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Comunismo n. 2 - maggio-agosto 1979
 
OPPRESSIONE DELLA DONNA E RIVOLUZIONE COMUNISTA
 
  • Presentazione
  • 1. Origine della schiavitù delle donne
    La prima divisione in classi della Società - La sottomissione della donna nelle società proprietarie - Nessuna distinzione tra prostituta e moglie legale
  • 2. Nascita e dissoluzione della famiglia
    La famiglia borghese - La realtà della famiglia proletaria - Patria e famiglia capisaldi dello sciupio sociale
  • 3. La questione femminile
    L’utopia del femminismo interclassista - La condizione della donna proletaria
  • 4. Il partito di fronte alle rivendicazioni democratiche
    Il diritto di voto - La libertà di divorzio - Il diritto all’aborto contro l’atrocità dell’aborto clandestino - Solo il Comunismo libererà la piena individualità e socialità della donna
  • 5. Coincidere della lotta di classe e della lotta di emancipazione femminile
    Creare un movimento di massa sotto la direzione dei comunisti - Per scagliare le rivendicazioni femminili contro lo Stato borghese
  • Conclusione

  • Appendice:
    – III Congresso della Internazionale Comunista, 1921, Tesi sulla propaganda tra le donne
    Principi generali - Metodi di azioni tra le donne - Il lavoro politico del partito tra le donne (nei paesi a regime soviettista - nei paesi capitalistici - nei paesi economicamente arretrati, in Oriente) - Metodi di agitazione e propaganda - Struttura delle sezioni - Il lavoro su scala internazionale

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    Il testo che segue e il titolo che gli abbiamo dato non hanno bisogno di ulteriori commenti. Né si poteva in questa sede riproporci di scrivere un “saggio” sulla millenaria oppressione della donna nelle società di classe, che questa è la prima tesi nostra, essendo la seconda quella che l’oppressione sulle donne verrà meno nella società senza classi e senza Stato politico, nel comunismo. Cosicché il lettore si trova di fronte un testo scritto da più mani, in più tempi, nell’arco di oltre un secolo ma rappresentante l’organica e univoca interpretazione della questione femminile secondo la tradizione di partito ed il metodo del marxismo rivoluzionario, invariate nel tempo e nello spazio, sinché vi sarà una sola donna schiacciata dalla doppia oppressione a cui la condanna il regime della proprietà privata. Questo a dimostrazione che nulla abbiamo da inventare, da scoprire, da proporre sull’intera questione che già la teoria generale della classe proletaria non conoscesse.

    Ma non può bastare, sebbene essenziale premessa, la conoscenza teorica e storica, che si ridurrebbe a pura accademia. Da essa deve seguire la indicazione di battaglia, programma ed azione politica per tradurre la dialettica conoscitiva in dialettica operativa, in dinamica, in azione tattica di partito.

    Le vicende di questi ultimi cinquanta anni mettono in luce le forme ed i mezzi escogitati dai diversi regimi borghesi, democratici, fascisti, poi di nuovo democratici, al fine di perpetuare la stessa preistorica oppressione nella moderna società proprietaria capitalistica. Sostanzialmente il cosiddetto riconoscimento della parità tra i due sessi ha assunto soltanto, nel migliore dei casi, connotati di classe, nel senso che si procede verso un uguale sfruttamento economico e sociale dell’operaio e dell’operaia. All’oppressione della donna come donna per la proletaria si è aggiunta quella del lavoro salariato, trasformandosi sempre più, in tal senso, la donna in uomo. Se ciò costituisce una esasperazione dello sfruttamento femminile è altresì dialetticamente posta la premessa per la liberazione reale, cioè sociale, delle donne, di tutte le donne. La trasformazione capitalistica dell’economia offre i mezzi sociali e politici alle donne perché trovino la loro emancipazione attraverso la lotta rivoluzionaria della classe proletaria in direzione del comunismo. È questo il senso fondamentale permanente che il testo vuol ribadire e riproporre.

