Partito Comunista Internazionale Corpo unitario ed invariante delle Tesi del Partito

Terza Internazionale Comunista
4° Congresso - novembre 1922
   

RAPPORTO SUL FASCISMO
del delegato del P.C.d’I.

  

Cari compagni, mi spiace che le particolari circostanze intervenute nelle comunicazioni tra la nostra delegazione e il nostro partito mi impediscano di disporre di tutto il materiale documentario concernente questa questione. C’è un rapporto scritto, redatto dal nostro compagno Togliatti; non solo io non ho qui questo rapporto, ma non ho neppure avuto la possibilità di prenderne visione.

Per quanto riguarda i dati statistici esatti, devo rinviare i compagni che volessero informarsi con più precisione a quel rapporto, che sicuramente arriverà e sarà tradotto e distribuito.

D’altro canto le mie informazioni sono state integrate all’ultimo momento, poiché ieri sera è giunto a Mosca un inviato della Centrale del nostro partito che ci ha riferito gli effetti dei più recenti avvenimenti fascisti sui compagni italiani; di queste informazioni mi occuperò nell’ultima parte della mia relazione.

Dopo quel che ieri Radek ha detto qui, nel suo discorso sull’atteggiamento del partito comunista di fronte al fascismo, devo occuparmi anch’io, per un altro verso, di questa questione.

Il compagno Radek ha criticato la condotta del nostro partito di fronte alla questione fascista, che oggi domina la situazione italiana. Egli ha criticato il nostro punto di vista – il nostro presunto punto di vista – che consisterebbe nel voler avere un piccolo partito e nel giudicare tutte le questioni limitandoci alla considerazione della organizzazione del nostro partito e del suo ruolo immediato, senza rivolgere la nostra attenzione alle grandi questioni politiche.

Tenendo conto del poco tempo a disposizione, cercherò di non essere troppo prolisso. Nella discussione sulla questione italiana e sui nostri rapporti col Partito socialista dovremo trattare anche la questione di come si dovrà agire nella nuova situazione creata dal fascismo in Italia. Passo ora immediatamente alla mia esposizione.

Esaminiamo prima di tutto l’origine del movimento fascista.

Per quanto riguarda l’origine per così dire immediata ed esterna del movimento fascista, questa risale agli anni 1914-15, al periodo precedente l’intervento dell’Italia nella guerra mondiale. I suoi primi inizi sono appunto i gruppi che appoggiarono quell’intervento e che, dal punto di vista politico, erano rappresentati da esponenti di diverse tendenze.

Vi era un gruppo di destra con Salandra, cioè i grandi industriali interessati alla guerra che, prima di invocare l’intervento a fianco dell’Intesa, avevano addirittura caldeggiato la guerra contro di essa.

V’erano d’altra parte delle tendenze della sinistra borghese: i radicali italiani, cioè i democratici di sinistra e i repubblicani, per tradizione fautori della liberazione di Trento e Trieste. In terzo luogo il movimento interventista comprendeva alcuni elementi del movimento proletario: sindacalisti rivoluzionari e anarchici. A questi gruppi apparteneva – si tratta, è vero, di un caso personale, tuttavia di particolare importanza – il capo dell’ala sinistra del partito socialista e direttore dell’Avanti!: Mussolini.

Si può dire, grosso modo, che il gruppo intermedio non abbia partecipato al movimento fascista e che si sia mantenuto entro il quadro della tradizionale politica borghese.

Rimasero nel movimento fascista i gruppi dell’estrema destra e quelli dell’estrema sinistra: gli elementi ex-anarchici, quelli ex-sindacalisti e quelli sindacalisti-rivoluzionari. Questi gruppi politici, che nel maggio 1915 avevano ottenuto una grande vittoria, imponendo la guerra al paese contro la volontà della maggioranza stessa del paese e dello stesso Parlamento, che non seppe resistere all’improvviso colpo di mano, dopo la fine della guerra videro diminuire la propria influenza, cosa che del resto avevano già potuto constatare nel corso del conflitto. Essi avevano presentato la guerra come un’impresa estremamente facile; quando però si vide che la guerra andava per le lunghe, questi gruppi persero completamente la loro popolarità, che del resto, nel vero senso della parola, non avevano mai avuta.

Alla fine della guerra, dunque, l’influenza di questi gruppi divenne minima.

Durante e dopo il periodo di smobilitazione verso la fine del 1918, durante il 1919 e nella prima metà del 1920, questa tendenza politica, nel generale malcontento suscitato dalle conseguenze del conflitto, non aveva più alcun peso.

È però facile stabilire il legame politico ed organico fra questo movimento allora apparentemente quasi spento ed il poderoso movimento che oggi si svolge di fronte ai nostri occhi.

I "Fasci di Combattimento" non avevano mai cessato di esistere. Capo del movimento fascista era sempre stato Mussolini, e il suo organo il "Popolo d’Italia". Alle elezioni politiche di fine di ottobre 1919, i fascisti furono completamente battuti a Milano, dove usciva il loro giornale e si trovava il loro capo politico. Ottennero un numero scarsissimo di voti, ma nonostante questo continuarono nel loro lavoro.

La corrente socialista rivoluzionaria del proletariato, grazie all’entusiasmo rivoluzionario – di cui non c’è bisogno qui di esporre dettagliatamente le cause – che si era impadronito delle masse, si era notevolmente rafforzata nel periodo post-bellico, ma non aveva saputo sfruttare questa situazione favorevole.

Questa tendenza finì con l’indebolirsi perché tutti i fattori oggettivi e psicologici favorevoli al rafforzarsi di un’organizzazione rivoluzionaria non trovarono un partito che fosse in grado di erigere su di essi una stabile organizzazione. Io non affermo che in Italia il Partito Socialista – come ha detto in questi giorni il compagno Zinoviev – avrebbe potuto fare la rivoluzione, ma avrebbe almeno dovuto riuscire a dare alle forze rivoluzionarie delle masse operaie una organizzazione stabile. Ma esso non era all’altezza di questo compito.

Abbiamo dunque dovuto assistere al venir meno della popolarità di cui la corrente socialista, che da sempre si era opposta alla guerra, godeva in Italia.

Nella misura in cui il movimento socialista, nella crisi della vita sociale italiana, commetteva un errore dopo l’altro, il movimento opposto – il fascismo – cominciò a rafforzarsi. In modo particolare il fascismo riuscì a sfruttare la crisi che si profilava sul piano economico, e la cui influenza cominciò a farsi sentire anche sulla organizzazione sindacale del proletariato. Nel momento più difficile, il movimento fascista trovò un appoggio nella spedizione fiumana di D’Annunzio, spedizione dalla quale il fascismo attinse una certa forza morale e da cui, sebbene il movimento di D’Annunzio e il fascismo fossero due cose diverse, nacquero anche la sua organizzazione e la sua forza armata.

