Partito Comunista Internazionale
il Partito Comunista Internazionale N. 430 - ottobre - dicembre 2024

anno LI - [Pdf]

Indice dei numeri

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Aggiornato al 20 dicembre 2024

organo del partito
DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: – la linea da Marx a Lenin, alla fondazione della III Internazionale, a Livorno 1921, nascita del Partito Comunista d’Italia, alla lotta della Sinistra Comunista Italiana contro la degenerazione di Mosca, al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani – la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario, a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco
PAGINA 1 Disfattismo - non ancora rivoluzionario - in Ucraina
– Il compiacente “terrorismo
Guerra fra imperi in Siria
– Lotta fra gli Stati e fra le classi in Palestina
Borghesie in crisi: La legge marziale in Corea del Sud
PAGINA 2 Elezioni negli USA: Cambia il capo - nulla cambia
Per il sindacato di classe – 29 novembre, sciopero generale, Per la mobilitazione generale della classe operaia - Per un fronte unico sindacale di classe
Prato, domenica 13 ottobre: Scioperare uniti contro le aggressioni dei padroni
Intervento del partito nei sindacati (Rapporto alla riunione generale di settembre)
Ancora sciopero alla Samsung: dopo la Corea l'India
– Gli effetti della crisi sui lavoratori dei diamanti in India
PAGINA 6 – Convergenti contributi di lavoro nella Riunione Generale del Partito 24-26 maggio [RG149] (Segue dal numero scorso): La questione militare, La guerra civile nel Donbass - Divenire nella storia dell’acciaio - Le ideologie della borghesia, Nel medioevo - Il corso del capitalismo globale, Uno sguardo d’insieme - Integrazioni alla questione agraria





PAGINA 1
Disfattismo - non ancora rivoluzionario - in Ucraina

La guerra in Ucraina ha superato i mille giorni. Dopo due anni di situazione incerta in cui i contrapposti eserciti si sono massacrati a vicenda, recentemente la situazione ha confermato la capacità delle forze russe di imporsi su tutti i fronti, come era prevedibile fin dall’inizio del conflitto, considerate le diverse potenzialità dei due Stati. I russi ormai da mesi stanno avanzando su tutti i settori del lungo fronte di guerra, anche se lentamente, soprattutto per la maggiore disponibilità di soldati.

Ma recentemente la guerra ha visto sviluppi significativi anche sul piano politico.

Il 17 novembre il governo statunitense ha dato l’assenso all’uso dei missili a lunga gittata contro il territorio russo. La giustificazione di questo cambio di rotta è stata la presenza di 10.000 uomini della Corea del Nord, accompagnati da pezzi di artiglieria, fatto che avrebbe cambiato la natura della guerra.

Il giorno 19, missili balistici ATACMS, di fabbricazione USA, sono stati lanciati contro un deposito di munizioni a Kerchov, nella provincia russa di Bryansk, il giorno seguente alcuni missili da crociera Storm Shadow, forniti dalla Gran Bretagna, contro un centro di comando in un bunker sotterraneo nella regione di Kursk.

Come gli ATACMS anche gli Storm Shadow sono gestiti in Ucraina da personale britannico e guidati sugli obiettivi da satelliti militari americani. L’impiego di queste armi contro il suo territorio permette a Mosca di accusare Washington e Londra di coinvolgimento diretto nel conflitto. La risposta non si è fatta attendere. Il 21 novembre la Russia ha attaccato l’area industriale di Dnipro in Ucraina con sette missili da crociera, un ipersonico e un balistico. Il Cremlino ha dichiarato che gli Stati Uniti ne erano stati informati 30 minuti prima del lancio, precisando di aver mantenuto “una comunicazione costante” con Washington sulla questione delle armi nucleari.

Poche ore dopo Putin in un intervento televisivo rivolto alle Forze Armate ha affermato che il permesso dato dagli USA e dalla Gran Bretagna a Kiev di attaccare in profondità il territorio russo con i missili da loro forniti ha fatto assumere al conflitto “un carattere globale”, e Mosca si riserva il diritto di colpire anche le infrastrutture militari di Washington e Londra. «Ci consideriamo autorizzati a usare le nostre armi contro le strutture militari di quei Paesi che permettono l’impiego delle loro armi contro le nostre strutture».

La gravità della situazione è dimostrata anche dalle reazioni di vari governi. La Cina ha invitato tutte le parti a esercitare “calma e “moderazione” e alla «de-escalation della situazione attraverso il dialogo e la consultazione». Il premier polacco Donald Tusk da parte sua ha affermato che «le ultime ore hanno dimostrato che la minaccia è grave e reale». In Germania, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha ribadito «non vogliamo fornire all’Ucraina missili da crociera in grado di raggiungere in profondità il territorio russo». Da parte loro i governi di Francia e Gran Bretagna, mettendo in evidenza con questi interventi le divisioni all’interno del campo occidentale e della Nato, hanno riconfermato il loro sostegno, almeno a parole, all’Ucraina. Il premier laburista Starmer ha parlato della necessità per tutti i Paesi Nato di «aumentare il sostegno alla nostra difesa collettiva», ribadendo l’obiettivo del Regno Unito di una spesa per la difesa del 2,5% entro la primavera. Il debole Macron, durante una recente visita a Varsavia, ha ribadito l’appoggio all’Ucraina perché possa trattare con la Russia «da una posizione di forza». La portavoce del Pentagono Sabrina Singh, in una conferenza stampa, dichiarava, forse augurandoselo: «Sono più che concreti i rischi di un prossimo nuovo utilizzo da parte di Mosca del super missile Orechnik, già lanciato una decina di giorni fa su Dnipro, contro l’Ucraina».

Da settimane l’amministrazione statunitense chiede al governo ucraino di gettare nella mischia altri proletari, reclutando anche i giovani tra i 18 e i 25 anni. Il borghese governo ucraino si è fino ad ora rifiutato, per timore di una rivolta sociale, visto che la maggioranza degli ucraini vorrebbe una rapida fine della guerra, ad ogni costo, mentre i soldati al fronte disertano in gran numero.

Una sproporzionata reazione di Mosca, con bombardamenti sugli impianti civili, non sappiamo come potrebbe modificare la situazione sociale. Certo è che al proletariato in Ucraina una rapida sconfitta militare della propria borghesia e della propria nazione eviterebbero solo nuove sofferenze e nuovi lutti. Effetto analogo avrebbe una sconfitta dell’ugualmente Stato borghese di Moscovia sui lavoratori russi.

Nelle ultime settimane ha taciuto il mantra del presidente Zelensky contrario a ogni nocumento all’integrità territoriale dell’Ucraina. Adesso sarebbe pronto ad un “cessate il fuoco” rimandando il recupero degli oblast occupati da Mosca. Il presidente guerrafondaio prende atto che l’esercito ucraino si sta sfaldando dal suo interno, che, di fronte al perdurare del macello, sempre più soldati abbandonano il fronte. Per quanto ancora un fenomeno individuale, i numeri sono impressionati: più di centomila disertori su un milione e duecentomila mobilitati.

Anche dal fronte russo giungono notizie di diserzioni, di rifiuto di combattere, di soldati che sparano sui propri ufficiali. Forse è questa la ragione dell’avanzare così lento delle truppe russe, nonostante la debolezza delle ucraine.

In questa situazione i maggiori governi dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e la Gran Bretagna soffiano ancora sul fuoco della guerra paventando il pericolo russo e la necessità di difendersi dal nemico alle porte. Ma il nemico del proletariato è in casa propria. Sono i governi, i parlamenti al servizio dei padroni, i quali guadagnano dalle commesse di guerra, che puntano all’aumento delle spese militari, che spingono verso lo scontro tra Stati.

Noi comunisti sappiamo che una guerra generale si approssima. Sappiamo che il regime del Capitale non uscirà dalla crisi endemica del suo sistema produttivo se non con una guerra massicciamente distruttiva di merci e uomini, che permetta, come fu dopo la seconda guerra mondiale, la ripartenza di un nuovo ciclo di accumulazione. Sappiamo che le forze ben organizzate del capitale spingono verso la guerra, che il complesso militare-industriale comanda ai vari governi e alle diplomazie statali. Ma sappiamo anche che una classe può opporsi alla guerra in modo deciso: è il proletariato internazionale, che non ha nulla da guadagnare da uno scontro generale fra i rispettivi padroni e tutto da perdere.

Contro le minacce di guerra, contro il crescente militarismo, contro il generalizzato aumento delle spese militari, ribadiamo dunque il nostro grido: nessuna collaborazione del proletariato con la propria borghesia, nessuna solidarietà tra le classi nel nome della difesa della patria.

No alla guerra imperialista tra gli Stati. Si alla internazionale guerra di classe per abbattere il regime del Capitale!







Il compiacente “terrorismo”

La borghesia non si stanca di propagandare la necessità della guerra al terrorismo, interno ed esterno, una lotta che presuppone l’alleanza tra tutte le classi, e poi, possibilmente, tra tutte le nazioni.

La falsità di tale guerra è ormai evidente. Ricordiamo solo che il famoso Bin Laden era armato, addestrato e finanziato dagli U.S.A. quando combatteva contro i russi in Afghanistan, ed era definito un combattente per la libertà contro il comunismo. Quando poi il cane ha morso la mano del padrone, il padrone ovviamente si è arrabbiato, ed allora Bin Laden, con la sua organizzazione Al Qaeda, è diventato per tutto l’Occidente un terrorista sanguinario.

In realtà non è cambiato nulla, e il macellaio è rimasto macellaio.

Nella Siria del 2011 Al Qaeda e organizzazioni simili tornarono ad essere dalla parte dell’Occidente e della libertà contro il tiranno Assad, macellaio come tutti i capi di Stato borghesi, ma colpevole di essere una pedina dell’imperialismo russo e non di quello nordamericano. In conseguenza di tale guerra l’ISIS si trovò a controllare ampie parti di territorio siriano e iracheno, divenendo un problema per gli interessi occidentali. Dopo aver goduto dell’appoggio di Turchia, Arabia saudita e Qatar, che perseguivano i propri interessi di egemonia regionale, col beneplacito dell’imperialismo nordamericano, l’ISIS è stato attaccato dagli Stati Uniti e dai loro vassalli, che solo allora si accorsero che avevano a che fare con terroristi sanguinari e tagliatori di teste.

Se guardiamo all’Italia, è ormai ammesso anche dai borghesi che il terrorismo fascista, da Piazza Fontana in poi, prendeva ordini dai servizi segreti italiani, i quali prendevano ordini da quelli statunitensi. A distanza di anni è provato, tranne a chi non vuol vedere, che anche le Brigate Rosse, in occasione del sequestro Moro, sono state solo dei burattini di un disegno concepito di là dall’Atlantico.

Venendo alla Siria oggi, a fine 2024, i rimasugli dell’ISIS e di Al Qaeda sono ancora una volta armati e aiutati, dalla Turchia, e direttamente o indirettamente dall’imperialismo nordamericano e dai suoi vassalli; sono aiutati anche da Israele che è interessato a indebolire il regime di Assad e i suoi alleati iraniani, per cui la Siria viene quotidianamente bombardata.

Ricordiamo che negli anni di maggior forza dell’ISIS questa non ha mai attaccato Israele, ed Israele non l’ha mai attaccata, mentre bombardava l’esercito siriano e i contingenti iraniani e libanesi di Hezbollah.

In Siria, come in Ucraina, c’è uno scontro tra l’imperialismo americano e quello russo, ed entrambi si servono di milizie, partiti e gruppi locali. Sono tutti tagliagole e rappresentanti di interessi borghesi, ma quelli che combattono dall’altra parte si chiamano terroristi, e quelli alleati si chiamano combattenti per la libertà contro il terrorismo.

Il proletariato mediorientale è la carne da macello di tutti costoro. Ha un solo modo per impedirlo e salvarsi: abbandonare tutti i partiti borghesi che lo tengono incatenato con la propaganda patriottica e religiosa, e abbracciare i propri fratelli di classe, di tutte le etnie e di tutte le religioni, militando nel Partito Comunista Internazionale con il fine di rovesciare il capitalismo e di arrivare alla rivoluzione comunista, l’unica che può dare pane e pace, cosa impossibile sotto la dittatura del capitale.







Guerra fra imperi in Siria

La recente recrudescenza della guerra civile in Siria, almeno nella forma della lotta settaria tra governo e opposizioni, in ogni senso, ha sconvolto non solo l’opinione pubblica internazionale ma anche molti degli stessi attori coinvolti. Con il nostro metodo storico materialista, cioè marxista, cerchiamo di dare un senso allo svolgimento della guerra civile imperialista in Siria, un Paese che il nostro Partito ha seguito con particolare attenzione fin dall’inizio della guerra civile e anche di recente.


Guerra civile ieri e oggi

È opportuno tracciare brevemente il contesto e la storia della guerra civile siriana, facendo riferimento ai nostri testi: “La Siria fra scontro delle classi e brame imperialiste” (il Partito Comunista, 351-2, 2012), “La guerra imperialista che si combatte in Siria” (il Partito Comunista, 383, 2017) e “L’invasione turca della Siria con il consenso degli imperialismi russo e americano” (“Il Partito Comunista”, 398, 2019).

Come abbiamo scritto nel 2012: «Nel 1918 le truppe britanniche occuparono la Siria, ponendo fine al dominio turco e sostenendo l’ascesa al trono dell’emiro Feisal, loro alleato. Ma i francesi dispersero presto le deboli forze di Feisal e assunsero il controllo del Paese, sancito nel 1922 sotto forma di mandato della Società delle Nazioni. Il mandato durò fino all’indipendenza, riconosciuta nel 1941 ma attuata solo nel 1946, alla fine della Seconda Guerra Mondiale. In questo periodo la Francia fece leva proprio sulle differenze etniche e religiose, in particolare sulle minoranze di cristiani, alawiti e drusi, per assicurarsi un controllo facile e ben gestibile sulla maggioranza sunnita del Paese, affidando a queste minoranze i ranghi inferiori dell’esercito, come gli inglesi avevano fatto in India con i sikh (...) Nel dopoguerra ci furono diversi colpi di Stato. Nel 1963 il Partito Baath, di fatto il clan della famiglia Assad, che detiene ancora il potere, prese il potere e proclamò lo stato di emergenza che imponeva forti limiti alle libertà civili e politiche della popolazione e dava ampi poteri discrezionali all’esercito e alla polizia».

Durante la Guerra Fredda, la Siria baathista era uno stretto alleato del blocco orientale. Poi «la classe dirigente siriana è stata costretta a elaborare tattiche differenziate: da un lato, la borghesia alawita ha cercato nuove e migliori relazioni con gli Stati Uniti, come dimostrato dal suo sostanziale sostegno alla coalizione guidata da Washington nella guerra contro l’Iraq [nel 1991]; dall’altro, ha lavorato per rafforzare la sua alleanza strategica con l’Iran in funzione anti-israeliana. Nonostante queste manovre, il regime siriano, a causa della sua debolezza interna, è stato costretto nel 2005 a rinunciare all’occupazione militare del vicino Libano, dove per anni ha fatto da cane da guardia contro il proletariato palestinese e libanese. Nonostante queste manovre, Damasco ha perso gran parte della sua influenza nella regione, e ora queste debolezze sul fronte esterno si aggiungono a quelle interne, accresciute dall’inarrestabile precipitare della crisi globale» (“Il Partito Comunista”, 352).

In questo contesto, la Siria si colloca tra i Paesi che furono scossi dalla serie di proteste e rivolte di massa chiamate “Primavere arabe”, iniziate nel dicembre 2010 in Tunisia in seguito all’autoimmolazione di un venditore ambulante. Sebbene in alcuni esempi, come in Tunisia e in Egitto, questi movimenti interclassisti abbiano espresso un chiaro contenuto di classe e gli eventi abbiano portato a una rapida eliminazione degli ex governanti e al ristabilimento dell’ordine, la Siria, come la Libia, si rivelarono un caso diverso. Come abbiamo scritto nel 2012, poco dopo l’arrivo della Primavera araba in Siria alla fine del 2011:

«Le divisioni tra i gruppi sociali non si sono mai ricomposte, anzi si sono esacerbate, e l’ondata della crisi imperialista, con il rapido declino delle condizioni di vita delle classi più basse, è stata l’innesco della miccia che ha incendiato anche la Siria (...) Durante i primi mesi, le manifestazioni di protesta nelle varie città e nei vari governatorati erano sostanzialmente simili e tendenzialmente pacifiche; soprattutto nelle periferie proletarie più povere, migliaia di persone sono scese in piazza (...) I cortei, scandendo slogan antigovernativi, inneggiando alla caduta del regime, alle riforme sociali ed economiche, ipnotizzati dal mito della richiesta di più libertà e più democrazia, si sono diretti verso le sedi e gli uffici governativi, scontrandosi spesso con le forze di sicurezza che non hanno esitato a sparare (...) È probabile che molti proletari, soprattutto braccianti, disoccupati ma anche operai dell’industria e dei servizi abbiano partecipato e continuino a partecipare alle manifestazioni, ma senza evidenziare alcuna loro specifica rivendicazione di classe (...)

«A novembre e dicembre sul fronte internazionale si è intensificato l’isolamento di Damasco; sul fronte interno si è assistito a una graduale militarizzazione della rivolta. Da settembre sono diminuiti gli episodi di confronto impari tra governo e manifestanti generici, ma vari gruppi armati, finanziati dagli imperialismi occidentali e dalle monarchie del Golfo, si confrontano sempre più spesso con l’esercito. Periodicamente vengono condotti raid contro i centri di comando, imboscate ai convogli, uccisioni mirate, ma anche vere e proprie battaglie che sembrano aver portato addirittura al controllo di alcune città da parte degli insorti. Tuttavia, la rivolta manca di una direzione politica autorevole (...) A ottobre si è formato anche un esercito, l’Esercito Siriano Libero, responsabile di attacchi sempre più frequenti contro obiettivi militari e civili; questo FSA, diretto da una parte dell’opposizione siriana, è largamente finanziato da capitali stranieri (...) Forze speciali britanniche, francesi, giordane e soprattutto qatariote operano nella base turca di İskenderun, dove addestrano i mercenari dell’FSA insieme ai militari di Ankara» (Il Partito Comunista, 352).

«Durante la guerra civile del 2011, le proteste si erano diffuse anche nelle aree curde, ma Bashar Al Assad aveva concesso una certa autonomia alla regione e mostrato tolleranza verso il gruppo politico della minoranza curda PYD (Partito dell’Unione Democratica) – il ramo siriano del PKK, in guerra con lo Stato turco – liberando molti militanti imprigionati e ritirando le sue forze dal Kurdistan siriano nel 2012, rafforzando così altri fronti della guerra civile. Questo ha lasciato campo libero al PYD e al suo braccio armato, l’YPG (Unità di Protezione del Popolo). Le milizie dell’YPG, va ricordato, nelle città e nei villaggi sotto il loro controllo hanno represso manifestazioni e raduni di curdi e di organizzazioni di opposizione al regime di Damasco, in perfetto accordo con Assad e i suoi alleati russi e iraniani» (Idem, 398).

Nel frattempo, lo Stato Islamico, un’emanazione del Fronte Al Nusra, affiliato siriano di Al-Qaeda, si è attivato nella regione. Nell’inverno 2013-2014 l’organizzazione dello Stato Islamico controllava un terzo dell’Iraq e un terzo della Siria. Il suo dominio è stato all’insegna del terrore: Curdi, alawiti, cristiani, drusi e tutti gli altri membri di gruppi minoritari che hanno avuto la sfortuna di vivere sotto di loro sono stati brutalmente repressi, uccisi, torturati, violentati e venduti sui mercati degli schiavi. Lo Stato Islamico, che prometteva ai suoi aderenti un edonismo senza limiti e che perseguiva un pragmatismo particolarmente privo di principi nelle sue relazioni commerciali e diplomatiche segrete, si è guadagnato la disapprovazione anche di altre organizzazioni jihadiste, come il Fronte Al Nusra. Come abbiamo scritto nel 2017:

«Nel 2014, lo Stato Islamico è diventato un inconveniente per Washington e Mosca, i cui interessi in Siria sono divergenti ma possono ritrovarsi momentaneamente per combattere nemici comuni. Ma quali sono i loro nemici comuni? Lo Stato Islamico, come Al Qaeda e altri gruppi islamisti sunniti, si è formato e sviluppato con l’aiuto degli Stati Uniti e dei suoi co-protagonisti europei e mediorientali, come Turchia, Arabia Saudita e Qatar, con l’obiettivo di destabilizzare prima la Russia in Afghanistan e nei suoi territori abitati da musulmani, poi la Siria e l’Iran sciita legato a Mosca. I gruppi jihadisti hanno ricevuto flussi significativi di combattenti stranieri dal Maghreb, dall’Europa e anche da Russia e Cina; questo flusso è terminato dopo il 2015. La mostruosa creatura aveva ormai raggiunto lo scopo per cui era stata generata, ed era ora necessario contenerla (...) Dal 2015, il nemico comune ufficialmente dichiarato era lo Stato Islamico.

«I media occidentali presentano le forze curdo-siriane come il miglior strumento militare contro lo Stato Islamico, mettendo in ombra i gruppi di guerriglia islamisti, compresi quelli sostenuti dai Paesi occidentali attraverso la Turchia, l’Arabia Saudita o il Qatar. Soprattutto, omettono il fatto che queste forze curdo-siriane non combattono il regime siriano, ma mirano a negoziare con esso per ottenere una Siria federale, all’interno della quale la regione del Rojava avrebbe un’ampia autonomia politica e amministrativa, come le diplomazie di Russia e Stati Uniti hanno probabilmente sbandierato per ottenere il loro sostegno sul campo di battaglia.

«La Turchia da parte sua (...) pur avendo sostenuto lo Stato Islamico in passato, ha cambiato strategia nel 2015-2016: dopo gli attacchi in territorio turco attribuiti al PKK, Ankara nel luglio 2015 ha interrotto i negoziati di pace con esso e ha bombardato le sue basi nel Kurdistan iracheno. Dopo il tentato colpo di Stato in Turchia del 15 luglio 2016, si è nuovamente avvicinata al nemico-amico russo proclamando apertamente la propria ostilità verso lo Stato Islamico».

