfarla. Ugualmente le monopolistiche compagnie di navigazione, che fino a quel momento avevano avuto un’eccedenza di porta-container, non sono stati in grado di soddisfare la domanda e i noli hanno iniziato ad aumentare. Ne è risultato un ingolfamento logistico e un’impennata dei prezzi.

In seguito a questo improvviso aumento della domanda i prezzi delle materie prime e dell’energia hanno iniziato a salire.

Poiché i produttori e le multinazionali del settore godono di una posizione di monopolio, la speculazione, in date circostanze, determina forti oscillazioni dei prezzi, che hanno fruttato delle rendite stratosferiche nel 2021 e nel 2022.

L’interruzione delle forniture di gas e petrolio della Russia imposta all’Europa col pretesto della guerra in Ucraina, ha fatto impennare i prezzi. Questi hanno raggiunto il massimo nel luglio-agosto 2022; da allora sono diminuiti, il prezzo del barile di petrolio è addirittura sceso a 70 dollari per un certo periodo.

Temendo un calo dei prezzi a causa dell’incombente recessione, l’OPEC+, dopo aver tagliato la produzione di 2 milioni di barili in ottobre, l’ha ridotta di altri 1,1 milioni a partire da maggio e di altri 1,6 milioni la ridurrà da luglio. L’annuncio ha avuto scarso impatto sul prezzo del petrolio, che è salito solo a 80 dollari prima di tornare sotto i 72 a fine maggio. Il gas naturale, dopo aver raggiunto un picco di 350 euro per Mwh, è sceso di nuovo sotto i 30, avvicinandosi ai prezzi degli anni precedenti al Covid: circa 20 dollari per Mwh.

Oltre a queste cause immediate, nello scorso decennio gli investimenti erano stati insufficienti, a causa dei prezzi bassi. Oggi, a seguito del forte aumento dei prezzi, gli investimenti si dirigono verso gli idrocarburi, e vanno riducendosi quelli nelle energie rinnovabili. Il costo medio di produzione del petrolio offshore è di 18 dollari, sulla terraferma 28. Il resto è rendita.

Nonostante il dollaro più forte, che abbassa il prezzo delle importazioni, l’inflazione negli Stati Uniti era superiore a quella europea nel 2021, prima dell’invasione dell’Ucraina, e nella prima metà del 2022; in seguito la differenza si è invertita. Dopo aver raggiunto il picco nel giugno 2022 per gli Stati Uniti e nell’ottobre 2022 per l’Eurozona, l’inflazione è scesa costantemente (come alla riunione si poteva vedere nel grafico esposto). L’inflazione ha iniziato a scendere prima negli Stati Uniti, nonostante i piani di investimento molto elevati, perché i tassi di interesse sono aumentati prima e più rapidamente negli Stati Uniti. Di conseguenza, l’inflazione, pur scendendo, è ora più alta in Europa che negli Stati Uniti.

Il calo dell’inflazione media nell’Eurozona nasconde una disparità tra i paesi. Se la Germania è tradizionalmente uno dei Paesi europei con l’inflazione più bassa, non sorprende che il Paese che attingeva alle forniture russe a basso costo abbia finito per guidare l’impennata inflazionistica, seguito da Italia e Regno Unito. In Francia, dove il gas russo rappresentava solo 17% del gas importato, l’inflazione è rimasta più bassa; ma qui non abbiamo ancora un calo dell’inflazione, anche se la contrazione dei consumi sta esercitando una pressione deflazionistica, come negli altri Paesi.

Infatti, oltre a provocare ripetute crisi bancarie a causa della svalutazione delle obbligazioni a basso tasso d’interesse, l’aumento dei tassi induce anche un calo dei consumi, che a loro volta portano a una contrazione della produzione, o almeno a un forte rallentamento della sua crescita.

I Paesi più colpiti sono gli asiatici Giappone e Corea, seguiti dalla Germania. Anche gli Stati Uniti stanno subendo un forte rallentamento, nonostante i grandi investimenti e il piano di sostegno ai consumi delle famiglie. Come si evidenziava in un grafico, il Giappone è in costante recessione dal settembre 2021. La Germania, a parte quattro mesi con incrementi positivi sull’anno precedente, è stata costantemente in negativo dal settembre 2021, con incrementi annui che hanno oscillato tra -0,1% e -5,5%.

Il Regno Unito, invece, è in piena recessione dall’ottobre 2021, il che spiega i numerosi scioperi e le manifestazioni che stanno sconvolgendo il Paese.

Analogamente, da settembre 2021, la Francia ha oscillato tra incrementi annui leggermente positivi e leggermente negativi, con il divario maggiore che va da +1,8% a -2,8%.

L’Italia offre un quadro leggermente migliore, ma da giugno 2022 gli incrementi negativi hanno superato quelli positivi.

La Polonia, che ha registrato un forte aumento della produzione dopo l’ingresso nell’Unione Europea, ha visto un leggero calo della industria negli ultimi tre mesi, dopo un forte rallentamento tra ottobre e dicembre, e sta a sua volta subendo gli effetti del calo della domanda internazionale.

Come si vedeva nel grafico, il calo della produzione in Corea del Sud è invece spettacolare. Mentre la Germania dipende fortemente dai mercati mondiali, cinese, europeo e nordamericano.

L’India sembra sfuggire per ora alla deflazione globale, con incrementi ancora relativamente elevati. Ciò è indice della sua scarsa integrazione nel mercato mondiale e della relativa debolezza della sua industria rispetto al peso demografico.

Dopo una marcata recessione dall’agosto 2021 al marzo 2022, il Brasile ha registrato una leggera ripresa dal luglio 2022 al novembre 2022. Il calo del -1,1% annuo registrato a dicembre è indicativo di un ritorno alla recessione.

In Turchia, dopo un forte rallentamento della produzione industriale a partire da luglio 2022, gli incrementi sono ora negativi, scendendo a -7,5% nel febbraio 2023.

Il Canada, grande esportatore di materie prime, in particolare petrolio, ha visto tutti i suoi incrementi rimanere nettamente positivi, ma in forte rallentamento dal giugno 2022, passando dal 5,8% annuo del maggio 2022 all’1,7% del febbraio 2023.

Concludendo. Inesorabilmente la vecchia talpa continua la sua magnifica opera di scalzamento. Le contraddizioni nel sottosuolo economico si accrescono sempre più, generando pressioni colossali che finiranno per far scoppiare l’involucro capitalista come un gigantesco vulcano che libera la pressione accumulata.

Spinto dalla necessità il proletariato del mondo intero si rimetterà in movimento per riprendere, diretto dal suo partito di classe, il suo posto nella storia.