Abbiamo parlato dell’atteggiamento del movimento proletario socialista; l’Internazionale ha ripetutamente criticato i suoi errori. Conseguenza di questi errori fu un cambiamento completo nello stato d’animo della borghesia e delle altre classi. Il proletariato era disorientato e demoralizzato. Lo stato d’animo della classe proletaria, nel vedersi sfuggire la vittoria dalle mani, aveva subìto una profonda trasformazione. Si può dire che nel 1919 e nella prima metà del 1920 la borghesia italiana si era in certo qual modo rassegnata a dover assistere alla vittoria della rivoluzione. La classe media e la piccola borghesia tendevano a giocare un ruolo passivo, non già al seguito della grande borghesia ma al seguito del proletariato, che stava per ottenere vittoria.

Questo stato d’animo si è radicalmente modificato. Invece di assistere alla vittoria del proletariato vediamo la borghesia compattarsi nella difesa. Quando la classe media constatò che il partito socialista non era in grado di organizzarsi in modo da prendere il sopravvento, manifestò la propria insoddisfazione, perse a poco a poco la fiducia che aveva riposto nelle fortune del proletariato e si volse dalla parte opposta.

A questo momento ebbe inizio l’offensiva capitalistica e borghese, sfruttando essenzialmente lo stato d’animo della classe media. Grazie alla sua composizione estremamente eterogenea, il fascismo rappresentava la soluzione del problema di mobilitare le classi medie ai fini dell’offensiva della borghesia e del capitalismo. L’esempio italiano è un esempio classico di offensiva del capitale. Questa offensiva, come ha detto ieri da questa tribuna il compagno Radek, è un fenomeno complesso che deve essere studiato non solo in rapporto alla diminuzione dei salari o all’allungamento dell’orario di lavoro, ma anche sul terreno generale dell’azione politica e militare della borghesia contro la classe operaia.

In Italia abbiamo vissuto, nel periodo di sviluppo del fascismo, tutte le forme fenomeniche dell’offensiva capitalistica.

Fin dal primo momento del suo manifestarsi, il nostro partito comunista ha valutato criticamente la situazione e ha indicato al proletariato italiano il suo compito di un’autodifesa unitaria contro l’offensiva borghese, tracciando un piano unitario in base al quale il proletariato avrebbe dovuto schierarsi contro questa offensiva.

Se vogliamo considerare l’offensiva capitalistica nel suo insieme, dobbiamo esaminare la situazione nelle sue linee generali e precisamente, da un lato, nel campo dell’industria, dall’altro nel campo dell’agricoltura.

Nell’industria l’offensiva capitalistica sfrutta direttamente la situazione economica. Comincia la crisi e aumenta la disoccupazione. Una parte degli operai deve essere licenziata e i datori di lavoro hanno buon gioco, perché possono cacciare dalle fabbriche gli operai che dirigono i sindacati e gli elementi estremisti in genere. La crisi industriale fornisce ai datori di lavoro il punto di partenza che permette loro di invocare la riduzione dei salari e la revisione delle concessioni disciplinari e morali che precedentemente erano stati costretti a fare agli operai delle loro aziende. All’inizio di questa crisi nasce in Italia la Confederazione Generale dell’Industria, l’organizzazione di classe degli imprenditori, che dirige la lotta e sottopone alla sua guida l’azione di ogni singolo ramo dell’industria.

Nelle grandi città, la lotta contro la classe operaia non può iniziare con l’immediato impiego della violenza. Gli operai urbani costituiscono in generale una massa considerevole. Possono essere radunati con una certa facilità e possono opporre una seria resistenza. Si preferì quindi imporre al proletariato delle lotte a carattere essenzialmente sindacale, i cui risultati furono in genere sfavorevoli perché la crisi economica si trovava nello stato più acuto e la disoccupazione aumentava di continuo. L’unica possibilità di sostenere vittoriosamente le lotte economiche che si svolgevano nell’industria sarebbe stata quella di trasferire dell’attività dal terreno del movimento sindacale al terreno rivoluzionario, nella dittatura di un vero partito politico comunista. Ma il partito socialista italiano non era un tale partito e non seppe, nel momento decisivo, trasferire l’azione del proletariato italiano sul piano rivoluzionario. Il periodo dei grandi successi dell’organizzazione sindacale italiana nella lotta per il miglioramento delle condizioni di lavoro cedette il posto ad un nuovo periodo in cui gli scioperi divennero scioperi difensivi della classe operaia, e i sindacati subirono una sconfitta dopo l’altra.

Poiché in Italia, nel movimento rivoluzionario, hanno una grande importanza le classi agricole, soprattutto i salariati agricoli, ma anche quegli strati che non sono completamente proletarizzati, le classi dominanti si videro costrette a servirsi di un mezzo di lotta per contrastare l’influenza che le organizzazioni rosse avevano conquistato nelle campagne. La situazione che si presentava in una gran parte di Italia, e in particolare nella parte economicamente più importante di essa, cioè nella Valle del Po, assomigliava ad una specie di dittatura locale del proletariato, o quantomeno dei salariati agricoli. In questa zona, alla fine del 1920, il Partito socialista aveva conquistato numerosi comuni che avevano praticato una politica fiscale locale diretta contro la borghesia media e agraria. Noi vi possedevamo fiorenti organizzazioni sindacali, importanti cooperative e numerose sezioni del Partito socialista. E anche là dove il movimento si trovava nelle mani dei riformisti, la classe operaia delle campagne assumeva un atteggiamento rivoluzionario. I datori di lavoro furono costretti a versare all’organizzazione un contributo, una certa somma, che rappresentava in certo qual modo una garanzia della loro sottomissione ai contratti imposti loro nella lotta sindacale. Si verificò così una situazione in cui la borghesia agraria non poteva più vivere in campagna ed era costretta a ritirarsi in città.

Ma i socialisti italiani commisero una serie di errori, particolarmente nella questione dell’appropriazione del suolo e della tendenza dei piccoli affittuari, dopo la guerra, ad acquistare terra per divenire piccoli proprietari. Le organizzazioni riformiste costrinsero questi piccoli affittuari a rimanere, per così dire, i caudatarii del movimento dei lavoratori agricoli; in tali condizioni, il movimento fascista trovò in mezzo a loro un notevole appoggio.

Nell’agricoltura non esisteva una crisi legata ad un’estesa disoccupazione, che permettesse ai proprietari fondiari, sul terreno delle semplici lotte sindacali, una controffensiva vittoriosa.

Qui perciò il fascismo cominciò a svilupparsi e ad applicare il metodo della violenza fisica e della violenza armata, appoggiandosi alla classe dei proprietari terrieri e sfruttando il malcontento suscitato negli strati medi delle classi contadine dagli errori organizzativi del Partito Socialista e delle organizzazioni riformiste. Inoltre il fascismo fece leva sulla situazione generale, sull’insoddisfazione di giorno in giorno crescente di tutti i ceti piccolo-borghesi, dei piccoli commercianti, dei piccoli proprietari, dei militari in congedo, degli ex-ufficiali che, dopo la posizione di cui avevano goduto durante la guerra, si sentivano delusi dalla situazione in cui erano caduti. Si sfruttarono tutti questi elementi e, organizzandoli e inquadrandoli in formazioni militari, si poté dare inizio al movimento per la distruzione del potere delle organizzazioni rosse nelle campagne.