«Nel settembre 2015, la Russia è intervenuta apertamente in Siria, chiamata dal governo siriano a combattere, a suo dire, contro lo Stato Islamico e al-Nusra. Le reazioni occidentali sono state modeste, se non per le incessanti notizie di massacri di civili siriani da parte dell’Esercito siriano e di bombardamenti da parte dei russi (...) La pacificazione della Siria è stata affidata all’Esercito siriano regolare, sostenuto da forze russe e iraniane (alcune unità d’élite e gli Hezbollah libanesi) con l’appoggio della Turchia, nonostante le reticenze di Damasco, che temeva le ambizioni turche sui territori siriani di confine. La riconquista dei territori iracheni da Mosul al nord della Siria è stata invece affidata alla coalizione guidata dagli Stati Uniti (...) Infatti, l’accordo con la Russia, tenuto segreto, prevederebbe la liquidazione, oltre allo Stato Islamico, dei gruppi jihadisti anti-Assad, tra cui al-Nusra, e anche la neutralizzazione dell’Esercito Libero Siriano. Così, dopo il loro ingresso ufficiale in guerra, i bombardieri russi si sono concentrati sui gruppi ribelli ostili al regime di Damasco, sebbene questi fossero ancora ufficialmente sostenuti dagli Stati Uniti, dall’Europa e dalla stessa Turchia» (Il Partito Comunista, 383).

«Nell’ottobre 2015 gli Stati Uniti hanno spinto per la creazione delle Forze Democratiche Siriane, un’alleanza di truppe curde del PYD, brigate arabe siriane e assire, alcune formazioni tribali e milizie cristiane. Lo scopo era quello di coinvolgere le popolazioni non curde dell’area controllata dal PYD nella lotta contro lo Stato Islamico; l’YPG rimane il contingente più importante delle SDF, ma sono state incluse anche alcune tribù arabe che in precedenza si erano associate all’Isis, il che ha dimostrato ancora una volta che le alleanze e i loro rovesciamenti sono fatti in base alle esigenze della guerra e non su basi “ideologiche”, etniche, razziali o religiose. Nel 2015-16 solo le forze dell’SDF hanno affrontato i jihadisti dello Stato Islamico in Siria con l’appoggio degli aerei della coalizione internazionale, insieme a piccoli contingenti di 2.000 soldati statunitensi, 200 francesi e 200 britannici. Nel 2016 l’YPG ha combattuto, con la copertura aerea russa, insieme all’esercito siriano contro i ribelli anti-regime nelle aree di Menagh, Tall Rifat e Zalep. Alla fine del 2017, quasi un terzo del territorio siriano, comprese le regioni produttrici di idrocarburi come Deir Ez Zor, era sotto il controllo delle milizie dell’SDF, che stavano mettendo in pratica i loro principi di “municipalismo democratico”».

«Riconquistando dallo Stato Islamico i territori a est dell’Eufrate, le truppe dell’YPG si sono trovate padrone di un territorio ricco di idrocarburi (intorno alla città di Deir Ez Zor, a est di Qamishli e Al Hasakah, si raccolgono i due terzi delle risorse petrolifere della Siria), di prodotti agricoli (vasti terreni agricoli nel nord-est lungo l’Eufrate, dove si raccoglie il 52% del grano e il 79% del cotone della Siria, ma gravemente danneggiati dalla guerra), e di infrastrutture, 3 delle 4 dighe idroelettriche siriane, anche se mal mantenute, mentre la Turchia controlla il flusso a monte del fiume verso la Siria».

«Il 20 gennaio 2018, l’esercito turco e i ribelli dell’Esercito siriano libero hanno lanciato un’offensiva, denominata “Ramo d’ulivo”, questa volta direttamente contro le forze curde dell’YPG nel cantone curdo siriano di Afrin, che l’YPG controllava dal 2012, da solo, senza il sostegno delle forze occidentali, a parte un piccolo contingente russo. Prima di lanciare l’offensiva su Afrin, Erdoğan ha negoziato con Putin il ritiro dei suoi uomini e il non intervento delle sue potenti batterie di missili antiaerei. In questo modo i governi “amici” dell’YPG, americano e russo, hanno lasciato mano libera alla Turchia nell’operazione contro i curdi».

«Mentre le truppe di Bashar Al Assad, appoggiate dall’esercito russo e dalle milizie iraniane e libanesi di Hezbollah, continuavano a bombardare pesantemente la provincia di Idlib, l’ultima enclave in territorio siriano controllata dall’opposizione e protetta dall’esercito di Ankara, il 9 ottobre 2019 le truppe turche, appoggiate da mercenari delle brigate islamiste siriane con il sostegno dell’aviazione di Ankara, sono penetrate nel nord della Siria per “farla finita” con l’“entità politica” del Rojava (cioè del Kurdistan occidentale), o “autogoverno della Siria nord-orientale”, accusato di sostenere la guerriglia curda del PKK nella Turchia meridionale. L’operazione militare è stata chiamata con cinico realismo “Fonte di pace”!» (“Il Partito Comunista”, 398).

L’operazione “Primavera di pace” ha aggiunto città come Ras al Ayn e Tell Abyad alla parte della Siria sotto occupazione turca, formalmente sotto il controllo dell’Esercito siriano libero sostenuto dai turchi, o con il suo nuovo nome, Esercito nazionale siriano, organizzato come un esercito mercenario i cui stipendi sono pagati da Ankara. Poiché nel frattempo gli Stati Uniti si sono ritirati dalla maggior parte della Siria, l’SDF è stato costretto a stabilire un accordo con il regime, che ha portato l’esercito siriano a controllare il confine con la Turchia. Dopo alcune azioni militari incentrate su Idlib, l’unica grande città ancora sotto il controllo dei jihadisti, nel 2019-2020, la situazione in Siria si è evoluta in quella che sembrava una situazione di stallo.


L’improvvisa caduta del regime

L’improvvisa caduta del regime Baath per mano dei resti jihadisti, solo pochi anni dopo l’apparente pacificazione della maggior parte del Paese sotto il dominio suo o dei nazionalisti curdi, è stata una sorpresa per molti, ammessa anche dai funzionari di vari governi.

La spiegazione può essere trovata in due fattori: economico, diplomatico e militare. Il fattore economico, più semplice da spiegare, è stato forse anche quello di maggior peso. Il tasso d’inflazione annuale siriano era già uno dei più alti al mondo; questo è peggiorato a partire dalla metà del 2020. Quando Bashar al-Assad dichiarò che la Siria stava seguendo il modello cinese di socialismo, i prezzi dei beni di base salirono alle stelle e alcuni prodotti scomparvero dal mercato, mentre la popolazione lottava per tenere il passo con l’aumento del costo della vita. La pace, o almeno il cessate il fuoco, in un Paese diviso e sottoposto all’embargo occidentale non è stata, a quanto pare, migliore della guerra per l’economia siriana.

Per quanto riguarda i fattori diplomatici e militari, sarebbe opportuno dare uno sguardo, innanzitutto, all’evoluzione della politica jihadista in Siria dopo la caduta dello Stato Islamico, che nel 2017 abbiamo descritto brevemente come segue:

«Soldati e ufficiali “disertati” dall’esercito siriano hanno fondato in Turchia l’Esercito Siriano Libero (FSA), nazionalista e democratico, che raggruppava circa 50 fazioni dalle ideologie più diverse. In realtà, da questo FSA così eterogeneo nel 2013 alcuni gruppi si sono separati per unirsi ai jihadisti del Fronte al-Nusra, il ramo ufficiale di al-Qaeda in Siria. Creato nel 2011 all’inizio dell’insurrezione, è diventato Jabhat Fatah al-Sham nel 2016 e, dalla fine di gennaio 2017, dopo violenti scontri con il gruppo jihadista concorrente Ahrar al-Sham e a seguito di una fusione con altri gruppi minori, ha cambiato nuovamente nome in Tahrir al-Sham» (“Idem, 383).

Meglio conosciuta oggi con il nome completo di Hayat Tahrir al-Sham, questa organizzazione si è distaccata da al-Qaeda e, nonostante sia stata inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche da numerosi Paesi tra cui Stati Uniti e Turchia, ha iniziato a moderare le proprie posizioni. In particolare, l’HTS ha rinunciato alla pretesa dei suoi predecessori di stabilire un califfato, accontentandosi di rivendicare il dominio islamico sulla sola Siria. Senza dubbio, questa moderazione ha attirato l’attenzione delle potenze imperialiste occidentali.

Con appena 10.000-15.000 combattenti su un totale di circa 70.000 che compongono varie milizie anti-governative, per lo più jihadiste, e circondato da nemici su tutti i lati a Idlib, il salvataggio per l’HTS è arrivato dall’Ucraina. L’intelligenza militare ucraina, anche per sua stessa ammissione, è stata segnalata da tempo in vari Paesi per colpire gli interessi russi, dal Sudan al Mali e alla Georgia. Non solo gli agenti ucraini organizzavano attacchi contro le forze russe in Siria, ma secondo le forze curde, turche, siriane e russe, hanno fornito all’HTS droni militari e inviato 250 istruttori per addestrare i miliziani dell’HTS. A ciò si aggiunge il fatto che anni di guerra avevano particolarmente logorato l’Esercito Arabo Siriano, che aveva già una base ristretta, sostenuta essenzialmente dalle minoranze alawite, cristiane e druse della popolazione, e gli attacchi israelo-americani all’Iran e agli Hezbollah in Libano dal cui sostegno dipendeva il regime Baath. Entrambi i fattori hanno reso il governo Baath particolarmente vulnerabile militarmente.

Il 27 novembre, l’HTS, insieme ai suoi alleati minori e all’Esercito nazionale siriano sostenuto dalla Turchia, ha lanciato un’offensiva da Idlib, con Aleppo come obiettivo principale. Il successo dei ribelli è stato nettamente superiore alle loro stesse aspettative, conquistando città dopo città nel giro di pochi giorni. I ribelli, per lo più equipaggiati con armi leggere e portatili (compresi i droni FPV, ormai immancabili in ogni teatro di guerra), non avrebbero potuto avere così rapidamente la meglio ad Aleppo, Hama, Homs, Damasco e poi anche a Latakya e Tartus (nella zona costiera abitata dagli alawiti) se le forze siriane avessero opposto una vera resistenza.

Le forze armate siriane sono accreditate di 170.000 militari e 100.000 gendarmi e paramilitari a cui si aggiungono almeno 4.000 militari russi, 1.000 Pasdaran iraniani e 2.000 Hezbollah libanesi con centinaia di veicoli blindati, artiglieria e più di 200 aerei ed elicotteri. Se nei primi giorni dell’offensiva dell’HTS alcune unità siriane hanno combattuto con decisione, grazie anche all’appoggio aereo delle forze aeree siriane e russe (infatti le stime registravano un numero di vittime molto più alto tra i ribelli che tra i governativi), già pochi giorni dopo fonti russe notavano l’assenza di volontà di combattere tra le truppe governative. L’8 dicembre al Assad fugge a Mosca e il governo Baath capitola.

Oggi, i principali combattimenti in Siria rimangono tra l’SNO, a cui l’HTS non ha permesso di spingersi più a sud dopo la caduta di Aleppo, e i nazionalisti curdi. Il principale guadagno dell’SNO è stato finora Tall Rifat, da cui si sono ritirate le SDF guidate dai nazionalisti curdi. I mercenari sostenuti dalla Turchia si sono poi spostati a Manbij, dove hanno affrontato una feroce resistenza e dove i combattimenti continuano tuttora, nonostante la copertura aerea turca e le precedenti voci secondo cui l’SDF si sarebbe ritirato anche da Manbij. Nel frattempo, i nazionalisti curdi sono riusciti a conquistare tutte le parti di Deir ez-zor con il sostegno americano, insieme a Qamişhlo e Heseke a est dell’Eufrate, località strategiche precedentemente controllate dal governo siriano, ampliando notevolmente il territorio da loro controllato.

Tuttavia, il dominio nazionalista curdo a Deir ez-Zor è durato poco, poiché il Consiglio militare allineato con l’SDF ha disertato e si è unito alle forze guidate dall’HTS. Nel frattempo, Israele ha rapidamente approfittato dell’opportunità e ha occupato le contese alture del Golan a sud e ha iniziato a bombardare numerosi obiettivi militari, ufficialmente per impedire ai jihadisti di ereditare la piena capacità militare dell’ex Esercito Arabo Siriano.

In breve, se il conflitto settario centrale della guerra civile siriana, tra il governo alawita e l’opposizione sunnita, è stato risolto con la caduta del governo, ciò non indica affatto che la guerra in Siria sia finita.


La guerra imperialista continua

“Al vincitore va il bottino”. In questo caso, il vincitore è stato l’HTS e il bottino è stato soprattutto di natura diplomatica. L’HTS, che da qualche anno governa la regione di Idlib con il pugno di ferro, non ha mancato di fare la sua parte: ha rilasciato una dichiarazione in cui condanna il trattamento che curdi, alawiti, cristiani e drusi subiscono sotto lo Stato Islamico in quanto non musulmani; ha ordinato alle sue milizie di non intervenire contro gli abiti femminili; il suo capo al-Jolani ha dichiarato alla stampa israeliana di voler passare a una democrazia inclusiva.

A loro volta, tutte le potenze imperialiste attive nella regione hanno abbracciato l’HTS. Erdoğan, che sapeva in anticipo dell’operazione dell’HTS e non aveva fatto nulla per aiutarlo o fermarlo, se non invitare al-Assad a negoziare un’ultima volta prima degli eventi, ha rapidamente dichiarato di sostenere i jihadisti in marcia su Damasco. Dopo la caduta del governo, il Qatar è stato il primo a stabilire una relazione politica formale e pubblica con l’HTS, mentre gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno iniziato a prendere in considerazione la rimozione dell’HTS dalla loro lista di organizzazioni terroristiche e i leader europei hanno iniziato a dichiarare che l’HTS farà parte del futuro della Siria, qualunque esso sia. Ovviamente tutte queste potenze avevano già indirettamente sostenuto l’HTS attraverso l’Ucraina.

Da parte curda, il politico Salih Muslim si è dichiarato ottimista nei confronti dell’HTS e ne ha apprezzato l’inclusività, mentre il generale Mazlum Abdi ha sottolineato di non aver mai combattuto con l’HTS e di essere pronto al dialogo. In effetti, durante l’assalto ad Aleppo, HTS e SDF hanno negoziato la ritirata dei combattenti nei quartieri curdi della città, che sono stati seguiti da gran parte della popolazione fuori da Aleppo. L’HTS ha persino rassicurato la Russia dichiarando che non interferirà con le basi russe di Latakya e Tartus. Anche se si dovrà capire se questo basterà a Russia e Cina per non porre il veto alla rimozione dell’HTS dalla lista delle organizzazioni terroristiche delle Nazioni Unite, è ragionevolmente chiaro che ci sarà un nuovo processo di pace siriano, al di là del formato di Astana che coinvolge Russia, Iran e Turchia. Dei tre Paesi, solo la Turchia continuerà a giocare un ruolo importante come prima nel futuro della Siria.

Una dimensione particolarmente rilevante del futuro del conflitto in Siria riguarda il processo negoziale tra Turchia e nazionalisti curdi. In “Turchia-Kurdistan: Nuove trattative aprono la strada a guerre peggiori”, abbiamo scritto di recente:

«L’enfasi di Erdoğan sul rafforzamento del fronte interno nel contesto della guerra che si sta diffondendo in Medio Oriente è altrettanto importante. Si tratta indubbiamente di un’enfasi militarista. A meno che questo problema non venga in qualche modo risolto, nelle future guerre regionali e globali, la minaccia del PKK rimarrà una grande debolezza, poiché può sempre colpire lo Stato turco dall’interno e potrebbe causare enormi danni a un’eventuale mobilitazione bellica dello Stato turco. Pertanto, questa mossa potrebbe, anche se improbabile, dare allo Stato turco la possibilità di trovare un accordo con l’Amministrazione Autonoma della Siria Settentrionale e Orientale, risolvendo così in larga misura i suoi problemi con gli Stati Uniti, e di muoversi verso il rovesciamento del regime di Assad in Siria» (Enternasyonal Komünist Partisi, 2024).

Con la caduta del governo siriano, l’alleanza Turchia-PKK, che non è priva di sostenitori in Turchia, non ha potuto concretizzarsi; oltre a unirsi nel sostegno all’HTS, si combattono ancora attivamente. Tuttavia, un alleato minore nel governo e capo del principale partito fascista del Paese, Devlet Bahçeli, ha recentemente continuato i suoi progressi democratici e ha applaudito un discorso dei parlamentari nazionalisti curdi che chiedevano la pace in Siria.

I nazionalisti curdi, tuttavia, non sono uniti nell’approccio a questi progressi. Mentre Öcalan e alcuni deputati sono favorevoli all’idea di una riconciliazione con la Turchia, sembra esserci una resistenza significativa da parte di alcuni dirigenti del PKK a Qandil. Inoltre, mentre i capi delle SDF sono amichevoli nei confronti dell’HTS, Sabri Ok, uno dei leader del PKK a Qandil, ha coraggiosamente dichiarato che l’HTS non è diverso dallo Stato Islamico, prevedendo che condividerà lo stesso destino. La fiducia della dirigenza di Qandil è probabilmente dovuta al fatto che Israele ha dichiarato che la protezione dei curdi in Siria è una priorità e che è effettivamente in grado di fare qualcosa al riguardo.

Tra le potenze imperialiste regionali, sono la Turchia e Israele a giocare il ruolo più importante nelle vicende future della Siria. In ogni caso, a prescindere dal fatto che il processo di pace siriano blocchi per un po’ una guerra più ampia o che non riesca a impedire che la situazione attuale evolva in un conflitto molto più sanguinoso di quello a cui si è assistito nelle ultime settimane, il futuro borghese della Siria appare molto più cupo di quanto non lo dipingano coloro che celebrano il rovesciamento di una brutale dittatura da parte dei jihadisti democratici.

In “Le cause storiche del separatismo arabo”, del 1958, scrivevamo: «Seguendo la strada già intrapresa, la “balcanizzazione” degli arabi arriverà alle estreme conseguenze. Gli arabi si chiuderanno sempre più in Stati prefabbricati, cioè in Stati fabbricati dall’imperialismo e dai suoi agenti, Stati avvelenati da un deprimente squallore, avviliti da un’impotenza insormontabile, e che consumeranno la loro inutile esistenza in lotte intestine (...) Frammentati, divisi da ignobili questioni dinastiche, divorati vivi dai sanguinari monopoli capitalistici stranieri ai quali cedono volentieri ampie fette dei profitti petroliferi, invischiati nelle micidiali alleanze militari dell’imperialismo, gli Stati arabi non solo non incutono alcun timore ai vari imperialismi, ma servono come pedine nel loro diabolico gioco» (il Programma Comunista, 1958).

Quello che scrivevamo quasi settant’anni fa continua a essere confermato oggi. La Siria non è una nazione in senso marxista; è solo il nome di una regione storica che è stata trasformata in un Paese. Le varie nazionalità, etnie e confessioni che compongono la popolazione siriana non si sono mai unite come nazione in una rivoluzione borghese, ma sono state raggruppate in seguito a confini tracciati arbitrariamente dall’imperialismo.

Per questo è stato particolarmente facile che la guerra civile siriana si trasformasse così rapidamente in un complesso conflitto imperialista, dal momento che numerose potenze imperialiste globali e regionali avevano interessi nel Paese che potevano perseguire attraverso la vasta gamma di organizzazioni politiche e milizie affiliate che sono emerse. Tutti gli schieramenti in guerra hanno agito come stivali, di questo o quell’imperialismo, sul terreno.

Le lotte nazionali di carattere rivoluzionario e antimperialista si sono esaurite molto tempo fa in Medio Oriente. Non c’erano anti-imperialisti in questa guerra: era, e rimane, un conflitto inter-imperialista giocato all’interno di un singolo Paese, che è una delle tante guerre locali che ci avvicinano a una nuova guerra mondiale imperialista. Non c’è soluzione alle scottanti questioni nazionali della regione nel quadro dell’imperialismo. L’unica strada per la liberazione dei proletari della Siria e del Medio Oriente è quella di unirsi contro tutte le fazioni di questa guerra, tutte le potenze imperialiste regionali e globali coinvolte, in un fronte sindacale dal basso, guidato dal Partito Comunista Internazionale. Solo la rivoluzione proletaria, che sfocerà in una Federazione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche del Medio Oriente, potrà sanare le ferite della regione.








Lotta fra gli Stati e fra le classi in Palestina

A 14 mesi dall’inizio del conflitto a Gaza gli avvenimenti che rapidi si susseguono vengono a confermare essere uno scontro fra gli imperialismi regionali e mondiali. Sul sangue e sulle indicibili sofferenze della popolazione palestinese speculano le potenze borghesi per le loro finalità di mero profitto capitalistico.

A Gaza non di una lotta nazionale palestinese si tratta, ma di una resistenza per sopravvivere di una popolazione ostaggio in una guerra fra Stati borghesi, e milizie al loro soldo, tenuta reclusa nella Striscia da molti carcerieri, fra cui i borghesi Stati israeliano, egiziano e le milizie di Hamas.

Da inizio settembre le operazioni delle forze armate israeliane si sono estese a Nord, nel Libano, contro le milizie sciite filo-iraniane di Hezbollah.

Queste, a sostegno delle milizie di Hamas, sin dall’8 ottobre 2023 avevano preso a colpire quotidianamente Israele con missili e droni, costringendo all’evacuazione circa 70 mila israeliani dall’area settentrionale a confine col Libano. Il 27 luglio un missile di Hezbollah ha colpito Majdal Shams, nel Golan occupato da Israele dal 1967, cittadina a maggioranza drusa, uccidendo 12 bambini. Majdal Shams si trova alle pendici del monte Hermon la cui cima, di oltre 2.800 metri, la più alta dall’intera Siria al Sinai, si trova in territorio siriano.

Le operazioni israeliane contro Hezbollah sono iniziate con quotidiani bombardamenti dell’aviazione che hanno colpito le aree del paese e della capitale Beirut controllate dal partito sciita. A queste si sono aggiunte, il 17 e il 18 settembre le esplosioni di cerca-persone e radio portatili in dotazione a miliziani e uomini al servizio del partito sciita, uccidendo decine di persone e ferendone migliaia, anche in modo grave, financo l’ambasciatore iraniano a Beirut. Il 27 settembre un violentissimo bombardamento ha colpito il bunker nella capitale libanese in cui si trovava il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, uccidendolo. Una parte consistente della struttura dirigente del partito sciita è stata eliminata.

