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Partito Comunista d’Italia
 
IL PRINCIPIO DEMOCRATICO

L’impiego di certi termini nella esposizione dei problemi del comunismo ingenera molto spesso equivoci tra l’uno e l’altro senso in cui possono essere adoperati. Così è dei termini democrazia e democratico. Il comunismo marxista si presenta nelle enunciazioni di principio come una critica e una negazione della democrazia; d’altra parte i comunisti difendono spesso l’applicazione della democrazia, il carattere democratico, negli organismi proletari: sistema statale dei consigli operai, sindacati, partito. In questo non vi è certo contraddizione alcuna, e nulla vi è da opporre all’uso del dilemma: democrazia borghese o democrazia proletaria, come equivalente perfettamente a quello: democrazia borghese o dittatura proletaria.

La critica marxista ai postulati della democrazia borghese si fonda infatti sulla definizione dei caratteri della presente società divisa in classi, e dimostra l’inconsistenza teorica e l’insidia pratica di un sistema che vorrebbe conciliare l’uguaglianza politica con la divisione della società in classi sociali determinate dalla natura del sistema di produzione.

La libertà e uguaglianza politica contenute secondo la teorica liberale nel diritto di suffragio non hanno senso se non su una base che non contenga disparità di condizioni economiche fondamentali: ecco perché noi comunisti ne accettiamo l’applicazione nell’interno degli organismi di classe del proletariato, al cui meccanismo sosteniamo che si deve dare un carattere democratico.

Anche se, per non ingenerare equivoci, e per evitare di valorizzare un concetto che faticosamente tendiamo a demolire e che è ricco di suggestioni, non si vuole introdurre l’uso di due diversi termini nei due casi, è però utile guardare un po’ più addentro al contenuto stesso del principio democratico in generale, anche in quanto lo si applichi a organismi omogenei dal punto di vista classista. E questo per evitare che, mentre ci sforziamo con la nostra critica di rimuovere tutto il contenuto ingannevole ed arbitrario delle teoriche "liberali", non si debba correre il rischio di ricadere nel riconoscimento di una "categoria", il principio di democrazia, che si ponga come un elemento di verità e di giustizia assoluta, in modo aprioristico, e che sarebbe un intruso in tutta la costruzione della nostra dottrina.

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Come un errore dottrinale è sempre alla base di un errore di tattica politica, o ne è, se si vuole, la traduzione nel linguaggio della nostra coscienza critica collettiva, così un riflesso di tutta la politica e la tattica perniciosa della socialdemocrazia si ha nell’errore di principio che il socialismo erediti una parte sostanziale del contenuto che la dottrina liberale ha affermato contro quello delle vecchie dottrine politiche a base spiritualista. Invece nelle sue prime formulazioni il socialismo marxista distrugge appunto, e non accetta per completarla, tutta la critica che il liberalismo democratico aveva edificato contro le aristocrazie e le monarchie assolute dell’antico regime. La distrugge non certo per rivendicare – diciamolo subito per chiarire il nostro orientamento – una sopravvivenza delle dottrine spiritualistiche o idealistiche contro il materialismo volterriano dei rivoluzionari borghesi, ma per dimostrare come in realtà i teorici di quest’ultimo, con la filosofia politica della "Enciclopedia", non si fossero che illusi di essere usciti dalle nebbie della metafisica applicata alla sociologia e alla politica e dai nonsensi dell’idealismo, e insieme coi loro predecessori dovessero soggiacere alla critica veramente realistica dei fenomeni sociali e della storia edificata nel materialismo storico di Marx.

È anche teoricamente importante dimostrare come per approfondire il solco tra socialismo e democrazia borghese, per ridare alla dottrina della rivoluzione proletaria il suo contenuto potentemente rivoluzionario smarrito nelle adulterazioni dei fornicatori con la democrazia borghese, non sia affatto necessario fondarsi su una revisione dei principi in senso idealista o neo-idealista, ma occorra semplicemente rifarsi alla posizione presa dai maestri del marxismo dinanzi all’inganno delle dottrine liberali e della filosofia borghese materialista.

Per rimanere al nostro argomento mostriamo che la critica del socialismo alla democrazia era sostanzialmente una critica alla critica democratica delle vecchie filosofie politiche, una critica della pretesa loro contrapposizione universale, una dimostrazione che esse si assomigliavano teoricamente, così come praticamente il proletariato non aveva molto a lodarsi del passaggio della direzione della società dalle mani della nobiltà feudale, monarchica e religiosa, in quelle della giovane borghesia commerciale e industriale. E la dimostrazione teorica che la nuova filosofia borghese non aveva vinto i vecchi errori dei regimi di dispotismo, ma era solo un edificio di nuovi sofismi, corrispondeva concretamente alla negazione contenuta nel sorgere del movimento sovvertitore del proletariato della pretesa borghese di avere per sempre sistemata l’amministrazione della società su basi pacifiche e indefinitamente perfettibili, con l’avvento del diritto di suffragio e del parlamentarismo.

Mentre le vecchie dottrine politiche, fondate su concetti spiritualistici o addirittura sulla rivelazione religiosa, pretendevano che le forze soprannaturali che governano la coscienza e la volontà degli uomini avessero assegnato a certi individui, a certe famiglie, a certe caste, il compito di dirigere e amministrare la vita collettiva, consegnando loro per divina investitura il prezioso deposito dell’"autorità", la filosofia democratica affermatasi parallelamente alla rivoluzione borghese contrappose a quest’asserzione la proclamazione dell’uguaglianza morale, politica, giuridica, di tutti i cittadini, nobili ecclesiastici o plebei che fossero, e volle trasferire la "sovranità" dalla cerchia ristretta della casta o della dinastia a quella universale della consultazione popolare in base al suffragio, per cui la maggioranza dei cittadini designa con la sua volontà i reggitori dello Stato.