Il metodo di cui il fascismo si servì è quanto mai caratteristico; esso radunò tutti quegli elementi smobilitati che, dopo la guerra, non riuscivano più a trovare il loro posto nella società, e mise a suo profitto le loro esperienze militari.

Il fascismo iniziò la costituzione delle sue formazioni militari non nelle grandi città industriali, ma in quelle città che possiamo considerare come i capoluoghi delle regioni agricole italiane, come per es. Bologna e Firenze, appoggiandosi a questo fine – come vedremo ancora –) alle autorità statali. I fascisti dispongono di armi e di mezzi di trasporto, godono della immunità di fronte alla legge e fruiscono dei vantaggi di questa situazione favorevole anche là dove non raggiungono ancora il numero dei loro nemici rivoluzionari.

Essi organizzano anzitutto le cosiddette «spedizioni punitive» procedendo nel modo che segue: confluiscono in una piccola zona stabilita, distruggono le sedi centrali delle organizzazioni proletarie, costringono con la forza i consigli comunali a dimettersi, feriscono e, se occorre, uccidono i dirigenti avversari o, nel migliore dei casi, li costringono ad emigrare. I lavoratori delle località in questione non sono in grado di opporre resistenza a queste truppe armate, che sono appoggiate dalla polizia e si raccolgono da tutte le parti del paese. I gruppi locali fascisti, che prima non osavano affrontare localmente le forze proletarie, sono riusciti ad avere il sopravvento, perché i contadini e gli operai sono terrorizzati e sanno che se osassero intraprendere contro questi gruppi un’azione qualsiasi, i fascisti potrebbero ripetere le loro spedizioni in forze anche maggiori, a cui non sarebbe in alcun modo possibile opporre resistenza.

Così il fascismo si conquista una posizione dominante nella politica italiana, e prosegue nella sua marcia, per così dire, territorialmente, secondo un piano che si può seguire molto bene su una carta geografica. Il suo punto di partenza è Bologna, dove nel settembre-ottobre 1920 si era instaurata un’amministrazione socialista e in tale occasione si era verificata una grande mobilitazione delle forze di combattimento rosse. Si verificano degli incidenti; le sedute sono disturbate da provocazioni dall’esterno; sui banchi della minoranza borghese, forse con l’aiuto di agenti provocatori, si spara.

Questi fatti portano al primo grande colpo di mano fascista. La reazione scatenata procede a distruzioni e a incendi, oltre che ad azioni violente contro i dirigenti proletari. Con l’aiuto del potere statale, i fascisti si impadroniscono della città.

Con questi avvenimenti, della giornata storica del 21 novembre 1920, ha inizio il terrore, e da allora il consiglio comunale di Bologna non è più in grado di riprendere il potere.

Partendo da Bologna, il fascismo segue una via che qui non possiamo descrivere in tutti i particolari; ci limitiamo a dire che esso prende due direzioni geografiche: da un lato, verso il triangolo industriale di nord-ovest: Milano, Torino e Genova, dall’altro verso la Toscana e il Centro Italia, per poter accerchiare e minacciare la capitale. Fin dall’inizio era chiaro che nella Italia del Sud, per le stesse ragioni che vi avevano reso impossibile la nascita di un forte movimento socialista, non poteva sorgere un movimento fascista.

Il fascismo rappresenta così poco un movimento della parte retrograda della borghesia, che esso si è manifestato per la prima volta non nell’Italia meridionale, ma proprio là dove il movimento proletario era più sviluppato e la lotta di classe si era manifestata nelle forme più nette.

Come dobbiamo spiegarci, in base a questi dati, il movimento fascista? È un movimento puramente agrario? Questa è l’ultima cosa che noi volevamo dire quando affermammo che il movimento era nato prevalentemente nelle campagne; non si può considerare il fascismo come il movimento indipendente di una singola parte della borghesia, come l’organizzazione degli interessi agrari in contrasto con quelli dei capitalisti industriali. Del resto, il fascismo ha creato la sua organizzazione ad un tempo politica e militare nelle grandi città, anche in quelle provincie in cui limitò la sua azione alle campagne. Abbiamo visto che alla Camera, quando il fascismo, in seguito alle elezioni del 1921 ottenne una frazione parlamentare, si formò, indipendentemente da esso, un partito agrario. Nel corso degli avvenimenti successivi, abbiamo visto che gli imprenditori industriali appoggiavano il movimento fascista. Decisiva per la nuova situazione è stata negli ultimissimi tempi una dichiarazione della Confederazione Generale dell’Industria, che si pronunciava a favore dell’incarico a Mussolini per la formazione del nuovo gabinetto.

Ma un fenomeno ancor più interessante, sotto questo profilo, è quello del movimento sindacale fascista. Come si è già detto, i fascisti approfittarono del fatto che i socialisti non avevano mai avuto una loro politica agraria, e che certi elementi delle campagne, non direttamente appartenenti al proletariato, avevano interessi divergenti da quelli rappresentati dai socialisti. Il fascismo dovette utilizzare tutti i mezzi della violenza più selvaggia e brutale, ma seppe anche unire questi mezzi all’impiego della più cinica demagogia, e creare, con i contadini e perfino con salariati agricoli, delle organizzazioni di classe. In un certo senso, prese addirittura posizione contro i proprietari fondiari.

 Si sono avuti esempi di lotte sindacali dirette da fascisti, che mostravano una grande somiglianza con i metodi precedentemente seguiti dalle organizzazioni rosse. Noi non possiamo affatto considerare questo movimento, che crea con la costrizione e col terrore un’organizzazione sindacale, come una forma della lotta contro i datori di lavoro, ma d’altra parte non dobbiamo concludere che il fascismo rappresenti in senso proprio un movimento degli imprenditori agricoli.

La realtà è che il movimento fascista è un grande movimento unitario della classe dominante, capace di mettere al proprio servizio, utilizzare e sfruttare, tutti i mezzi, tutti gli interessi parziali e locali di gruppi di datori di lavoro agricoli e industriali.

Il proletariato non aveva saputo affasciarsi in un’organizzazione unitaria per la lotta al fine di conquistare il potere e sacrificare a questo scopo i suoi interessi immediati e particolari; nel momento favorevole non aveva saputo risolvere questo problema.

La borghesia italiana sfruttò questa circostanza per tentare di risolvere da parte sua questo enorme problema. La classe dominante si creò un’organizzazione per la difesa del potere che si trovava nelle sue mani e in questo seguì un piano unitario di offensiva capitalistica, antiproletaria.

Il fascismo creò un’organizzazione sindacale. In quale senso? Forse per guidare la lotta di classe? Giammai! Il fascismo creò un movimento sindacale sotto la parola d’ordine: tutti gli interessi economici hanno il diritto di costituire un sindacato; possono sorgere unioni di operai, contadini, commercianti, capitalisti, grandi proprietari terrieri, ecc.; tutti possono organizzarsi sulla base dello stesso principio: l’azione sindacale di tutte le organizzazioni deve però subordinarsi all’interesse nazionale, alla produzione nazionale, alla gloria nazionale, ecc.