Nel frattempo lo Stato di Israele ha ammassato truppe al confine e dal primo ottobre ha iniziato un’operazione di terra. Questa però è stata limitata, con penetrazioni in territorio libanese non oltre una decina di chilometri, finalizzate a colpire le infrastrutture militari costruite da Hezbollah dopo il precedente conflitto con Israele, nel 2006.

Le operazioni nel Sud del Libano sono state ben più limitate rispetto a quelle compiute a Gaza da fine ottobre 2023, in ragione della superiore forza bellica delle milizie di Hezbollah rispetto a quelle di Hamas, sia in termini di equipaggiamento che di addestramento. Questo dato si è manifestato subito, con diverse vittime fra i soldati israeliani. Tuttavia, fra azioni aeree, di spionaggio e di terra, l’operazione israeliana contro Hezbollah è stata un indubbio successo, indebolendolo fortemente.

I lanci di missili di Hezbollah contro il Nord di Israele – dal giorno dopo il massacro del 7 ottobre compiuto dalle milizie di Hamas nei kibbutz a Sud – stabilivano un legame fra le due forze e i due conflitti. Questo nel quadro generale della strategia iraniana volta a rafforzare i propri interessi imperialistici, che vanno a confliggere con i restanti nella regione, utilizzando milizie filo-iraniane in Siria, in Iraq, in Libano con Hezbollah e nello Yemen con gli Houti.

Tutte queste forze combattenti costituivano il cosiddetto “cerchio di fuoco” del regime borghese di Teheran, nonché il cosiddetto “corridoio sciita”, che dall’Iran giungeva alla costa mediterranea del Libano, passando per il Nord-Est dell’Iraq e della Siria.

L’operazione d’Israele contro Hezbollah ha portato a una fragile tregua a partire dal 27 novembre. A prescindere dalla sua durata, il primo risultato di questo accordo è stato rompere il legame fra l’azione di Hezbollah e quella di Hamas, che così si trova più isolato a Gaza.

Al di sopra degli esiti dei conflitti fra le potenze capitalistiche e le loro milizie, ciò che importa rilevare è che il proletariato se prendesse parte a questi conflitti non ne trarrebbe alcun risultato utile per sé. Non vi è nulla di rivoluzionario e nemmeno di progressivo sul terreno dello scontro interimperialistico. I partiti nazionalisti, cioè borghesi, palestinesi e curdi che fanno parte di questi fronti di guerra, non rappresentano alcun portato storico positivo.

L’indebolimento di Hezbollah in Libano si è ripercosso velocemente in Siria, con analogo cedimento delle forze filo-iraniane che avevano contribuito a salvare il regime di Assad negli anni della guerra civile dal 2011 sino alla sua temporanea interruzione nel 2018. Di ciò si è giovata la Turchia che ha sostenuto la fulminea azione militare che in una dozzina di giorni ha portato alla caduta del regime siriano.

Caduto il regime di Assad, Israele ha occupato l’area demilitarizzata del Golan, la cima del monte Hermon e il suo versante siriano, allargando l’accerchiamento delle forze di Hezbollah nel Sud del Libano, svantaggio strategico che si somma alla interruzione delle vie di rifornimento terrestri dall’Iran attraverso la Siria.

Il presidente turco Erdoğan, che nel mondo islamico e mediorientale si è sempre mostrato a parole un radicale sostenitore della “causa palestinese”, perseguendo le finalità imperialistiche turche attacca quelle iraniane, contribuendo a isolare Hamas a Gaza e a rafforzare lo Stato di Israele.

Quando a settembre Israele ha iniziato le operazioni contro Hezbollah, i partiti opportunisti nei paesi occidentali hanno preso a sventolare insieme alla bandiera palestinese quella libanese. Ma sono per primi i partiti borghesi libanesi avversari di Hezbollah a giovarsi e felicitarsi dell’offensiva israeliana. L’idea di una popolazione libanese unita contro Israele è una delle fantasie che eccitano le deboli menti di chi ha sostituito la lotta di classe con la guerra fra gli Stati borghesi. L’unico movimento che in Libano è andato nella direzione di superare le divisioni religiose ed etniche è stato quello scaturito nel 2019 dalla crisi economica, che mise in moto piazze che finalmente univano la classe lavoratrice nella lotta per i suoi bisogni vitali, non certo per sostenere uno dei fronti delle tante guerre che dilaniano il Medioriente.

Anche il borghese regime iraniano mostra di sostenere la causa palestinese solo ai fini della sua diplomazia imperialista: le azioni di Hezbollah, delle milizie in Siria e in Iraq, degli Houti, rivolte contro Israele dopo il 7 ottobre 2023, sono rimaste fra loro scollegate, e sempre a bassa intensità.

Anche il regime di Mosca, sostenitore di un “nuovo mondo multipolare”, ha tenuto fede al tacito accordo per il quale non ha mai intralciato le azioni dell’aviazione is­ra­e­lia­na che in 14 mesi di conflitto ha colpito ripetutamente le forze filo-iraniane in Siria, contribuendo al risultato della caduta del regime di Assad, all’indebolimento di Hezbollah e all’ulteriore isolamento di Hamas.


A Gaza

Da metà ottobre l’esercito israeliano ha iniziato una nuova operazione nell’area settentrionale della Striscia, concentrata sulle cittadine di Jabalya, Beit Lahia e Beit Hanun, a Nord della città di Gaza.

La popolazione, che era stata spinta in massa a Sud della Striscia, aveva poi in parte fatto ritorno nel Nord, nell’ordine di alcune centinaia di migliaia di persone. Questa nuova operazione le ha sospinte in gran parte nuovamente via.

Le condizioni di vita sono ulteriormente peggiorate, sul piano sanitario e alimentare, con l’inverno e la denutrizione che avanzano. Il 28 novembre tre donne sono rimaste uccise schiacciate dalla folla ammassata per il pane. I rifornimenti, decine di camion, stentano ad arrivare o perché saccheggiati da bande o perché l’esercito israeliano ne ferma l’ingresso.

Lo stesso ex Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, Moshe Yaalon, ha dichiarato essere in corso a Gaza una “pulizia etnica”, attraverso la distruzione delle abitazioni, degli ospedali, delle scuole, la chiusura degli approvvigionamenti alimentari, elettrici e idrici, i bombardamenti.

La forza militare di Hamas risulta essere stata in gran parte distrutta da diversi mesi. Tuttavia permane, difficile dire in quale misura, il suo controllo sulla popolazione, con forze di polizia e altro personale stipendiato. L’obiettivo proclamato dal governo israeliano della “distruzione totale” di Hamas appare dosato al punto giusto per permettere il suo controllo sulla popolazione e una indefinita prosecuzione delle operazioni militari nella Striscia.

Perché il problema di fondo, non solo della borghesia israeliana ma di tutti gli Stati dell’area, è il controllo sociale.

Nel 2000 gli abitanti della Striscia erano 1,5 milioni. A inizio del conflitto nel 2023 erano aumentati a 2,3 milioni. Un articolo di “Haaretz” del 5 dicembre scorso, mostrava come dai verbali dell’Archivio di Stato israeliano si ricava che «l’attuale aspirazione dell’estrema destra a “incoraggiare l’emigrazione” dei palestinesi dalla Striscia di Gaza non fa che riecheggiare idee e proposte discusse in passato da primi ministri, ministri e leader dei governi di sinistra, che sono stati tra i padri fondatori del Paese». Tali proposte erano fatte all’epoca dell’occupazione della Striscia, con la “guerra dei sei giorni” nel 1967, quando vi abitavano 400 mila arabi palestinesi.

La continuità per oltre mezzo secolo degli obiettivi dei partiti della sinistra e della destra borghese d’Israele e fra i loro governi non dimostra – come argomentano i sostenitori della “resistenza palestinese” – il carattere peculiare dello Stato israeliano dovuto alla sua matrice ideologica sionista, ma il corso segnato di ogni Stato borghese in date condizioni materiali. Oppressione delle minoranze, pulizia etnica, genocidio non sono tratti propri di determinate culture o ideologie ma l’esito determinato del capitalismo e del suo controllo sociale sulle sue macchine statali nazionali: per reggersi in piedi devono necessariamente ricorrere a questi metodi.

Nel controllo del proletariato di Gaza, Hamas e Stato israeliano agiscono in oggettiva concordia. Compito però insolubile tanto per lo Stato israeliano quanto per tutti gli Stati borghesi dell’area, tant’è che nessuno vuole i suoi abitanti. È l’intero concerto delle potenze regionali e mondiali, è il capitalismo nel suo complesso, a tenere reclusi, colpiti da bombe, fame, freddo e malattie, oltre due milioni di gazawi.

A 14 mesi dall’inizio del conflitto il Ministero della Sanità di Hamas dichiara quasi 45 mila vittime, la metà decedute nei primi tre mesi di conflitto. Hamas è interessata a non distinguere fra miliziani e civili e a gonfiare i numeri per alimentare il tema propagandistico del “popolo martire”, ma il massacro è ammesso dallo stesso governo israeliano, che di fatto fornisce numeri analoghi.

Il conflitto lì scaturito ed estesosi ben oltre la Striscia è però uno dei “pezzi” del quadro del capitalismo proteso verso un nuovo conflitto mondiale.

In questa prospettiva, ai proletari e ai diseredati di Gaza, sono oggi riservate le prime e peggiori sofferenze. La via d’uscita, per essi e per i proletari di tutti i paesi, è lottare e liberarsi dai partiti e dai regimi borghesi che li hanno condotti verso l’attuale macello, e li vorrebbero partecipi e schierati in questa guerra fra imperialismi.

Questo a Gaza significa lottare contro Hamas e gli altri partiti nazionalisti palestinesi. Vanno in senso opposto alla ricerca della solidarietà internazionale della classe operaia le azioni contro la popolazione civile israeliana, che aliena l’appoggio di quei lavoratori che si battono contro la politica imperialista del loro regime borghese in nome dell’internazionalismo proletario e della lotta anticapitalista.

Questo l’indirizzo politico – il solo che può dirsi comunista – che andrà affermandosi sul piano internazionale e anche fra le masse proletarie palestinesi.


In Israele

Da parte israeliana le vittime di questa guerra sono circa 1.650, di cui 1.200 nell’attacco del 7 ottobre e circa 450 fra i soldati, almeno secondo i dati ufficiali, dopo l’inizio, a fine ottobre 2023, della invasione di terra della Striscia di Gaza e poi un anno dopo del Libano meridionale: un soldato al giorno. A questi vanno aggiunti circa 100 dei 200 ostaggi rapiti il 7 ottobre ancora nelle mani di Hamas.

Questi numeri non sono certi. Per esempio, l’ex Maggiore Generale di divisione dell’esercito israeliano Yitzhak Brik, intervistato il 3 settembre su “Haaretz”, ha dichiarato che la guerra a Gaza stava «portando l’esercito al collasso ... tra non molto non saremo più in grado di effettuare quei ripetuti raid, perché ogni giorno che passa le Forze di Difesa Israeliane si indeboliscono e aumenta il numero di morti e feriti in azione tra i nostri soldati».

Il 17 settembre, ancora su “Haaretz”, ribadiva: «Hamas controlla ancora l’intera Striscia, compresa la città dei tunnel e tutti i residenti di Gaza, in ogni settore della vita. L’IDF non ha modo di porre fine al suo dominio, anche se l’organizzazione è più debole che in passato. I continui combattimenti hanno perso ogni scopo e la guerra di logoramento sta distruggendo tutto ciò che di buono c’è in Israele: la sua economia, le sue relazioni internazionali, la sua tenuta sociale e la motivazione dei suoi combattenti. Molti riservisti rifiutano di essere richiamati ancora e ancora».

Un dirigente del gruppo “Genitori dei soldati che hanno sparato abbastanza” ha dichiarato il 22 settembre: «Siamo famiglie sioniste patriottiche. I nostri figli stanno sacrificando le loro vite, i loro corpi e le loro anime in una guerra che non ha fine ... Abbiamo iniziato nel tentativo di impedire l’invasione di Rafah a maggio e continuiamo a gridare ancora oggi ... Mio figlio si trova nella città di Rafah, nel sud della Striscia di Gaza ... il suo servizio militare obbligatorio è stato prolungato di quattro mesi dopo che aveva trascorso 10 mesi di fila a combattere nella Striscia di Gaza. Nemmeno durante la guerra del Vietnam i soldati venivano lasciati sul campo di battaglia così a lungo senza pause».

Ancora il 9 dicembre 3 soldati israeliani sono stati uccisi a Jabalia. Hamas è quindi ancora in grado di effettuare delle sortite.

Per Israele è necessario – come lo sarebbe per qualsiasi Stato borghese – affidare il controllo sociale e politico delle masse di Gaza a partiti borghesi locali. A meno di non ricorrere a una politica genocida e di pulizia etnica.

Hamas è un partito che ha un cuore piccolo-borghese – con uno strato di quadri politici proveniente da ceti ben presenti nella società palestinese, in particolare gli studenti delle università islamiche; ha un corpo costituito dai diseredati e dal sottoproletariato – arruolati come manovalanza attraverso il sistema assistenziale dalla carità islamica, secondo un modello analogo a quello di Hezbollah in Libano e che trae origine storica dai Fratelli Musulmani, nonché di profittevole gestione degli aiuti dell’ONU; e ha una testa borghese, nei massimi vertici dell’organizzazione, comandata coi fili dei finanziamenti internazionali dalle potenze borghesi regionali e mondiali, di cui quelle note sono Iran, Qatar e Turchia. Non si può inoltre sottacere il fatto che sono stati gli stessi servizi segreti israeliani a foraggiare il movimento islamista Hamas per ridurre l’influenza della laica OLP. Questa la realtà della natura e della sopravvivenza di Hamas.

Le difficoltà riscontrate dall’esercito israeliano nelle operazioni di terra a Gaza si riflettono sul controllo della classe lavoratrice all’interno di Israele. I raduni del primo settembre 2024 hanno portato per le strade di Tel Aviv e di altre città centinaia di migliaia di manifestanti. Chiedono da mesi una tregua con Hamas e la liberazione degli ostaggi. A muoverli è il crescente malessere per il perdurare infinito della guerra, per gli ostaggi, per lo stillicidio dei soldati morti e per le difficoltà economiche generate dal conflitto, i cui effetti le aziende naturalmente scaricano sui salariati.

Per quanto la classe lavoratrice sia ancora saldamente incatenata alla politica del suo Stato borghese, espressa dai successivi governi, queste manifestazioni si sono poste contro la guerra, con ciò contro la politica imperialista dello Stato borghese israeliano e la sua sottomissione al padrone americano.

Il sindacato di regime Histadrut, la più grande confederazione sindacale del paese, ha proclamato per il 3 settembre uno sciopero generale a sostegno di una soluzione negoziale per riportare gli ostaggi a casa. L’Histadrut ha una radicatissima tradizione di collaborazionismo di classe. Per anni ha gestito cooperative, aziende, banche, scuole con un giro d’affari del 20% del PIL nazionale. Con l’avanzare della crisi di sovrapproduzione del capitalismo, a cui la borghesia internazionale ha temporaneamente rimediato con le politiche economiche cosiddette neo-liberiste, anche il “socialismo sionista” è caduto in declino. L’Histadrut ha perso il suo impero economico e gli iscritti sono precipitati da 1.800.0000 a 200.000, per poi risalire negli ultimi anni a 800.000, su una forza-lavoro di 4,5 milioni di salariati nel 2023.

Lo sciopero del 3 settembre è stato sostenuto dagli industriali del paese. Il presidente dell’associazione degli impresari, ha affermato: «L’Associazione appoggia lo sciopero e accusa il governo di aver mancato al “dovere morale” di riportare i prigionieri a casa sani e salvi. Senza il ritorno degli ostaggi, non riusciremo a porre fine alla guerra né a riabilitarci come società e a iniziare a riabilitare l’economia israeliana».

Nelle intenzioni della dirigenza filo-padronale dell’Histadrut lo sciopero non aveva certo lo scopo di incrinare la solidarietà nazionale fra la classe lavoratrice e la borghesia, bensì di appoggiare uno schieramento politico della classe dominante e dare sfogo al malessere dei lavoratori per il peggioramento delle loro condizioni, prevenendo azioni fuori dal suo controllo.

Ma per i lavoratori il movente dello sciopero sono le loro condizioni di vita e scioperare in un paese in guerra è una lezione che in futuro potrà servire al proletariato d’Israele quando la borghesia israeliana, ritrovata l’unità circa la linea per condurre la sua politica di classe, vorrà coinvolgere sempre di più i lavoratori nella sua politica guerrafondaia e imperialista.

Inoltre lo sciopero ha avvicinato i lavoratori arabo-israeliani a quelli ebrei, incrinando il muro eretto dalle borghesie israeliana, iraniana e arabe per dividerli.

Dopo lo sciopero del 3 settembre le manifestazioni sono tornate alle dimensioni precedenti, con alcune migliaia di partecipanti. Ovvio che i “successi” militari recano con sé il frutto avvelenato della pacificazione del fronte interno. Ma le difficoltà si sono palesate anche per il più florido fra i paesi imperialisti dell’area.

La classe operaia non può ottenere di uscire dalla guerra imperialista, o impedire il suo maturare e crescere, schierandosi su uno dei suoi fronti, ma lavorando in ogni paese alla lotta dei lavoratori contro il militarismo e l’imperialismo del proprio regime borghese – sia esso democratico o autoritario – e su questa base intessere un legame di unione, solidarietà e fratellanza al di sopra delle divisioni nazionali, religiose ed etniche fra i lavoratori di tutto il mondo.

La chiave per il progresso storico non è più, come indicato dai partiti opportunisti, in lotte di sistemazione nazionale che si pongano l’obiettivo di una “giusta sistemazione” fra gli Stati nel quadro del capitalismo. In Medioriente non è nella lotta dei palestinesi per un loro Stato nazionale – sfruttata da decenni da tutte le potenze dell’area ai loro fini – ma nella rivolta proletaria che abbatta i regimi di tutti i paesi dell’area, in Iran, Egitto, Turchia e in Israele. La questione palestinese è usata nei vari paesi, in Iran come in Turchia, per distogliere i proletari dalla lotta per i loro interessi immediati e politici e per legarli al loro regime nazionale borghese.

Solo dopo la rivoluzione proletaria troveranno soluzione le questioni nazionali rimaste irrisolte nel corso dello sviluppo storico del capitalismo, dalla sua fase ascendente a quella attuale putrescente dell’imperialismo.






Borghesie in crisi
La legge marziale in Corea del Sud

Il 3 dicembre, con un annuncio a tarda notte, in Corea del Sud è stata imposta la legge marziale. Il presidente Yoon Suk Yeol ha accampato presunte “azioni antistatali” intraprese dal governo della borghese opposizione parlamentare di sinistra del Partito Democratico. È stato mobilitato l’esercito, il parlamento è stato chiuso e ogni protesta proibita.

Subito la Confederazione coreana dei sindacati, affiliata al borghese Partito Democratico, ha indetto lo sciopero generale dei suoi 1,1 milioni di iscritti, dalla mattina alle 9 e fino a quando il “regime” del presidente non avesse abolito la legge marziale e il presidente non si fosse dimesso.

Ma i militari hanno ubbidito al voto del Parlamento che revocava la legge marziale. Si è così “ripristinata” la democrazia borghese e la pace del lavoro.

Però, a dimostrazione della natura di classe della manovra, l’unico uso reale dell’esercito è stato diretto contro lo sciopero nazionale dei medici in corso, che è stato prontamente fatto cessare. I militari, durante le 6 ore che è durata la legge marziale, hanno ordinato la cessazione dello sciopero intimando che chiunque avesse violato l’ordine sarebbe stato arrestato. Ma già il governo aveva precedentemente dichiarato di voler interrompere lo sciopero “legalmente”, dopo averlo definito “deplorevole”. Durava da tre mesi, iniziato per la decisione del governo di modificare le quote di iscrizione alla facoltà di medicina. Sebbene ogni sciopero sia una minaccia per la borghesia, i medici, principalmente quelli in formazione, avevano adottato atteggiamenti e richieste del tutto corporative.

Il conservatore Partito del Potere Popolare di Yoon è il partito della borghesia coreana favorevole agli Stati Uniti, che negli ultimi anni ha assunto una posizione sempre più dura nei confronti della Corea del Nord, nel quadro di un generale avvicinamento alla prossima guerra inter-imperialista. In contrasto con l’ammorbidimento delle relazioni tra Corea del Nord e del Sud nell’ultimo decennio, il Partito di Yoon si è spostato verso una maggiore cooperazione militare con gli Stati Uniti, allineandosi in gran parte alla loro guerra commerciale contro la Cina e nello spostamento delle catene di approvvigionamento e produzione ad alta tecnologia negli Stati Uniti. Il Partito del Potere Popolare rappresenta infatti gli interessi industriali della Corea del Sud più saldamente legati agli Stati Uniti, vanificando così i tentativi degli elementi più “pacifici” della borghesia nazionale coreana che aspirano a unire la penisola per farne un regionale imperialismo nazionale, cosa che non è nell’interesse né della Cina né degli Stati Uniti.

Queste convulsioni delle forze borghesi in Corea del Sud sono analoghe alle tendenze che si stanno delineando in tutto il mondo. I regimi del capitale, mentre affondano in un brodo di scandali e di “corruzione”, si affrettano caoticamente a liberarsi della patina democratica, in un profilarsi di lotte operaie indotte dalla crescente catastrofe economica. La borghesia sudcoreana è impegnata in battaglie intestine, i partiti borghesi si impegnano in lotte partigiane disposte perfino a mobilitare la polizia e i militari contro gli avversari, mentre stanno affondando nella crisi montante.

Nel frattempo lavorano per bloccare il proletariato nell’ormai vecchia falsa antitesi fascismo-antifascismo, in vista della prossima guerra inter-imperialista.