Ancora una Turchia neo-ottomana

All’aggravarsi della crisi economica e del fallimento, almeno parziale, delle ricette governative per farvi fronte, la borghesia turca ha trovato un diversivo nella rivendicazione delle libertà democratiche, la protesta contro il clientelismo e la corruzione generalizzata. All’attenzione degli elettori si è proposto un insieme eterogeneo di rimostranze nei confronti del partito di governo: il non rispetto dei diritti civili, delle donne, delle minoranze, dei curdi, degli omosessuali e dei trans; la mancanza di merito nell’accesso agli organi e alle cariche statali; la posizione ostile verso i principi democratici laici di stampo occidentale; gli arresti arbitrari degli oppositori e dei giornalisti e le conseguenti condanne giudiziarie.

Un certo spazio è stato dato all’oppressione della classe operaia, ma nelle forme svigorite in cui è denunciata da ogni forza borghese d’opposizione, insistendo sulla mancanza di sicurezza sul posto di lavoro, i salari al di sotto della sussistenza e del minimo stabilito per legge, la presenza legale di lavoratori bambini nelle fabbriche, ecc.

L’opposizione aveva dichiarato quindi cruciali le elezioni di quest’anno, che “il popolo” avrebbe preso finalmente la “decisione giusta” e che “la Turchia” sarebbe così uscita da questa difficile situazione. Molti partiti di sinistra hanno aderito a questa retorica.

Così si è presentata una società “polarizzata” nella quale, anche in sezioni significative della classe operaia, c’era l’aspettativa che “questa volta” l’opposizione potesse ottenere una vera “vittoria” elettorale. “La Turchia” sarebbe tornata sulla strada della democrazia parlamentare e avrebbe risolto i suoi problemi in modo pacifico, secondo gli standard democratici di uno Stato europeo e sarebbe diventata un Paese “in grado di competere meglio con il mondo”.

La borghesia turca e le elezioni

Invece anche questa tornata elettorale è stata una ennesima resa dei conti tra bande borghesi. Tutto lascia pensare a un almeno temporaneo compromesso fra le fazioni in lotta, con la congrega del vincitore Erdoğan che cercherà di arraffare la parte del leone.

Una delle contrapposizioni interne alla borghesia turca è fra le organizzazioni del padronato industriale. I grandi industriali erano tradizionalmente organizzati nella TÜSİAD (Associazione Turca dell’Industria e degli Affari), fondata nel 1971, con oltre 2.100 iscritti rappresentanti 4.500 aziende, le quali alimentano l’80% del commercio estero, impiegano il 50% della forza lavoro e versano l’80% delle imposte delle imprese. Un nuovo padronato, relativamente piccolo ma in rapida crescita, è invece organizzato nella MÜSİAD (Associazione degli Industriali e degli Imprenditori Indipendenti), fondata nel 1990, con 13.000 iscritti che controllano 60.000 aziende. Il TÜSİAD si dichiara laico e filo-occidentale, il MÜSİAD islamista e filo-governativo.

Sul fronte esterno il TÜSİAD è favorevole a strette relazioni con l’Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti, mentre il MÜSİAD sostiene la politica dell’attuale governo che ambisce a diventare una potenza imperialista regionale relativamente indipendente.

Nei primi anni Erdoğan era appoggiato dal TÜSİAD, e sosteneva apertamente l’adesione alla UE. Ma dopo l’epoca del movimento di Gezi, nel 2013, Erdoğan e il TÜSİAD si sono allontanati finché Erdoğan ha accusato il TÜSİAD di schierarsi con l’opposizione. Erdoğan, oltre che un politico, è il capofila di una delle maggiori “famiglie” della Turchia di oggi, con un certo peso nella nuova borghesia organizzata nel MÜSİAD.

Tra la “vecchia” e la “nuova” borghesia l’accusa maggiore si riduce a quella di “concorrenza sleale”, la borghesia rampante, favorita dal governo, impiegando spesso lavoratori immigrati a salari molto bassi e in pessime condizioni, mentre le grandi industrie sono per lo più obbligate ad assumere nel quadro delle norme di legge. Altra questione è sulle politiche del governo sui tassi di interesse.

Un fragile compromesso

Nonostante quanto affermato nella propaganda elettorale, la prima mossa di Erdoğan dopo le elezioni è stata di porgere un ramoscello d’ulivo alla grande borghesia. Mehmet Şimşek, noto per la sua vicinanza alle politiche economiche rigorose di tipo occidentale, è stato nominato potente ministro del Tesoro e delle Finanze: un chiaro tentativo di addolcire i mercati finanziari. Inoltre, figure controverse come il ministro degli Interni Süleyman Soylu non hanno trovato posto nel gabinetto.

Il TÜSİAD ha subito accettato la generosa offerta di Erdoğan, chiedendo stabilità e riforme. Alcuni giornalisti ed economisti dell’opposizione si sono spinti oltre e, approvando la nomina di Mehmet Şimşek, hanno convenuto che “siamo tutti sulla stessa barca”.

Così, proprio come i risultati delle elezioni sono stati determinati a tavolino e non alle urne, la fine della crisi del Paese è stata sciolta non dalla sbandierata “volontà del popolo” ma da mosse calcolate in considerazione dei rapporti di forza fra le bande borghesi interne e fra le potenze imperialiste. La vittoria di Erdoğan è stata allo stesso tempo una vittoria della Russia, degli Stati del Golfo e della maggior parte degli Stati europei, che temono i migranti, e una parziale sconfitta per gli Stati Uniti e degli Stati europei i cui interessi sono più allineati alla NATO.

Con la risoluzione della crisi in Turchia gli Stati Uniti in particolare non esiteranno a normalizzare le relazioni con Erdoğan, in cambio dell’autorizzazione all’adesione della Svezia alla NATO, e forse con la consegna degli F-16, negata dopo l’acquisto del sistema d’arma contraereo russo S-400.

Tutti questi fatti suggeriscono che con ogni probabilità è stato raggiunto un compromesso sulla Turchia e sul suo posto nella gerarchia imperialistica.

Ma l’economia rimane in grave crisi, l’inflazione è ancora oltre il 40% annuo e non è certo in vista una ripresa significativa dell’accumulazione. In breve, sarebbe sbagliato pensare che le parti in lotta abbiano ricomposto stabilmente i loro dissidi.

Le elezioni sono sempre contro gli interessi del proletariato

Nessuno dei partiti che ha partecipato alle elezioni ha promesso condizioni e orari di lavoro più leggeri, né aumenti salariali per contrastare l’inflazione. Nessun partito ha chiesto più diritti per le minoranze oppresse o i profughi in fuga dalla guerra.

Se si considera chi è stato danneggiato e chi ha tratto beneficio dalle posizioni comuni agli opposti partiti è chiaro che tutti sono in realtà dalla parte della borghesia e mai dei lavoratori.

La democrazia è un sistema in cui non vi è posto per partiti che alla borghesia si oppongano. La partecipazione dei comunisti alle elezioni, oltre a esser di nessuna efficacia verso la presa del potere da parte della classe operaia, è ormai da escludere anche come tribuna di propaganda, per i gravi fraintendimenti che inevitabilmente ingenera nella classe sulle finalità rivoluzionarie del partito.