    Da qualche parte si è invece creduto, in perfetto stile opportunista, di manovrare furbescamente tra le pieghe sbrindellate del femminismo radicale, fino ad avallare ipocriti “straccetti” di riforme, accreditando la manovra come comunista per il solo fatto di essere proposta da sedicenti comunisti. Si è dimenticato che si cessa di essere comunisti nel momento in cui non si agisce da comunisti. Il partito politico di classe, con tutte le limitazioni impostegli oggi da condizioni quanto mai avverse per un vasto e robusto dispiegamento di un’azione vigorosa, indica alle donne oppresse la rivendicazione dell’integrale affrancamento sociale dalla società capitalistica, chiamandole ad esigere, fin da oggi, non riconoscimenti giuridici, utili solo per spartire titoli di proprietà, buoni, quindi, per la donna borghese, ma conquiste materiali, la cui solidità riposa, comunque, nell’impiego dei metodi e dell’organizzazione di lotta della classe operaia e nella mobilitazione di classe.

    L’aspetto più vergognoso viene miseramente offerto dall’ex partito comunista, divenuto nazionale e controrivoluzionario dal momento in cui è passato nel campo della difesa dello Stato borghese. Questo partito compie ogni sforzo per la conservazione dell’istituto familiare borghese, rinnovandolo con l’appellativo di “democratico”. Basterebbe un aggettivo ed il problema sarebbe risolto. La famiglia democratica in contrapposizione alla famiglia “tradizionale” ove la donna sarebbe “democraticamente” schiava. Ad essa il mondo borghese offrirebbe la stessa falsa soluzione imposta alla classe operaia: dittatura democratica del capitale in sostituzione di quella fascista.

    L’emancipazione delle donne passa necessariamente per l’unione nella lotta con gli sfruttati; la causa della liberazione del sesso femminile è irrealizzabile senza la distruzione di ogni forma di proprietà privata sui mezzi di produzione e di ripartizione, senza la partecipazione cosciente e volontaria delle donne all’organizzazione e all’attuazione della vita collettiva, senza il comunismo. Il femminismo borghese invece prevede e lavora per l’unione delle donne proletarie con le donne della classe borghese, esclude per principio il ricorso ai metodi della lotta di classe e illude le donne oppresse che sia possibile, al di fuori dello scontro proletariato-capitale, ottenere, con la mobilitazione delle sole donne contro gli uomini, quei diritti e quella parità sociale che in questa società è raggiungibile soltanto dalle esigue minoranze delle donne dell’alta borghesia industriale ed intellettuale, in combutta con gli uomini della propria classe, e proprio grazie allo sfruttamento e all’abbrutimento della massa delle donne. Ogni concessione all’ideologia femminista si traduce in un rafforzamento delle catene con le quali il regime attuale lega la stragrande maggioranza delle donne.

    Senza la mobilitazione delle donne combattenti per il comunismo lo scontro con il capitalismo è impossibile e impossibile la vittoria, come senza la completa liberazione sociale ed individuale della donna non può esistere alcun passo reale verso il comunismo, né per le donne né per gli uomini, ché l’oppressione di un sesso ancor più abbrutisce e rende conservatore l’altro. L’ostacolo principale oggi per l’arruolamento femminile sono i partiti opportunisti del regime democratico-borghese. Lottando contro questi partiti, quindi contro l’attuale regime, alle donne si apre la possibilità di accedere alla battaglia sociale, alla conquista della vera emancipazione politica, nel senso del necessario congiungersi della loro lotta con la prospettiva e con l’indirizzo del partito comunista rivoluzionario, per lo scontro finale con il sistema capitalistico, per la distruzione dello Stato borghese, per la conquista ed il mantenimento del potere proletario.

    È quindi questo un testo di battaglia, un grido di guerra contro un mondo nemico che soltanto il partito di classe può diffondere non solo nel proletariato ma in direzione di tutti gli oppressi da questa marcia terribile società. È un indirizzo antidemocratico ed anticapitalista che promana dal programma della Sinistra Comunista, complessiva visione del trapasso generale alla futura società di specie.
     