Tuttavia solo la minaccia di uno sciopero generale a tempo indeterminato da parte della Confederazione Coreana dei Sindacati (KCTU) ha avuto un peso nel porre fine ai piani del presidente Yoon. La borghesia per le sue guerre intestine si adopererà sempre per portare i lavoratori dalla sua parte, vuoi con la violenza vuoi con la menzogna di un interesse comune, in difesa della nazione o della “democrazia”.

Fino alla metà degli anni ‘90 il KCTU ha operato come sindacato indipendente, per lo più illegale ai tempi della dittatura. Con lo sviluppo del boom economico delle “Tigri asiatiche”, la brutale dittatura sudcoreana si è trasformata in una “democrazia” e dei sindacati indipendenti sono stati riconosciuti. Man mano che il loro potere cresceva insieme all’espansione del capitale sudcoreano, che poteva permettersi di allevare un’aristocrazia del lavoro. Dopo il riconoscimento ufficiale il KCTU ha collaborato sempre più con lo Stato borghese per promuovere un interesse nazionale comune tra lavoratori e borghesi.

Per i borghesi, la tolleranza verso i sindacati dipende dai tempi economici, fino alla repressione violenta e spietata del movimento operaio, storia comune della classe operaia internazionale all’interno degli Stati borghesi democratici o fascisti.

Il vano tentativo del sindacato di “difendere la democrazia” alla fine serve solo a garantire il fascismo. Inducendo i lavoratori a non identificare la loro relazione fondamentalmente antagonista con il capitale e la necessità della dittatura proletaria come unica soluzione alla violenza borghese, essi portano i lavoratori ad aggrapparsi al cadavere in decomposizione della democrazia borghese in una lotta illusoria per mantenere i loro miseri privilegi all’interno dell’ordine imperialista mondiale.

È quindi necessario che anche in Corea i lavoratori del KCTU si liberino della loro direzione opportunista e lottino per lo sciopero generale, non per difendere la democrazia nazionale borghese, ma per unire i lavoratori di tutto il mondo e opporsi alla crescente guerra inter-imperialista con la consegna del disfattismo rivoluzionario.

Il nostro partito sostiene che la democrazia è inestricabilmente legata al fascismo. Senza la democrazia borghese non potrebbe esserci il fascismo. La borghesia ha separato la lotta politica dalla lotta difensiva della classe, ridotta a un’azione a-storica e conservatrice, che deve invece comportare la distruzione della democrazia. L’idea borghese dell’individuo, sacro, come il fascismo ha trasformato la democrazia in culto dell’individuo.

Nella morsa fra i giganti degli imperialismi di Cina e degli Stati Uniti, a libera caccia nelle due Coree, non sorprende che il Nord e il Sud non siano riusciti a riunirsi. Sono solo pedine in una fredda guerra imperiale per i mercati. L’unico via storica per allontanare la minaccia sempre incombente di una micidiale guerra mondiale è che la classe operaia si consolidi nei sindacati di classe per preparare la futura rivoluzione guidata dal Partito Comunista.







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Elezioni negli USA
Cambia il capo - nulla cambia

Il giorno dopo l’elezione di Trump la borsa si è impennata: le fortune dei dieci capitalisti più ricchi del Paese sono cresciute di 84 miliardi di dollari, un importo giornaliero mai visto nella storia di Wall Street. Il boom è stato provocato da una marea di investimenti speculativi, alcuni dei quali in previsione dei dazi di Trump, della proliferazione clientelare dei contratti governativi e dell’abbattimento della regolamentazione del Bitcoin, mercato facilmente manipolabile per il grande capitale al fine di rastrellare i risparmi della piccola borghesia, la mucca da mungere.

Mentre alcuni settori della grande borghesia fremono alla prospettiva della privatizzazione di enormi fette di attività del governo federale – che liquidi i suoi beni e liberi fondi statali per la accumulazione di capitale – della riduzione dei regolamenti per consentire una speculazione finanziaria più libera, tutto questo non fa che accelerare la catastrofe economica finale.

Pare che il Presidente, mentre era in carica, abbia apertamente elogiato Adolph Hitler. Cosa che nel 2024 non ha turbato affatto la classe capitalista.

Nonostante gli ululati della sinistra e lo sventolio della camicia insanguinata dell’antifascismo per la difesa della democrazia, sappiamo che la democrazia è fascismo e il fascismo è democrazia, le due forme vanno di pari passo e sono entrambe americane come la torta di mele. L’unico modo per fermare la dittatura del capitale è la dittatura del proletariato. Quello che abbiamo qui è una perfetta dimostrazione della fusione tra capitale, democrazia e fascismo. Indipendentemente dal fatto che si svolga nella sua veste fascista o democratica, per la continua accumulazione del capitale i borghesi sacrificheranno tutti i presunti alti ideali e nobili principi scatenando crudeltà, carneficine, distruzione e miseria su tutte le forme di vita del pianeta per garantire un rendimento costante dei loro sacri investimenti. La democrazia, infatti, copre il dominio assoluto e totalitario della borghese dittatura di classe e per giustificare le avventure militari imperialiste. Per cui fondamentalmente nulla cambia con il ritorno di Trump, ma solo la continuazione di una traiettoria tracciata da molto tempo prima di lui.


Il casinò elettorale

Al di là dei miliardi investiti nella disgustosa propaganda per il lavaggio del cervello alla classe operaia e indurla a perdere tempo a votare per uno dei due candidati della classe capitalista, al di fuori delle centinaia di milioni di dollari di investimenti speculativi in borsa, lo stucchevole circo del 2024 è stato anche testimone della nuova legalizzazione delle scommesse sulle elezioni, che erano state proibite per molti decenni. Centinaia di milioni di dollari sono stati puntati su entrambi i candidati nei siti di scommesse online. Le elezioni borghesi sono diventate un casinò.

I capitalisti votano con i dollari, aspettandosi ritorni sui propri investimenti, all’interno della dominante anarchia nelle produzioni.

Per la classe capitalista nel suo complesso sono i calcoli economici a guidare e determinare il suo mutevole impegno politico. In Trump il grande capitale vede oggi tutelato il suo interesse alla continua accumulazione di profitto. Con il suo nuovo aiutante Elon Musk, nominato capo del “Dipartimento dell’Efficienza Governativa”, attualmente solo immaginario, i due sono i caporioni più adatti dello squallido racket delle estorsioni, messo in atto dalla loro cricca di miliardari all’interno del decrepito casinò che sta diventando lo Stato borghese americano.

Nel 2021, come abbiamo riferito sui nostri giornali, i grandi borghesi avevano puntato su Biden e sui Democratici. In mezzo all’instabilità provocata dal Covid-19 e la peggiore crisi economica dai tempi della Grande Depressione che ne è seguita, e alle proteste di massa contro la violenza della polizia in tutto il Paese, Biden era un candidato che per i borghesi rappresentava stabilità e certezza.

Da allora gli interessi immediati della borghesia si sono spostati di nuovo sui repubblicani. Hanno dipinto l’andamento dell’economia sotto Trump con delirante esaltazione, propagandando fra i lavoratori l’inganno che l’economia fluttui a seconda delle politiche di questo o quel presidente ogni 4-8 anni, in modo che il crescente malcontento degli operai si incanali verso l’uno o l’altro dei due partiti borghesi a ogni ciclo elettorale.


Il grande capitale oscilla a destra

La vittoria dei repubblicani è avvenuta in un momento di forte oscillazione del grande capitale dal campo del Partito Democratico alla piattaforma MAGA, soprattutto a causa delle politiche commerciali protezionistiche proposte da Trump e della promessa di tagli alle tasse. I più forti consensi sono arrivati dai ricchi capitalisti del mondo dell’informatica, che favoriscono le sue politiche di deregolamentazione nei confronti anche dell’intelligenza artificiale e dei Bitcoin. A differenza delle elezioni del 2016 e del 2020, il Partito Repubblicano ha guadagnato il sostegno della Silicon Valley, che storicamente era per il “muro blu” del Partito Democratico.

Elon Musk, proprietario di SpaceX e Tesla, che è diventato l’uomo più ricco del mondo (soprattutto grazie ai lucrosi contratti governativi per le sue aziende), nel 2018 si era definito un “moderatamente democratico”, si è rumorosamente schierato a favore di Trump e ha donato oltre 140 milioni di dollari alla campagna. Sotto l’amministrazione Biden il social network X di Musk, le società Tesla, SpaceX e Neuralink erano diventate bersaglio di decine di battaglie normative e di sovrapposte indagini federali da parte di ogni tipo di istituto di controllo, mettendo a rischio i lucrosi contratti governativi da cui dipendono.

Dopo gli eventi del 6 gennaio 2021 Trump era stato rimosso da una delle più grandi piattaforme di social media del mondo, Twitter. Elon Musk ha poi acquistato la piattaforma nell’ottobre del 2022, ribattezzandola X e modificandone l’algoritmo per propagandare e diffondere le sue idee e la sua fedeltà a Trump e per promuovere il suo status di celebrità personale che, come Trump, è diventato un culto. Altri magnati della Silicon Valley, come Mark Zuckerberg, che in precedenza aveva cacciato Trump dal suo social network Facebook, e Jeff Bezos e Sundar Pichai, amministratore delegato di Google, si sono messi in fila per baciare l’anello di Trump, congratulandosi con lui per la vittoria elettorale, nonostante i tre non avessero scelto di appoggiare alcuno dei due partiti. In un cambiamento di politica, tutti hanno dato un giro di vite all’attivismo di sinistra all’interno delle loro aziende in occasione di queste elezioni e hanno impedito ai loro social media e ai loro canali multimediali di appoggiare o esprimere un sostegno positivo ai Democratici.

Ex baluardi della “resistenza” a Trump all’interno della borghesia, un tempo “liberal” e “moderati”, questo piccolo gruppo di miliardari, ubriachi di potere, sognano l’immortalità attraverso procedure mediche e tecnologie “transumaniste”. Elon Musk, che scherza di voler diventare “Imperatore di Marte”, intanto riceve miliardi di sovvenzioni statali per costruire, con il suo programma SpaceX, una infrastruttura per l’estrazione di minerali nello spazio.

 
La vacillante e falsa “resistenza” democratica

L’elezione iniziale di Trump nel 2016 sconvolse l’establishment liberal, ma non perché le sue proposte fossero davvero diverse dalle politiche dell’amministrazione Obama. L’ipocrita delirio pacificatore di questa, applicato dopo il crollo economico del 2008 – che nascose le disastrose avventure imperialiste in Afghanistan e in Iraq con il programma clandestino di omicidi mirati con i droni – fu nuovamente formulato nel programma di Trump nella caccia al “nemico interno”. Il primo Presidente nero aveva visto tumultuose ribellioni di strada contro l’assassinio di proletari neri e marroni in tutto il Paese, alla fine diventate note come il movimento Black Lives Matter. L’elezione di Trump nel 2016 non fece altro che gettare benzina sul fuoco e portare a manifestazioni di piazza spontanee in tutto il Paese. La rabbia di questi giovani iper-sfruttati per l’insensatezza disumana dei loro omicidi da parte della polizia in difesa della proprietà borghese, si trasformò in rabbia contro un intero sistema, che dimostrò apertamente la sua ostilità, dato che Trump concentrò le sue polemiche contro i “terroristi” del BLM.

Naturalmente, come è accaduto con il movimento Black Lives Matters, la rabbia seguita all’elezione di Trump fu rapidamente domata e deviata verso percorsi riformisti dagli elementi di base dell’apparato del Partito Democratico, dagli studenti e dagli attivisti liberal che cercarono di trarre profitto dalla situazione e di fondare le loro carriere politiche sulle false speranze e sulla illusione di ridurre i finanziamenti alla polizia e altre “torte in cielo”.

Questi eventi non si sono ripetuti nel 2024, non perché “non interessa più a nessuno”, come singhiozzano i patetici liberal, ma perché nessuno ne è più sorpreso.

Durante l’ultimo mandato di Trump si sono avute azioni spontanee contro la violenza della polizia, in mezzo a un’imperversante pandemia che provocò una crisi economica e a milioni di disoccupati, sopravvissuti grazie ai sussidi governativi.

A ciò si aggiungono quattro lunghi anni di scontri di piazza, in cui sostenitori di Trump e antifascisti hanno invaso ampie zone delle principali città causando migliaia di feriti e molti morti. Quale il risultato di queste drammatiche buffonate di strada fra gli antifascisti e le armate di paramilitari che sostengono Trump come i Proud Boys e gli Oath Keepers? Poco più che portare qualche voto ai rispettivi candidati borghesi.

La conseguente elezione di Biden ha ripristinato l’illusione della pace sociale ed è bastato all’intelligenza liberale della piccola borghesia, agli attivisti, agli anarchici e agli avventurieri antifascisti, che non hanno visto alcun motivo per mantenere la eroica militanza.

I lavoratori seriamente intenzionati ad affrontare la crisi sociale del capitale sanno che, sotto qualunque governo borghese, solo attraverso l’istituzione del sindacalismo di classe, attraverso il lavoro attivo all’interno delle organizzazioni di difesa dei lavoratori, lottando diligentemente per ricostruirle con un carattere classista, unendo le loro lotte e difendendo i più sfruttati, possono opporsi all’offensiva di classe capitalista, collegandosi con le masse di lavoratori sul terreno della lotta economica materiale, per vedere che, in ultima analisi, essa è sinonimo di lotta politica tra le classi.


L’ “Agenda 47”

Il programma del Partito Repubblicano sotto Trump è una piattaforma chiamata “Agenda 47” formulata in una serie di punti. Li esamineremo qui, con la consapevolezza che ciò che saranno effettivamente in grado di realizzare resta da vedere.

Un punto centrale ripetuto in tutta l’Agenda è la persecuzione politica dei “marx­isti” e dei “sinistrorsi”. Il documento prevede l’impegno “patriottico” degli insegnanti per concedere la licenza. Inoltre mira a una revisione dell’accredito delle università, togliendo i finanziamenti ai campus che appoggiano idee “di sinistra”, e minaccia di deportare gli studenti immigrati che si mostrino in proteste contro le azioni dello Stato borghese israeliano a Gaza.

La piattaforma minaccia il carcere per gli ex oppositori e di perseguire i media che censurano la propaganda del Partito Repubblicano e le sue innumerevoli falsificazioni fattuali. Chiede l’istituzione di consigli speciali per epurare i nemici politici all’interno dello Stato borghese, in particolare licenziando in massa generali e ammiragli e nelle agenzie di intelligenza. Inoltre, promette di togliere ogni sostegno del governo federale alle città che tollerano l’immigrazione.

C’è un parallelo con le due storiche “paure rosse” in America, perpetuate tanto sotto le amministrazioni democratiche quanto repubblicane. Gli stessi metodi sono stati impiegati dalla borghesia durante l’ondata rivoluzionaria internazionale seguita alla Rivoluzione bolscevica, e di nuovo sotto il maccartismo in risposta alle crescenti lotte proletarie dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, per epurare gli esponenti comunisti e di sinistra dalle università, da Hollywood, dal governo e, soprattutto, dai sindacati. Atti come il Communist Control Act del 1954 misero fuori legge il Partito Comunista stalinista e criminalizzarono la partecipazione e l’affiliazione a gruppi di “azione comunista”.

Per quanto la reale portata delle epurazioni sotto Trump sia imprevedibile, la loro effettiva attuazione provocherebbe probabilmente, fra l’altro, una fuga di cervelli dalle strutture statali e militari borghesi, rendendole sempre più inefficaci e instabili. Inoltre, l’attuale lista di nominati lealisti proposti da Trump presenta individui con un’esperienza minima nella gestione di grandi organizzazioni, il che potrebbe portare all’impantanamento e alla completa disfunzione di istituzioni critiche per il mantenimento del potere della classe borghese, trascinate in lotte interne tra fazioni.

Altro obiettivo repubblicano di lunga data è abolire il Dipartimento Federale dell’Istruzione e spostare il sistema educativo verso il privato, oltre al finanziamento di nuove università patriottiche, sostenute da privati e da tasse imposte alle università esistenti. Offrirebbero iscrizioni gratuite per un indottrinamento nazionalista. Oltre a questo è in programma il ritiro delle agevolazioni per il rimborso del debito per milioni di studenti.

Al centro della piattaforma c’è la vanteria di deportare immediatamente milioni di immigrati. Ma attuare una simile minaccia sembra difficile. Così come quella di costruire una Grande Muraglia sul confine meridionale, che costerebbe centinaia di miliardi di dollari. In realtà, nel suo primo mandato l’amministrazione Trump si è dimostrata incapace di deportare un numero maggiore di immigrati rispetto alle altre, e anche la sua crudele politica di separazione delle famiglie è stata alla fine costretta a fare marcia indietro.

Nonostante che la immigrazione negli Stati Uniti sia rimasta più o meno stabile negli ultimi due decenni, si è creata un’isteria su una serie di storie falsificate, come quella degli immigrati haitiani che a Springfield mangiano gli animali domestici, costantemente diffuse dai media, per fomentare l’antica distrazione razzista dall’antagonismo di classe, sugli immigrati che rubano i posti di lavoro, violentano e uccidono le donne e sono la fonte di epidemie e della diffusione delle droghe.

Tuttavia il vero obiettivo di questa politica non è fermare effettivamente l’immigrazione, ma creare una sezione di immigrati iper-sfruttati, privati di tutti i diritti borghesi, che possono essere utilizzati come schiavi. Spesso gli immigrati finiscono per languire nei centri di detenzione per anni, sottoposti al lavoro da schiavi in prigione. Società private gestiscono quasi tutti i centri di detenzione per immigrati degli Stati e, come la classe dei piantatori di un tempo, hanno bisogno di una costante espansione della “lotta al crimine” per essere riforniti di manodopera schiavizzata e di lucrativi contratti statali in arrivo.

Contro i provvedimenti rivolti alle minoranze razziali svantaggiate i repubblicani rinnovano l’attacco alle politiche di “equità e inclusione” e le “azioni affermative”, che prevedono quote nelle scuole e nelle assunzioni. All’insegnamento nelle scuole della storia della questione razziale in America i repubblicani hanno dato il titolo “Teoria della razza critica”.

Nelle scuole ci si promette di vietare l’insegnamento della “ideologia di genere” e, negli ospedali, di limitare ulteriormente l’accesso all’assistenza per milioni di transessuali.

La “lotta al crimine” prevede la pena di morte per gli spacciatori e di rafforzare la pressione della polizia sulle minoranze e gli immigrati, mantenendo alcuni gruppi etnici e di genere costretti ad offrirsi al super-sfruttamento del capitale, e blandendo così i ceti delle classi medie e delle aristocrazie del lavoro, che stanno andando in rovina, a difesa dell’ordine.

Trump ha invece assunto una posizione più moderata sull’aborto, mentre spaccia l’idea di un “bonus bebè” per aumentare il tasso di natalità. Si è discostato anche dalle tradizionali posizioni repubblicane per la revoca del pieno finanziamento di Medicaid e della Sicurezza Sociale.

Come abbiamo già descritto sulla nostra stampa, una componente centrale della campagna di Trump è quella dei dazi e una guerra commerciale in tutto il mondo, nel tentativo dichiarato di riportare le industrie negli Stati Uniti. Per il capitale nazionale il “reshoring” dell’industria sarebbe essenziale se gli Stati Uniti vogliono entrare in guerra con l’officina del mondo, la Cina. Tuttavia riuscirci non è affatto scontato. La probabilità di un’inflazione massiccia se queste politiche verranno applicate come presentate in campagna elettorale è garantita. In che misura Trump sfrutterà effettivamente le tariffe o le userà solo come minaccia è ancora da vedere. Ma la promessa di ridurre l’inflazione sarebbe vanificata dalle tariffe astronomiche contro i due maggiori partner commerciali degli Stati Uniti: Canada e Messico.

Trump promette di evitare la Terza Guerra Mondiale ponendo rapidamente fine al conflitto in Ucraina. Per l’Ucraina si tratta ormai di una causa persa, con la vittoria finale della Russia. Quindi si impone un aggiustamento. Per l’imperialismo statunitense non è necessario vincere in Ucraina. Il suo vero obiettivo, mantenere il capitale tedesco sottomesso agli Stati Uniti, è stato raggiunto. Un immediato scoppio della guerra generale in questo momento non è nell’interesse dell’imperialismo statunitense, impegnato nel ricostruire le sue industrie in vista del confronto con la Cina.

Per altro alcuni borghesi sperano di riallacciare i legami con la Russia, per isolarla dalla Cina, consentendole di svilupparsi come potenza imperialista regionale. Idea questa energicamente rifiutata dagli attuali capi militari. Ed è per la posizione sull’Ucraina che Trump fu messo sotto impeachment dai democratici durante la sua presidenza. Il programma apparentemente “isolazionista” di Trump si basa su un aumento dei fondi per l’esercito e sul piano dell’era Reagan di armare lo spazio e di una difesa missilistica a proteggere gli Stati Uniti con una “cupola di ferro”.

La campagna repubblicana ha cercato di conquistare i lavoratori flirtando con i sindacati, vestendo Trump come un commesso di McDonald’s e poi come un netturbino. La sua piattaforma lancia un osso ai lavoratori della ristorazione promettendo di esentare dalle tasse le mance. Mentre la borghesia mostra tolleranza verso i sindacati di regime, paventa e proclama un rinnovato “allarme rosso” sociale, quando le occorre garantire la subordinazione al Capitale, che si accinge a sviluppare la sua economia di guerra. Per questo si è rotto radicalmente con le politiche repubblicane consolidate, promettendo programmi sociali per i senzatetto, in “ripulite città americane”.

Altro punto importante del manifesto riguarda la deregolamentazione a favore dell’industria petrolifera e la fine dei crediti d’imposta per i veicoli elettrici, a vantaggio dei produttori di automobili statunitensi.


La catastrofe rivoluzionaria

I borghesi continuano a mettere a nudo la natura totalitaria dei loro Stati, fascisti e democratici, e avanzano nella preparazione della guerra generale inter-imperialista. È su questa strada che si va creando la premessa storica della catastrofe rivoluzionaria: l’instabilità intrinseca dell’economia capitalista, dei suoi inevitabili cicli di euforia e crisi, il riemergere della lotta di classe su scala di massa è inevitabile, anche se non immediato. Favorito dalla facilità di comunicazione, al momento giusto, sarà spontaneo il salto di qualità della lotta di classe con l’unificazione delle avanguardie proletarie sotto il programma rivoluzionario marxista.