La democrazia borghese ormai in tutto il mondo oggi non contiene più alcun aspetto progressista. A maggior ragione per i lavoratori e per gli oppressi.

Anche queste elezioni in Turchia, al di là del clima apparentemente arroventato fra i due schieramenti, si sono mantenute all’interno del quadro istituzionale democratico e non hanno avuto gli esiti dirompenti, forse anche cruenti, che faceva intravedere una propaganda interessata a drammatizzare quel rito schedaiolo. Lo scopo della classe dominante è infatti spostare l’attenzione dei proletari su tematiche interclassiste e impedire ogni riferimento circostanziato e non generico alla condizione operaia, anche enfatizzando e ingigantendo ad arte le minime e non significative differenze di programma fra i partiti in campo.

Le elezioni in Turchia hanno dimostrato ancora una volta che la borghesia, dietro la maschera democratica, finché potrà, non rinuncerà mai ad un briciolo della repressione statale. I gruppi oppressi di Turchia (donne, curdi, omosessuali, trans, immigrati, ecc.) lo sanno: genocidi, torture, massacri, migrazioni forzate, esecuzioni, sentenze ingiuste e simili eventi disgustosi e mostruosi non appartengono al passato!

Per quanto gli Stati borghesi cerchino di nasconderlo, per quanto lo neghino, si continuano a commettere questi abomini.

I curdi, le donne, i discriminati, che pagano il prezzo di queste crudeltà, mai potranno mitigare l’oppressione che subiscono con lo strumento elettorale. Prima delle elezioni i partiti della sinistra borghese affermavano “potete risolvere i vostri problemi votando per noi ogni quattro anni”. Questo atteggiamento non fa che rafforzare l’illusione che la soluzione sia nel voto piuttosto che nel subordinare ogni rivendicazione sociale alla forza della classe operaia, alla sua organizzazione indipendente, alla sindacalizzazione e agli scioperi, e non alla illusione che sia più facile raggiungere il socialismo attraverso il riformismo, il “buon senso” e una vittoria elettorale.

Dalle urne uscirà sempre la volontà del capitale. Non sarà la istruzione ad aprire gli occhi agli elettori. E nemmeno la loro condizione di salariati sfruttati o di minoranza oppressa. La ideologia dominante sarà sempre l’ideologia della classe dominante. Solo nel partito comunista è custodita cosciente la condanna della società borghese.

L’idea che le giovani generazioni proletarie e oppresse si avvicineranno al comunismo per il solo effetto dell’evoluzione sociale e dell’ambiente sempre più cosmopolita, dell’accesso a maggiori informazioni grazie a Internet e al rapido aumento del numero di studenti nelle università e della migrazione dalle aree rurali alle urbane è del tutto sbagliata.

Infatti queste elezioni hanno dimostrato che le tendenze di destra sono in aumento anche nelle nuove generazioni. Molti, anche giovani, si lamentano che l’attuale governo non è abbastanza razzista, che gli immigrati sono la causa dei loro problemi.

Ancora una volta si è dimostrato che la strada per la liberazione dei lavoratori non passa attraverso la democrazia borghese.

Il vero partito comunista non rinuncia ai suoi principi e non teme di esprimerli per non perdere sostenitori o, peggio, voti! Il vero partito comunista non ha a che fare con la democrazia borghese, che puzza di fogna, dove ci si nutre di luride menzogne di ogni tipo.





La guerra civile in Italia nel primo dopoguerra

È stata esposta la relazione finale della indagine sul tema della guerra civile in Italia negli anni successivi alla prima guerra mondiale. Nei precedenti capitoli avevamo evidenziato i rapporti di forze tra le classi sociali allora esistenti sotto i loro diversi aspetti: una parte significativa del proletariato decisamente all’attacco su di un piano rivoluzionario; una borghesia nazionale in un primo tempo rassegnata alla perdita del suo potere; uno Stato borghese non in grado di fare affidamento sui suoi organi repressivi, soprattutto esercito e polizia.

Quindi nessun governo tentò affrontare in uno scontro aperto il montante movimento proletario, ma tutti cercarono di temporeggiare in attesa che l’impeto proletario si affievolisse. Il tempo giocava a favore della borghesia. I vari governi borghesi di sinistra assecondarono il proletariato scendendo a compromessi con esso, concedendo riforme o promettendone l’attuazione.

Però, mentre si cedeva e si prometteva, tutti i governi succedutisi blindavano e rafforzavano gli organi repressivi dello Stato e contribuivano alla creazione di quelle organizzazioni armate extra-legali che in seguito verranno assorbite dal fascismo.

Ma lo Stato borghese e i suoi governi non potevano raggiungere i loro obiettivi senza il decisivo soccorso del partito che avrebbe dovuto rappresentare la guida della classe operaia verso la rivoluzione: il Partito Socialista. Abbiamo messo in evidenza il tradimento del partito e della Confederazione sindacale per la loro sistematica azione sabotatrice delle lotte dei lavoratori. Ludovico D’Aragona, segretario generale della CGL e deputato socialista, aspirante al ministero del lavoro nel primo governo Mussolini, si vantò di «avere impedito lo scoppio di quella rivoluzione che dagli estremisti si meditava». Questo merito non mancarono di riconoscerlo nemmeno i giornali dell’industria e della finanza.

Mentre i governi temporeggiavano e la socialdemocrazia disarmava il proletariato moralmente e materialmente, la borghesia si organizzava formando squadre extra-legali, a carattere militare, per colpire le classi lavoratrici nei loro punti più deboli diffondendo morte e terrore.

Nel rapporto abbiamo anche citato un documento fascista, redatto quando era ancora in via di formazione, dove venivano impartite precise direttive a carattere militare di occupazione territoriale e terrorismo. Da questo documento si vede in modo chiarissimo come il fascismo basasse la certezza della vittoria sulla colpevole incapacità socialista e confederale.

Di fronte all’attacco terroristico del fascismo solo il nostro partito diede la parola d’ordine di rispondere alla violenza con la violenza; e le nostre squadre militari, pur mantenendo una propria autonomia organizzativa, parteciparono sempre in prima fila a tutte le azioni di guerra guerreggiata.

L’ultima serie dei nostri rapporti è stata appunto dedicata alla rievocazione delle gloriose battaglie sostenute dal proletariato contro i terroristici attacchi fascisti e delle forze repressive statali assieme alla collaborazione “esterna”, ma non meno micidiale, del partito socialista e della confederazione sindacale che, con il loro falso pacifismo, contribuivano alla disorganizzazione del proletariato e al suo disarmo morale e materiale.

Abbiamo anche dimostrato come il rifiuto della violenza da parte della socialdemocrazia si riferisse solo a quella diretta contro la democrazia borghese, per spezzarla e sopprimerla.

I comunisti non hanno mai esaltato la violenza per la sua bellezza, affermano semplicemente che essa è necessaria e che è compito del partito di classe organizzare il proletariato per il suo esercizio coordinato e sistematico al fine di instaurare quella dittatura che dovrà, poi, anch’essa essere difesa con altrettanta violenza.