Questa è una collaborazione tra le classi e non lotta di classe. Tutti gli interessi devono essere fusi in una sedicente unità nazionale. Noi sappiamo che cosa significa questa unità nazionale: l’incondizionata conservazione controrivoluzionaria dello Stato borghese e delle sue istituzioni.

La genesi del fascismo deve, secondo noi, essere attribuita a tre fattori principali: lo Stato, la grande borghesia e le classi medie. Il primo di questi fattori è lo Stato. In Italia l’apparato statale ha avuto un ruolo importante nella fondazione del fascismo. Le notizie sulle crisi successive del governo borghese hanno fatto sorgere l’idea che la borghesia avesse un apparato statale così instabile che, per abbatterlo, bastasse un semplice colpo di mano. Le cose non stanno affatto così. La borghesia ha potuto costruire l’organizzazione fascista proprio nella misura in cui il suo apparato statale si rafforzava.

Durante l’immediato periodo postbellico, l’apparato statale attraversa una crisi, la cui causa manifesta fu la smobilitazione: tutti gli elementi che fin allora avevano preso parte alla guerra vengono bruscamente gettati sul mercato del lavoro, e in questo momento critico la macchina statale, che, fino allora, si era occupata di procurare ogni sorta di mezzi ausiliari contro il nemico esterno, deve trasformarsi in un apparato di difesa del potere contro la rivoluzione interna. Si trattava per la borghesia di un problema gigantesco. Essa non poteva risolverlo né dal punto di vista tecnico, né da quello militare mediante una lotta aperta contro il proletariato; doveva risolverlo dal punto di vista politico.

In questo periodo nascono i primi governi postbellici di sinistra; in questo periodo sale al potere la corrente politica di Nitti e Giolitti.

Proprio questa politica ha permesso al fascismo di assicurarsi la vittoria. Bisognava innanzi tutto fare delle concessioni al proletariato; nel momento in cui l’apparato statale aveva bisogno di consolidarsi, comparve in scena il fascismo: è pura demagogia quella del fascismo quando critica questi governi e li accusa di viltà verso i rivoluzionari. In realtà i fascisti sono debitori della possibilità della loro vittoria alle concessioni della politica democratica dei primi ministeri del dopoguerra. Nitti e Giolitti hanno fatto delle concessioni alla classe operaia. Alcune rivendicazioni del Partito Socialista – la smobilitazione, il regime politico, l’amnistia per i disertori – sono state soddisfatte. Queste diverse concessioni miravano a guadagnare tempo per la ricostituzione dell’apparato statale su basi più solide. Fu Nitti a creare la Guardia Regia, un’organizzazione di natura non proprio poliziesca, ma tuttavia di un carattere militare affatto nuovo. Uno dei grossi errori dei socialisti riformisti fu quello di non considerare fondamentale questo problema, che pure avrebbero potuto affrontare da un punto di vista anche solo costituzionale mediante una protesta contro il fatto che lo Stato creasse un secondo esercito. I socialisti non capirono l’importanza della questione, e videro in Nitti un uomo con il quale si sarebbe potuto collaborare in un governo di sinistra. Altra dimostrazione dell’incapacità di questo partito di comprendere il processo della vita politica italiana.

Giolitti completò l’opera di Nitti. Durante il suo Ministero il ministro della guerra Bonomi appoggiò i primi tentativi del fascismo mettendosi a servizio del movimento nascente e degli ufficiali smobilitati, che anche dopo il ritorno alla vita civile, continuavano a ricevere la maggior parte della loro paga. L’apparato statale fu messo in altissimo grado a disposizione dei fascisti, e fornì loro tutto il materiale necessario per la creazione di un esercito.

Al momento dell’occupazione delle fabbriche, il ministero Giolitti capisce molto bene che il proletariato armato si è impadronito delle fabbriche e che il proletariato agricolo nella sua spinta rivoluzionaria si accinge ad impadronirsi della terra, e che sarebbe un errore madornale accettare la lotta prima che l’organizzazione delle forze controrivoluzionarie fosse stata messa a punto.

Il governo, che stava preparando le forze reazionarie destinate un giorno a schiacciare il movimento operaio, poté sfruttare la manovra dei capi traditori della Confederazione Generale del Lavoro, che allora erano membri del Partito socialista. Concedendo la legge sul controllo operaio, che non è mai stata applicata, anzi neppure votata, il governo riesce, in quella situazione critica, a salvare lo Stato borghese.

Il proletariato si era impadronito delle officine e della terra, ma il Partito socialista dimostrò ancora una volta di essere incapace a risolvere il problema dell’unità di azione della classe lavoratrice industriale ed agricola. Questo errore permetterà un giorno alla borghesia di realizzare l’unità controrivoluzionaria, e questa unità la metterà in condizione di battere da una parte gli operai delle fabbriche, dall’altra gli operai delle campagne.

Come si vede lo Stato ha avuto un ruolo di enorme importanza nella genesi del movimento fascista.

Dopo i ministeri Nitti, Giolitti e Bonomi, venne il governo Facta. Questo servì a mascherare la completa libertà di azione del fascismo nella sua avanzata territoriale. Al tempo dello sciopero dell’agosto 1922, scoppiarono tra operai e fascisti, che erano apertamente appoggiati dal governo, serie lotte. Possiamo citare l’esempio di Bari, dove un’intera settimana di scontri non bastò a vincere gli operai che si erano asserragliati nelle loro case della città vecchia e si difendevano con le armi in pugno malgrado il completo spiegamento delle forze fasciste. I fascisti dovettero ritirarsi, lasciando sul terreno molti dei loro. Che cosa fece il governo Facta? Di notte, fece circondare da migliaia di soldati, da centinaia di carabinieri e guardie regie la città vecchia, ordinando l’assedio. Dal porto una torpediniera bombardò le case; mitragliatrici, carri armati e fucili entrarono in azione. Gli operai sorpresi nel sonno vennero sconfitti, la Camera del Lavoro occupata. Esattamente così lo Stato agì dappertutto. Dovunque si notava che il fascismo doveva ritirarsi di fronte agli operai, il potere statale intervenne sparando sugli operai che si difendevano, arrestando e condannando gli operai il cui unico delitto era quello di difendersi, mentre i fascisti, che si erano indubbiamente macchiati di delitti comuni, erano sistematicamente assolti.

Il primo fattore è dunque lo Stato. Il secondo fattore del fascismo è, come ho già detto, la grande borghesia. I capitalisti delle industrie, delle banche, del commercio e i grandi proprietari terrieri, hanno un interesse naturale a che sia fondata un’organizzazione di combattimento che appoggi la loro offensiva contro i lavoratori.

Ma il terzo fattore gioca un ruolo non meno importante nella formazione del potere fascista.

Per creare accanto allo Stato un’organizzazione reazionaria illegale, occorreva arruolare elementi diversi da quelli che l’alta classe dominante poteva fornire dai suoi ranghi. Li si ottenne rivolgendosi a quegli strati delle classi medie che già abbiamo citato, allettandoli con la difesa dei loro interessi. È questo che il fascismo cercò di fare e che, bisogna riconoscerlo, gli è riuscito. Esso ha attinto partigiani negli strati più vicini al proletariato, come fra gli insoddisfatti della guerra, fra tutti i piccolo-borghesi, semi-borghesi, bottegai e mercanti e, soprattutto, tra gli elementi intellettuali della gioventù borghese che, aderendo al fascismo, ritrovano l’energia per riscattarsi moralmente e vestirsi della toga della lotta contro il movimento proletario, e finiscono nel patriottismo e nell’imperialismo italiano più esaltato. Questi elementi apportarono al fascismo un numero notevole di aderenti e gli permisero di organizzarsi militarmente.