I fulmini che i sacerdoti di tutte le religioni e i filosofi spiritualisti avventarono contro questa concezione non bastano a farla accettare come la vittoria definitiva della verità contro l’errore oscurantista, se pure per molto tempo il "razionalismo" di questa filosofia politica è sembrato l’ultima parola in fatto di scienza sociale come di arte politica, e ha avuto la solidarietà di molti che si dicevano socialisti. L’affermazione che il tempo dei "privilegi" è tramontato da quando si è creata la base della formazione elettorale maggioritaria della gerarchia sociale, non regge alla critica del marxismo, che porta ben altra luce sulla natura dei fenomeni sociali, e può apparire una seducente costruzione logica solo se si parte dall’ipotesi che il voto ossia il parere, l’opinione, la coscienza, di ciascun elettore abbia lo stesso peso nel conferire la sua delega per l’amministrazione degli affari collettivi. Quanto poco realista e "materialista" sia questo concetto lo dimostri per ora questa considerazione: esso configura ogni uomo come una "unità" perfetta di un sistema composto di tante unità potenzialmente equivalenti tra loro, e anziché porre la valutazione del pronunziato di quel singolo in rapporto a mille sue condizioni di vita ossia di rapporti con gli altri uomini, la teorizza nella supposizione della "sovranità". Questo equivale ancora a porre la coscienza degli uomini al di fuori del riflesso concreto dei fatti e delle determinanti dell’ambiente, a pensarla come la scintilla accesa in qualunque organismo, sano o logoro, tormentato o armonicamente soddisfatto nei suoi bisogni, con eguale provvida misura da un indefinibile dispensatore di vita. Questi non avrebbe designato il monarca, ma avrebbe dato a ognuno una eguale facoltà di indicarlo. Il presupposto su cui, malgrado la sua ostentazione di razionalità, poggia la teorica democratica, non è dissimile per metafisica puerilità da quello del "libero arbitrio" per cui la legge cattolica dell’aldilà assolve o condanna. La democrazia teorica in quanto si accampa fuori del tempo e della contingenza storica non è dunque meno impeciata di spiritualismo di quello che non siano nel profondo del loro errore le filosofie dell’autorità rivelata e della monarchia per diritto divino.

Chi volesse seguire maggiormente questi raffronti non avrebbe che a ricordare come la dottrina politica democratica sia stata molti secoli prima della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e della grande rivoluzione affacciata da pensatori che erano totalmente sul terreno dell’idealismo e della filosofia metafisica, e del resto la grande rivoluzione stessa abbatté in nome della Ragione gli altari del dio cristiano, ma anche di quella volle o dové fare una deità.

Questo presupposto metafisico incompatibile col carattere della critica marxista è proprio non solo delle costruzioni del liberalismo borghese, ma di tutte quelle dottrine costituzionali e di quei progetti di edificazione della società che si fondano sulla "intrinseca virtù" di dati schemi di rapporti sociali e statali. Costruendo la sua dottrina della storia il marxismo demoliva infatti a un tempo l’idealismo medioevale, il liberalismo borghese e il socialismo utopista.

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A queste costruzioni arbitrarie di costituzioni sociali, aristocratiche o democratiche, autoritarie o liberali, alle quali è analoga per i suoi errori la concezione anarchica di una società senza gerarchia e senza deleghe di poteri, il comunismo critico ha contrapposto uno studio ben più fondato della natura dei rapporti sociali e delle loro cause, nel complesso sviluppo evolutivo che essi presentano lungo il corso della storia umana, una attenta analisi del carattere di questi rapporti nella presente epoca capitalistica, e una serie di ponderate ipotesi sulla loro ulteriore evoluzione a cui viene ora ad aggiungersi il formidabile contributo teorico e pratico della rivoluzione proletaria russa.

Sarebbe superfluo svolgere qui i noti concetti del determinismo economico e gli argomenti che ne dimostrano la fondatezza nell’interpretazione dei fatti storici e del meccanismo sociale. Ogni apriorismo di conservatori o di utopisti è contemporaneamente eliminato dall’introduzione dei fattori che stanno sul terreno della produzione e dell’economia e dei rapporti di classe che da essi scaturiscono, permettendo di passare ad una spiegazione scientifica dei fatti di vario ordine che costituiscono le manifestazioni giuridiche, politiche, militari, religiose, culturali della vita sociale.

Ci limiteremo a seguire in modo sommario attraverso il corso della storia le evoluzioni che ha presentato il modo di organizzazione sociale e di aggruppamento degli uomini, non solo nello Stato, astratta figurazione di una collettività unificatrice di tutti gli individui, ma nei vari organismi alla formazione dei quali danno luogo i rapporti fra i singoli.

Alla base dell’interpretazione di ogni gerarchia sociale, estesissima o limitata, stanno i rapporti tra i vari individui, e alla base di questi sta la divisione di funzioni tra di essi.

Inizialmente possiamo immaginare senza commettere gravi errori l’esistenza di una forma di vita della specie umana completamente inorganizzata. Il limitato numero di individui consente ad essi di vivere dei prodotti della natura senza applicare a essa arte o lavoro, ed ognuno potrebbe in tal modo, per vivere, fare a meno dei propri simili. Non vi sono altri rapporti che quelli comuni a tutte le specie, della riproduzione, ma già per la specie umana – e non per essa soltanto – essi bastano a costituire un sistema di rapporti e una conseguente gerarchia, nella famiglia. Questa può fondassi sulla poligamia, sulla poliandria, sulla monogamia; non è qui il caso di addentrarsi in una tale analisi, ma ci dà l’embrione di una vita collettiva organizzata sulla divisione di funzioni voluta dalle conseguenze dirette dei fattori fisiologici, per i quali, mentre la madre assiste la prole e l’alleva, il padre si dedica alla caccia, alla preda, alla protezione dai nemici esterni, ecc.