Gli episodi di guerra guerreggiata che abbiamo ricordato nelle nostre relazioni non sono certamente gli unici sostenuti dal proletariato, però quelli rammentati sono sufficienti per dare una chiara idea della volontà di lotta dei proletari italiani. Sarebbe difficile trovare una città o un villaggio in cui i lavoratori non avessero avuto la meglio sui fascisti locali, ma non potevano certo fronteggiare forze di gran lunga superiori, in numero e armamento, trasportate dai luoghi più lontani con autocarri e treni, favorite inoltre dalla aperta collaborazione e partecipazione delle forze dell’ordine.

Noi abbiamo attribuito la vittoria del fascismo a tre concomitanti fattori.
     Il primo, il più evidente, fu l’organizzazione fascista con le sue squadre e tutto il loro truce armamentario.
     Il secondo, quello veramente decisivo, fu l’intera forza repressiva statale borghese, costituita da polizia, magistratura, esercito.
     Il terzo fu il gioco politico infame e disfattista dell’opportunismo social-democratico e legalitario.

Di fronte a un simile schieramento la sconfitta proletaria era certa. A contrastare la violenza reazionaria borghese, al proletariato sarebbe stata necessaria una organizzazione di difesa ed offesa altrettanto generale e centralizzata che coinvolgesse non solo le squadre del partito ma le grandi masse operaie e contadine.

La tattica della resistenza locale non poteva avere che un esito fallimentare, anche dove il proletariato battendosi con eroismo aveva saputo sconfiggere gli assalitori. Solo con un organismo rigidamente centralizzato a tipo militare si sarebbe potuto spezzare l’isolamento di singoli lavoratori, villaggi, o città.

L’Alleanza del Lavoro, pure con tutti i suoi limiti, rappresentò una parziale realizzazione di questa unità di azione. Con lo sciopero generale dell’agosto 1922, anche se solo per un attimo, venne abbandonata la tattica disastrosa del caso per caso per cedere il posto all’azione generale. In quelle poche giornate di sciopero generale, quando i fascisti non ebbero la possibilità di concentrare le loro forze per attaccare singoli paesi, il proletariato dimostrò di sapere far buon uso delle armi e le vittime fasciste finalmente superarono quelle proletarie. Fu il proditorio tradimento della Confederazione Generale del Lavoro che, sognando una partecipazione al governo borghese, stroncò lo sciopero dando la pugnalata alle spalle del proletariato che aprì la strada all’accesso al potere del fascismo.

I fascisti vinsero non perché rappresentassero una organizzazione esterna allo Stato, ma perché, al contrario, attraverso essi vinse lo Stato borghese che, abbandonata la tradizionale forma parlamentare, passò a quella monopartitica.

Il passaggio al partito unico fu, ed è, una necessità alla quale tende tutto il capitalismo, a scala mondiale. Che esso sia antidemocratico al capitalismo e a noi poco importa e considerammo un grave errore quello commesso dal movimento proletario internazionale che di fronte al fascismo invocò la democrazia, la legalità, i principi costituzionali borghesi.

La democrazia non protestò per la violenza subita e Mussolini arrivò al potere nel pieno rispetto dei regolamenti costituzionali. I voti del misero drappello di deputati fascisti sarebbero risultati insignificanti se i più bei nomi della democrazia non avessero espresso il loro “Si” favorevole.

Ma la fiducia data a stragrande maggioranza dai rappresentanti democratici al governo Mussolini non fu un incauto errore di percorso. Noi possiamo dimostrare che anche il regime a partito unico fu una creatura del gioco demo-parlamentare: tutto cominciò con la presentazione del nuovo disegno di legge elettorale, la “Legge Acerbo” (alla quale si ispirano tutte le riforme in materia elettorale degli ultimi 30 anni). Il nuovo regolamento stabiliva che alla lista di maggioranza relativa con almeno il 25% dei voti, spettassero i due terzi dei seggi parlamentari. Un quarto dei voti espressi sarebbe bastato per ottenere una solida maggioranza assoluta. Ebbene questo disegno di legge passò agevolmente, venne approvato dal Consiglio dei ministri (nel quale i fascisti dichiarati erano soltanto 4), dalla Commissione parlamentare, dalla Camera dei deputati e dal Senato con larghissima maggioranza nonostante i fascisti non fossero che una infima minoranza

Quindi, anche senza i brogli e le violenze denunciate da Matteotti nelle elezioni del 1924, è certo che il Listone Nazionale avrebbe comunque agevolmente conquistato i due terzi dei seggi parlamentari.

Non cesseremo mai di ricordare che noi, sinistra comunista, non ci scandalizzammo affatto della violenza fascista, anzi ci augurammo di poter noi fugare gli elettori, di qualsiasi colore, dalle urne. E non certo per ottenere un migliore risultato elettorale e i due terzi dei seggi parlamentari. Fu il cretinismo parlamentare di cui era imbevuto il partito socialista che portò a quel violentissimo attacco di Matteotti contro brogli e violenze elettorali e che gli sarebbe costato la tragica fine.

Scrivemmo: «Il nuovo sistema, di cui la chiave evidente era la sostituzione del partito unico borghese al complesso ciarlatanesco dei partiti borghesi tradizionali [...] passò alla liquidazione delle vecchie gerarchie politiche, e questi complici del primo periodo furono liquidati ed espulsi a pedate dalla scena politica» (“Prometeo”, 1946).

Venti anni dopo, tornato il pluripartitismo, tutti i vecchi manutengoli del fascismo prontamente si rivestirono dei paludamenti democratici, per continuare sotto altre ingannevoli apparenze l’opera del fascismo, sconfitto con le armi ma vincitore alla scala storica.

Per concludere diremo che il nostro Partito aveva immediatamente chiarito il rapporto che intercorre tra Stato e forme di governo; noi definiamo lo Stato come una macchina, composta di determinati organi (esercito, burocrazia, magistratura, etc.) che è nelle mani della classe dominante. La differenza fra democrazia e fascismo è solo nel modo in cui questa classe dirige quella sua macchina contro il proletariato.



La questione agraria - Aspetti storici

A questa riunione un compagno presentava il primo capitolo di un rapporto sulla questione agraria nella tradizione marxista. Così si articolerà: Cenni storici; Capitalismo e agricoltura; Teoria economica della rendita; Le lotte dei braccianti; Oggi e domani.

Riprendiamo dapprima i testi di Marx, Engels, Lenin, Kautsky e del nostro Partito per ricordare quanto finora abbiamo scritto su questo vasto e fondamentale argomento.