Sono questi i tre fattori che consentirono ai nostri avversari di contrapporci un movimento che non ha eguale in rozzezza e brutalità, ma che, bisogna riconoscerlo, dispone di un’organizzazione solida e di capi di grande abilità politica. Il Partito socialista non è mai riuscito a comprendere il significato e l’importanza di questi movimenti nascenti. L’«Avanti!» non ha mai capito nulla di ciò che la borghesia, sfruttando gli errori madornali dei dirigenti operai, andava preparando. Non ha mai voluto nemmeno citare Mussolini, per paura, mettendolo troppo in luce, di fargli pubblicità!

Come si vede, il fascismo non rappresenta una nuova dottrina politica, ma possiede una grande organizzazione politica e militare, e una stampa importante, diretta con molta abilità giornalistica e con molto eclettismo. Non ha idee, non ha programmi, ma, ora che è salito al timone dello Stato, si trova di fronte a problemi concreti ed è costretto a dedicarsi all’organizzazione dell’economia italiana. E nel passaggio dal suo lavoro negativo a quello positivo, malgrado tutte le sue capacità organizzative, mostrerà le sue debolezze.
   

IL PROGRAMMA FASCISTA

Dopo aver trattato dei fattori storici e della realtà sociale da cui il fascismo è nato, dobbiamo ora occuparci dell’ideologia da esso accettata e del programma con il cui aiuto esso si è assicurato i diversi elementi che lo seguono.

La nostra critica ci induce alla conclusione che, rispetto all’ideologia e al tradizionale programma della politica borghese, il fascismo non ha apportato nulla di nuovo. La sua superiorità e la sua caratteristica distintiva consistono interamente nella sua organizzazione, nella sua disciplina e nella sua gerarchia. All’infuori di questi aspetti eccezionali e militari, non gli resta che una situazione irta di difficoltà di cui esso è incapace di venire a capo: la crisi economica, che rinnoverà sempre le ragioni della ripresa rivoluzionaria, mentre il fascismo non sarà in condizione di riorganizzare l’apparato sociale borghese. Il fascismo, che non saprà mai superare l’anarchia economica del sistema capitalistico, ha un altro compito storico, che possiamo definire come la lotta contro l’anarchia politica, contro l’anarchia dell’organizzazione della classe borghese come partito politico. Gli strati della classe dominante italiana avevano tradizionalmente formato raggruppamenti politici e parlamentari che non poggiavano su partiti saldamente organizzati e si combattevano reciprocamente, conducendo nei loro interessi particolari e locali una lotta di concorrenza che portava a ogni sorta di manovre dei politici di professione nei corridoi del Parlamento. L’offensiva controrivoluzionaria della borghesia imponeva la necessità di riunire, nella lotta sociale e nella politica di governo, le forze della classe dominante. Il fascismo è la realizzazione di questa necessità. Ponendosi al disopra di tutti i partiti borghesi tradizionali, il fascismo li priva a poco a poco del loro contenuto, li sostituisce nella loro attività e, grazie agli errori del movimento proletario, riesce a sfruttare il potere politico e il materiale umano delle classi medie per i propri fini. Ma esso non riuscirà mai a darsi una ideologia concreta e un programma di riforme sociali e amministrative che superi i limiti della tradizionale politica borghese, che ha già fatto mille volte bancarotta.

La parte critica della sedicente dottrina fascista non ha gran valore. Essa si dà una vernice antisocialista e, nello stesso tempo, antidemocratica. Quanto all’antisocialismo è chiaro che il fascismo è un movimento delle forze antiproletarie ed è naturale che si dichiari contro tutte le forme economiche socialiste o semisocialiste, senza che gli riesca di offrire nulla di nuovo per puntellare il sistema della proprietà privata, a meno di accontentarsi del luogo comune del fallimento del comunismo in Russia. Quanto alla democrazia, essa dovrebbe cedere il posto ad uno Stato fascista, perché non ha saputo combattere le tendenze rivoluzionarie e antisociali. Ma questa non è che una frase vuota.

Il fascismo non è una tendenza della destra borghese, poggiante sull’aristocrazia, il clero, gli alti funzionari civili e militari e volta a sostituire la democrazia del governo borghese e della monarchia costituzionale con una monarchia dispotica. Il fascismo incarna la lotta controrivoluzionaria di tutti gli elementi borghesi uniti; perciò non gli è affatto necessario e indispensabile distruggere le istituzioni democratiche. Dal nostro punto di vista marxista, questa circostanza non deve in alcun modo essere considerata come paradossale, perché sappiamo che il sistema democratico rappresenta solo una sintesi di garanzie menzognere, dietro le quali si nasconde la lotta reale della classe dominante contro il proletariato.

Il fascismo unisce insieme la violenza reazionaria e l’astuzia demagogica; del resto la sinistra borghese ha sempre saputo ingannare il proletariato e mettere in evidenza la superiorità dei grandi interessi capitalistici su tutte le esigenze sociali e politiche delle classi medie. Quando i fascisti passano da una sedicente critica della democrazia liberale a esporci le loro intuizioni ideologiche positive, predicando un patriottismo esasperato e blaterando di una missione storica del popolo, essi sbandierano un mito storico che non ha alcun serio fondamento alla luce della vera critica sociale che mette a nudo quel paese delle finte vittorie che si chiama Italia. Quanto all’influenza sulle masse, abbiamo davanti a noi un’imitazione dell’atteggiamento classico della democrazia borghese: quando si afferma che tutti gli interessi devono subordinarsi al superiore interesse nazionale, ciò significa che si appoggia in principio una collaborazione di tutte le classi, mentre in pratica si sostengono solo le istituzioni conservatrici borghesi contro i tentativi di emancipazione rivoluzionaria del proletariato. La stessa cosa ha sempre fatto la democrazia borghese liberale.

Il nuovo del fascismo risiede nell’organizzazione del partito borghese di governo. Gli avvenimenti politici nell’aula del Parlamento italiano hanno destato l’impressione che l’apparato statale borghese fosse precipitato in una tale crisi, che bastasse una spinta esterna per abbatterlo. In realtà, si trattava soltanto di una crisi dei metodi di governo borghesi, nata in seguito all’impotenza dei gruppi e dei dirigenti tradizionali della politica italiana, che non erano riusciti a guidare la lotta contro i rivoluzionari durante una crisi acuta.