Come nelle ulteriori fasi di sviluppo della produzione e della economia, così in questa fase iniziale che è quella della loro assenza quasi completa, è inutile soffermarsi sulla ricerca astratta se siamo in presenza dell’unità individuo o dell’unità società. L’unità dell’individuo ha un senso dal punto di visto biologico, indubbiamente, ma non è che una elucubrazione metafisica farne il fondamento di costruzioni sociali, poiché dal punto di vista sociale non tutte le unità hanno lo stesso valore e la collettività non sorge che da rapporti e da schieramenti in cui la parte e l’attività di ogni singolo non sono una funzione individuale ma collettiva per le molteplici influenze dell’ambiente sociale. Anche nel caso elementare di società inorganizzata o di non-società, la stessa base fisiologica che ci dà l’organizzazione familiare ci basta a distruggere la figurazione arbitraria dell’Individuo come unità ulteriormente indivisibile (senso letterale del termine) e superiormente componibile con altre simili unità che conservano la loro distinzione e in un certo senso la loro equivalenza. Nemmeno l’unità società esiste, evidentemente, poiché i rapporti tra uomini, anche di pura nozione della reciproca esistenza, sono limitatissimi e ristretti alla cerchia della famiglia o del clan. Possiamo anticipare l’ovvia conclusione che la "unità società" non è mai esistita e non esisterà probabilmente mai se non come un "limite" a cui ci si possa progressivamente approssimare superando i confini di classi e di Stati.

L’unità individuo può essere pensata come un elemento di deduzioni e di costruzioni sociali, o se si vuole di negazione della società, solo partendo da un presupposto irreale che in fondo anche in formulazioni modernissime non è che una diversa riproduzione dei concetti della rivelazione religiosa, della creazione, e dell’indipendenza di una vita spirituale dai fatti della vita naturale e organica. Ad ogni individuo la divinità creatrice o una forza unica governatrice delle sorti del mondo ha dato questa investitura elementare che ne fa una molecola autonoma, ben definita, cosciente, volente, responsabile, dell’aggregato sociale, indipendentemente dagli accidenti sovrapposti delle influenze fisiche dell’ambiente: questo concetto religioso e idealistico non è che modificato nelle apparenze quando si edifica la concezione del liberalismo democratico o dell’individualismo libertario: l’anima come scintilla accesa del supremo Ente, la sovranità soggettiva di ciascun elettore, o la illimitata autonomia del cittadino della società senza leggi, sono filosofemi che peccano della stessa infantilità innanzi alla critica, per risoluto che sia il "materialismo" dei primi liberali borghesi e degli anarchici.

Questo concetto ha il suo corrispondente nella supposizione parimenti a natura idealistica della perfetta unità sociale, del monismo sociale, costruita sulla base della volontà divina che governa e amministra la vita della nostra specie. Ritornando allo stadio primordiale di vita sociale che stavamo considerando, e giunti in presenza dell’organizzazione familiare, noi siamo condotti a concludere che delle ipotesi metafisiche dell’unità individuo e dell’unità società, possiamo fare a meno nell’interpretazione della vita della specie e del processo evolutivo di essa: possiamo invece positivamente affermare che siamo in presenza di un tipo di collettività organizzata su base unitaria, che è la famiglia. Noi ci guardiamo bene dal farne un tipo fisso o permanente, e tanto più dall’idealizzarlo a modello di forma di convivenza sociale come si può fare dell’individuo nell’anarchismo o nella monarchia assoluta; constatiamo soltanto l’esistenza di questa unità primordiale di organizzazione umana, alla quale altre ne succederanno, che essa stessa si modificherà in vari aspetti, diverrà elemento costitutivo di altri organismi collettivi, o scomparirà in forme sociali avanzatissime, come si potrebbe supporre. Non sentiamo alcun bisogno di essere per principio pro o contro la famiglia, come di essere pro o contro, ad esempio, lo Stato: ci interessa cogliere per quanto è possibile il senso dell’evoluzione di questi tipi di organizzazione umana e, se ci domandiamo se un giorno spariranno, è nel modo più obiettivo, perché non è nella nostra mentalità pensarli né come sacri e intangibili né come perniciosi e da distruggere: essendo il conservatorismo e il suo rovescio (ossia la negazione di ogni forma di organizzazione e di gerarchia sociale) parimenti deboli dal punto di vista critico e parimenti sterili di risultati.

Fuori dal tradizionale contrapposto delle categorie: individuo e società, noi seguiamo nello studio della storia umana il formarsi e l’evolversi di altre unità ossia collettività umane organizzate; aggruppamenti ristretti o estesi di uomini, fondati su una divisione di funzioni e una gerarchia, che appaiono come fattori e come attori della vita sociale. Queste unità possono paragonarsi solo in un certo senso a unità organiche, a organismi viventi le cui cellule di diversa funzione e valore sono gli uomini o gruppi elementari di uomini; ma l’analogia non è completa poiché, mentre l’organismo vivente ha dei limiti definiti e un decorso biologico di sviluppo e di morte, le unita organizzate sociali non sono chiuse da limiti fissi e si rinnovano continuamente intrecciandosi tra loro, decomponendosi e ricomponendosi al tempo stesso. Quello che ci preme mostrare, e per il quale scopo ci siamo indugiati sul primo e ovvio esempio dell’unità famiglia, è che, se queste unità sono evidentemente composte di individui e se la stessa loro composizione è variabile, esse tuttavia agiscono come "tutti" organici e integrali, e la loro scomposizione in unità-individui non ha che un valore mitologico e irreale. L’elemento famiglia ha una vita unitaria che non dipende dal numero dei singoli che racchiude, ma dalla rete dei loro rapporti, così come, per esprimersi in modo banale, non ha lo stesso valore di una famiglia composta del capo, delle mogli e di alcuni vecchi inabili, quella che comprenda oltre al capo alcuni giovani e validi suoi figli.

Da questa prima forma di unità organizzata di individui che è la famiglia, e che ci presenta le prime divisioni di funzioni e le prime gerarchie e forme di autorità, di direzione delle attività dei singoli, di amministrazione, si passa nel corso dell’evoluzione attraverso infinite altre forme di organizzazione sempre più complesse e vaste. La ragione di questo complicarsi sta nel complicarsi dei rapporti e delle gerarchie sociali, nascente da una sempre maggiore differenziazione che è strettamente determinata dai sistemi di produzione che l’arte e la scienza mettono a disposizione delle attività umane nell’elaborazione di un sempre maggior numero di prodotti (nel più vasto senso della parola) atti a soddisfare i bisogni di società umane più numerose e più evolute verso forme superiori di vita. Il fondamento di un’analisi che voglia cogliere il processo di formazione e di modificazione delle varie organizzazioni umane e il gioco dei loro rapporti nella società tutta, deve basarsi sulla nozione dello sviluppo della tecnica produttiva e dei rapporti economici che sorgono dalla situazione dei singoli nelle varie funzioni che esige il meccanismo produttivo. La formazione e la evoluzione delle dinastie, delle caste, degli eserciti, degli Stati, degli imperi, delle corporazioni, dei partiti può e deve essere seguita attraverso una indagine poggiata su simili elementi. Al culmine di questo complesso sviluppo si può pensare che vi sia una forma di unità organizzata che coincida con i limiti stessi dell’umanità realizzando la razionale divisione delle funzioni tra tutti gli uomini, e si può discutere quale senso e quali limiti avrà in una tale superiore forma di convivenza umana il sistema gerarchico dell’amministrazione collettiva.