Abbiamo accennato alla questione agraria nello Stato ateniese, di cui Federico Engels ben riassume i tratti essenziali in L’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Nelle sue conclusioni afferma: «Il contadino (debitore, ndr) poteva essere contento se gli era permesso di restarvi (sul terreno, ndr) come fittavolo e di vivere con un sesto del frutto del suo lavoro, mentre doveva pagarne come fitto i cinque sesti al nuovo signore […] Se il ricavato della vendita di un fondo non bastava a coprire il debito, o se esso era stato contratto senza garanzia ipotecaria, il debitore era costretto a vendere all’estero i suoi figli come schiavi per soddisfare il creditore. Vendita dei figli da parte del padre: ecco il primo frutto del diritto patriarcale e della monogamia! E se non era ancora soddisfatto, il vampiro poteva vendere come schiavo lo stesso debitore. Questa fu la piacevole aurora della civiltà presso il popolo ateniese».

Anche il modo di produzione nell’Impero Romano poggiava sull’agricoltura. Ne I Fondamenti del Cristianesimo Kautsky scrive: «La base del modo di produzione dei paesi che componevano l’Impero Romano era l’agricoltura; l’artigianato e il commercio erano molto meno importanti. Predomina ancora la produzione per l’autoconsumo; la produzione di merci, la produzione per la vendita, era ancora poco sviluppata. Artigiani e mercanti avevano spesso anche fattorie in stretta connessione con le loro attività domestiche; il loro lavoro andava principalmente alla produzione per la famiglia. L’azienda forniva viveri per la cucina e materie prime come lino, lana, cuoio, legno, da cui gli stessi membri della famiglia ricavavano abiti, suppellettili e attrezzi per la casa. Era solo l’eccedenza oltre i bisogni della famiglia, se c’era, che veniva venduta. Questo modo di produzione richiedeva la proprietà privata della maggior parte dei mezzi di produzione, compresi i seminativi ma non le foreste e i pascoli, che potevano ancora essere proprietà comune. Include gli animali domestici ma non la selvaggina, e infine gli strumenti e le materie prime, nonché i prodotti da essi ricavati».

Il possesso della terra però implica disporre della forza lavoro necessaria per lavorarla, senza la quale non si può produrre nulla. Anche in epoca preistorica troviamo tra i ricchi la ricerca di forza lavoro in sovrappiù rispetto alle braccia della famiglia.

Tali forze lavoro però non potevano assumere la forma del salariato. Se ne trovano di precoci, ma rare e temporanee, come per il raccolto. Una famiglia attiva poteva facilmente procurarsi i pochi mezzi di produzione necessari per un’unità produttiva agricola indipendente. Inoltre i legami familiari e comunitari erano ancora forti, così che le occasionali disgrazie che potevano rendere una famiglia senza terra erano mitigate dall’aiuto di parenti e vicini.

Ancora Kautsky: «In questa fase della storia forze di lavoro permanenti non potevano essere ottenute dall’esterno della famiglia sotto forma di lavoratori salariati liberi. Solo la costrizione poté fornire il lavoro necessario per i latifondi più grandi. La risposta è stata la schiavitù».

Proseguiva la descrizione del periodo di ascesa dell’Impero fino alla sua dissoluzione, illustrando le tecniche di produzione e gli strumenti via via migliorati per ottenere maggiori raccolti, lo sfruttamento dei contadini e in particolare di quelli stranieri.

Si sono descritti i fenomeni dell’eccessivo sfruttamento dei terreni e all’esaurimento della fertilità del suolo, che portarono alla fame degli stessi contadini; della necessità di guerre di conquista per avere sempre nuova terra a disposizione.

A conclusione di questo primo rapporto siamo tornati a leggere Kautsky: «Con le enormi masse umane a disposizione lo Stato costruì quelle colossali opere che ancora oggi ci stupiscono, templi e palazzi, acquedotti e fogne, e anche una rete di magnifiche strade che collegavano Roma con gli angoli più remoti dell’Impero e con ciò costituivano un potente mezzo dell’unità economica, politica e della comunicazione internazionale. Inoltre, furono costruite grandi opere di irrigazione e drenaggio […] Quando la potenza finanziaria dell’Impero si indebolì, i suoi governanti lasciarono andare in rovina tutte queste strutture piuttosto che porre un limite al militarismo. Le colossali costruzioni divennero altrettanto colossali rovine, che andarono in pezzi perché man mano che la forza lavoro diventava più scarsa, per le nuove costruzioni era più facile ottenere i materiali abbattendo i vecchi edifici invece di estrarli dalle cave. Questo metodo fece più danno alle antiche opere d’arte che le devastazioni degli invasori Vandali e degli altri barbari».


FINE DEL RESOCONTO DELLA RIUNIONE AL PROSSIMO NUMERO









PAGINA 8



I tre poli della guerra fra gli imperi: Stati Uniti - Europa - Cina

La guerra ucraina chiude le porte alla penetrazione cinese in Europa

Tra le conseguenze della guerra in Ucraina è l’allineamento alle decisioni di Washington dei principali imperialismi d’Europa che hanno dovuto partecipare al sostegno militare a Kiev e adottare le sanzioni contro Mosca, nel tentativo, per ora fallito, di piombare la Russia in una profonda crisi economica. Tale orientamento di politica internazionale ha provocato per gli Stati dell’Unione Europea, e in particolare per la Germania, la perdita delle sue ingenti forniture energetiche a basso costo, delle quali si avvantaggiava la sua industria e, di conseguenza, lo sviluppo delle economie europee legate al gigante tedesco.

Spezzati i legami tra Europa e Russia, i prossimi sarebbero quelli tra Europa e Cina.

Le contraddizioni della società borghese sono destinate inevitabilmente ad esplodere in un gigantesco conflitto di portata mondiale che vedrà gli Stati Uniti e la Cina alla testa di blocchi contrapposti. In questo scenario diventa fondamentale per l’imperialismo americano assicurarsi l’asservimento dell’Europa.

Sul fronte economico c’è tutto l’interesse degli Stati Uniti a portare un ulteriore attacco alla concorrente industria europea, e soprattutto tedesca, che dipende in grande misura dal mercato cinese. Gli economisti borghesi parlano di “decoupling” per indicare lo sganciamento dell’economia europea e americana dal gigante asiatico. Le imprese europee, in particolare quelle ritenute strategiche, dovrebbero ricollocarsi fuori dalla Cina, per lo più nello stesso continente asiatico. Il “decoupling” non è che la pressione americana a coinvolgere l’Europa in una guerra commerciale contro la Cina.

Per ora l’Europa resiste. In ambito UE la linea prevalente è sintetizzata nella formula del “de-risking”, cioè una strategia di riduzione del rischio da parte dell’UE nelle relazioni con la Cina, con l’obiettivo di tutelare la sicurezza politica, militare, circa la condivisione di nuove tecnologie sofisticate, ed economica, accedendo a nuovi mercati alternativi a quelli cinesi, ma senza privarsi dell’afflusso delle materie prime e dei prodotti necessari alla propria industria e senza perdere l’accesso al vasto mercato interno cinese.