La patente liquidazione dell’illusione democratica contribuirà a rendere la necessità rivoluzionaria ancora più evidente alla classe, quando questo capitalismo malsano esploderà definitivamente e la prossima guerra generale inter-imperialista emergerà.

Ristabilire un sindacalismo di classe combattivo e il suo svilupparsi in una guerra civile classista generalizzata, unito dietro le parole del disfattismo rivoluzionario avanzate dal suo partito comunista internazionale, porteranno alla fine alla dittatura vittoriosa del proletariato e all’uscita dalla storia del dominio vizioso del capitale

Ai più oggi questa sembra una prospettiva lontana. Le forze organizzate del proletariato rimangono piccole e disperse. Ma già le crescenti ondate di scioperi e di sindacalismo combattivo in tutto il mondo dimostrano che il filo vivo della lotta proletaria sta riemergendo in un modo che è già terrificante per la borghesia.

Mentre la crisi del grande capitale accelera la liquidazione delle classi medie prone al suo Stato e va estendendosi la quota di lavoratori iper-sfruttati senza diritti, mentre sta riorganizzando il suo apparato produttivo all’interno di tutti i suoi territori nazionali in preparazione della prossima guerra inter-imperialista, è inevitabile che in questo frangente il Capitale si tolga il guanto di velluto democratico per mostrare il ferro del fascismo.

Tuttavia, come dissero i nostri maestri del Partito Comunista d’Italia quando il fascismo emerse per la prima volta in Italia per arginare la minaccia rivoluzionaria sollevata dal movimento operaio dell’epoca, non sarà il fascismo a prolungare la sopravvivenza di questo sistema marcio e putrescente: al contrario, ne anticipa la fine.







Per il sindacato di classe Pagina di impostazione programmatica e di battaglia del Partito Comunista Internazionale

29 novembre, sciopero generale
   Per la mobilitazione generale della classe operaia
   Per un fronte unico sindacale di classe

L’economia mondiale affonda nella crisi. Non solo l’industria dell’auto ma tutti i settori ne sono colpiti: dagli elettrodomestici al tessile, dall’acciaio all’edilizia.

La sovrapproduzione – questa la incurabile malattia del capitalismo – dalla metà degli anni ‘70 affligge i paesi occidentali, quelli di vecchio capitalismo. Da allora il capitalismo mondiale è riuscito a proseguire la sua marcia solo aumentando lo sfruttamento dei lavoratori, dapprima gradualmente poi in modo sempre più accentuato; espandendo il debito, di cui si giovano industriali e finanza; esportando la società capitalistica a nuovi paesi, risollevando così i profitti grazie ai loro bassi salari (la Cina è divenuta dagli anni ‘90 la “fabbrica del mondo”).

Oggi che anche la Cina è in conclamata sovrapproduzione, il capitalismo mondiale si sta approssimando al crollo – previsto solo dai veri comunisti e dal marxismo e negato da tutti i loro avversari – e ad esso restano solo due strumenti per sopravvivere: sfruttare al massimo la classe operaia e una nuova guerra mondiale.

Di fronte a questa crisi globale la sinistra borghese, con le sue illusorie riforme, ha dimostrato il suo fallimento. È una pretesa impossibile dare alla società del Capitale uno sviluppo in armonia coi bisogni della classe salariata. Il riformismo di fronte alla crisi non ha potuto che farsi esecutore delle politiche dei sacrifici, complementare alla destra nello smantellare lo Stato sociale, nel ribasso dei salari, nelle controriforme pensionistiche, nell’attacco alla libertà di sciopero.

All’avanzare della crisi in tutti i paesi i grandi sindacati collaborazionisti – in Italia Cgil Cisl e Uil – non hanno da proporre che la “difesa dell’industria”. Ciò significa sottomettere i lavoratori agli interessi della borghesia, per rendere più efficiente e competitivo il capitalismo nazionale. Una politica che mette i lavoratori dei diversi Paesi gli uni contro gli altri, in concorrenza per la riduzione dei salari. Non vuole il miglioramento delle loro condizioni, ma apre invece la strada allo scontro militare tra gli Stati.

L’unica via di uscita del capitalismo dalla sua crisi economica è infatti una guerra imperialista generale, in cui distruggere l’immensa ricchezza in eccesso – e i lavoratori in soprannumero per le necessità del capitale – e con cui operare una nuova spartizione del mercato mondiale. Il cosiddetto boom economico degli anni ‘50 e ‘60 fu il prodotto della seconda guerra mondiale coi sui 60 milioni di morti, in larga parte proletari e contadini poveri. Fu solo quella la “soluzione” alla crisi economica che attanagliava il capitalismo fin dagli anni Trenta del ‘900, non le politiche d’intervento statale in economia – cosiddette keynesiane – attuate in quegli anni da tutti i regimi borghesi, da quelli in veste democratica come da quelli nazi-fascisti.

Di fronte alla crisi economica del capitalismo i lavoratori devono essere chiamati a lottare solo per i loro bisogni immediati – forti aumenti, riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, salario pieno ai licenziati – che si pongono implicitamente sulla strada dell’unità tra tutti i lavoratori, autoctoni e immigrati, privati e pubblici, vecchi e giovani, per il superamento del capitalismo. Certo, si tratta di obiettivi incompatibili con l’economica capitalistica. Ma è proprio il capitalismo a essere incompatibile con la vita dei lavoratori!

* * *

In Italia, la Cgil, diretta dalla sinistra borghese, ha accompagnato gli attacchi della borghesia ai lavoratori senza contrapporvi alcun reale movimento di lotta. Sin dal 1978 la Cgil di Lama si fece interprete della “politica dei sacrifici”; negli anni ‘80 ha invocato leggi anti-sciopero contro i sindacati di base, infine varate nel 1990 coi voti di DC e PCI (legge 146) e nel 2000 dal governo D’Alema (legge 83). Nel 1992 la CGIL di Trentin firmò l’accordo sulla “politica dei redditi” che finì di demolire la “scala mobile”. Da 15 anni Cgil Cisl e Uil adottano per i rinnovi contrattuali un indice ulteriormente peggiorativo, definito IPCA. Il calo costante dei salari reali dal 1992 è conseguenza diretta di questa condotta.

Di conseguenza sono avanzate la de-sindacalizzazione, la rassegnazione, l’individualismo e con essi il sindacalismo clientelare, ulteriore imputridimento del sindacalismo collaborazionista e di regime. Ma vi è stata anche una reazione sana con la nascita – fin dai primi anni ‘80 – del sindacalismo di base.

I sindacati di base però hanno in larga parte dirigenze responsabili, col loro opportunismo, della frammentazione organizzativa del sindacalismo di base e della pratica di proclamare scioperi separati e “in concorrenza” con quelli di Cgil, Cisl e Uil. Questa condotta non ha permesso la formazione di una alternativa sindacale forte e autorevole al sindacalismo di regime. Oggi però è stato compiuto un importante passo in avanti, con l’adesione di tutti i sindacati di base – tranne Usb – allo sciopero generale proclamato anche da Cgil e Uil.

Questa mobilitazione unitaria deve diventare la regola!

È necessario costruire un fronte unico sindacale di classe che ponga l’unità d’azione del sindacalismo di base a fondamento della futura unità organizzativa in un grande sindacato di classe e con l’unità d’azione dei lavoratori nello sciopero, a prescindere da quale sindacato lo proclami, quale base materiale per ridare vigore al movimento operaio, per rafforzare e radicalizzare le mobilitazioni promosse dal sindacalismo di regime e da esso mantenute nei binari della pace sociale e delle compatibilità con la cosiddetta economia nazionale, cioè del capitalismo.

Tale fronte unico sindacale di classe deve cercare di includere, oltre a tutti i sindacati di base, anche le minoranze conflittuali in Cgil, nella sicurezza che lo sviluppo e il rafforzamento della lotta operaia dimostrerà nella pratica come il futuro sindacato di classe potrà rinascere solo fuori e contro i sindacati di regime.

La lotta di classe è insopprimibile nel capitalismo. Ritroverà la sua strada. Quella dalla lotta per la difesa della condizione operaia, rigettando ogni solidarietà con la propria azienda, con la propria classe dominante, contro ogni nazionalismo, e verso la unità internazionale dei lavoratori, sollevati infine per il grande fine del comunismo.







Prato, domenica 13 ottobre
Scioperare uniti contro le aggressioni dei padroni

Domenica scorsa il sindacato SUDD Cobas ha compiuto un’azione tanto semplice quanto importante: ha chiamato a scioperare insieme e a oltranza gli operai di aziende diverse.

È un basilare principio del sindacalismo di classe unire i lavoratori nello sciopero al di sopra dei confini creati dal sistema produttivo capitalista, divisioni che avvantaggiano il padronato e il suo regime politico: di reparto, di azienda, di categoria, di territorio, infine di nazione.

Anche il sindacalismo collaborazionista e di regime chiude e divide i lavoratori entro tutti questi muri e conduce le lotte sindacali ciascuna per sé.

Unendo nello sciopero gli operai di diverse aziende tessili il SUDD Cobas ha rafforzato la loro lotta e ha permesso che scioperassero anche i lavoratori delle piccole unità produttive. I risultati si sono visti fin dal secondo giorno di sciopero, con la sottoscrizione dei primi accordi migliorativi per i lavoratori.

Fra gli obiettivi di questo sciopero il principale è la riduzione dell’orario di lavoro: 8 ore per 5 giorni in luogo delle 12 ore per 7 giorni.

Certamente questi lavoratori subiscono un grado di sfruttamento altissimo. Ma sfruttati sono tutti i lavoratori salariati e la riduzione dell’orario di lavoro è nell’interesse, e dovrebbe essere obiettivo, di tutti i lavoratori, innanzitutto di quelli colpiti dalla crisi di sovrapproduzione del capitalismo, come ad esempio nel settore auto – che scenderà in sciopero il 18 ottobre – o in quello degli elettrodomestici.

Invece, i sindacati di regime (Cgil, Cisl, Uil, Ugl), nelle rare volte che chiamano i lavoratori allo sciopero, lo fanno invocando “aiuti di Stato” in difesa delle aziende e dell’industria cosiddetta “nazionale”, cioè fanno scioperare gli operai in difesa degli industriali, in concorrenza con gli operai di altre aziende e di altre nazioni: inculcano nei lavoratori l’aziendalismo e il nazionalismo economico, che è la base anche del militarismo.

Al terzo giorno di sciopero a oltranza gli operai organizzati dal Sudd Cobas sono stati aggrediti da picchiatori mandati da una o più aziende. Questa è solo la conferma che lo sciopero fa male ai profitti aziendali ed è sulla strada giusta per vincere.

Dopo l’aggressione tante voci democratiche hanno espresso solidarietà ai lavoratori e invocato l’intervento delle istituzioni. Ma questa è l’ennesima aggressione. Né i controlli fermano lo sfruttamento. Solo la solidarietà della comunità dei lavoratori, tessili e delle altre categorie, italiani e immigrati, organizzati in un forte sindacato di classe potrà porre un argine allo sfruttamento e ribattere alle aggressioni padronali.

La strada per ricostruire un forte sindacato di classe è quella indicata in questo ennesimo piccolo grande sciopero dal Sudd Cobas:
     - unire le lotte operaie, cioè cercare sempre di far convergere gli scioperi;
     - porre al centro dell’organizzazione sindacale la sua struttura territoriale, come nella tradizione delle originarie Camere del Lavoro, dove i lavoratori si riuniscono in quanto fratelli di una stessa classe sociale, non la struttura sindacale aziendale, dove si riuniscono come dipendenti della singola azienda;
     - unire nell’azione tutti i sindacati di base, per creare le condizioni più favorevoli a un coinvolgimento più ampio possibile della massa dei lavoratori ancora succubi della rassegnazione e dell’individualismo, nonché le condizioni più favorevoli a sconfiggere gli opportunismi delle dirigenze sindacali.






Intervento del partito nei sindacati
Rapporto alla riunione generale di settembre

Abbiamo scritto un nota per il giornale, che è stata tradotta in inglese e spagnolo, riguardo a una campagna referendaria promossa dalla Cgil che, con un metodo collaudato, cerca così di nascondere la volontà di non promuovere alcuna lotta reale in difesa delle loro condizioni.

Poi abbiamo seguito le lotte che stanno conducendo gli operai delle manutenzioni ferroviarie e il personale di bordo dei treni, macchinisti e capi-treno. I due settori si sono organizzati in “assemblee autoconvocate”, fuori e di fatto contro i sindacati di regime. Abbiamo seguito il 6 settembre l’assemblea preparatoria dello sciopero dei manutentori. Lo sciopero di capitreno e macchinisti si è tenuto il giorno dopo. Ma il movimento dei manutentori è in declino e lo sciopero, il sesto dall’inizio della lotta contro l’accordo firmato dai sindacati di regime e autonomi è stato il peggiore in termini di adesioni: il 45%.

Si era palesato un duro scontro fra i sindacati di base che avevano promosso lo sciopero, il Cobas Lavoro Privato e l’USB. Questa divisione è stata una delle cause della incapacità ad accogliere la rabbia dei lavoratori. Non va però disconosciuto il grande lavoro svolto da questi militanti sindacati che per la prima volta si sono impegnati nella lotta.

Invece lo sciopero del personale viaggiante, il quinto dall’inizio dell’anno, è andato molto bene, con adesioni molto elevate, confermando gli ottimi risultati precedenti.

È importante tenere in conto che i ferrovieri sottostanno alla legge antisciopero. Devono proclamare lo sciopero con largo anticipo, l’astensione dal lavoro non può durare più di 24 ore, devono garantire un certo numero di treni e ogni sciopero di 24 ore deve essere distanziato dall’altro di 15 giorni.

Il 31 agosto abbiamo partecipato a un presidio a Brandizzo, nella periferia di Torino, presso la stazione ferroviaria, dove un anno prima 5 operai delle manutenzioni ferroviarie erano morti travolti da un treno. Il presidio è stato promosso da tutti i sindacati di base presenti fra i ferrovieri in modo unitario, insieme al Coordinamento Lavoratori Autoconvocati di cui facciamo parte. Abbiamo distribuito un volantino del partito appositamente redatto. La manifestazione è stata piccola ma ben riuscita.

La divisione più grave appare quella di fronte alla nuova offensiva lanciata dal Governo. Il 18 settembre è stato approvato alla Camera il cosiddetto “Decreto Sicurezza”. Questo contiene una serie di odiose misure repressive volte a garantire la “sicurezza” dei cittadini. Ciò si otterrebbe attraverso l’aggravamento delle pene per diversi reati – per esempio l’accattonaggio! – e l’introduzione di nuovi, quali, ad esempio, all’interno delle carceri la “resistenza passiva”, come uno sciopero della fame. Altra norma infame è il divieto per gli immigrati clandestini di possedere una SIM card per il telefono.

Per ciò che riguarda direttamente i lavoratori il decreto introduce il reato di blocco stradale, che prevede una pena da sei mesi a due anni di carcere, prima punito solo con una sanzione economica.

Ha tolto ogni dubbio il discorso in parlamento del Ministro degli Interni del 26 settembre, in cui ha denunciato che dall’inizio dell’anno nel settore della logistica sono stati effettuati 183 scioperi, quasi tutti indetti dai sindacati di base, principalmente dal parte del SI Cobas (citato esplicitamente) e che obiettivo del decreto era impedire i picchietti.

Per il movimento sindacale di classe sorto nella logistica a partire dal 2011 – con sindacati di base quali SI Cobas, ADL Cobas, Usb, SOL Cobas – si tratterebbe di un duro attacco. Ma, nonostante la sua gravità, le dirigenze dei sindacati di base stanno continuando ad agire secondo la loro linea opportunista, non organizzando alcuna lotta comune. Il 23 settembre il SI Cobas ha proclamato per il 18 ottobre uno sciopero generale senza coinvolgere nessun altro sindacato, e non risulta esserci altre adesioni. L’USB già dal 5 agosto aveva proclamato per il 31 ottobre uno sciopero nazionale del Pubblico Impiego, per i rinnovi dei contratti nazionali.

Faremo circolare la richiesta di mobilitazione comune all’interno del sindacalismo di base, sia nel Coordinamento regionale confederale di Genova dell’USB, sia in una lettera pubblica che firmeremo con altri militanti sindacali.

Un altro tratto caratteristico dell’opportunismo delle dirigenze di SI Cobas e Usb è che, oltre a non unire nell’azione i lavoratori, preferiscono far fronte comune coi gruppi politici, camuffati in cosiddetti Centri Sociali, a loro politicamente affini. Così partecipano a iniziative contro il Decreto Sicurezza che perdono la loro natura operaia acquisendo quella propria del movimentismo piccolo borghese studentesco.

Alla divisione operata delle lotte sindacale, fa da contraltare la unità nelle manifestazioni a sostengo della cosiddetta “resistenza palestinese”, che finisce per alimentano la politica borghese guerrafondaia che schiera i lavoratori su uno dei fronti di quella guerra imperialista locale, e di quella generale che matura.

Infine, abbiamo seguito gli scioperi nazionali dei tranvieri, per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro. Un primo sciopero, ben riuscito, c’è stato il 9 settembre, proclamato da Cgil Cisl e Uil. Il 20 settembre hanno scioperato tutti i sindacati di base tranne l’AL Cobas, una defezione importante dato che organizza i tranvieri di Milano. Nonostante lo sciopero partecipato di soli 11 giorni prima, anche questo ha registrato alte adesioni, segno che nella categoria il peggioramento delle condizioni, noto da tempo, inizia a spingere i lavoratori all’azione. Purtroppo, oltre alla defezione dell’AL Cobas, gli altri sindacati di base, pur avendo scioperato lo stesso giorno, sono divisi: da un lato l’USB, dall’altro ADL Cobas, Cobas Lavoro Privato, Cub, Sgb. Non esiste una piattaforma contrattuale comune e le assemblee sono svolte separatamente.

Dopo la riuscita dello sciopero del 20 settembre, i sindacati di regime (Cgil, Cisl e Uil) e quelli autonomi hanno proclamato un nuovo sciopero, l’11 novembre, per la prima volta da anni senza rispettare le cosiddette “fasce di garanzia” (cosa che è possibile una volta all’anno solo nel quadro delle vertenze per rinnovo del contratto nazionale) e chiamando a una manifestazione a Roma.

Il nostro indirizzo in questa situazione è sempre lo stesso: i sindacati di base non dovrebbero distinguersi per disertare gli scioperi dei sindacati di regime, per proclamarne altri in altra data, bensì dovrebbero partecipare a quegli scioperi cercando di fargli riuscire meglio possibile, per dare ai lavoratori fiducia nelle loro forze e radicalizzare la lotta. Poi, se vi sono le condizioni, chiamare ad altri scioperi, laddove invece i sindacati di regime restino fermi.






Ancora sciopero alla Samsung: dopo la Corea, l’India

Dal 9 settembre un vasto sciopero ha interessato la fabbrica della Samsung India Electronics di Sriperumbudur, ai margini occidentali dell’area urbana di Chennai – un tempo chiamata Madras – capitale dello Stato indiano del Tamil Nadu, il più meridionale del vasto paese, con una popolazione di circa 80 milioni di abitanti.

Su 1.800 lavoratori, in 1.300 hanno interrotto la produzione. Lo sciopero è proseguito a oltranza per 37 giorni, concludendosi il 16 ottobre e generando un danno, secondo quanto affermato dalla stessa compagnia, di 100 milioni di dollari.

Lo stabilimento è uno dei due della Samsung in India, specializzato nella produzione di televisori e altri elettrodomestici. L’altro si trova 2.000 chilometri più a Nord, nella New Okhla Industrial Development Authority, vicino a New Delhi, e produce soprattutto telefoni cellulari.

Si è trattato del primo vero grande sciopero da anni in una regione tra le più industrializzate dell’India. Il Tamil Nadu è il primo Stato indiano per numero di fabbriche con quasi 40.000 stabilimenti, superando anche regioni molto industrializzate come il Gujarat e il Maharashtra. È particolarmente presente l’industria dell’auto tanto che Chennai è detta la “Detroit dell’India”. Il conglomerato urbano di questa città è il quarto del paese, con una popolazione di oltre 11 milioni di abitanti.

Gli operai hanno rivendicato aumenti salariali fino a 36.000 rupie al mese (430 dollari) contro i 25.000 (300 dollari) percepiti, e il riconoscimento del sindacato di recente formazione, il Samsung India Wor­kers’ Union, SIWU, che dichiara di inquadrare circa 1.500 lavoratori della fabbrica.

La Samsung ha mostrato subito di non voler cedere alle richieste dei lavoratori dichiarando “già alti i livelli dei salari rispetto ai propri concorrenti dell’area”, minacciando licenziamenti e negando qualsiasi riconoscimento formale al SIWU.

Il governo federale, capeggiato da Nerendra Modi, in carica dal 2014, ha inizialmente chiesto al primo ministro del Tamil Nadu – M.K.Stalin – di dirimere la questione in maniera rapida e amichevole. Ma a una settimana dall’inizio dello sciopero, il 16 settembre, 104 fra lavoratori e capi sindacali sono stati arrestati, poi rilasciati, per aver tentato un corteo non autorizzato. Gli arresti si sono ripetuti il 1° ottobre colpendo – secondo quanto dichiarato da un funzionario di polizia – fino a 600 lavoratori, anche in questo caso rilasciati dopo alcune ore, sempre per impedire un corteo verso Chennai in quanto suscettibile, secondo le autorità, di minare l’ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini. Il 9 ottobre la polizia ha operato altri arresti, sgomberando un gazebo installato dai lavoratori e salendo persino sugli autobus per arrestarli. Non male per la più grande democrazia del mondo!

È utile sapere che mentre il governo federale indiano è diretto dal Bharatiya Janata Party (BjP) – conservatore, nazionalista, induista – lo Stato del Tamil Nadu è amministrato da un governo guidato dal Dravida Munnetra Kazhagam (DMK), che detiene 159 seggi nella assemblea legislativa nel quadro della Alleanza Secolare e Progressista, di cui fa parte il Partito Comunista d’India (“marxista”), con due seggi. Il DMK si presenta, con la sua Alleanza Secolare e Progressista, più aperto alla modernità in contrapposizione al conservatorismo religioso induista del BjP, ma da un lato fa leva su un uguale e contrapposto razzismo che si appoggia sulla etnia Tamil, dall’altro, di fronte agli scioperi per ottenere più salario, rivela la intima natura anti-proletaria che condivide con il BjP.