Il fascismo creò un organo capace di assumere il ruolo di guida della macchina statale in questo paese. Ma quando i fascisti, accanto alla loro lotta pratica contro i proletari, esposero un programma concreto e positivo di organizzazione sociale e di amministrazione dello Stato, in fondo si limitarono a ripetere le tesi banali della democrazia e della socialdemocrazia; non crearono mai un proprio sistema organico di proposte e di progetti. Per esempio, essi hanno sempre sostenuto che il programma fascista conteneva una limitazione dell’apparato burocratico statale che, partendo da una riduzione del numero dei ministeri, si sarebbe poi estesa a tutti i livelli dell’amministrazione. Ma se pure è vero che Mussolini ha rinunziato alla carrozza ferroviaria speciale di primo ministro, ha però aumentato il numero dei ministri e dei sottosegretari per potervi insediare i suoi pretoriani.

Esattamente allo stesso modo, dopo diversi repubblicani o enigmatici gesti di fronte al dilemma monarchia o repubblica? il fascismo si è deciso per un leale monarchismo, così come, dopo tanto strepito sulla corruzione parlamentare, ha ripreso in pieno la prassi del parlamentarismo.

Esso ha mostrato una così scarsa inclinazione ad annettersi le tendenze della reazione pura, che ha lasciato il più largo spazio al sindacalismo. Al congresso di Roma del 1921, dove il fascismo fece tentativi quasi buffoneschi di fissare la sua dottrina, si tentò anche di caratterizzare il sindacalismo fascista come il predominio del movimento delle categorie di lavoratori intellettuali. Ma questo indirizzo sedicente teorico è da tempo smentito dalla cruda realtà. Il fascismo, che ha fondato le sue organizzazioni sindacali sulla base della forza materiale e del monopolio delle questioni concernenti il lavoro, ad esso ceduto dagli imprenditori per spezzare così le organizzazioni rosse, non è tuttavia riuscito ad estendersi neppure a quelle categorie in cui la specializzazione tecnica del lavoro è maggiore. Esso ha ottenuto successi solo fra i lavoratori agricoli e in certe categorie poco qualificate di operai urbani, per esempio fra i portuali, senza però che gli riuscisse di conquistare la parte più evoluta e intelligente del proletariato. Esso non ha neppure dato una nuova spinta al movimento degli impiegati e degli artigiani sul terreno sindacale. Il sindacalismo fascista non poggia su nessuna dottrina seria. L’ideologia e il programma del fascismo contengono una torbida mescolanza di idee e rivendicazioni borghesi e piccolo-borghesi, e l’impiego sistematico della violenza contro il proletariato non gli impedisce affatto di attingere alle sorgenti socialdemocratiche dell’opportunismo.

Una dimostrazione di ciò è la presa di posizione dei riformisti italiani, la cui politica per un certo tempo sembrò dominata da principii antifascisti e dall’illusione di poter costituire un governo di coalizione borghese proletario contro i fascisti, e che oggi si accodano ai fascisti vittoriosi. Questo avvicinamento non è affatto paradossale; è derivato da una serie di circostanze e molte cose lo lasciavano prevedere: fra l’altro il movimento dannunziano, che da una parte è collegato al fascismo e dall’altra ha tentato di avvicinarsi alle organizzazioni proletarie sulla base di un programma, derivante dalla costituzione fiumana, che pretendeva di poggiare su fondamenta proletarie e perfino socialiste.

Dovrei ricordare ancora altri punti che ritengo importantissimi del fenomeno fascista; ma non ne ho il tempo; altri compagni italiani potranno, prendendo parte alla discussione, completare il mio discorso. Ho volutamente tralasciato il lato sentimentale della questione e le sofferenze che gli operai e i comunisti italiani hanno dovuto subire, perché non mi sembrano il punto essenziale della questione.

Devo ora parlare degli ultimi avvenimenti accaduti in Italia, sui quali il Congresso attende informazioni precise.

   

GLI ULTIMI AVVENIMENTI

La nostra delegazione ha lasciato l’Italia prima degli avvenimenti in questione e ne era, fino a poco tempo fa, male informata. Ieri sera è però giunto un delegato del nostro C.C. e ci ha fornito un quadro degli avvenimenti, della cui esattezza io mi rendo garante di fronte a voi. Ripeterò le notizie che ci sono state fornite.

Come vi ho già detto, il governo Facta aveva lasciato libero gioco ai fascisti nell’attuazione della loro politica. Vi do soltanto un esempio. Il fatto che nei ministeri succedutisi gli uni agli altri, il Partito popolare italiano, cattolico-contadino, godesse di una forte rappresentanza, non ha impedito ai fascisti di continuare la lotta contro le organizzazioni, i membri e le istituzioni di questo partito. Il governo esistente non era che un governo ombra, la cui sola attività consisteva nell’appoggiare l’offensiva fascista in direzione del potere, quell’offensiva che noi abbiamo indicata come puramente territoriale e geografica. Il governo preparava in realtà il terreno al colpo di mano fascista. La situazione intanto precipitava. Si aprì una nuova crisi ministeriale. Si chiedevano le dimissioni di Facta. Le ultime elezioni avevano dato al Parlamento una composizione tale, che era impossibile assicurarsi una maggioranza stabile in base ai vecchi sistemi dei partiti borghesi tradizionali. Si era soliti dire che in Italia era al potere il “potente partito liberale”. In realtà questo non era un partito in senso proprio – come partito non era mai esistito, non disponeva di alcuna organizzazione. Esso costituiva un miscuglio di cricche personali di questo o quel politico del Nord o del Sud, e di consorterie della borghesia industriale ed agricola, manovrate da politici di professione. L’insieme di questi parlamentari formava il nocciolo di ogni combinazione parlamentare.

Ma per il fascismo, se non voleva cader preda di una grave crisi interna, era venuto il momento di modificare questa situazione. Era in gioco anche una questione organizzativa. Si dovevano soddisfare le esigenze del movimento fascista e pagare le spese delle sua organizzazione. Questi mezzi materiali sono stati anticipati in larga misura dalle classi dominanti e, a quanto sembra, anche da governi stranieri. La Francia ha finanziato il gruppo Mussolini. In una seduta segreta del governo francese si è discusso di un bilancio che comprende le ingenti somme fornite a Mussolini nel 1915. Di questi e altri documenti il Partito socialista ha preso visione; ma non vi ha dato seguito perché riteneva che Mussolini fosse un uomo finito. D’altra parte il governo italiano ha sempre facilitato il compito ai fascisti, che, per esempio, hanno potuto servirsi gratuitamente, per intere bande, della rete ferroviaria. Ma, date le enormi spese del movimento fascista, se quest’ultimo non avesse deciso di prendere direttamente il potere, sarebbe precipitato in una situazione molto difficile. Esso non poteva aspettare nuove elezioni, anche se il suo successo era scontato.

I fascisti possiedono già una forte organizzazione politica. Contano già 300.000 membri; sostengono, anzi, di essere di più. Avrebbero potuto vincere anche soltanto coi mezzi “democratici”. Ma occorreva far presto. Il 24 ottobre si riunì a Napoli il Consiglio nazionale fascista. Oggi si dice che questo avvenimento, al quale tutta la stampa borghese ha fatto pubblicità, fu soltanto una manovra per distogliere l’attenzione dal colpo di Stato. Ad un certo momento si disse ai congressisti: chiudiamo i dibattiti, c’è di meglio da fare, ciascuno torni al suo posto. Cominciò una mobilitazione fascista. Era il 26 ottobre. Nella capitale regnava ancora una calma completa. Facta aveva dichiarato di non volersi dimettere prima di aver convocato ancora una volta il gabinetto, per osservare la procedura normale. Ma, nonostante questa dichiarazione, presentò le dimissioni al Re.