Nonostante sia una versione più morbida dell’approccio verso la Cina di quello auspicato dagli USA, questa strategia di “de-risking” trova ostacoli negli interessi nazionali dei singoli paesi europei, i cui interessi capitalistici li spingono a mantenere e sviluppare rapporti commerciali e industriali con la Cina.


Ambiguità tedesca

L’approccio europeo verso la Cina è quindi determinato, da un lato, dalla pressione politica esercitata dall’imperialismo americano, dall’altro, dalla necessità delle economie nazionali di non perdere il prezioso mercato cinese.

Anche nel 2022 la Cina è stata, per il settimo anno consecutivo, il primo partner commerciale della Germania con un interscambio di circa 300 miliardi di euro. Inoltre, alcune delle maggiori e cruciali aziende tedesche, ad esempio quelle dell’automobile, hanno una forte dipendenza dal mercato cinese. BMW, Daimler e Volkswagen ci ricavano il 30% del loro fatturato. Sono quindi gli industriali tedeschi a mostrarsi contrari ad allentare i rapporti con la Cina, temendo il collasso dell’economia nazionale.

Le pressioni degli industriali tedeschi a mantenere i traffici con la Cina hanno trovato una sponda nella SPD, il partito socialdemocratico, provocando una spaccatura all’interno del governo, essendo gli alleati Verdi più succubi alle istanze americane. La lotta in corso a Berlino fa vacillare il fronte interno che manca di coesione sulla strada da intraprendere. Tale ambiguità si riflette nel documento strategico sulla sicurezza nazionale presentato dai vertici tedeschi, nel quale la Cina viene definita contemporaneamente “partner”, “rivale sistemico” e “concorrente”. Questo equilibrismo non potrà durare a lungo e, come è stato nei rapporti con la Russia, interrotti in seguito alla guerra in Ucraina, sarà messo in discussione dal precipitare delle contraddizioni inter-imperialistiche.

Di fronte al rallentamento dell’economia, dovuto anche alla guerra in Ucraina, per il capitalismo tedesco è impossibile rinunciare al mercato cinese. Lo scorso novembre Scholz fu il primo politico europeo a recarsi in Cina dopo la pandemia e la riconferma del terzo mandato per Xi Jinping. Ci andò accompagnato da una vasta rappresentanza del mondo industriale tedesco.

Conferma dell’interesse del capitalismo tedesco a mantenere i legami con la Cina la vicenda della vendita del porto di Amburgo alla compagnia di Stato cinese COSCO. L’affare aveva incontrato una serie di opposizioni, e ad inizio 2023 le autorità tedesche l’avevano classificato infrastruttura critica, per i pericoli di una cessione estranea al blocco UE-NATO. Nonostante ciò Scholz ha acconsentito alla cessione ai cinesi del 24,99% delle quote di partecipazione del terminal Tollerort, con l’obiettivo di trasformare lo scalo tedesco nel principale terminal per l’Asia in Europa.

Appare quindi che, nello scontro attuale in Germania, la linea del cancelliere Scholz di difesa degli interessi economici del paese, continuando a fare affari con la potenza cinese, stia reggendo alla pressione americana, rappresentata dalla linea del ministro degli esteri Baerbock. Ma la contesa non è certo chiusa.

Pesano sull’imperialismo tedesco le conseguenze della sconfitta nella seconda guerra mondiale che ha prodotto una Europa in cui la supremazia americana è garantita dalla sua ingente presenza militare che vede ancora oggi, a distanza di 78 anni dalla fine della guerra, 36.000 soldati americani sul territorio tedesco. Ne risulta per la Germania, costretta nell’alleanza agli Stati Uniti e nell’adesione alla NATO, la mancanza di una reale libertà di movimento in politica estera.

A questa debole proiezione politica e militare all’esterno si affianca però la potenza di un apparato industriale che la rende un gigante economico tra i massimi al mondo. Da qui la tendenza dell’imperialismo tedesco a intraprendere strade che inevitabilmente lo pongono in contraddizione con l’americano, come il legarsi alle forniture energetiche russe e il mantenimento del vantaggioso commercio con la Cina.

L’economia tedesca ha bisogno dei mercati euroasiatici. Subìto lo sganciamento da Mosca, al momento Berlino resiste alle pressioni di Washington riguardo ai legami con Pechino, ma, come è avvenuto per i rapporti con la Russia, i nodi verranno al pettine e Berlino sarà costretta a sciogliere la propria ambiguità.


Velleità francesi

Dopo Scholz anche Macron si è recato in Cina, accompagnato dalla presidente della Commissione europea Von der Leyen. L’iniziativa, invece di rimarcare l’unità europea come era nelle intenzioni, ha fatto emergere la differenza tra la posizione francese e quella dei vertici UE nell’atteggiamento verso la Cina. L’approccio più duro di Bruxelles, per esempio sulla questione di Taiwan, non è condiviso da Stati come la Francia, mossi dall’interesse nazionale a mantenere relazioni commerciali, tramite accordi bilaterali. Come d’altronde è gradito dai cinesi, i quali hanno tutto l’interesse a trattare con i singoli Stati.

In tal modo, il viaggio di Macron ha conseguito importanti risultati verso una crescita dei rapporti commerciali. Negli ultimi cinque anni si è assistito ad un aumento dell’interscambio commerciale fra Cina e Francia da 60 a 80 miliardi di dollari. Come in occasione del viaggio di Scholz, anche Macron è stato accompagnato dai rappresentanti dei grandi gruppi industriali francesi. 36 imprese cinesi e francesi hanno siglato 18 accordi per espandere la cooperazione in settori quali la manifattura, lo “sviluppo green” e l’innovazione tecnologica. Tali accordi si vanno ad aggiungere alla cooperazione già in corso in altri settori quali la produzione energetica, l’aerospaziale e l’industria automobilistica.

Molta risonanza hanno avuto le dichiarazioni del presidente francese che, sulla questione di Taiwan, si è spinto ad affermare che Stati Uniti e Cina sarebbero ugualmente responsabili dell’aumento delle tensioni e che in sostanza gli europei non dovrebbero lasciarsi trascinare in crisi che non li riguardano soltanto perché spinti dagli USA. In tal modo Macron ha fatto intendere di volere tenere separato il teatro europeo da quello indo-pacifico e ha rivendicato l’autonomia strategica dell’Europa, bilancia tra Stati Uniti e Cina.

Tali dichiarazioni sono rivelatrici dell’ambizione di un vecchio imperialismo insofferente all’asservimento verso quello americano, ma che non possono concretizzarsi poiché all’interno dell’Unione Europea prevalgono gli interessi nazionali dei singoli Stati e manca quell’unità di azione politica che solo la forza di uno Stato unitario e centralizzato può garantire. Basti considerare la posizione dei paesi dell’Europa orientale, Polonia in testa, che non sono assolutamente disposti a rinunciare alla protezione dell’imperialismo Usa.