Ancor più deve far riflettere che il neonato sindacato Samsung India Workers’ Union (SIWU) è affiliato alla principale confederazione sindacale indiana, il Centre of Indian Trade Unions (CITU), la quale è diretta dal P.C.d’India (m), fra i principali partiti della sinistra borghese indiana, il quale si propone la “trasformazione socialista” dell’India attraverso l’affasciamento delle forze “patriottiche e democratiche” [!] e che fa parte della coalizione di governo del Tamil Nadu diretta dal DMK!

Quindi gli operai sono stati arrestati da un governo cui fanno parte uomini del partito che dirige il loro sindacato!

La Samsung si è rifiutata di riconoscere il sindacato, stabilendo una trattativa con un “comitato di lavoratori” di comodo.

Il 7 ottobre, il governo del Tamil Nadu ha esortato i lavoratori a riprendere il lavoro, sostenendo che un accordo tra la direzione della Samsung e il “comitato dei lavoratori” aveva accettato le principali richieste su salari e condizioni di lavoro. I lavoratori invece hanno continuato lo sciopero, rifiutando l’accordo.

Il 9 ottobre, come sommo atto d’ipocrisia di cui è capace la sinistra borghese e l’opportunismo, il capo locale del CPI(M), insieme a quello del Viduthalai Chiruthaigal Katchi (VCK) – altro partito che sostiene il governo – hanno tenuto una conferenza stampa chiedendo l’intervento del primo ministro del Tamil Nadu, del DMK, per ottenere il rilascio degli operai arrestati quello stesso giorno.

I lavoratori delle fabbriche vicine – come JK Tyres, Apollo Tyres, Hyundai, Yamaha e BMW – hanno tenuto assemblee di solidarietà, ma lo sciopero non si è esteso. Nel frattempo il capo del SIWU, che è anche segretario locale del CITU, ha dichiarato che l’obiettivo della lotta non erano gli aumenti salariali ma solo il riconoscimento del sindacato! Il 15 ottobre il SIWU ha fermato lo sciopero senza ottenere quanto rivendicato.

I partiti della sinistra borghese e i partiti operai opportunisti prendono a pretesto la mancata registrazione del sindacato SIWU, in base alla legislazione, cambiata nel 2020 coi “codici del lavoro” approvati dal Parlamento, i quali hanno segnato il culmine – ad oggi – di un lungo processo di revoca delle tutele legali della classe lavoratrice.

Questo è certamente vero. Ma di fatto l’unica risorsa per i lavoratori della Samsung, come di qualsiasi altra azienda, è estendere lo sciopero oltre i confini della fabbrica e dell’azienda, per soddisfare i loro bisogni, quali innanzitutto forti aumenti salariali e riduzione dell’orario di lavoro.

Per gli operai della Samsung di Sriperumbudur non basta durante lo sciopero lanciare invettive contro il governo o la legislazione vigente, accontentandosi nel frattempo di simbolici attestati di solidarietà da parte della CITU, ma devono battersi affinché quella confederazione sindacale, e gli altri sindacati presenti nell’area industriale, chiamino allo sciopero altri operai di altre fabbriche per gli stessi obiettivi che accumunano tutti i lavoratori salariati. Questo e non altro avrebbe potuto dare possibilità di vittoria.

Le migliorie legislative per i lavoratori possono essere solo la conseguenza di una organizzazione sempre più estesa, forte e determinata della loro lotta. Senza di questa anche una legislazione che in teoria tutela i salariati serve a poco. La legge indiana sui sindacati del 1926 – ad esempio – prevede che l’autorità competente registri un sindacato entro 45 giorni dalla presentazione della domanda. I lavoratori della Samsung di Sriperumbudur avevano presentato domanda di registrazione del SIWU al Registrar of Trade Unions il 27 giugno, senza ottenere nulla nemmeno dopo 90 giorni. Lo Industrial Disputes Act del 1947 richiede un preavviso di 14 giorni per uno sciopero legale. Il SIWU ha inviato un preavviso di sciopero il 19 agosto, quasi tre settimane prima dell’inizio dello sciopero, eppure il governo “di sinistra” ha dichiarato lo sciopero illegale, per poi procedere a centinaia di arresti.

Ben si capisce perché per le autorità del Tamil Nadu un corteo operaio in una delle aree più industrializzate dell’India – e del mondo – rappresentava un pericolo “per l’ordine pubblico e per la sicurezza”, perché avrebbe minacciato di infiammare anche altre fabbriche, estendendo lo sciopero.

Ben si capisce perché il capo del SIWU e la CITU abbiano agito per stendere un cordone sanitario intorno alla lotta degli operai della Samsung di Sriperumbudur, riducendo le rivendicazioni al solo riconoscimento del sindacato e non provando nemmeno a chiamare allo sciopero gli operai delle altre fabbriche per i comuni obiettivi salariali. Ciò è stato in ossequio alle esigenze del governo borghese del Tamil Nadu e in generale del capitalismo nazionale, allontanando la minaccia che il primo grande sciopero in questa importante area industriale generasse un vasto movimento di lotta operaia!

Lo sciopero alla Samsung Electronics in India di settembre-ottobre segue quello alla Samsung Electronics di luglio-agosto in Corea del Sud. Anche quello è rimasto isolato nell’azienda, scontando inoltre un rapporto di forze minoritario fra scioperanti e non scioperanti. In tutti i paesi del mondo ormai i lavoratori sono messi in competizione a livello internazionale fra chi offre le condizioni più attraenti per gli investitori internazionali.

Questa condizione mostra chiaramente quello che è un compito cui la classe lavoratrice deve tendere: darsi organizzazioni di lotta che dispieghino scioperi internazionali, capaci di colpire con la durezza necessaria le aziende multinazionali, le loro catene di fornitura e le cosiddette catene globali del valore.

Assolvere a questo compito, implica battersi contro l’opportunismo dei falsi partiti operai nei sindacati, che si presentano coi caratteri dell’aziendalismo e del nazionalismo, cioè dell’azione sindacale chiusa nei muri dell’azienda e degli interessi del capitalismo nazionale.

L’opportunismo non si interessa certo di tessere relazioni – ad esempio fra la SIWU e la National Samsung Electronics Union (NSEU), il neonato sindacato coreano – al fine di organizzare uno sciopero internazionale, ma si limita a invocare il rispetto delle condizioni dei lavoratori al governo nazionale, attore primo della repressione contro gli operai in sciopero.

La lotta per l’emancipazione della classe proletaria si combatte innanzitutto dentro i sindacati, per sconfiggere l’opportunismo e dar loro un indirizzo di classe.






Gli effetti della crisi sui lavoratori dei diamanti in India

La città di Surat è una metropoli di quasi 8 milioni di abitanti, capoluogo del medesimo distretto nello Stato indiano federato del Gujarat (oltre 60 milioni di abitanti). Un tempo denominata la Manchester indiana per la storica presenza di numerose fabbriche tessili, oggi è il cuore dell’industria diamantifera. Si stima infatti che oltre 80% dei diamanti commercializzati in tutto il mondo vi arrivino grezzi per essere selezionati, tagliati e levigati nelle migliaia di opifici e laboratori della città.

Da quando nel 1870 furono aperte le prime miniere di diamanti in Africa, grandi progressi tecnici sono stati introdotti per la ricerca e l’estrazione delle pietre. Ma le miniere continuano ad essere spesso le tombe per i proletari che ci lavorano, oltre a versarci il loro sudore e sangue per i profitti di chi oggi detiene i mezzi di produzione.

Poche grandi aziende controllano il mercato. Tra queste svetta la De Beers, presente in 25 paesi, che estrae principalmente in Africa (Botswana, Namibia, Sudafrica e Tanzania) e accaparra circa il 40% della produzione mondiale, la compagnia russa Alrosa col 25% e a seguire la anglo-australiana Rio Tinto Group.

Le pietre arrivano da quasi tutti i centri minerari del mondo, in particolare dall’Asia Centrale e dall’Africa. Mosca è prima al mondo nell’estrazione di diamanti, seguita dal Botswana, dall’Australia e da altri paesi africani. In Russia vi sono le miniere più grandi di cui la maggior parte si trovano in Siberia nella regione della Yakutia. I diamanti russi sono particolarmente apprezzati per la loro trasparenza e purezza, che li rendono molto richiesti nel mercato della gioielleria di lusso.

Surat ha spodestato Anversa, che per 500 anni è stata il quartier generale del mondo dei diamanti. Un successo per il capitale indiano considerando gli elevati profitti che si ottengono dal settore. Anversa sta affrontando il crollo dell’importazione di diamanti grezzi (-70% nell’ultimo decennio) e lucidati.

Ma la crisi è arrivata anche a Surat.


Una crisi che si protrae da tempo

Per decenni il settore è stato un paradiso per il capitalismo indiano ma anche internazionale. L’infame sfruttamento dei minatori del mondo e dei proletari a basso costo di Surat permetteva affari d’oro. Un oliato business gestito da un’intricata rete di famiglie borghesi, brokers e intermediari vari, ben congegnato e volutamente poco regolamentato.

Surat ospita un enorme polo industriale dedicato ai diamanti che impiegherebbe ben 800 mila lavoratori di cui la maggioranza salariati dislocati in migliaia di aziende.

Da tempo però il settore è in difficoltà. La produzione mondiale di diamanti è scesa dell’8% nel 2023, una contrazione che non cessa da diversi anni, con una diminuzione del prezzo medio del 14%.

La crisi si è aggravata a causa di diversi fattori, dopo l’inizio della guerra tra Russia e Ucraina e del macello mediorientale. È infatti sempre più difficile importare le pietre grezze dalla Russia. La Unione Europea e il G7 hanno vietato importare diamanti provenienti dalla Russia tramite paesi terzi, facendone lievitare i costi. Le sanzioni hanno colpito il colosso minerario Alrosa (di proprietà del governo) che produce oltre il 90% dei diamanti russi.

Ma, mentre le esportazioni russe si sono drasticamente ridotte, l’India ha incrementato assai le importazioni dalla Cina. Nel periodo marzo 2023 - febbraio 2024 sono cresciuti del 28% questi diamanti importati rispetto ai dodici mesi precedenti.

Prima dell’attacco del 7 ottobre a Israele e la successiva carneficina di Gaza, il commercio di diamanti tra India e Israele valeva 1,5 miliardi di dollari all’anno, rappresentando la metà sul totale degli scambi tra i due paesi. Oggi i dati annuali registrano un crollo. In generale tutta l’industria israeliana dei diamanti, e i partner commerciali a essa collegata, risente della prolungata situazione di conflittualità della regione mediorientale.

Tuttavia l’industria dei diamanti di Surat stava già affrontando alcuni problemi cruciali ancor prima dello scoppio di questi conflitti: le inondazioni in Africa, il calo della domanda dall’Occidente (Stati Uniti in particolare) e soprattutto la diminuzione delle esportazioni verso la Cina.

Fino a pochi anni fa infatti l’imperialismo cinese importava circa un terzo dei diamanti lavorati a Surat. La guerra dei dazi e il rallentamento dell’economia cinese hanno diminuito questo importante flusso di esportazioni. La domanda ha subito una significativa riduzione anche a causa del calo dei matrimoni e a un cambio delle preferenze tra i consumatori cinesi che tornano a scegliere i gioielli in oro rispetto ai diamanti. Il risultato è che le esportazioni indiane di diamanti in Cina sono diminuite del 27,5% nell’anno finanziario 2023-24. Dati simili sono registrati per altri importanti clienti come Stati Uniti ed Emirati Arabi Uniti.


I diamanti sintetici

In questo scenario, che già dal tempo del Covid si era drammaticamente acutizzato, alcune aziende, grandi e medie, hanno provato a contenere la crisi diversificando la merce, producendo diamanti artificiali.

Oggi, il centro della produzione, taglio e pulitura di queste pietre è in India e Surat ne è il centro. I gemmologi definiscono questi diamanti, carbonio al 100%, come lab grown, coltivati in laboratorio, creati artificialmente attraverso tecniche che tendono ad imitare il processo di formazione naturale: meno di 10 giorni di lavorazione contro un milione di anni per un diamante naturale.

Cristallizzare il carbonio non è un’invenzione recente ma un processo da tempo finalizzato a scopi industriali, lavorazioni meccaniche e utensili da taglio. Piccolissimi frammenti di diamante, spesso scarti di produzione, sono sottoposti all’azione di gas come idrogeno e metano: altri atomi di carbonio vi si depositano aumentandone il volume. Tecniche più sofisticate tendono a imitare le condizioni naturali della terra sottoponendo la grafite ad alta pressione.

Il prezzo varia tra il 30 e il 60% in meno rispetto ai diamanti naturali. Queste pietre nel 2018 avevano una quota di mercato del 3,5%, mentre nel 2024 dovrebbero attestarsi intorno al 20%. Nel triennio 2019-2022 le esportazioni di diamanti sintetici dell’India sono triplicate. In volume, sono aumentate del 25% tra aprile e ottobre 2023, rispetto al 15% nello stesso periodo del 2022. I laboratori indiani ne avrebbero esportato oltre 4 milioni di carati tra aprile e ottobre 2023, con un aumento del 42% su base annua, mentre le esportazioni di diamanti naturali sono diminuite di oltre il 25%.

All’aumento della produzione ha corrisposto un calo dei prezzi: un diamante di qualità inferiore a un carato è passato da 2.400 dollari nel 2022 a circa 1.000 dollari nel 2023.


La crisi la pagano i lavoratori

La crisi ha quindi diminuito i lauti guadagni della borghesia locale, che, come ad ogni latitudine, scarica i costi sui lavoratori. A Surat si sono registrati solo nell’ultimo anno oltre 50.000 licenziamenti; ma potrebbero essere molti di più considerando che anche nell’industria dei diamanti i lavoratori operano in modo “informale”.

Anche gli stipendi si sono notevolmente ridotti, infatti molti lavorano a cottimo, per quanti diamanti tagliano e lucidano.

Negli ultimi 18 mesi più di 70 lavoratori del settore si sono tolti la vita, proletari abbandonati a sé stessi e disperati, spesso indebitati con banche e strozzini.

La maggior parte dei salariati opera in aziende di piccole e medie dimensioni, i cui laboratori sono spesso angusti, privi delle più elementari norme di sicurezza. In piccole stanze ogni lavoratore è specializzato in una delle complesse operazioni che trasformano la pietra grezza in una gemma luccicante. I rischi per la salute sono molteplici. In particolare ne risente la vista, bastano pochi anni di intenso lavoro per avere gravi problemi. Spesso si manifestano anche tubercolosi e malattie respiratorie provocate dall’inspirare per anni microscopici granelli di diamante.

Dalle informazioni che abbiamo, non sono molte le organizzazioni sindacali e il numero di lavoratori sindacalizzati. Alcune organizzazioni sono presenti da anni, ma con una politica conciliante con i padroni e i loro scagnozzi al governo. Nel mese di ottobre si sono registrati alcuni scioperi contro la diminuzione degli stipendi e il mancato pagamento dei bonus promessi, ma isolati nei recinti aziendali.

Una delle organizzazioni sindacali più grandi ha inviato alcune lettere al governo dello Stato del Gujarat, chiedendo un pacchetto di aiuti economici. Inoltre è stato richiesto il “Ratandeep Yojana”, un programma di formazione lanciato da Modi durante la crisi economica del 2008-09 (all’epoca l’attuale primo ministro era governatore del Gujarat) atto a migliorare le competenze dei lavoratori dei diamanti.

Azioni quindi volte a chiedere l’elemosina ai padroni, inutili ai fini della ripresa della lotta di classe. Pare evidente che anche a Surat i lavoratori non abbiamo un’adeguata direzione sindacale in grado di difenderli dagli attacchi dei padroni e dei loro governi.

È una guerra: o la si combatte organizzandosi in veri sindacati di classe pronti a lottare per difendere le condizioni di tutti i salariati, con veri scioperi a oltranza, o si muore soffocati sottoterra o per suicidio, oppressi dalla perdita del lavoro.

Anche a Surat i lavoratori dovranno rialzare la testa se vorranno difendersi dagli attacchi dei padroni che per anni li hanno sfruttati ricavandone profitti milionari. Come tutti i salariati del mondo dovranno capire che non hanno amici tra le istituzioni dei governi, qualsiasi sia il colore del partito vincitore delle elezioni, non hanno amici tra le aziende, siano esse medie o grandi o apparentemente più democratiche. Potranno ricevere e dare solidarietà esclusivamente nei confronti dei loro fratelli di classe, tra quelli più sfruttati, in altri comparti della produzione, di altra religione, razza e nazionalità, a difesa e al fianco dei lavoratori licenziati. Un processo che potrà certamente partire da un ambito locale, nazionale, ma che inevitabilmente finirà per riconoscersi e strutturarsi in quello mondiale per il comunismo, grazie anche e soprattutto al collegamento di una parte di questi lavoratori con il Partito Comunista Internazionale.








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Convergenti contributi di lavoro nella riunione generale del partito

24-26 maggio 2024
 
[RG149]

(segue dal numero scorso)


La questione militare
La guerra civile nel Donbass

Il 15 gennaio 1919 in Germania erano stati arrestati e uccisi Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.

La paura dell’insorgere del “nemico interno”, sull’esempio del vittorioso proletariato russo, imponeva a tutte le borghesie tanto di opporsi alle rivendicazioni economiche dei lavoratori quanto una feroce repressione dei movimenti rivoluzionari, che tendevano ad assumere il potere. Ma le lotte operaie durante il Biennio rosso in Europa ebbero sviluppi diversi nei vari paesi senza poter raggiungere i successi sperati e attesi per la rivoluzione proletaria. Ebbe nefasta influenza l’appoggio fornito dai partiti socialdemocratici ai parlamenti nazionali, che nel 1914 avevano approvato i crediti di guerra per finanziare le spese militari, determinando di fatto la fine della Seconda Internazionale socialista.

Per dare un indirizzo alle iniziative di lotte proletarie, favorendo la formazione di partiti comunisti in tutto il mondo per la rivoluzione comunista internazionale, a Mosca dal 2 marzo 1919 si tenne il Primo Congresso dell’Internazionale comunista. Poterono parteciparvi 51 delegati di 30 paesi, dopo aver superato notevoli difficoltà di viaggio e impedimenti delle polizie.

Dal 1918 in quasi tutti i paesi europei, specialmente in quelli direttamente coinvolti nel conflitto mondiale, si erano svolti scioperi e manifestazioni contro la guerra e per la profonda crisi economica che aveva generato e che, aggravata, colpiva il proletariato, sia nei paesi vincitori sia nei vinti. Anche lontano dai fronti, negli Stati Uniti si ebbe a Seattle un esteso sciopero generale e in Canada violente agitazioni costrinsero il governatore a insistere con Londra a rinunciare all’utilizzo di truppe canadesi nella guerra civile in Russia.

Anton Denikin, comandante in capo delle forze controrivoluzionarie, dopo ben tre insuccessi nel conquistare Caricyn (poi Stalingrado), accantonò al momento le offensive contro la strategica città sul Volga e privilegiò sul fronte sud la campagna per il controllo del ricco bacino minerario e industriale del Donbass. Stabilì quindi un nuovo assetto che teneva conto del mutato impegno nella guerra civile russa delle forze dell’Intesa, principalmente franco-britanniche, a seguito dell’uscita della Germania dalla guerra e dal conseguente ritiro delle truppe tedesche dall’Ucraina, che aveva agevolato l’esercito rosso nell’occupazione di Kiev il 6 febbraio 1919.

Le forze rivoluzionarie erano così posizionate: il fianco occidentale sul Mar d’Azov era tenuto dalla 2ª Armata ucraina, cui si aggiunsero le formazioni dell’Esercito Rivoluzionario Insurrezionale dell’Ucraina, che insieme costituirono la 14ª Armata rossa.

Brevemente abbiamo riferito dell’espandersi in Ucraina di queste bande insurrezionaliste. Erano sorte come risposta armata all’attribuzione di una parte dell’Ucraina agli Imperi Centrali, sancita dal trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918. L’Armata Nera, ovvero la formazione anarchica diretta da Machno, che all’inizio del 1919 contava 15.000 uomini, tutti volontari, organizzati in cavalleria, fanteria e artiglieria, arrivò a disporre nel dicembre dello stesso anno di 83.000 fanti, 20.135 cavalieri, 1.435 mitragliatrici, 118 cannoni, 7 treni corazzati e alcuni carri blindati.

Furono riorganizzati per operare congiuntamente all’Armata rossa. Ma complesso e tumultuoso fu il rapporto con questi anarchici, che combattevano stringendo mutevoli alleanze temporanee. Per la loro concezione tendevano all’auto-amministrazione economica e politica delle varie comunità produttive, autonome e federate, secondo il principio egualitario e antiautoritario, che non si conciliava per nulla con la totale centralizzazione della dittatura proletaria. Infine, dopo aspri contrasti e scontri, furono sconfitti nel 1921 da una spedizione bolscevica guidata da M. Frunze.

Occorreva sfruttare subito il fallimento dei tre tentativi dei cosacchi bianchi di assumere il controllo dello snodo di Caricyn e lo sfaldamento delle loro formazioni, che in buona parte si erano arrese, anche senza combattere, per il loro indebolimento e mancanza di ogni tipo di rifornimenti.

Vācietis, a capo del Consiglio Militare Rivoluzionario (RVSR), intravide ormai prossima la vittoria finale sul fronte meridionale e la conquista del Donbass, dell’intera regione del Don e del Caucaso settentrionale, fino allora esclusi dai piani. La precedente impostazione puntava ad aggirare i bianchi più a nord presso lo snodo di Millerovo, senza inoltrarsi nel Donbass, così però privandosi dell’aiuto del consistente numero di operai di quella regione industrializzata, tramite una loro insurrezione alle spalle dei bianchi.

Il nuovo assetto difensivo dei bianchi volto a difendere il Donbass, ritenuto ormai l’epicentro di tutto il fronte sud, costrinse però Vācietis a rettificare i piani concentrando velocemente le forze disponibili a occidente, verso il Donbass, per un’offensiva su larga scala.