     
     
     
     
     
     


    1. Origini della schiavitù delle donne
     
        «In questi ultimi decenni del nostro sviluppo, in tutti gli strati sociali si ebbero a manifestare un sentimento sempre più vivo e gagliardo e insieme una irriquietezza che sono indizi evidenti come la società sente che le manca il terreno sul quale è costituita. Una folla di questioni vennero a poco a poco a galla e intorno alla loro soluzione, in favore e contro di esse, si svolge la lotta. Fra queste, una delle più importanti, che attrae a sé in modo speciale la generale attenzione, è la questione della donna. Con essa si tratta di determinare il posto che deve occupare la donna nel nostro organismo sociale, affinché possa divenire non soltanto un membro attivo e vigoroso dell’umano consorzio, con parità e pienezza di diritti, ma possa anche esercitare completamente le forze e le attitudini sue in qualsiasi direzione.
        «La donna e l’operaio già da lungo tempo hanno questo di comune: che ambedue sono oppressi, e che l’oppressione, malgrado i cambiamenti di forma a cui andò soggetta, permane sempre. Se esaminiamo la storia, vediamo che tanto la donna quanto l’operaio sono giunti soltanto da poco tempo ad acquistare la coscienza della loro condizione servile; ma la donna meno dell’operaio, poiché essa di regola trovasi in una condizione inferiore a lui e da lui stesso fu ed è considerata e trattata come un essere inferiore (...) Ora poiché tanto la donna quanto l’operaio si trovano in parecchi riguardi in una condizione sociale simile ed ambedue sono oppressi, la donna ha un diritto di priorità di fronte all’operaio. La donna è il primo essere umano che cadde in servitù, e fu schiava prima ancora che lo schiavo esistesse. Tutte le oppressioni sociali hanno la loro radice nella dipendenza economica dell’oppresso dall’oppressore. In questa condizione si trova la donna dai tempi più remoti fino ad oggi» (...)
        «L’oppresso ha bisogno di chi lo stimoli e lo animi, perché gli manca la forza e la capacità dell’iniziativa. Così è stato della schiavitù, del famulato e della servitù, così è stato ed è nell’agitazione del proletariato dell’epoca moderna, e così anche nella lotta per la libertà e la emancipazione della donna, lotta intimamente connessa con quella che si combatte dai proletari» (Bebel: “La donna e il socialismo”, 1892).
    Ecco una prima importantissima affermazione marxista: anche nella lotta di emancipazione della donna, così come nella lotta di emancipazione del proletariato la coscienza di questa necessità viene portata agli oppressi dall’esterno, cioè dal partito di classe. È il partito che deve fare proprie tutte quelle rivendicazioni tendenti a questa emancipazione e organizzare l’azione pratica necessaria a questo scopo al fine di sviluppare nella massa delle donne oppresse la coscienza della necessità della lotta. Per giustificare questa posizione di partito è necessario risalire alle origini dell’oppressione della donna, e cioè all’inizio della divisione in classi della società.
     

    La prima divisione in classi della società

    Quando nasce la questione femminile? Con la fine della comunità gentilizia e l’inizio della famiglia monogamica, base della proprietà privata; con la famiglia monogamica inizia il periodo di accumulazione originaria dei mezzi di produzione e della ricchezza: la famiglia sarà una vera unità produttiva che prevedrà la totale schiavitù della donna, di tutte le donne. Non si è trattato di uno sviluppo graduale, secondo una evoluzione indolore – dalla comunità primitiva alla famiglia monogamica – ma di una vera sopraffazione di una parte del “popolo” – i maschi – che sottomette un’altra parte del “popolo” – le femmine – tutti quanti sopraffatti dalla proprietà privata il cui necessario sorgere ha avuto come conseguenza la distruzione delle forme comunistiche di vita.