Cominciarono le trattative per un nuovo ministero. I fascisti si misero in marcia su Roma, centro della loro attività. Erano particolarmente attivi nell’Italia centrale, specialmente in Toscana. Li si lasciò fare. Salandra fu incaricato di formare un nuovo Governo, ma vi rinunziò in seguito all’atteggiamento dei fascisti.

È probabile che, se non li si fosse soddisfatti con l’incarico a Mussolini, i fascisti si sarebbero comportati come banditi anche contro la volontà dei loro capi e avrebbero saccheggiato e distrutto ogni cosa nelle città e nelle campagne. L’opinione pubblica cominciò a mostrare segni d’inquietudine. Il governo Facta dichiarò: noi proclamiamo lo stato d’assedio. Lo si proclamò, infatti, e per tutta una giornata l’opinione pubblica attese uno scontro fra il potere statale e le forze fasciste. A questo riguardo i nostri compagni rimanevano molto scettici.

E in realtà i fascisti non si scontrarono in alcuna resistenza seria in tutto il loro tragitto. Eppure, v’erano nell’esercito alcuni ambienti sfavorevoli ai fascisti; i soldati erano pronti a battersi contro di loro. Ma gli ufficiali erano in maggioranza filo-fascisti.

Il Re si rifiutò di firmare lo stato d’assedio. Ciò significava accettare le condizioni dei fascisti che sul “Popolo d’Italia” scrivevano: basta incaricare Mussolini di formare un nuovo governo, e si sarà trovata una soluzione legale; in caso contrario, noi marceremo su Roma e ce ne impadroniremo.

Qualche ora dopo la revoca dello stato d’assedio, si seppe che Mussolini partiva per Roma. Si era già preparata una difesa militare: si erano riunite delle truppe e bloccate le vie d’accesso alla città con cavalli di Frisia; ma gli accordi erano ormai conclusi, e il 31 ottobre i fascisti entrarono vittoriosi in Roma.

Mussolini formò il nuovo governo, la cui composizione è nota. Il partito fascista, che non contava in Parlamento che 35 seggi, ottenne nel governo la maggioranza assoluta. Nel ministero per sé Mussolini prese non solo la presidenza, ma anche i portafogli degli interni e degli esteri. Nei dicasteri più importanti furono insediati dei membri del partito fascista. E anche negli altri ministeri i fascisti occuparono dei posti. Ma poiché non si era venuti a una rottura completa con i partiti tradizionali, vi furono nel governo anche due rappresentanti della democrazia sociale, cioè della sinistra borghese, come pure dei liberali di destra e un giolittiano. Rappresentano la corrente monarchica il generale Diaz al Ministero della guerra e l’ammiraglio Thaon Revel al Ministero della Marina.

Il Partito popolare, che ha una forte presenza nel Parlamento, si è mostrato pronto a un compromesso con Mussolini. Con il pretesto che gli organi ufficiali del partito non potevano riunirsi a Roma, la responsabilità di accettare le proposte di Mussolini è stata lasciata ad una riunione ufficiosa di alcuni parlamentari. Si è però riusciti ad ottenere da Mussolini alcune concessioni, e la stampa del partito popolare ha potuto dichiarare che il nuovo governo non cambiava gran che nel sistema di rappresentanza elettorale della volontà popolare.

Il compromesso si è esteso fino ai socialdemocratici e per un momento è sembrato che il social-riformista Baldesi avrebbe partecipato al Governo. Mussolini, abilmente, ha mandato uno dei suoi luogotenenti a saggiare le sue intenzioni; dopo che Baldesi si era dichiarato felice di accettare il posto, Mussolini rese noto che il passo era stato fatto da uno dei suoi amici sotto la sua responsabilità personale. Così Baldesi non è entrato nel nuovo gabinetto.

Mussolini non ha preso nel governo nessun rappresentante della riformista Cgdl, perché gli elementi di destra del suo Gabinetto vi si sono opposti. Ma egli resta dell’opinione che una rappresentanza di questa organizzazione nella sua “grande coalizione nazionale” sia necessaria, ora che si è resa indipendente da qualunque partito politico rivoluzionario.

In questi avvenimenti noi vediamo un compromesso fra le cricche politiche tradizionali e i diversi strati della classe dominante, industriali, banchieri e proprietari fondiari, tutti inclini al nuovo regime istituito da un movimento che si è assicurato l’appoggio della piccola borghesia.

A nostro parere, il fascismo è un mezzo per rafforzare il potere con tutti i mezzi a disposizione della classe dominante, non senza mettere a frutto gli insegnamenti della prima rivoluzione proletaria vittoriosa, la rivoluzione russa. Di fronte ad una grave crisi economica, lo Stato non basta più a mantenere il potere. Occorre un partito unitario, un’organizzazione controrivoluzionaria centralizzata. Per i suoi legami con l’intera classe borghese, il partito fascista è, in un certo senso, quello che è in Russia, per i suoi legami con il proletariato, il partito comunista, cioè un organo di direzione e di controllo dell’intero apparato statale, ben organizzato e disciplinato. In Italia il partito fascista ha occupato coi suoi commissari politici quasi tutti i posti importanti della macchina statale: esso è l’organo dirigente borghese dello Stato nel periodo di sfacelo dell’imperialismo. È questa, a mio avviso, una spiegazione storica sufficiente del fascismo e degli ultimi avvenimenti italiani.

I primi provvedimenti del nuovo governo mostrano che questo non intende modificare le basi degli istituti tradizionali italiani.

Naturalmente non sostengo che la situazione sia favorevole per il movimento proletario e socialista, sebbene io preveda che il fascismo sarà liberale e democratico. I governi democratici non hanno mai dato al proletariato altro che proclamazioni e promesse. Per esempio il governo Mussolini ha dato assicurazioni che la libertà di stampa sarà rispettata. Ma non ha tralasciato di aggiungere che la stampa deve mostrarsi degna di questa libertà. Che cosa significa ciò? Significa che il governo promette bensì di rispettare la libertà di stampa, ma lascerà libere le organizzazioni militari fasciste, se così piacerà loro, di mettere il bavaglio agli organi comunisti, come è già avvenuto in qualche caso. D’altra parte bisogna riconoscere che se il governo fascista fa alcune concessioni liberali borghesi, non si possono riporre eccessive speranze nella sua dichiarazione di voler trasformare le sue organizzazioni militari in associazioni sportive o in qualcosa di simile; è noto che dozzine di fascisti sono stati trattenuti in arresto perchè si erano opposti all’ordine di smobilitazione dato da Mussolini.

Quale influenza hanno avuto questi fatti sul proletariato? Esso si è trovato nella situazione di non poter giocare alcun ruolo importante nella lotta e di doversi comportare in modo quasi passivo.