Ma il cambio di direzione non fu affatto semplice per le esauste divisioni sovietiche, in assenza di linee ferroviarie, che i cosacchi in ritirata avevano distrutto.

Per la manovra sovietica fu richiesto un maggior coinvolgimento delle truppe di Antonov-Ovseenko e del Gruppo anarchico. Gittis, il comandante del fronte rosso di quel settore, approntò il nuovo dispiegamento generale, che avvenne sostenendo diversi scontri, con alterne fortune dovute anche a un anticipato scioglimento del ghiaccio sul Donec e sui suoi maggiori affluenti, che di fatto interpose una barriera di fango tra le opposte linee.

Dopo i vari posizionamenti, a metà di marzo la linea di partenza per l’offensiva per il Donbass seguiva all’incirca il corso del Donec, dove erano confluiti circa 130.000-150.000 truppe sovietiche contro circa 45.000-55.000 controrivoluzionarie.

Fu deciso per il 17 marzo un attacco delle unità che potevano operare senza l’impedimento del fiume. Questo permise di occupare importanti centri intorno al Donec.

Le forze di Antonov-Ovseenko avanzarono dall’Ucraina fino al Mar d’Azov, costringendo il Corpo di Crimea a ritirarsi nella penisola, lasciando senza protezione il fianco sinistro delle forze bianche di Mai-Majewski lungo la costa presso Mariupol, che fu occupata dagli anarchici di Machno.

Gittis, cercando di sfruttare al meglio la situazione e la precaria superiorità numerica del momento, concepì un nuovo piano, non privo di rischi, per portare, dopo un rapido spostamento di consistenti truppe, comprendente anche la brigata anarchica di Machno, un poderoso attacco al fianco delle truppe di Mai-Majewski, mentre una esigua formazione rossa avrebbe dovuto attaccare i bianchi stanziati a Lugansk.

Inizialmente il piano funzionò e le formazioni di Mai-Majewski furono costrette a ritirarsi dalle loro posizioni, ma quando il comando bianco capì che davanti a Lugansk i rossi erano in evidente inferiorità numerica, Denikin ordinò un’immediata controffensiva in forze in quel settore, producendo tra il 27 e 28 marzo, uno sfondamento nelle linee rosse. Il vigoroso e vincente attacco bianco sulla debole e secondaria posizione rossa disarticolò il piano di Gittis, che fu obbligato a riposizionare velocemente le truppe per arginare l’estesa falla che si era creata presso Lugansk. Da questa la Cavalleria del Caucaso di Škuro era penetrata attaccando alle spalle le retrovie del gruppo d’attacco sovietico, obbligando Gittis addirittura a sguarnire la prima linea d’attacco per contrastarli. Nelle loro scorribande i cosacchi di Škuro seminarono terrore e distruzione nei villaggi e si procurarono un discreto bottino militare e 5.000 prigionieri.

A seguito di questi eventi negativi le forze rosse furono costrette a lasciare parte del terreno guadagnato. Altri attacchi dei “lupi” di Škuro costrinsero l’Armata Nera degli anarchici a lasciare Mariupol. Si ristabilì la situazione di partenza.

Il fallimento del piano di Gittis fu anche determinato dalle forti ribellioni nelle retrovie, dove numerose comunità dei villaggi cosacchi attorno a Vëšenskaja e Kazanskaja, che già si erano ribellate contro le truppe di Krasnov, ora si rivoltavano contro i bolscevichi, soprattutto per le requisizioni di derrate. Il tentativo bolscevico di assumere il completo controllo della situazione provocò in poche settimane migliaia di uccisioni. Trotzki in “Ribellione nelle retrovie”, del 12 maggio 1919, scrisse: «La ribellione di una parte dei cosacchi dura già da alcune settimane. È stata provocata dagli ufficiali controrivoluzionari, agenti di Denikin, ed è sostenuta dai kulaki cosacchi. I kulaki si sono trascinati un consistente gruppo di contadini cosacchi medi. È molto probabile che in certi casi i cosacchi abbiano dovuto sopportare ingiustizie da parte di certe unità militari di passaggio o di certi rappresentanti delle autorità sovietiche. Gli agenti di Denikin hanno saputo servirsene per attizzare la fiamma della rivolta (…) Una ribellione nelle retrovie è per il soldato come un ascesso al braccio per l’operaio (…) Per questo il nostro compito più urgente è quello di ripulire il Don dai sobillatori e di reprimere le sommosse» (Scritti militari I - La rivoluzione armata).

Ad aprile Gittis organizzò un nuovo attacco al Donbass principalmente muovendo da est la 9ª Armata. L’articolata manovra, approfittando della ritirata delle acque del Donec, prevedeva che alcune divisioni, appena riposizionate a ridosso di Millerovo, colpissero il fianco destro dei bianchi, già impegnati al contrasto della 8ª Armata, permettendo così alla 9ª di avanzare in profondità oltre il Donec. Purtroppo la 9ª Armata si mosse con lentezza e confusione; invece di cooperare con la 8ª secondo i piani, avanzò disordinatamente, attraversò il Donec accontentandosi di piccoli risultati tattici, per altro nemmeno ben sfruttati. Le altre divisioni rosse della complessa manovra, che si trovarono oltre il fiume, con i fianchi scoperti e sotto i contrattacchi dei bianchi, furono costrette a ritornare sulle posizioni di partenza. I bianchi ne approfittarono per rigettare i rossi al di là del Donec, occupare Lugansk e da lì cercare di controllare il passaggio a nord del fiume. Furono però fermati dalla testa di ponte della 8ª Armata che li colpiva ai fianchi da Kamenskaja.

Questa fu la prima pesante sconfitta, non solamente sul piano militare, dopo mesi di onerose offensive rosse nel Donbass. Trotzki impose a Gittis di organizzare il prima possibile un altro vasto attacco per riprendere Lugansk e penetrare a fondo nel Donbass.



Divenire nella storia dell’acciaio

Alla riunione siamo tornati a un tema che il nostro partito ha indagato dagli anni cinquanta. Attingendo ai vecchi nostri studi e a statistiche recenti, abbiamo ripristinato i quadri numerici delle produzioni annue di acciaio, dal 1860 ad oggi, per Gran Bretagna, Francia, Germania, Stati Uniti, Giappone, Russia, Italia, Cina e per il totale mondiale.

Oggi, mentre il ribollire del capitalismo globale scuote tutto il mondo, dopo lo sfaldarsi dell’Unione Sovietica e il rapido aumento delle produzioni in Asia, soprattutto in Cina, abbiamo assistito a un esasperarsi della crisi, che può essere risolta solo attraverso una guerra globale.

Mentre le economie occidentali declinano, continua lo loro contesa per il controllo delle ricchezze naturali in tutto il pianeta. Lo Stato cinese cerca il dominio dei mari vicini. In Africa nazioni come la Cina e la Russia competono con quelle occidentali per influenzare le economie locali. Le oligarchie mediorientali difendono la rendita proveniente dalle loro risorse petrolifere, cercando di assicurarsene anche la lavorazione. In America Latina si assiste a una maggiore estrazione di risorse grezze. Così la preparazione alla guerra e la continuazione dei conflitti per procura continuano, mutilando e distruggendo la classe operaia.

Se in passato era un orgoglio nazionale ostentare i successi dell’industria siderurgica del proprio Paese, ora i borghesi dei vecchi capitalismi sono costretti ad ammettere che debbono acquistare i prodotti della metallurgia lì dove costano meno. Economie nazionali in declino industriale cedono il passo sul mercato internazionale alle nuove economie nazionali emergenti.

Ma ovunque questa capacità produttiva in continua crescita è segnata da un costante rallentamento del ritmo relativo di questo aumento, il che dimostra che nemmeno le nuove economie emergenti sono immuni dallo stesso declino che hanno vissuto i Paesi occidentali.

In questo dopoguerra si sono verificati due cambiamenti drammatici nella industria siderurgica, che abbiamo misurato con i dati delle produzioni e della loro variazione percentuale annua. Entrambe queste serie numeriche hanno segnato profonde crisi economiche, con effetti duraturi sul tasso di espansione produttiva in generale e sul tasso del profitto dell’industria.

Dai grafici sulla produzione si nota come le principali economie occidentali abbiano avuto una diminuzione della produzione di acciaio, o al più un arresto nella crescita. Al contrario, Cina, Giappone e Russia non sono stati dapprima colpiti in modo così drammatico come gli altri capitalismi. Questo perché la produzione di acciaio si è spostata dalle vecchie economie a quelle emergenti, dalla Cina al Messico. Questi dati saranno esposti e meglio analizzati in un secondo momento.

Abbiamo confrontato le produzioni e gli incrementi degli scorsi 50 anni con la linea temporale dei precedenti 150.

Dal 1860 al 1910 le principali economie occidentali sono in fase di sviluppo e la crescita segue un andamento più o meno esponenziale. Fino alla prima guerra mondiale, la produzione di acciaio ha continuato a crescere.

Nel periodo tra le due guerre si è visto che la produzione ha continuato a seguire questa curva esponenziale negli Stati Uniti, mentre gli europei come l’Inghilterra, la Francia, la Germania e l’Italia registrarono una stagnazione. Invece Cina, Giappone e Unione Sovietica segnavano un aumento costante della produzione, proprio come le economie occidentali dal 1860 al 1910.

La preparazione alla seconda guerra mondiale richiese un aumento della produzione delle industrie siderurgiche in tutto il mondo.

Se dopo la prima guerra mondiale le principali nazioni europee avevano registrato una stagnazione, un calo della produzione si è verificato dopo l’inferno della seconda guerra mondiale. Stavolta la stagnazione si è verificata anche negli Stati Uniti. Non si è avuta in Unione Sovietica, Cina e Giappone.

Le produzioni di Cina e Giappone non hanno subito superato quelle occidentali in questo periodo. Ma, nel 1949, con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, si assiste a un’esplosione della produzione siderurgica che continuerà a crescere in modo esponenziale, come per tutte le produzioni.

Ma già negli anni ‘70 i vecchi capitalismi accusarono la crisi provocata dalla sovrapproduzione. Mentre la Cina continuava a registrare una crescita esponenziale della produzione siderurgica, in Giappone invece non aumentava più. Confrontando la crescita della Cina con quella degli Stati Uniti, si nota l’improvviso calo della produzione statunitense a metà degli anni ‘70, mentre la produzione di acciaio cinese continuava a seguire una curva esponenziale. Anche in Giappone si nota il fermarsi della crescita della produzione di acciaio.

Alla riunione sono stati mostrati i grafici relativi.

Le siderurgie occidentali continueranno poi a registrare un rallentamento del tasso di crescita della produzione. Anche il Giappone, dopo gli anni ‘80, avrebbe presto assistito a un drammatico calo della produzione nazionale, e tutti i guadagni ottenuti dopo la seconda guerra mondiale svaniranno.

Dall’inizio degli anni 2000 tutte le economie occidentali hanno visto la loro produzione rimanere costante o addirittura contrarsi. Nel frattempo, la Cina ha continuato a crescere. Ma anche questo a un ritmo sempre meno veloce.

Il tasso di incremento della produzione è direttamente correlato al tasso di profitto. Non è che la produzione siderurgica capitalista in un dato momento cessa di crescere, come cresce sempre l’accumulazione del capitale all’interno dell’economia globale, ma la quantità di questo accumulo, che aumenta di anno in anno, è relativamente sempre minore rispetto alla massa della produzione. E questo per ogni economia nazionale.

Sono stati mostrati alla riunione dei grafici che lo dimostrano.

Di fronte al calo del tasso del profitto, le borghesie europee, giapponesi e nordamericane hanno reagito con ristrutturazioni e subappalti (nel processo, i subappaltatori sono costretti a rinunciare a parte dei loro profitti per ottenere la commessa) e delocalizzando parte della produzione in Paesi dove i costi sono minori. Il Messico, ad esempio, è diventato un centro chiave per la produzione di automobili destinate al mercato nordamericano.

A partire dagli anni 2000, Stati Uniti, Giappone e Germania hanno investito somme colossali in Cina, trasformandola nella nuova “officina del mondo”. Tra l’altro la Cina è diventata il primo produttore mondiale di acciaio. Fornisce parte del fabbisogno di acciaio all’Europa e agli Stati Uniti.

Il marxismo non prevede una crescita del capitalismo seguita da un declino, ma piuttosto il contemporaneo potenziamento dialettico della massa di forze produttive che il capitalismo controlla e della loro illimitata accumulazione e concentrazione, che avviene contemporaneamente alla reazione antagonista delle forze dominate, cioè della classe operaia. Il potenziale produttivo ed economico generale aumenta fino a quando l’equilibrio viene sconvolto e si verifica una fase esplosiva e rivoluzionaria: nel corso di un periodo estremamente breve e intenso le vecchie forme di produzione crollano e le forze produttive diminuiscono, aprendo la strada a un nuovo assetto e a una nuova e più potente ascesa.

Ma, mentre la produzione si espande sempre, il tasso relativo di questa produzione è sempre in diminuzione. Così, se nel 1943 gli Stati Uniti hanno prodotto quasi 80 milioni di tonnellate di acciaio, per mantenere l’aumento del 3,9% del 1943 il Paese nel 1944 avrebbe dovuto produrre 83,74 milioni di tonnellate. Naturalmente non è stato così: nel 1943 la produzione è aumentata solo del 3,3%, benché la produzione sia stata di 1,3 milioni di tonnellate in più rispetto al 1942.

Inoltre, all’interno di una data economia nazionale e di un dato ramo produttivo, si può osservare, non solo che il tasso di aumento della produzione di acciaio diminuisce, ma anche un costante rallentamento assoluto della produzione.

Come tendenza storica della produzione di acciaio, per esempio negli Stati Uniti, il tasso di incremento non solo diminuisce, ma va in negativo. Ciò significa che, indipendentemente dalla quantità di produzione annua, l’economia non sarà in grado di produrre a un volume uguale a quello del passato. Questo tipo di effetto si riscontra in tutti i Paesi analizzati: Per gli Stati Uniti questo punto di svolta si è verificato nel 1980, per il Giappone nel 2009.

Assistiamo quindi da un lato a un’esplosione della produzione, dall’altro a un rallentamento del ritmo di tale produzione. Possiamo dire che la tendenza della produzione aumenta in modo esponenziale, poiché il capitalismo cerca sempre di produrre di più. Tuttavia si impone la tendenza al rallentamento del tasso di incremento della produzione, che corrisponde al tasso del profitto. Questa tendenza è difficile da distinguere attraverso il rumore creato dalle contingenti oscillazioni delle produzioni, ma come tendenza inesorabile questo tasso di incremento è in diminuzione. E a un certo punto la produzione ristagna e si verifica una crisi.

È una crescita che però comporta, nel lungo periodo, una diminuzione del tasso. Ciò si traduce in crisi economiche periodiche.

La perdita di produzione di una particolare merce può, ovviamente, essere compensata attraverso la sua importazione dall’estero. E naturalmente nel caso che quella certa merce sia ancora socialmente necessaria e che il prodotto non sia diventato obsoleto. Questo è ovviamente il caso dell’acciaio, del quale c’è sempre più bisogno per produrre macchine, edifici, infrastrutture. E sempre e comunque armi da guerra.



Le ideologie della borghesia
Nel medioevo

Siamo ancora alla preistoria dell’ideologia borghese. Il partito non è un’accademia di studi storici o filosofici, e neanche di studi marxisti. Ciò che ci interessa è quanto delle concezioni del XIII e XIV secolo è stato ritenuto utile e fatto proprio dalla nascente borghesia. Il tutto indipendentemente dalla fedeltà di fatto alle dottrine in questione, quasi sempre stravolte a seconda delle necessità delle varie società nelle varie epoche.


La Scolastica

La Scolastica aveva per compito comprendere la Verità Rivelata grazie all’attività razionale. Non fidandosi della sola ragione, fa appello anche alla tradizione religiosa, alle auctoritates, che sono la decisione di un Concilio, la sentenza di un padre della Chiesa, un detto biblico. Se questo era un limite era al tempo stesso un pregio, e cioè la manifestazione del carattere comune e non individuale della ricerca, provato anche dal fatto che spesso gli scritti non erano firmati. Su questo siamo perfettamente d’accordo: la proprietà intellettuale è la forma più spregevole di proprietà privata, che priva la specie umana dell’utilizzo dei suoi migliori risultati. Anche su questo non abbiamo inventato nulla: abbiamo recuperato, dialetticamente, una parte della nostra storia, della storia della specie, storia che, come abbiamo già scritto, rivendichiamo per intero dalla clava al missile.

Con Agostino di Tagaste il neoplatonismo viene messo a base filosofica del cristianesimo. Il neoplatonismo, con lo stoicismo, resta alla base del cristianesimo per circa otto secoli, fino alla riscoperta di Aristotele nel XIII secolo.


La riscoperta di Aristotele

Nel 1210 il Concilio provinciale parigino vietò gli scritti fisici di Aristotele. Solo con Alberto Magno di Colonia e con Tommaso d’Aquino l’aristotelismo viene inglobato nella visione cristiana. Tommaso depurò Aristotele da tutto ciò che era in contrasto con la religione cristiana, della quale divenne la struttura filosofica portante, la dottrina ufficiale della Chiesa cattolica.

La Chiesa si è adeguata a un mondo che vedeva la nascita di una nuova classe, la borghesia, e il lento declino del feudalesimo e conseguentemente delle sue basi ideologiche. Il “tomismo” è stato l’ideologia di un mondo ancora feudale, ma in misura minore del precedente.

Ciò che è ovvio, ma solo per noi marxisti, è che tali concezioni non hanno trasformato il loro mondo, ma sono state il riflesso di tali trasformazioni.

L’interesse per l’indagine della natura, stimolato dai testi aristotelici, è stato un passo sulla strada della rivendicazione di una maggiore autonomia da parte della nascente borghesia. Autonomia e fiducia in sé stessa nei confronti di una tradizione agostiniana per la quale la conoscenza del mondo era cosa di minima importanza, dato che Dio era dentro l’uomo e quindi vera conoscenza era considerata quella interiore.

Inoltre il ragionare in termini di causa ed effetto portava a vedere un cosmo retto da leggi necessarie, che in alcuni autori potevano identificarsi con lo stesso Dio. Un Dio diverso da quello della tradizione biblica, a cui di fatto la necessità negava i caratteri dell’onnipotenza e della libertà assoluta, fino a renderlo una “ipotesi inutile”, come nella risposta attribuita a Laplace nei confronti di Napoleone.

Importante è stata la conoscenza della “Politica” di Aristotele, nella seconda metà del XIII secolo. Qui troviamo che le comunità umane sono rette dalle loro proprie leggi, dalle loro leggi di natura, senza il bisogno di introdurvi la legge divina. Se nei secoli precedenti la legge di natura era parte della legge divina, da cui non si differenziava, ora guadagna una sua autonomia, più o meno ampia. Lo stesso Tommaso d’Aquino, per il quale la cosa importante è il rapporto dell’uomo con Dio, considerando di scarsa importanza il rapporto degli uomini tra loro, riguardo alla politica accetta Aristotele così come è.

C’è quindi un ambito, la politica, regolato interamente dalla legge di natura, dove non è necessario introdurre la legge divina.

Il fatto che alcuni secoli dopo la borghesia si sia impossessata di un “diritto di natura” molto limitato e di scarsa importanza, ampliandolo enormemente e facendone la propria ideologia rivoluzionaria, è attribuibile a una realtà di classe che travolge e stravolge, insieme al vecchio mondo, anche le vecchie ideologie. Nell’etica e nella politica di Aristotele la borghesia del XIV e XV secolo, pur restando sicuramente cristiana, trova il modo di affermare una parziale autonomia rispetto alla Chiesa e al mondo feudale che questa rappresenta.


Averroè e il “libero pensiero“

Ibn Rushd, chiamato dai latini Averroè, nasce a Cordova nel 1126; era medico, filosofo e giurista. È arrivato fino ad oggi il mito di un Averroè razionalista se non ateo. Sosteneva una rigida distinzione tra ambito della fede e ambito della ragione. La teoria della “doppia verità”, a lui erroneamente attribuita, in realtà era confacente alla borghesia: mentre in quanto cristiani condannavano il prestito a interesse, considerato sempre usura, in quanto borghesi banchieri o commercianti lo praticavano.

Noi marxisti siamo d’accordo con Averroè: anche per noi “la retta ragione illumina la retta fede e viceversa”. La nostra scienza, senza la nostra fede comunista, non sarebbe nulla. Non è neanche possibile scinderle, se non facendo un’astrazione. Se la fede e il sentimento comunista senza scienza sono ciechi e vanno a sbattere, una scienza marxista, separata dalla fede e dal sentimento comunisti, somiglierebbe ad un Golem. Come il Golem della tradizione ebraica mitteleuropea, sarebbe priva di direzione: una sorta di fantomatica pura scienza, o pura tecnica, destinata a rivolgersi contro il suo creatore.

L’averroismo nel mondo cristiano era la concezione di alcuni filosofi, utile alla nascente borghesia, per cui la rigida separazione tra ambito della ragione e ambito della fede, tra indagine della natura e verità rivelata, era lo strumento per affermare un’autonomia tra “città terrena” e “città di Dio”. Tutto ciò significava maggiore autonomia della borghesia dal potere della Chiesa e dai rapporti feudali che questa incarnava. Mentre in Aristotele, Al Farabi e Averroè, la felicità consiste nell’arrivare alla conoscenza, e quindi alla contemplazione, ora quest’ultima diviene propria della “città di Dio”, mentre la conoscenza ha sempre più per fine la “città terrena”, la politica, e la produzione della ricchezza.


Occam e il Nominalismo

Nella sua polemica contro la metafisica aristotelica e neoplatonica Occam arriva a negare lo stesso principio di causalità. Se questo aspetto non va in direzione della scienza, va in quella direzione lo sperimentalismo, che prende il posto dell’apriorismo delle idee platoniche e delle categorie aristoteliche. Ciò che viene fatto proprio dalla borghesia non è la negazione del principio di causalità, e solo in parte lo sperimentalismo, ma il nominalismo che ne è alla base.