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Premendoci di giungere all’esame di quegli organismi unitari i cui rapporti interni sono fondati su quello che correntemente è detto il "principio democratico", introdurremo una distinzione semplificatrice tra collettività organizzate che ricevono la loro gerarchia dall’esterno, e collettività organizzate che la formano di per se stesse e dal loro interno. Secondo il concetto religioso e la perfetta teoria dell’autorità la società umana sarebbe in ogni epoca una collettività-unità che riceve la sua gerarchia dai poteri soprannaturali; e non insisteremo nella critica di un simile semplicismo metafisico contraddetto da tutta la nostra esperienza.

     La gerarchia nasce da ragioni naturali di necessità nella divisione delle funzioni, e così evidentemente avviene nella famiglia. Trasformandosi questa in tribù e in orda, essa deve organizzarsi per lottare contro altre organizzazioni, e sorgono gerarchie militari sulla base dell’opportunità di affidare il comando ai più atti a valorizzare le comuni energie. A questo criterio di scelta nell’interesse comune, che è di molti millenni più antico dell’elettoralismo democratico moderno, in quanto re, capitani e sacerdoti furono originariamente elettivi, finiscono col sovrapporsi altri criteri di formazione delle gerarchie, dando luogo a privilegi di casta, attraverso l’eredità familiare, o la iniziazione di scuole, sette e culti ristretti, essendo in genere il possesso di un grado motivato da speciali attitudini e funzioni il migliore elemento per influire sulla trasmissione di questo grado, almeno in via normale.

     Non intendiamo, abbiamo detto, seguire tutto lo sviluppo della formazione nel seno della società delle caste e poi delle classi, che alla logica necessità di una divisione di funzioni sovrappongono il monopolio di potere e di influenze che si accompagna alla posizione di privilegio di dati strati di individui rispetto al meccanismo economico. Ogni casta dirigente dà a se stessa in un modo o nell’altro una gerarchia organizzativa, e così avviene per le classi economicamente privilegiate: per limitarci ad un esempio, l’aristocrazia terriera del medioevo, coalizzandosi per la difesa del comune privilegio dagli assalti di altre classi, costruiva una forma di organizzazione che culminò nella monarchia, nelle mani della quale si concentravano i poteri pubblici, alla formazione dei quali restavano completamente estranei gli altri strati della popolazione. Lo Stato dell’epoca feudale è la organizzazione della nobiltà feudale appoggiata dal clero. Lo strumento principale di forza di queste monarchie militari è l’esercito. Siamo innanzi qui a un tipo di collettività organizzata in cui la gerarchia è costituita dall’esterno: è il re che nomina i gradi nell’esercito, fondato sulla passiva obbedienza di ogni suo componente.

     Ogni forma di Stato accentra in una autorità unitaria la capacità di ordinare e di inquadrare una serie di gerarchie esecutive: esercito, polizia, magistratura, burocrazia. Quindi la unità Stato si serve materialmente dell’attività di individui di tutte le classi, ma è organizzata sulla base di una sola o di poche classi privilegiate che hanno il potere di costruirne le varie gerarchie. Le altre classi e in genere tutti gli aggruppamenti di singoli che troppo evidentemente vedono come gli interessi e le esigenze di tutti non siano affatto garantiti dall’esistente organizzazione statale, benché questa ne accampi regolarmente la pretesa, cercano di darsi proprie organizzazioni per far prevalere i propri interessi partendo dalla constatazione elementare dell’identità di posizione dei loro componenti rispetto alla produzione e alla vita economica.

Se, occupandoci naturalmente di quelle organizzazioni che si danno esse stesse la propria gerarchia, ci poniamo il problema del modo col quale questa gerarchia deve essere designata per essere la migliore difesa degli interessi collettivi di tutti i componenti dell’organizzazione in parola, e per evitare la formazione di stratificazioni fondate sul privilegio nel seno di essa, ci si affaccia il metodo basato sul principio democratico, consultare tutti i singoli e servirsi del parere della maggioranza per la designazione di quelli tra essi che dovranno coprire i gradi della gerarchia.

La critica di una simile proposta deve essere molto più severa a seconda che si propone di applicarla alla società tutta quale è oggi, o a date nazioni, o si tratta di introdurla nel seno di organismi molto più limitati come i sindacati proletari e i partiti.

Nel primo caso essa è da respingere senz’altro perché campata nel vuoto, senza tenere conto alcuno della situazione dei singoli rispetto al fatto economico, e con la pretesa che il sistema sia intrinsecamente perfetto, indipendentemente dalla considerazione degli sviluppi evolutivi che traversa la collettività a cui lo si applica.

La divisione in classi nettamente distinte dai privilegi economici fa sì che il valore di un pronunziato maggioritario perda ogni valore. La nostra critica confuta l’inganno che il meccanismo dello Stato democratico e parlamentare uscito dalle costituzioni liberali moderne sia una organizzazione di tutti i cittadini e nell’interesse di tutti i cittadini. Essendovi interessi contrastanti conflitti di classe non vi è possibile unità di organizzazione, e lo Stato resta malgrado l’esteriore apparenza della sovranità popolare l’organo della classe economicamente superiore e lo strumento della difesa dei suoi interessi. Noi vediamo la società borghese, malgrado la applicazione del sistema democratico alla rappresentanza politica, come un complesso insieme di altri organismi unitari dei quali molti si raggruppano intorno al potente organismo centralizzato dello Stato politico, poiché son quelli che sorgono dagli aggruppamenti dei ceti privilegiati e che tendono alla conservazione dell’attuale apparato sociale, altri possono essere indifferenti o mutare di indirizzo nei confronti dello Stato, altri infine sorgono nel seno dei ceti economicamente depressi e sfruttati e sono volti contro lo Stato di classe. Il comunismo dunque dimostra come la formale applicazione giuridica e politica nel principio democratico e maggioritario a tutti i cittadini mentre persiste la divisione in classi per rapporto alla economia, non vale a dare allo Stato il carattere di una unità organizzativa di tutta la società o di tutta la nazione. La democrazia politica e introdotta con questa pretesa ufficiale, ma in realtà come una forma che conviene allo specifico potere della classe capitalistica e alla vera e propria sua dittatura, agli scopi della conservazione dei suoi privilegi.