    Nella comunità primitiva la donna era socialmente pari all’uomo: esisteva solo una divisione di funzioni che non dava adito però al dominio di un sesso sull’altro perché tutte le attività (dell’uomo e della donna) erano funzioni sociali e godevano della stessa considerazione all’interno della comunità. Non a caso i figli erano riconosciuti solo per via materna: non essendoci capitali o qualsiasi altra forma di proprietà privata da trasmettere, solo alla donna stava il riconoscimento in quanto lei li partoriva; perciò l’obiettivo della comunità primitiva in campo sessuale era legato unicamente alla funzione naturale della riproduzione della specie e non alla proprietà privata del maschio sulla femmina e sui figli in funzione ereditaria.

        «La famiglia – dice Morgan – è l’elemento attivo, essa non è mai stazionaria, ma progredisce da una forma più bassa ad una più alta nella misura stessa che la società sale da un gradino più basso ad uno più alto (...) Oggi dunque lo studio delle origini storiche non permette che si revochi più in dubbio il fatto, che nei tempi in cui lo sviluppo si trovava ad un livello infimo, i rapporti fra i due sessi erano del tutto diversi da quelli dei tempi meno remoti, e che dovettero sorgere e formarsi delle condizioni, le quali esaminate alla stregua delle idee moderne, sembrano mostruose, un vero pantano di scostumatezza. Ma, come ogni grado di sviluppo sociale dell’umanità ha le sue proprie condizioni di produzione, così ha pure il suo codice morale, il quale non è altro che lo specchio del suo stato sociale. È morale quanto è usanza, ed usanza soltanto ciò che risponde alla più intima essenza, cioè ai bisogni di un’epoca determinata.
        «Morgan, Bochofen e tutti quelli che si sono maggiormente addentrati nello studio delle origini storiche, vennero alla conclusione che nel grado più basso dello stato selvaggio dell’umanità, il commercio sessuale delle singole razze era costituito per modo che ogni donna apparteneva ad ogni uomo e del pari ogni uomo apparteneva ad ogni donna, cosicché non vi era alcuna differenza di età e di nascita, ma una grande comunanza (promiscuità) (...)
        La prova della paternità è impossibile là dove la donna ha più mariti. La paternità è una finzione; essa riposa, come Goethe fa dire a Federico, “soltanto sulla buona fede”. Se essa è spesso dubbia nella monogamia, è manifestamente impossibile nella poliandria, mentre la discendenza della madre è indubbia e indiscutibile. Quindi fin da principio si stabilì che la discendenza dalla madre valesse quale norma e criterio per la discendenza (...) In quel tempo si parla di matrimonium, non di patrimonium, di mater familia non di pater familias, e il paese natio si chiama paese materno. Come le precedenti forme di famiglia, anche la Gens si basava sulla comunione dei beni e si reggeva a sistema da economia comunista. La donna conduce e guida questa comunione di famiglia, gode quindi anche di una grande reputazione tanto in casa quanto negli affari della stirpe; è arbitra e giudice, provvede ai bisogni del culto ed è sacerdotessa (...) La donna è ritenuta inviolabile, il matricidio è il più grave di tutti i reati, e chiama tutti gli uomini a vendicarlo. La vendetta del sangue è lo sfogo dell’offesa recata all’onore e agli interessi della famiglia. La difesa delle donne e della casa materna, stimola gli uomini ad atti del massimo valore. Gli effetti del diritto materno, della ginecocrazia, si manifestarono in tutti i rapporti sociali degli antichi popoli, presso i babilonesi, gli assiri, gli egiziani, i greci prima del periodo eroico, le popolazioni italiane al tempo della dominazione di Roma, gli Sciiti, i Galli, gli Iberi ecc. La donna ebbe allora nella famiglia e nella vita pubblica una posizione che di poi non riuscì più mai ad occupare (...) Il passaggio del diritto della madre a quello del padre comportò anche che le donne dovevano perdere il diritto di voto; i loro figlioli non dovevano più portare il nome della madre» (Bebel: “La donna e il socialismo”).
    La promiscuità e il matriarcato sono quindi la forma delle prime comunità umane, fondamentali prove storiche che il primo aggregarsi degli uomini non conosceva gerarchie politiche e sociali quali lo Stato e la famiglia attuali, ma solo una divisione di funzioni organiche, naturali, che per svolgersi non avevano bisogno di discriminazioni antagonistiche, né sessuali, né di parentela, né di età. Questo per ribadire che l’attuale assetto sociale e politico – che la borghesia spaccia per eterno in quanto sarebbe espressione del modo “naturale” di vita dell’umanità – altro non è invece che conseguenza della divisione in classi della società sulla base della proprietà privata.
     