I “nominalisti” negano realtà ai concetti universali, considerandoli dei concetti, delle forme verbali, dei segni. La scienza non ha più per oggetto l’universale ma l’individuale, la cui conoscenza può essere fondata solo sull’esperienza. Il nominalismo è un passo in direzione del materialismo.

Averroismo e occamismo hanno portato un attacco, da due lati opposti, alla Scolastica, contribuendo al suo dissolvimento. L’occamismo, con il suo nominalismo e l’importanza attribuita all’esperienza, è stato tra i due il più dirompente.

L’individualismo, che Occam riprende anche da Duns Scoto, è stato sicuramente l’aspetto principale ripreso da una borghesia che si è disinteressata di altri aspetti del suo pensiero. Collegate al nominalismo di Occam sono anche le sue concezioni politiche, fatte proprie dalla borghesia, per cui la Chiesa non deve avere pretese di dominio temporale: la rigida separazione del piano della fede da quello della ragione si traduce in una posizione filo-imperiale, e in una posizione per cui la verità non risiede più nella Chiesa, intesa come gerarchia o nel pontefice, ma nella Chiesa intesa come totalità dei credenti; una totalità formata dalla realtà dei singoli cristiani. Tali concezioni erano funzionali a tutte le classi che mal sopportavano la struttura feudale della società: alla borghesia come ai contadini poveri. E a volte anche a re e nobili in contrasto con il potere ecclesiastico.


Il corso del capitalismo globale
Uno sguardo d’insieme

Dopo la recessione del 2019-20 nel 2021 la produzione industriale ha registrato una forte ripresa. Questa è avvenuta al costo di un caos generale, che ha portato a un’elevata inflazione dei prezzi delle materie prime, dell’energia e dei prodotti agricoli. La risposta delle banche centrali – la Fed, la BCE e la Banca d’Inghilterra – è stata aumentare gradualmente i tassi di interesse fino a raggiungere nel 2023 il 5% e il 5,5% per la Fed e il 4,5% e il 4,75% per la BCE.

Il risultato combinato dell’inflazione e dell’aumento dei tassi di interesse è stato non solo un forte rallentamento dei consumi delle famiglie e dell’attività economica, ma un ritorno alla recessione. Questa si è riflessa sui Paesi che fungevano da subappaltatori dei grandi Paesi imperialisti, che vi hanno trasferito parte della loro industria. La Cina, ad esempio, il nuovo colosso imperialista, è in recessione dal 2019; lo sono anche la Polonia e il Belgio, che insieme ai Paesi Bassi producono tutta una serie di beni che i vecchi Paesi imperialisti come Gran Bretagna, Francia e Italia non producono più. Lo stesso vale per il Messico, per il Nord America e così via. Solo la Turchia, con la sua moneta svalutata, sembra evitare per il momento la recessione.

L’aumento dei tassi d’interesse ha portato alla svalutazione del 20-30% di migliaia di miliardi di dollari di obbligazioni, con tassi d’interesse prossimi allo zero, se non negativi, provocando il crollo di importanti banche regionali negli Stati Uniti e del Credit Suisse, la seconda banca svizzera.

Questo stesso aumento dei tassi di interesse, rendendo più difficile l’accesso al credito, sta portando a un numero record di fallimenti di imprese in tutto il mondo. In Francia il numero di fallimenti di imprese è aumentato del 35% nel 2023, fino a 55.000, e si prevede che salirà a oltre 60.000 nel 2024. Negli Stati Uniti l’aumento dei fallimenti è stato del 40% nel 2023 e si prevede un aumento del 28% nel 2024. In Germania e nei Paesi Bassi i fallimenti sono aumentati rispettivamente del 23% e del 52%. Il 2024 è iniziato con un livello di insolvenze più alto a livello mondiale rispetto a prima della pandemia. Secondo le statistiche della compagnia assicurativa Allianz Trade, il numero di aziende in difficoltà, cioè che hanno difficoltà a ripagare i propri debiti, è del 15% nel Regno Unito, del 14% in Francia, del 9% in Italia e del 7% in Germania.

Dalla grande crisi internazionale del 1974-75, il capitalismo mondiale è andato avanti sulla base del debito, un livello di indebitamento che si è accelerato dopo la grande recessione internazionale del 2008-2009. Nel 2022, alcuni dei debiti contratti durante l’epidemia sono stati ripagati. Una tabella dimostrava che, a parte gli Stati Uniti e la Cina, che hanno continuato ad aumentare il debito (+6% per gli Stati Uniti e +14% per la Cina) tutti gli altri Paesi, tranne la Russia, hanno ridotto il loro debito. La Russia ha invece aumentato il suo debito del 25% a causa della guerra imperialista nella quale è coinvolta. Questo le costerà caro perché le sue riserve valutarie sono al minimo e sarà costretta a tornare a indebitarsi con il suo “amico” cinese, a tassi non certo “amichevoli”.

Tuttavia questa riduzione dell’impegno finanziario è solo temporaneo: la marcia in avanti del debito è destinata a riprendere inesorabilmente. È in questo contesto che il governo statunitense deve rinnovare il suo colossale debito in scadenza, pari a 8.900 miliardi di dollari. Sebbene il dollaro sia una valuta rifugio e attragga capitali da tutto il mondo grazie ai suoi alti tassi d’interesse, non è affatto certo che la transazione avvenga senza difficoltà, poiché sempre meno istituzioni straniere partecipano a questi acquisti. Questi rappresentano ormai solo il 10% del mercato. Prima del 2015 gli investitori stranieri acquistavano il 40% dei “Treasury” americani. La Cina, ad esempio, detiene solo il 3% del debito statunitense. E il Giappone non ha più le risorse per assorbire gran parte del debito statunitense. Quindi un crollo non è impossibile!

Un’altra scadenza: 4.200 miliardi di dollari di prestiti immobiliari, con tassi di interesse molto bassi, depositati nelle banche regionali, stanno per scadere e devono essere rinegoziati nel 2024. Ma i tassi non sono più gli stessi, quindi il rischio di fallimento è alto. Possiamo quindi aspettarci una cascata di fallimenti bancari negli Stati Uniti.

Quanto all’Europa, entro il 2024 dovrà prendere in prestito 1240 miliardi di euro per soddisfare le esigenze dei suoi Stati membri. A un certo punto, il denaro diventerà scarso e molto costoso, e l’intero schema Ponzi crollerà. Ma prima che ciò accada, le banche centrali saranno costrette a ricorrere nuovamente al “quantitative easing”, finché sarà possibile.

Uno sguardo alla curva dell’inflazione mostra che l’inflazione è scesa al 3,4% negli Stati Uniti e al 2,4% in media nella zona euro. In Cina, dopo incrementi negativi, è allo 0,3%. In Europa, l’inflazione è scesa al 3,8% nel Regno Unito, mentre è al 2,2% in Francia e Germania e allo 0,8% in Italia. L’Italia è sull’orlo della deflazione.

Con l’incombente guerra commerciale con la Cina, che ha un gigantesco surplus in tutti i settori, è probabile che il processo deflazionistico ritorni. Di conseguenza, è probabile che la FED, la BCE e la Banca d’Inghilterra comincino a tagliare i tassi d’interesse da qui alla fine dell’anno. Questo darà nuova linfa all’accumulo di capitale nei settori più colpiti, come quello delle costruzioni.

È stato quindi dato un rapido sguardo alle produzioni industriali, cuore dell’accumulazione di capitale, nei principali Paesi imperialisti.

Dopo un brusco rallentamento, la produzione industriale degli Stati Uniti è ora praticamente in una lieve recessione, con valori compresi tra -0,1% e -0,8%. Rispetto al massimo raggiunto nel 2007, l’indice della produzione industriale mostra ancora un leggero aumento, del +1,4%. Tuttavia, se consideriamo solo la produzione manifatturiera, notiamo un calo 7,5%. In effetti, come la maggior parte dei vecchi Paesi imperialisti, la produzione manifatturiera non ha mai recuperato il livello del 2007. Ciò che non viene più prodotto negli Stati Uniti viene prodotto altrove, in Cina o in Messico.

Si noti il calo degli incrementi nel passaggio dal trentennio del “boom” al ciclo successivo: negli Stati Uniti l’incremento si dimezza, passando dal 4,7% al 2,4%, risultato della tendenza al ribasso del tasso di profitto. Questo calo è ancora più marcato se si considerano i cicli brevi, anche se c’è stata una temporanea ripresa nel ciclo 1990-2000. Un altro aspetto degno di nota è il numero di recessioni che hanno caratterizzato l’accumulazione del dopoguerra negli Usa: quattro, contro una per Francia, Germania e Italia, e nessuna recessione per il Giappone durante questo periodo. Tutti e quattro questi Paesi hanno sperimentato grandi distruzioni durante la guerra, che hanno portato a un’accumulazione più vigorosa del capitale e praticamente a nessuna crisi di sovrapproduzione.

Dall’inizio degli anni ‘90, il capitalismo giapponese è stato sostenuto dal “quantitative easing” e, naturalmente, dalla delocalizzazione di parte della produzione industriale nel Sud-Est asiatico e in Cina. I suoi tassi di interesse rimangono vicini allo zero, se non negativi, perché con un debito del settore non finanziario del 413% del PIL e un debito pubblico del 263%, non può uscire dal “quantitative easing” senza crollare. Lo yen è solo l’ombra di quello che era, scambiato a 160 per dollaro! Nonostante tutto ciò, l’inflazione, che fino a poco tempo fa era deflazionistica, rimane moderata e si attesta al 2,7% a febbraio. Ciò si spiega con il fatto che, essendo i salari molto bassi, i lavoratori non corrono a comprare una berlina o un appartamento; al contrario, risparmiano e consumano molto poco. In termini di stipendi, ad esempio, un ingegnere informatico costa oggi il 35% in meno a Tokyo rispetto a Ho Chi Minh, in Vietnam, e il 70% in meno rispetto alla Silicon Valley, in California.

Il risultato è una recessione, con una contrazione nel 2023 di 1,4% rispetto al 2022, ma del 19% rispetto al 2007. Nei cicli lunghi, il calo è impressionante: da una crescita media annua del 13% durante i trenta anni dopo guerra, si passa all’1,9%! Il calo è ancora più marcato nei cicli brevi, dal 4% del ciclo 1985-1991 allo 0,8% dell’ultimo ciclo 1997-2007. E da allora la produzione industriale è in declino.

La Germania, che nel 2018 è riuscita a superare del 7,5% il massimo raggiunto nel 2008, si ritrova, come tutti gli altri, in recessione, con un -1,2% nel 2023 rispetto al 2022, ma un -9% rispetto al 2018. E anche in questo caso la caduta da ciclo in ciclo è molto evidente: dalla crescita media annua del 7,3% nei trent’anni del dopoguerra, all’1,6% per il ciclo dal 1973 al 2008, per scendere infine allo 0,7% per l’ultimo ciclo.

Se analizzassimo i vari Paesi imperialisti uno per uno troveremmo lo stesso panorama: ad esempio, il Belgio, che nel 2021 aveva superato il massimo del 2008 del 38%, si ritrova con un calo della produzione del -7,5% nel 2023, che non è poco. La Polonia, che nel 2022 era ancora alle stelle con una crescita del 10%, nel 2023 si ritrova in recessione con un -1,2%. La Corea ha regredito del 2,6% nel 2023 e quella dell’Italia del 2,5%.

Questa recessione generale si riflette sul commercio internazionale dei grandi capitalismi, con un forte calo delle esportazioni e un calo ancora più marcato delle importazioni. Possiamo quindi aspettarci un’intensificazione della guerra commerciale, soprattutto con la Cina costretta a scaricare le sue enormi eccedenze sul mercato internazionale.

Questo sistema reggerà fino a quando non si verificherà un crack finanziario generale, irreversibile, che lo farà crollare. Solo allora si aprirà la strada per la rinascita del movimento comunista internazionale.

Integrazioni alla questione agraria

Dopo che i compagni hanno fornito il testo di Engels “Storia e lingua dei Germani”, si è ritenuto ampliare la prima parte del lavoro.

Federico Engels ricorda la presenza dell’uomo in Europa fin dal periodo fra le due ultime glaciazioni: «Dopo la seconda glaciazione, col clima che diventa progressivamente più mite, l’uomo compare in tutta Europa, nell’Africa settentrionale e nell’Asia minore, fino all’India. Gli utensili di quell’epoca indicano un grado assai basso di civiltà: coltelli di pietra molto rozzi, acce o asce di pietra a forma di pera, che venivano usate senza manico, raschiatoi per pulire le pelli di animali, trapani, tutto di balenite: all’incirca il grado di sviluppo degli attuali indigeni dell’Australia. In nessuna delle regioni dove essi comparvero, nemmeno in India, sono conservate razze umane che possono essere considerate come i loro prosecutori dell’odierna umanità».

Nelle caverne dell’Inghilterra, della Francia, della Svizzera, del Belgio e della Germania meridionale, si possono trovare ancora gli utensili di questi uomini scomparsi, ma di un periodo più recente, più abilmente lavorati e di diversi materiali: «Questi uomini sono verosimilmente arrivati da nord-est: i loro ultimi resti oggi sembrano essere gli Eschimesi (...) Anche questi, finora documentati solo a nord dei Pirenei e delle Alpi, sono scomparsi dall’Europa. Come i Pellirosse americani sono stati respinti, ancora nel secolo passato, verso l’estremo nord con una spietata guerra di annientamento, così sembra che anche in Europa la nuova razza che ora compare abbia respinto progressivamente gli Eschimesi e infine sterminati, senza essersi fusa con essi».

«Questa nuova razza rispetto ai predecessori si trovava a un livello di civiltà notevolmente superiore. Conosceva l’agricoltura; aveva animali domestici (cane, cavallo, pecora, capra, maiale, bovini). Conosceva la ceramica, sapeva filare e tessere. I suoi utensili erano ancora di pietra, ma lavorati con gran cura e per lo più levigati (vengono distinti come neolitici da quelli delle epoche precedenti). Le asce sono immanicate e per la prima volta, pertanto, utili per far legna; con ciò diviene possibile incavare tronchi d’albero per farne imbarcazioni, sulle quali era possibile raggiungere le isole britanniche».

Le popolazioni primitive stanziali utilizzavano maggiormente la caccia e la pesca per il loro sostentamento, mentre l’agricoltura era per lo più sconosciuta, se non per quello che la natura dava spontaneamente: erbaggi vari, frutti, e rare sementi. In seguito le popolazioni nomadi, che dominarono diverse popolazioni stanziali, introdussero la pastorizia e l’allevamento presso queste popolazioni dominate.

In “La Produzione agraria e le forme della Proprietà fondiaria”, Federico Chiesa descrive questa prima fase dell’introduzione della pastorizia: «Nelle prime fasi dello sviluppo della pastorizia gli animali vengono lasciati pascolare liberamente sulle vaste pianure e colline, salvo ad impossessarsi di essi e dei loro prodotti quando ne sorga il bisogno. Le cure necessarie per la riproduzione e l’allevamento richiedono un grado relativamente elevato di sviluppo che non sempre si raggiunge prima che si giunga alla coltivazione dei cereali».

Seguire queste greggi nel loro peregrinare alla ricerca di pascoli, nelle pianure durante l’inverno, e sui monti in estate, induceva le popolazioni al nomadismo.

«L’agricoltura ha carattere complementare fra i popoli pastori (...) lotte si combattono per l’acquisizione del pascolo, sia tra i pastori e sia con i cacciatori. Le frequenti migrazioni non permettono una larga utilizzazione del suolo agricolo. La vera e propria coltivazione della terra non si verifica se non per eccezione».

Il dover transumare gli armenti alla ricerca di pascoli richiedeva preferire specie animali di piccola taglia, più produttive e facili da spostare.

«La pastorizia fu nella sua origine necessariamente nomade. Sono in evidenza le cause che provocano la differenziazione delle società occupatorie da quelle allevatrici. Nelle prime prevale l’orda e nelle altre la gens. La prima è un’economia in cui ciò che è acquistato viene immediatamente consumato; mentre le popolazioni allevatrici trasmettono agli eredi la proprietà degli armenti».

Il prevalere della gens sull’orda contribuisce alla costituzione della famiglia e ne facilita lo sviluppo con la sostituzione del patriarcato al matriarcato, e con la formazione delle aristocrazie, determinate in rapporto alle proprietà accumulate da ciascuna famiglia. Inoltre le società allevatrici si differenziano dalle occupatorie per una prima divisione in classi, utilizzando i prigionieri di guerra ridotti allo stato di schiavitù.

L’allevamento del bestiame risulta più proficuo e meno dispendioso di tempo rispetto alla caccia. Nei tempi di ozio i pastori trasformano i prodotti degli animali per soddisfare i bisogni della famiglia. Si nota per questo che nei popoli che mantengono una vita nomade non avvengono notevoli trasformazioni economico-sociali, per le quali sono richieste densità di popolazione, una stabile dimora e una divisone del lavoro. «I nomadi non progrediscono, ma nemmeno invecchiano ed è solo con l’introduzione dell’agricoltura che le comuni leggi dello sviluppo umano hanno sopra di loro il sopravvento».

In questi popoli non si registra il commercio interno ma quello esterno, determinato dalla necessità delle diverse organizzazioni gentilizie di barattare quanto loro sovrabbonda. I nomadi non sono solo iniziatori del commercio esterno, ma divengono anche intermediari di commercio grazie all’abbondanza di animali da carico di cui dispongono e alle loro migrazioni.

«Nello stato agricolo si rafforzano i vincoli familiari e, mentre i popoli nomadi sono in genere poligami, quelli agricoli sono monogami. Ciò è dovuto alla necessità che si manifesta nella prima fase di sviluppo dell’agricoltura stabile, ovvero che le famiglie non diventino molto numerose e non crescano troppo rapidamente nei confronti di quanto veniva prodotto dalla terra.

«Lo sviluppo dell’agricoltura rende necessaria l’organizzazione della proprietà e dell’uso della terra e la tutela e difesa dell’uno e dell’altra. Il che provoca il sorgere di un’autorità che sia atta a compiere siffatta tutela e che possa, nel contempo, dettare norme che garantiscano la proprietà e l’uso della terra e ne permettano la successione tra gli eredi o l’alienazione in favore di terzi. Per tal guisa dall’orda dei cacciatori e dalla tribù dei nomadi si giunge con l’agricoltura alla vita politica, allo Stato».

Engels spiega come i Germani penetrarono in Europa centrale attraverso la pianura che sta nel versante settentrionale dei Carpazi e della regione montuosa ai confini della Boemia.

«Il modo di vita dei germani prova che non erano ancora sedentari. Vivevano principalmente dell’allevamento, di formaggio, latte e carne, meno di grano; l’occupazione principale degli uomini è la caccia e l’uso delle armi. Praticano un po’ l’agricoltura, ma solo marginalmente e nel modo più primitivo».

«Ma i Germani incontrati da Cesare sono ben lungi dall’essere nomadi nel senso in cui lo sono attualmente i popoli di cavalieri dell’Asia. Per questo è necessaria la steppa, e i Germani vivevano nella foresta vergine. Ma essi erano altrettanto lontani dal livello dei popoli contadini sedentari».

Sessant’anni dopo Strabone dice di essi:

«Dall’Asia avevano portato la conoscenza dell’agricoltura, come prova la linguistica. Ma era un’agricoltura di tribù guerriere seminomadi, che si spostavano attraverso le pianure boscose dell’Europa centrale, la quale serviva come mezzo di fortuna e fonte secondaria di vita».

«Un buon secolo e mezzo dopo Cesare, Tacito ci fornisce la sua famosa descrizione dei Germani. Qui le cose si presentano già del tutto diversamente. Le tribù si sono stabilizzate. Non si può ancora parlare di città. Le costruzioni mancano ancora di pietre squadrate e di tegole sul tetto, sono rozzamente fatte di tronchi grezzi».

Circa l’agricoltura nell’Impero Romano abbiamo aggiunto al rapporto una considerazione sulla concentrazione della proprietà terriera: «Il difetto di versatilità degli schiavi e la cultura continua di uno stesso prodotto ben presto esaurisce i terreni fertili. Il lavoro schiavo diventa addirittura passivo; donde il bisogno di sempre nuove terre feconde. Da ciò la concentrazione della proprietà terriera: tutto il vasto Impero romano era posseduto da non più di 2.000 cittadini. Il latifondo diventa il regime principe di possesso agricolo; sfruttato con colture estensive ha una produzione non proporzionale all’aumento della popolazione, provocando quindi continue carestie, le quali inducono i proprietari a preferire la pastorizia all’agricoltura».

“Espropriazione della popolazione rurale e suo allontanamento dalle terre”, titola così un paragrafo de “Il Capitale” nel capitolo “Processo di accumulazione del capitale”, di cui alla riunione abbiamo riportato ampi passi.

«In Italia, dove la produzione capitalistica si sviluppa prima che in altri paesi, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù della gleba avviene prima che in altri luoghi. L’emancipazione del servo della gleba lo rende proletario che trova già pronti i nuovi padroni nelle città.

«Allorché la rivoluzione del mercato mondiale dopo la fine del secolo XV spezzò il predominio commerciale dell’Italia settentrionale, iniziò un movimento in senso contrario. Gli operai delle città furono rigettati in massa nelle campagne e incrementarono in maniera straordinaria la piccola coltura, eseguita sull’esempio dell’orticoltura.

«In Inghilterra la servitù della gleba era in effetti scomparsa verso l’ultima parte del secolo XIV. La stragrande maggioranza della popolazione si componeva a quei tempi, e ancor di più nel secolo XV, di liberi contadini autonomi».

Prosegue Marx: «Un tale stato di cose, unito allo sviluppo delle città, caratteristico del secolo XV, fece raggiungere una ricchezza popolare, ma che escludeva la ricchezza capitalistica.

«La rivoluzione che gettò le basi del modo di produzione capitalistico ebbe il suo preludio nell’ultimo terzo del secolo XV e nei primi decenni del XVI. Una massa di proletari messi al bando venne gettata sul mercato del lavoro dal dissolversi dei legami feudali.

«La nuova nobiltà considerava il denaro come il potere dei poteri. Di conseguenza la sua parola d’ordine fu trasformare le terre arabili in pascoli».

(Fine del resoconto della riunione generale di maggio)

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Per motivi di spazio quello della riunione di settembre è rimandato al prossimo numero