Non occorre dunque insistere molto sulla demolizione critica dell’errore per cui si attribuisce un eguale grano di indipendenza e di maturità al "voto" di ciascun elettore, sia esso un lavoratore sfibrato dall’eccesso di fatica fisica o un ricco gaudente, un accorto capitano dell’industria o un disgraziato proletario ignaro delle ragioni e dei rimedi delle sue ristrettezze, andando a cercare gli uni e gli altri una volta tanto per un lungo periodo di tempo, e pretendendo che l’aver risolto queste sovrane funzioni basti ad assicurare la calma e l’obbedienza di chiunque si sentirà scorticare e maltrattare dalle conseguenze della politica e dell’amministrazione statale.

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Chiarito così che il principio di democrazia non ha alcuna virtù intrinseca, e che non vale nulla come principio, essendo piuttosto un semplice meccanismo di organizzazione fondato su una semplice e banale presunzione aritmetica, che i più abbiano ragione e i meno abbiano torto, vediamo se ed in quanto questo meccanismo è utile e sufficiente alla vita di organizzazioni che comprendano più limitate collettività non divise dai solchi degli antagonismi di condizioni economiche, e considerate nel processo del loro sviluppo storico.

È questo meccanismo di democrazia applicabile nella dittatura proletaria, ossia in quella forma di Stato a cui dà luogo la vittoria rivoluzionaria delle classi ribelli al potere degli Stati borghesi, di modo che sia lecito definire questa forma di Stato per il suo meccanismo interno di deleghe e di gerarchie, una "democrazia proletaria"? La questione non va guardata con preconcetti. Può ben darsi che si arrivi alla conclusione che il meccanismo stesso si presti, con date modalità, e finché dalla evoluzione stessa delle cose non ne nasca uno meglio adatto, ma occorre convincersi che proprio nessuna ragione milita che ci possa far stabilire a priori il concetto di sovranità della "maggioranza" del proletariato. Questa non è ancora all’indomani della rivoluzione una collettività completamente omogenea e non costituisce una classe sola: in Russia per esempio il potere è nelle mani delle classi degli operai e dei contadini, ma è facile mostrare, se per poco si considera tutto lo sviluppo del movimento rivoluzionario, che in esso la classe del proletariato industriale, meno numerosa assai dei contadini, rappresenta una parte molto più importante, ed è quindi logico che nei consigli proletari, nel meccanismo dei Soviet, un voto di operaio valga ben più del voto di un contadino.

Non vogliamo sviluppare qui tutto l’esame dei caratteri della costituzione dello Stato proletario. Noi non lo concepiamo sotto l’aspetto immanente sotto il quale i reazionari vedono la monarchia di diritto divino, i liberali il parlamentarismo a suffragio universale, gli anarchici il non-Stato. Lo Stato proletario, come organizzazione di una classe contro altre classi che devono essere spogliate dei loro privilegi economici, è una forza storica reale che si adatta allo scopo che persegue, ossia alle necessità per cui è nata. Essa potrebbe in dati momenti prendere impulso dalle più vaste consultazioni di massa come dalla funzione di ristrettissimi organismi esecutivi muniti di pieni poteri; l’essenziale è che a questa organizzazione di potere proletario si diano i mezzi e le armi per abbattere il privilegio economico borghese e le resistenze politiche e militari borghesi, in modo da preparare poi la sparizione stessa delle classi, e le modificazioni sempre più profonde dello stesso suo compito e della sua struttura.

Una cosa è indubbia: che mentre la democrazia borghese non ha che lo scopo effettivo di escludere le grandi masse proletarie e piccolo-borghesi da ogni influenza nella direzione dello Stato, riservata alle grandi oligarchie industriali, bancarie, agrarie, la dittatura proletaria deve poter impegnare nella lotta che essa impersona i più vasti strati della massa proletaria e anche quasi proletaria. Ma il raggiungimento di questo scopo non si identifica affatto, se non per chi è suggestionato da pregiudizi, con la formazione di un vasto ingranaggio di consultazione elettiva: questa può essere troppo e – più sovente – troppo poco, facendo sì che dopo una simile forma di partecipazione molti proletari si astengano da altre manifestazioni attive nella lotta di classe. D’altra parte la gravità della lotta in certe fasi esige prontezza di decisioni e di movimenti e centralizzazione della organizzazione degli sforzi in una direzione comune. Per accoppiare queste condizioni lo Stato proletario, come la esperienza russa ci indica con larghezza di elementi di ammaestramento, fonda il suo ingranaggio costituzionale su caratteristiche che vengono direttamente a lacerare i canoni della democrazia borghese, per cui i fautori di questa gridano a violazione di libertà, mentre non si tratta che di smascheramento di pregiudizi filistei con cui la demagogia ha sempre assicurato il potere dei privilegiati.

     Il meccanismo costituzionale dell’organizzazione di Stato nella dittatura del proletariato non è solo consultivo ma al tempo stesso esecutivo, la partecipazione, se non di tutta la massa degli eleggenti per lo meno di un vasto strato di loro delegati, non è intermittente ma continua nelle funzioni della vita politica. È interessante come questo si raggiunga senza danno anzi parallelamente al carattere unitario dell’azione di tutto l’apparato, proprio coi criteri opposti a quelli dell’iperliberalismo borghese: ossia sopprimendo sostanzialmente il suffragio diretto e la rappresentanza proporzionale, dopo essere passati sopra l’altro sacro dogma del suffragio uguale, come abbiamo visto.