    La sottomissione della donna nelle società proprietarie

    A cento anni di distanza la Sinistra Comunista riconfermerà l’analisi e il giudizio dati dai marxisti di allora sulla comunità primitiva che era si ad un livello “infimo” ma solo riferito allo sviluppo delle forze produttive ma ad un livello centomila volte superiore rispetto agli attuali rapporti sociali per il grado di umanità che esprimeva. Riportiamo qui stralci tratti dal lavoro della Sinistra conosciuto col titolo “Commentari dei manoscritti di Marx del 1844, Degradazione dell’uomo e della donna” (in: “Il Programma Comunista”, 1959):

        «Nel citare questi passi è necessario adoperare a volte la parola uomo a volte la parola maschio, in quanto la prima espressione indica tutti i membri della specie, di entrambi i sessi. Può essere inutile usare la parola, aspra in italiano, femmina. Quando mezzo secolo fa si fece una inchiesta sul femminismo, misera deviazione piccolo borghese dell’atroce sottomissione della donna nelle società proprietarie, il valido marxista Filippo Turati rispose con queste sole parole: la donna... è uomo. Voleva dire: lo sarà nel comunismo, ma per la vostra società borghese è un animale, o un oggetto.
        «Nel rapporto (del maschio) con la donna, serva e preda della voluttà (del maschio e anche della propria), si trova espressa la infinita degradazione in cui l’uomo vive lui stesso (nella società attuale qualunque sia il suo sesso), perché il mistero di questo rapporto (dell’uomo agli uomini ossia alla società borghese) trova la sua espressione NON EQUIVOCA, incontestabile, MANIFESTA, svelata nel rapporto tra il maschio e la donna, e nella maniera nella quale è inteso (nella generale opinione odierna) tale rapporto che è quello immediato e naturale della vita della specie. Il rapporto immediato, naturale, necessario, dell’uomo con l’uomo è il rapporto del maschio con la donna. Dal carattere di questo rapporto (nelle varie forme storiche, vuol dire il testo) consegue lo stabilire fino a qual punto l’uomo abbia inteso sé stesso quale essere GENERICO, come UOMO (ritorna la formula che l’uomo ha diritto a tale nome solo dal momento storico in cui non vive più come uomo individuo e per il suo individuo, ma come e per il genere comprendente tutti i suoi simili)».
        «IL COMUNISMO PRIMITIVO - Questa forma è rivendicata in tutta la letteratura marxista e in pagine fondamentali di Marx e di Engels. Senza escludere la necessità che tra quel comunismo antichissimo e il comunismo per cui lotta il moderno proletariato, intercorressero le forme che nacquero colla proprietà privata, le società di classe, e la tradizione del sovrapporsi delle loro “culture”, una franca apologia di quella prima forma è in pagine del “Capitale” e della “Origine della Famiglia, della proprietà privata e dello Stato”.
        «Nella coerenza di tutta la nostra dottrina ben possiamo saggiare quella forma primigenia alla luce della struttura sessuale. Vi troveremo la grande luce del matriarcato in cui la donna, la Mater, dirige i suoi maschi ed i suoi figli, prima grande forma di potenza naturale nel vero senso, in cui la donna è attiva e non passiva, padrona e non schiava. La tradizione ne resta nella famiglia latina; mentre il termine famiglia viene da famulus, schiavo, il termine donna viene da domina, padrona. In quel primo comunismo, rozzo sì, ma non proprietario né pecuniario, la forma-amore sta ben più in alto che al tempo dei ratti leggendari; non è il maschio che conquista la donna-oggetto, ma la Mater, che non vorremo chiamare femmina, che elegge il suo maschio per il compito, a lei trasmesso in forma naturale ed umana, di diffusione della specie».