L’attuale stazza dell’imperialismo francese – sebbene, a differenza della Germania, possa contare su uno degli eserciti più forti al mondo, e sia l’unico tra i paesi UE a possedere un arsenale atomico e mantenga una certa influenza in Africa e su possedimenti d’oltremare, entrambi lasciti del passato coloniale – non regge il confronto con potenze dal calibro di Stati Uniti e Cina, a dimensione continentale.

A parole la borghesia francese sfoggia grandeur e mostra di smarcarsi da Washington, ma sarà riportata con i piedi per terra dalla cocciuta realtà. Come con l’accordo AUKUS, con il quale è saltata una commessa miliardaria per la sua industria militare.


Impotenza italica

L’Italia è stato l’unico paese del G7 ad accordarsi con la Cina sull’iniziativa delle Nuove Vie della Seta (BRI). Questa decisione è però attualmente messa in discussione dal nuovo governo, che nei prossimi mesi potrebbe non rinnovare l’accordo. Ad orientarlo in questa direzione c’è in primo luogo il contesto internazionale determinatosi col divampare della guerra in Ucraina, che ha permesso all’imperialismo americano di confermare la presa anche sull’Italia, la quale ha seguito americani e alleati nella fornitura di armi all’Ucraina e nelle sanzioni contro la Russia.

D’altronde, come per la Germania, anche sull’Italia pesa il lascito del secondo conflitto mondiale, con la presenza di basi militari e di migliaia di soldati americani, costringendola alla fedeltà atlantica, in realtà mai messa in discussione.

Inoltre gli oppositori italiani dell’accordo riguardante la BRI puntano il dito sul commercio tra Italia e Cina, evidenziando che, mentre le esportazioni italiane in Cina sono cresciute dalla conclusione dell’accordo ad oggi da 13 miliardi nel 2019 ai 16,4 del 2022, molto di più sono aumentate le esportazioni cinesi in Italia, dai 31,7 miliardi del 2019 ai 57,5 del 2022, determinando una bilancia commerciale fortemente sbilanciata.

Una decisione ancora non è stata presa dal governo italiano, che però ha già risposto positivamente alla richiesta americana di partecipare al contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico e ha mandato in Estremo Oriente il “pattugliatore polivalente d’altura” Morosini, a cui seguirà verso la fine dell’anno una missione della portaerei Cavour nelle acque dell’Indo-Pacifico.


Contro oriente e occidente

È in Estremo Oriente, dove i venti di guerra spirano sempre più forti, che l’attuale contesa per Taiwan e per i Mari cinesi si trasformerà in uno scontro diretto tra le due superpotenze, Stati Uniti e Cina. Questa è la direzione segnata dalle contraddizioni mondiali dell’imperialismo che rende inevitabile una nuova spartizione mondiale corrispondente ai mutati rapporti di forza.

Il sogno borghese di una Europa federazione di Stati, ciascuno con la sua indipendenza, con le economie disciplinate da regole rigide ma condivise, per evitare fratricidi scontri commerciali e finanziari, è miseramente fallito. Non perché uno Stato si sia dimostrato più forte e più deciso a far trionfare i propri interessi a danno di altri, ma perché la dinamica degli scontri degli imperialismi ha dimostrato l’inconsistenza di una forma sovrapolitica consensuale, a immagine delle fradice democrazie borghesi, ma senza le caratteristiche di controllo tipiche di uno Stato centralizzato.

L’attuale competizione inter-imperialistica tra i due blocchi prima o poi non lascerà posto alle ambiguità su cui oggi si barcamenano gli Stati d’Europa. Il quadro esplosivo delle dinamiche del capitalismo non lascerà possibilità di scelta ad alcuna delle opposte borghesie.

Per adesso tutti gli Stati europei si sono rifugiati sotto “l’ombrello” NATO per la propria difesa, e paiono delinearsi i futuri fronti di guerra. Mentre la cosiddetta Unione Europea si sta sfaldando, i singoli Stati sono chiamati a scegliere da che parte stare. Le borghesie europee sono oggi allineate alla volontà egemone degli Stati Uniti, anche contro i loro evidenti interessi immediati, ma non si possono escludere, nel precipitare della crisi che si va profilando – economica, militare e sociale – e nelle relazioni internazionali, inattesi e repentini cambi di fronte.

Neanche al proletariato internazionale – che non vorrà farsi carne da cannone come sta accadendo oggi ai suoi fratelli di classe ucraini e russi – sarà data la possibilità di una condotta ambigua: dovrà schierarsi, contro la guerra imperialista, per la rivoluzione comunista mondiale.


Europa schiacciata dagli Stati Uniti contro il muro dell’Ucraina

Nell’agosto del 2022 il Congresso degli Stati Uniti ha approvato una complessa legge, per la quale è stato stanziato un fondo di oltre 700 miliardi di dollari, con il duplice scopo di contenere la spinta inflattiva mediante la riduzione del deficit federale e nel contempo incentivare tutte le attività che investono nelle produzioni con e per la cosiddetta “energia pulita”.

Era iniziata da pochi mesi la guerra nell’Europa orientale con l’invasione dell’Ucraina ad opera della Russia, la quale tentava di riprendere uno status politico imperialista dopo la dissoluzione di un impero minato dall’interno.

Questa legge, che è passata abbastanza inosservata sulla stampa europea, non è stata promulgata per caso o per i motivi specifici, come la sua denominazione potrebbe suggerire: è stata chiamata “Inflation Reduction Act”, IRA, a significare che l’inflazione deve esser tenuta sotto controllo direttamente dallo Stato, agendo su molte voci che dovrebbero causare inflazione, ad esempio sul prezzo dei medicinali, e rafforzare – cioè rendere sicure e senza concorrenza – le linee di approvvigionamento e produzione dei materiali strategici, essenziali per le apparecchiature elettroniche delle quali gli Stati Uniti vogliono tornare ad essere i primi produttori; tutto per generare un effetto moltiplicatore sul sistema economico senza creare deficit di bilancio.

In questo quadro utopico si dovrebbe poi giungere, mediante le sovvenzioni industriali, alla drastica riduzione di gas serra, a comprimere i consumi e via fantasticando. Beffarde presunzioni di un futuro “verde”, proprio dal capitalismo che usa per produrre gas e petrolio il sistema più inquinante e destabilizzante per l’ambiente, l’estrazione dagli scisti bituminosi. Della infame balla dell’energia pulita non ci interessa nulla, perché le prediche che arrivano dal pulpito del capitale le conosciamo bene e sappiamo quanto siano false e spregiudicate. È aria fritta per turlupinare i gonzi che ci credono, che pensano e sperano in una legislazione illuminata che, in pieno capitalismo, salvi il mondo dalla rovina.

Il concetto di base di questa legge sta da tutt’altra parte e l’esigenza che l’ha prodotta, negando una lunga fase storica di preteso liberalismo commerciale, risiede nell’accelerazione che il mondo del capitale sta subendo per la sua crisi interna. Gli Stati Uniti, pur dichiarando di combattere l’inflazione, si sono dati un formidabile strumento di incentivi per riportare le produzioni critiche o innovative all’interno dei confini nazionali. La più colpita da questa politica è per ora la Germania e la burocrazia di Bruxelles, che ha eretto un complesso sistema legale contro i cosiddetti “aiuti di Stato”, in sintonia con gli interessi tedeschi.