Non intendiamo qui stabilire che questi nuovi criteri introdotti nel meccanismo rappresentativo, o fissati in una costituzione, siano tali per ragioni di principio: in nuove circostanze potrebbero cambiare, e in ogni caso ci teniamo a chiarire che non attribuiamo nessuna intrinseca virtù a queste forme di organizzazione e di rappresentanza, traducendosi quanto andiamo dimostrando in una tesi marxista basilare che può enunciarsi così: «la rivoluzione non è un problema di forme di organizzazione». La rivoluzione è invece un problema di contenuto, ossia di movimento e di azione delle forze rivoluzionarie in un processo incessante, che non si può teorizzare cristallizzandolo nei vari tentativi di una immobile "dottrina costituzionale".

In ogni modo nel meccanismo dei consigli operai non troviamo il criterio proprio della democrazia borghese per cui ogni cittadino designa direttamente il suo delegato nella rappresentanza suprema, il parlamento. Vi sono invece vari gradi di consigli operai e contadini, sempre più allargati territorialmente fino al Congresso dei Soviet. Ogni consiglio locale o distrettuale elegge i suoi delegati al Consiglio superiore, come elegge la sua amministrazione, ossia il corrispondente organo esecutivo. Mentre alla base, nei consigli iniziali di città e di campagna, vi è la consultazione di tutta la massa, nella elezione dei delegati ai consigli superiori e delle altre cariche ciascun aggruppamento di elettori non vota a sistema proporzionale ma a sistema maggioritario, scegliendo i suoi delegati secondo le liste proposte dai partiti. Del resto siccome il più delle volte si tratta di eleggere un solo delegato che rappresenta il legame tra un grado inferiore e un grado superiore di consigli, è evidente come cadano contemporaneamente scrutinio di lista e rappresentanza proporzionale, dogmi del liberalismo formale.

     Dovendo ogni strato di consigli dar luogo a organismi che non sono solo di consultazione ma anche di amministrazione strettamente collegata all’amministrazione centrale è naturale che man mano che si sale verso le rappresentanze ristrette si debbano avere non le assemblee parlamentari di chiacchieroni che interminabilmente disputano senza mai operare, ma dei corpi ristretti ed omogenei atti a dirigere l’azione e la lotta politica e il cammino rivoluzionario concorde di tutta la massa così inquadrata.

Un simile meccanismo si completa di quelle virtù, che assolutamente nessun progetto costituzionale comprende nel proprio seno per via automatica, attraverso la presenza di un fattore di primissimo ordine nel quale il contenuto sorpassa di gran lunga la pura forma organizzativa e di cui la coscienza e la volontà collettive operanti permettono di impiantare il lavoro sulle necessità di un lungo processo incessantemente avanzante: il partito politico. Questo è l’organo che più può approssimarsi ai caratteri di una collettività unitaria omogenea e solidale nell’azione. In realtà esso comprende una minoranza della massa, ma i coefficienti che esso presenta in confronto di ogni altro organismo di rappresentanza basato su larghissimi strati sono appunto tali che dimostrano come il partito rappresenti gli interessi ed il movimento collettivo meglio di ogni altro organo. Nel partito politico si realizza la partecipazione continua e ininterrotta di tutti i componenti alla esecuzione del lavoro comune, e una preparazione alla soluzione dei problemi di lotta e di ricostruzione di cui il grosso della massa non può avere coscienza che nel momento in cui si delineano.

      Per tutte queste ragioni è naturale che in un apparecchio di rappresentanza e di deleghe che non sia quello della menzogna democratica, ma che si fondi su uno strato della popolazione che fondamentali comuni interessi sospingono nel corso della rivoluzione, le scelte spontanee cadono sugli elementi proposti dal partito rivoluzionario attrezzato per le esigenze del processo di lotta e di problemi a cui ha potuto e saputo prepararsi.

     Noi diremo più oltre qualche cosa per dimostrare come nemmeno al partito attribuiamo queste facoltà per il semplice effetto del suo speciale criterio di costituzione: il partito può essere e non essere adatto al suo compito di propulsore dell’opera rivoluzionaria di una classe, non il partito politico in generale, ma un partito, ossia quello comunista, può corrispondere a simile funzione, e lo stesso partito comunista non è preventivamente assicurato dai cento pericoli della degenerazione e della dissoluzione. I caratteri positivi che pongono il partito all’altezza del suo compito non stanno nel meccanismo dei suoi statuti e nelle nude misure di organizzazione interna, ma si realizzano attraverso il suo processo di sviluppo e la sua partecipazione alle lotte e all’azione come formazione di un indirizzo comune intorno a una concezione di un processo storico, a un programma fondamentale, che si precisa come una coscienza collettiva, ed a una sicura disciplina di organizzazione al tempo stesso. Gli sviluppi di queste idee sono contenuti nelle tesi sulla tattica del partito presentate al Congresso del Partito Comunista d’Italia, e note al lettore.

Per ritornare alla natura dell’ingranaggio costituzionale della dittatura proletaria, che abbiamo detto essere nei suoi successivi gradi sia legislativo sia esecutivo, dobbiamo aggiungere qualche cosa per precisare rispetto a quali compiti della vita collettiva un tale ingranaggio abbia funzioni ed iniziative esecutive, che danno ragione alla sua stessa formazione ed ai rapporti del suo elastico meccanismo in continua evoluzione. Intendiamo riferirci al periodo iniziale del potere proletario paragonabile alla situazione che ha attraversato nei quattro anni e mezzo decorsi la dittatura proletaria in Russia; non vogliamo spingerci nel problema dell’assetto definitivo delle rappresentanze in una società comunista non divisa in classi, approssimandoci alla quale si delinea una evoluzione di organismi che non possiamo prevedere in tutto ma solo intravedere nella direzione di una fusione di tutti i vari organi: politici, amministrativi, economici, con la progressiva eliminazione di ogni elemento coercitivo e della stessa entità Stato come strumento di potere di classe e di lotta contro le altre classi sopravviventi.