Quanto al Partito comunista, esso ha sempre ben capito che la vittoria del fascismo avrebbe significato una sconfitta del movimento rivoluzionario. Il problema è essenzialmente di sapere se la tattica del partito comunista è stata in grado di raggiungere il massimo dei risultati nella difesa del proletariato italiano e in una posizione difensiva; giacché non abbiamo mai dubitato che, oggi, esso non è in grado di lanciare una offensiva contro la reazione fascista. Se, invece del compromesso fra la borghesia e il fascismo, fosse scoppiato un conflitto militare, una guerra civile, il proletariato avrebbe forse potuto giocare un suo ruolo, creare il fronte unico per lo sciopero generale e ottenere dei successi. Ma nella situazione così com’era, il proletariato non ha potuto partecipare alle azioni. Per quanta importanza avessero gli avvenimenti che si stavano sviluppando, non bisogna perdere di vista il fatto che il cambiamento di scena politico fu in realtà meno brusco di quanto possa apparire, perché la situazione si era, già prima dello scatenamento dell’offensiva finale fascista, acutizzata di giorno in giorno. Basti come esempio della lotta contro il potere statale e il fascismo il conflitto di Cremona, in cui morirono sei persone. Il proletariato ha combattuto soltanto a Roma, dove le truppe operaie rivoluzionarie si sono scontrate con le squadre fasciste e vi sono stati dei feriti. L’indomani la guardia regia ha occupato il quartiere operaio, l’ha privato di ogni mezzo di difesa e ha quindi permesso ai fascisti accorsi di sparare a sangue freddo sugli operai. È questo l’episodio più sanguinoso che si sia verificato nelle recenti lotte in Italia. La Cgdl, quando il partito comunista propose lo sciopero generale, lo ha disarmato e ha spinto i proletari a non seguire le pericolose esortazioni dei gruppi rivoluzionari, diffondendo anche la voce che il partito comunista si fosse sciolto, e ciò nel momento stesso in cui la nostra stampa era nell’impossibilità di uscire.

A Roma, l’evento più grave per il nostro partito è stata l’occupazione della sede della redazione del “Comunista”. Il 31 ottobre fu occupato il locale della tipografia, nel momento in cui il giornale stava per essere pubblicato e 100.000 fascisti tenevano in stato di assedio la città. Tutti i redattori erano riusciti a mettersi in salvo attraverso uscite secondarie, con la sola eccezione del comp. Togliatti, il nostro redattore-capo che era nel suo ufficio. I fascisti entrarono e lo catturarono. Il comportamento del nostro compagno è stato veramente eroico. Fieramente egli ha dichiarato di essere il redattore-capo del “Comunista”, ed era già stato messo al muro per essere fucilato, mentre i fascisti spingevano indietro la folla per procedere alla sua esecuzione. Egli si è salvato grazie al fatto che corse voce che gli altri redattori fossero scappati sui tetti e gli aggressori si diedero ad inseguirli1. Ciò non ha impedito al nostro compagno, qualche giorno dopo, di tenere un discorso al comizio di Torino per la ricorrenza dell’anniversario della rivoluzione russa.

Ma si tratta di un caso isolato. L’ organizzazione del nostro partito è in uno stato abbastanza buono. Se “Il Comunista” non esce non è per un divieto del governo, ma perché la tipografìa si rifiuta di stamparlo. Lo abbiamo quindi stampato in un’altra tipografia illegale. Le difficoltà di pubblicazione erano di ordine non tecnico ma economico. A Torino è stata occupata la sede dell’ “Ordine Nuovo”, e sono state sequestrate le armi che vi si trovavano. Ma il quotidiano è ora pubblicato altrove. A Trieste la polizia ha invaso la tipografia del nostro giornale, ma anche quest’organo appare ora illegalmente. Il nostro partito ha ancora la possibilità di lavorare illegalmente, e la nostra situazione non è del tutto tragica. Ma non si può sapere come le cose andranno in futuro e sono quindi costretto a esprimermi con un certo riserbo sulla situazione del partito e del suo lavoro in avvenire.

Il compagno da poco arrivato è un lavoratore che dirige un’importante organizzazione locale del partito, e il suo parere, condiviso pure da altri militanti, è che d’ora in poi potremo lavorare meglio che in passato. Non voglio presentare questa opinione come una verità definitiva. Ma il compagno che la esprime è un militante che lavora davvero fra le masse e il suo parere ha una grande importanza.

Vi ho già detto che la stampa avversaria ha diffuso la falsa notizia che il nostro partito si è sciolto. Noi abbiamo pubblicato una smentita e ristabilito la verità. I nostri organi politici centrali, la nostra centrale militare illegale, la nostra centrale sindacale sono in piena attività, e i collegamenti con le provincie sono stati ripristinati quasi dovunque. I compagni rimasti in Italia non hanno mai perso la testa e fanno tutto quello che è necessario fare. Quanto ai socialisti, la sede dell’ “Avanti!” è stata distrutta dai fascisti e occorrerà qualche tempo prima che il giornale possa uscire di nuovo. È stata anche distrutta la sede del Partito Socialista a Roma e bruciati gli archivi.

Circa la posizione dei massimalisti nella polemica tra il partito comunista e la Cgdl non possediamo né un manifesto, né una dichiarazione.

Quanto ai riformisti, dalle parole dei loro giornali, che continuano ad uscire, risulta chiaro che si accoderanno al nuovo governo.

In merito alla situazione sindacale, il compagno Repossi del nostro Comitato Sindacale è dell’avviso che il lavoro potrà continuare. Queste sono le informazioni, datate il 6 novembre, che abbiamo ricevuto.

Il mio discorso è già lungo, e io non toccherò la questione della presa di posizione del nostro partito durante l’intero periodo di sviluppo del fascismo, perché mi riservo di farlo in altri punti dell’ordine del giorno del congresso.

Vogliamo solo porci la questione su quali prospettive abbiamo per l’avvenire. Abbiamo sostenuto che il fascismo dovrà fare i conti con il malcontento provocato dalla politica del governo.

Ma noi sappiamo fin troppo bene che, quando oltre che allo Stato si dispone di un’organizzazione militare, è più facile domare il malcontento e rendersi padroni di una situazione economica sfavorevole. Ciò è molto più vero durante la dittatura del proletariato, quando lo sviluppo storico parla a nostro favore. I fascisti sono assai bene organizzati e hanno obbiettivi ben precisi. In tali circostanze, è prevedibile che la posizione fascista non sarà affatto insicura. Come avete visto, io non ho affatto esagerato le condizioni in cui il nostro partito ha lottato. Non vogliamo farne una questione sentimentale.

Il Partito comunista italiano ha forse commesso degli errori; lo si può criticare, ma io credo che, nel momento attuale, l’atteggiamento dei compagni prova che abbiamo svolto un vero lavoro: quello della formazione di un partito rivoluzionario del proletariato, base della ripresa della classe operaia italiana. I comunisti italiani hanno il diritto di chiedere di essere riconosciuti per quello che sono. Anche se il loro atteggiamento non è sempre stato approvato, essi sentono di non doversi rimproverare nulla di fronte alla rivoluzione e di fronte all’Internazionale Comunista.