Poche e non chiare le contropartite a favore delle economie più danneggiate da questa brutale manovra; forse potranno usufruire degli aiuti statali anche le merci non prodotte in America ma che entrano nella filiera produttiva negli Usa. Poca, pochissima cosa. E pure a questo diktat gli Stati europei si sono inchinati senza fiatare.

L’aggressione che un imperialismo di basso rango ha operato nei confronti di uno Stato ultrafallito e virtualmente in mano a un sistema imperiale molto più forte, nel cuore stesso della vecchia Europa, è stato lo sbocco di una lunga crisi strisciante.

Nel primo decennio del 2000 l’economia aggregata dell’Europa era superiore a quella degli Stati Uniti. Si parla naturalmente di una sommatoria che politicamente e produttivamente ha poco senso, dal momento che gli Stati che componevano la nuova Unione europea erano tutto fuorché uniti in una reale compagine politica, con gli stessi interessi di una borghesia solidale, anzi erano alle prese con interessi divergenti e con una forma monetaria che anziché unire divideva, amplificando le differenze, le economie e le strutture finanziarie. Non a torto anche la UE era chiamata “un gigante economico e un nano politico”.

Agli inizi di questi anni ’20 la situazione si è ribaltata, con le capacità produttive degli Usa che hanno sopravanzato quelle europee.

Le condizioni di privilegio costituite dalla moneta di riferimento mondiale, dalla possibilità di emettere debito senza che alcuno possa osare una critica seria, anzi, la capacità di attrarre capitali e farsi comprare il debito emesso, così come la potenza del tessuto produttivo hanno costituto un sistema formidabile per il predominio americano sul resto della finanza mondiale.

Anche il problema energetico è stato, con il criminale sistema dell’estrazione di gas e petrolio dalle sabbie di scisto, uno strumento che ha risolto i problemi energetici americani, ponendo il Paese al vertice della produzione mondiale. Con il risultato che per le industrie europee l’energia costa più del doppio delle loro concorrenti americane. In questo la guerra russo-ucraina ha dato una buona mano agli Stati Uniti, in termini di concorrenza.

Ad ogni modo la situazione di perdurante crisi caotica che ha caratterizzato tutto l’arco dei 15 anni passati, da quella finanziaria partita dal settore immobiliare, a quella borsistica, alla crisi dei debiti sovrani nei paesi del sud Europa, non ha impedito che il capitalismo, alla scala mondiale, abbia continuato la sua corsa, sviluppando però una serie di criticità locali, culminate con un evento esterno al capitalismo ma fortemente condizionante: la pandemia degli anni appena trascorsi, che ha innescato una situazione inflattiva, altrettanto grave di quel lungo periodo deflattivo che fino al 2022 ha regolato la finanza mondiale e di conseguenza ha ridotto la crescita auspicata di produzioni e consumi.

All’inflazione, invocata per anni per uscire dalla gabbia deflattiva e poi giunta con livelli giudicati non sopportabili, le Banche Centrali hanno risposto con la medicina principe, l’aumento dei tassi di interesse.

La riduzione della liquidità conseguente ha imposto un aumento della concorrenza e una decisa stretta sulla economia tedesca che più di tutte le europee si era messa in forte concorrenza con gli Stati Uniti. La Germania si era posta in Europa al vertice della offensiva produttiva e commerciale, e aveva invaso il mercato americano, approfittando della organizzazione “aperta” dei mercati come strutturata dal WTO, anche grazie al vantaggio dei bassi costi energetici permessi dai prezzi praticati dalla Russia, accumulando un consistente avanzo mercantile.

Questa situazione aveva portato, anche in un recente passato, a una serie di minacce dirette americane, fino a passare a vie di fatto, già sotto la presidenza Obama, dallo “scandalo” del cosiddetto “dieselgate”, costato alla Volkswagen e all’intero comparto automobilistico tedesco perdite colossali, al caso Monsanto, azienda chimica americana acquistata dalla Bayer, subito poi obbligata dai tribunali americani a risarcimenti miliardari ai danneggiati dall’uso del glifosato.

Lo strisciante scontro commerciale si è infine trasformato, a guerra iniziata, in attacco di guastatori al gasdotto Nord Stream, spregiudicata incursione che ha liquidato il dumping energetico dal maggiore capitalismo europeo, rimettendo così in riga tutti gli altri, che in varie occasioni si erano allineati alla Germania.

La guerra russo-ucraina è stata la cornice perfetta con cui il declinante ma ancora potentissimo sistema industriale militare statunitense ha ripreso il sopravvento su un gigante economico europeo ancora politicamente e militarmente debole al cospetto degli Stati Uniti.

Il risultato economico di questo inverno, certificato dall’Ufficio federale di statistica, è che la Germania è entrata in una fase di depressione, con la produzione economica diminuita per due trimestri consecutivi. Dopo la risalita del PIL e lo stentato ritorno alla “normalità economica”, le previsioni di recessione ritornano per gran parte del mondo, in particolare per Stati Uniti, Unione Europea e Cina. Per gli anni a venire i presagi, per quel che valgono in una situazione così caotica, danno crescita in diminuzione ovviamente in Russia, ma anche in Germania e Stati Uniti.

Oltre alla guerra guerreggiata in Europa, a quella sospesa nel Pacifico, si sviluppa la guerra commerciale nel mondo. È tramontata, se mai ha avuto sostanza, la “globalizzazione”, basata sul libero mercato, sulle frontiere aperte, sui trattati internazionali che avrebbero dovuto regolare scambi e controversie, e mettere un freno agli aiuti di Stato e riparare le industrie nazionali dalla concorrenza “sleale”. Mercato e libero scambio sono mezzi e strumenti che devono essere subordinati alle condizioni politiche delle dinamiche tra gli Stati e alle esigenze delle loro strategie, anche militari. Finalmente la menzogna del libero mercato si disvela per quello che è, sotto la spinta delle contraddizioni capitalistiche. La guerra commerciale, con il dirigismo, i sussidi e i dazi, si riprende la scena senza gli infingimenti delle liberalizzazioni..

L’accelerare di questi sconvolgimenti è salutato dai comunisti come un processo progressivo, il crollo di coalizioni, complicità e forme irrigidite nelle quali le oligarchie del capitale pretendono controllare il mondo.

La classe operaia è oggi costretta a sottostare a quanto decidono i propri governi, impedita ad opporsi alla guerra tra gli Stati borghesi che scaglia proletari gli uni contro gli altri. Guerre per i confini territoriali, per il controllo degli approvvigionamenti energetici, per le materie prime, ma tutte contro i proletari che, pur costretti dentro in una divisa, non hanno tuttavia patrie da difendere.