Nel periodo di inizio della dittatura proletaria questa ha un compito enormemente gravoso e complesso, che si può suddividere in tre sfere di azione: politica, militare ed economica. Il problema militare della difesa interna ed esterna contro gli assalti della controrivoluzione, come quello della ricostruzione della economia su basi collettive, hanno come loro fondamento l’esistenza e l’applicazione di un piano sistematico e razionale di utilizzazione di tutti gli sforzi, in una attività che deve riuscire a essere fortemente unitaria pur utilizzando, anzi proprio per utilizzare con maggior rendimento le energie di tutta la massa. Per conseguenza l’organismo che, in primo luogo, conduce la lotta contro il nemico esterno e interno, ossia l’esercito (e la polizia) rivoluzionario deve essere fondato su una disciplina e una gerarchia centralizzata nelle mani del potere proletario: anche l’esercito rosso resta dunque una unità organizzata, una gerarchia costituita dall’esterno, ossia dal governo politico dello Stato proletario, e altrettanto si dirà della polizia e della magistratura rivoluzionaria.

     Più complessi aspetti ha il problema della macchina economica che il proletariato vincitore edifica per dare la base al nuovo sistema di produzione e di distribuzione. Non possiamo qui che ricordare come la caratteristica che differenzia questo razionale apparato di amministrazione dal caos della economia privata borghese sia la centralizzazione. La gestione di tutte le aziende si intende fatta nell’interesse della collettività tutta e coordinatamente alle esigenze di tutto il piano di produzione e di distribuzione. D’altra parte la macchina economica, e lo schieramento dei singoli che vi sono addetti, si modifica di continuo non solo per il procedere graduale della sua costruzione ma anche per le crisi inevitabili in un periodo di così vasta trasformazione accompagnato dalla lotta politica e militare.

     Da queste considerazioni si giunge a conchiudere che nel periodo iniziale della dittatura proletaria, se i consigli dei vari gradi devono dar luogo contemporaneamente a designazioni di ordine legislativo per i gradi superiori e a designazioni esecutive per le amministrazioni locali, bisogna lasciare al centro la gestione responsabile in senso assoluto della difesa militare, e in senso meno rigido della campagna economica, mentre gli organi locali valgono a inquadrare politicamente le masse per la loro partecipazione all’attuazione di quei piani e il loro consenso all’inquadramento militare ed economico, creando il terreno di una loro attività più larga e continua che sia possibile intorno ai problemi della vita collettiva, incanalandola nella formazione della organizzazione fortemente unitaria che è lo Stato proletario.

Queste considerazioni su cui non ci dilunghiamo servono a provare, non che gli organi intermedi della gerarchia statale non debbano avere una possibilità di movimento e di iniziativa, ma che non è possibile teorizzare lo schema della loro formazione come quello di una adesione precisa ai compiti effettivi militari o economici della rivoluzione, formando gli aggruppamenti di elettori proletari secondo le aziende produttive o reparti dell’esercito. Il meccanismo di tali aggruppamenti non agisce per speciali attitudini inerenti al suo schema e al suo scheletro, quindi le unità che raggruppano gli elettori alla base si possono fare con criteri empirici, anzi si formeranno da sé con criteri empirici, tra i quali può essere la confluenza nel luogo di lavoro come nella abitazione o nella guarnigione, o al fronte, o in altri momenti della esistenza quotidiana, senza che a priori nessuno se ne possa escludere o elevare a modello. Ma il fondamento delle rappresentanze di Stato della rivoluzione proletaria resta una suddivisione territoriale di circoscrizioni nel seno delle quali avvengono le elezioni.

     Tutte queste considerazioni nulla hanno di assoluto, e ciò conduce alla nostra tesi che nessuno schema costituzionale ha valore di principio, e che la democrazia maggioritaria intesa nel senso formale e aritmetico non è che un metodo possibile per la coordinazione dei rapporti che si presentano nel seno degli organismi collettivi al quale da nessuna parte si può costruire una presunzione di necessità o di giustizia intrinseca, non avendo per noi marxisti queste espressioni addirittura alcun senso, e non essendo d’altra parte il nostro proposito quello di sostituire all’apparato democratico da noi criticato un altro progetto meccanico di apparato esente per sé stesso da difetti ed errori.

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Ci sembra di aver detto abbastanza sul principio di democrazia nella sua applicazione allo Stato borghese, con la pretesa di abbracciare tutte le classi, e anche nella sua applicazione alla sola classe proletaria come base di uno Stato dopo la vittoria rivoluzionaria. Resta a dire qualcosa di quegli organismi che esistono in seno al proletariato prima (e anche dopo) della conquista del potere: sindacati economici e partito politico, in ordine alla applicazione nei loro rapporti di struttura del meccanismo democratico.

Stabilito che una vera unità di organizzazione non è possibile che sulla base di una omogeneità di interessi tra i componenti la organizzazione stessa, resta indiscutibile che, poiché nei sindacati e nel partito si aderisce sulla base di una spontanea decisione a partecipare a un certo ordine di azioni, si può esaminare il funzionamento del meccanismo democratico e maggioritario senza applicarvi una critica dell’ordine di quella che distrugge totalmente ogni suo valore nel caso dell’artificiosa unificazione costituzionale delle diverse classi dello Stato borghese; sempre però senza lasciarsi fuorviare dal concetto arbitrario della "santità" dei pronunziati di maggioranza.

Il sindacato ha rispetto al partito il carattere di una più completa identità di interessi materiali e immediati: entro i rispettivi limiti della categoria esso raggiunge una grande omogeneità di composizione e può da organismo ad adesione volontaria tendere a divenire un organismo a cui per definizione, o nello Stato proletario a una certa fase di sviluppo, aderiscono obbligatoriamente tutti i lavoratori di una data categoria o industria. È indubbio che in un tal campo il numero resta il coefficiente decisivo e la consultazione maggioritaria ha un grande valore; ma alla sua considerazione schematica si deve aggiungere quella degli altri fattori che si agitano nel seno della organizzazione sindacale: una gerarchia burocratizzata di funzionari che lo immobilizzano nel loro dominio e i gruppi di avanguardia che il partito politico rivoluzionario vi costituisce per condurlo sul terreno dell’azione rivoluzionaria.

     In questa lotta molte volte i comunisti dimostrano come i funzionari della burocrazia sindacale violino il concetto democratico e si infischino della volontà della maggioranza. È giusto fare questo perché essi capi sindacali di destra ostentano la loro mentalità democratica e occorre mostrarli in contraddizione, come si fa dei liberali borghesi ogni volta che frodano e coartano la consultazione popolare, pur non facendosi l’illusione che questa, anche se liberamente effettuata, risolverebbe i problemi che premono sul proletariato. È giusto e opportuno farlo perché nei momenti in cui le grandi masse si muovono per effetto di situazioni economiche è possibile spostare l’influenza dei funzionari, che e un’influenza extraproletaria e proveniente, sebbene non in forma ufficiale, da classi e poteri estranei all’organizzazione sindacale, e aumentare l’influenza dei gruppi rivoluzionari.

     Ma in tutto ciò non vi sono preconcetti "costituzionali", e pur di essere compresi dalla massa e di poterle dimostrare che agiscono nel senso dei suoi interessi meglio intesi, i comunisti possono e devono regolarsi elasticamente rispetto ai canoni della democrazia interna sindacale; non vi è ad esempio alcuna contraddizione tra queste due attitudini tattiche: prendere la rappresentanza di minoranza negli organi direttivi del sindacato fino a che gli statuti lo consentono, e sostenere che questa rappresentanza statutaria deve essere soppressa allo scopo di rendere più agili gli organi esecutivi, appena questi sono da noi conquistati.

     Tutta la guida in questa questione è l’attenta analisi del processo di sviluppo dei sindacati nella fase attuale: si tratta di accelerare la loro trasformazione da organi di influenze controrivoluzionarie sul proletariato in organi di lotta rivoluzionaria; e i criteri di organizzazione interna non valgono in se stessi, ma in quanto si coordinano a questi fini.

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     Resta infine l’analisi dell’organizzazione partito, dei cui caratteri abbiamo tuttavia già detto a proposito dell’ingranaggio dello Stato operaio. Il partito non parte da una identità di interessi economici così completa come il sindacato, ma in compenso stabilisce l’unità della sua organizzazione su una base tanto più vasta quanto è la classe in confronto alla categoria. Non solo il partito si estende sulla base dell’intera classe proletaria nello spazio, fino a divenire internazionale, ma altresì nel tempo: ossia esso è lo specifico organo la cui coscienza e la cui azione rispecchiano le esigenze del successo nell’intero cammino di emancipazione rivoluzionaria del proletariato.

     Queste note considerazioni ci obbligano, nello studiare i problemi di struttura e di organizzazione interna del partito, a tener di vista tutto il processo della formazione e della vita di esso nei complessi compiti a cui risponde. Non possiamo alla fine di questa già lunga trattazione entrare nei dettagli a proposito del meccanismo con cui nel partito dovrebbero avvenire le consultazioni della massa degli aderenti, il reclutamento, la designazione delle cariche in tutta la gerarchia. È indubitato che finora non vi è di meglio da fare che attenersi per lo più al principio maggioritario. Ma, secondo quanto insistentemente mettiamo in vista, non è il caso di elevare a principio questo impiego del meccanismo democratico.

     A fianco di un compito di consultazione analogo a quello legislativo degli apparati di Stato, il partito ha un compito esecutivo che corrisponde addirittura nei momenti supremi di lotta a quello di un esercito, che esigerebbe il massimo di disciplina gerarchica.

     In via di fatto, nel complicato processo che ci ha portato ad avere dei partiti comunisti, la formazione della gerarchia è un fatto reale e dialettico che ha lontane origini e che risponde a tutto il passato di esperienza, di esercitazione del meccanismo del partito. Non possiamo concepire una designazione di maggioranza del partito come aprioristicamente tanto felice nella scelta quanto quella di un giudice infallibile e soprannaturale che dia i capi alle collettività umane, a cui credano coloro secondo i quali è un dato di fatto la partecipazione ai conclavi dello Spirito Santo. Perfino in un organismo nel quale, come nel partito, la composizione della massa è il risultato d’una selezione, attraverso la spontanea adesione volontaria, e il controllo del reclutamento, il pronunziato della maggioranza non è per sé stesso il migliore, e solo per effetto di coincidenze nel lavoro concorde e ben avviato esso viene a contribuire al migliore rendimento della gerarchia operante, esecutiva del partito.

     Che esso debba essere sostituito da un altro meccanismo, e quale sia questo, qui non proponiamo ancora né indaghiamo in dettaglio: certo che una simile organizzazione che sempre più si liberi dai convenzionalismi del principio di democrazia è ammissibile, e non deve essere respinta con ingiustificate fobie, quando si potesse dimostrare che altri coefficienti di decisione, di scelta, di risoluzione dei problemi si presentano più consoni alle reali esigenze dello sviluppo del partito e della sua attività, nel quadro della storia che si svolge.

     Il criterio democratico è finora per noi un accidente materiale per la costruzione della nostra organizzazione interna e la formulazione degli statuti di partito: esso non è l’indispensabile piattaforma. Ecco perché noi non eleveremmo a principio la nota formula organizzativa del "centralismo democratico". La democrazia non può essere per noi un principio; il centralismo lo è indubbiamente, poiché i caratteri essenziali dell’organizzazione del partito devono essere l’unità di struttura e di movimento. Per segnare la continuità nello spazio della struttura di partito è sufficiente il termine centralismo, e per introdurre il concetto essenziale di continuità nel tempo, ossia nello scopo a cui si tende e nella direzione in cui si precede verso successivi ostacoli da superare, collegando anzi questi due essenziali concetti di unità, noi proporremmo di dire che il partito comunista fonda la sua organizzazione sul "centralismo organico". Così, conservando quel tanto dell’accidentale meccanismo democratico che ci potrà servire, elimineremo l’uso di un termine caro ai peggiori demagoghi e impastato di ironia per tutti gli sfruttati, gli oppressi, e gli ingannati, quale quello di "democrazia", che è consigliabile regalare per esclusivo loro uso ai borghesi e ai campioni del liberalismo variamente paludato talvolta in pose estremiste.

Da: Rassegna Comunista, n. 18, 28 febbraio 1922.