    Bebel studia minuziosamente il lento processo attraverso il quale si determinerà la distruzione della Gens ed il sostituirsi ad essa della famiglia monogamica. Una descrizione che è impossibile riportare qui per evidenti ragioni di spazio. Rimandiamo il lettore all’ineccepibile documento rappresentato dal testo originale limitandoci a pochi accenni oltre ad una citazione di Engels, che ci permettono di mettere in evidenza il radicale mutamento che subirono i rapporti fra gli uomini – e in particolar modo la posizione della donna – al termine di questo processo.
        «A mano a mano che si manifestavano (all’interno della Gens) delle differenze fra le singole attività e che cresce il bisogno di strumenti utensili, armi ecc. sorge l’arte meccanica che prende uno sviluppo a sé e si emancipa dall’agricoltura. Si forma quindi una popolazione, cittadina, dedita preferibilmente alle arti, vicino ad un’altra popolazione dedita all’agricoltura e con interessi del tutto opposti. Con ciò il principio unitario della vecchia costituzione gentilizia venne distrutto. La vecchia costituzione gentilizia fu seppellita e divenne assolutamente impossibile. Le tenne dietro la caduta del diritto materno, che segnò pure la caduta del predominio della donna. Il diritto del padre venne a pigliare il posto del diritto materno (...) venne poi la monogamia, che aveva lo scopo di creare eredi per il patrimonio privato, venutosi frattanto accumulato.
        «Il diritto materno significò comunismo, il diritto paterno significò origine e predominio della proprietà privata, e a un tempo oppressione e servitù della donna».
    Ancora Engels ne “L’origine della famiglia”, continua:
        «La monogamia così non appare in nessun modo, nella storia, come la riconciliazione di uomo e donna e tanto meno come la forma più elevata di questa riconciliazione. Al contrario essa appare come soggiogamento di un sesso da parte dell’altro, come proclamazione di un conflitto tra i sessi fin qui sconosciuto in tutta la preistoria.
        «In un vecchio manoscritto inedito da Marx e da me nel 1845 trovo scritto: “La prima divisione del lavoro è quella tra uomo e donna per la procreazione dei figli”. Ed oggi posso aggiungere: il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte di quello maschile.
        «La monogamia fu un grande progresso storico, ma contemporaneamente essa, accanto alla schiavitù e alla proprietà privata, schiuse quell’epoca che ancora oggi dura, nella quale ogni progresso è, ad un tempo, un relativo regresso, e in cui il bene e lo sviluppo degli uni si compie mediante il danno e la repressione degli altri. Essa fu la forma cellulare della società civile, ed in essa possiamo già studiare la natura di antagonismi e delle contraddizioni, che nella civiltà si dispiegano con pienezza». Engels affermerà anche che «nella famiglia egli (l’uomo) è il borghese la donna rappresenta il proletariato».
    Bebel descrive alcune conseguenze dell’avvento della monogamia e del diritto ereditario, interessanti non solo come documentazione di ciò che avvenne allora ma per ciò che tutt’oggi rappresenta la vita oppressiva di milioni di donne: prostituzione, subordinazione alla doppia morale che porta alla segregazione spirituale e sessuale delle donne di fronte allo sfacciato libertinaggio degli uomini, il doppio fardello dei figli illegittimi verso i quali sono andate a favore certe leggi attuali ma non certo l’intero assetto sociale, ecc.
        «La libertà della donna e il suo intervento nella vita pubblica, sono dunque sparite. Se essa esce di casa, deve coprirsi per non destare le concupiscenze di un altro uomo. In Oriente, dove per l’effetto del clima, caldo, le passioni sessuali sono molto ardenti, tale sistema di clausura è spinto fino agli estremi. Anche Atene, fra i popoli antichi, può in questo riguardo, servire d’esempio. La donna dorme bensì col marito, ma con lui non pranza, non lo chiama col suo nome, ma con quello di “Signore”; essa è la sua serva.
        «Non poteva presentarsi in nessun luogo a viso scoperto, e per via andava sempre velata ed abbigliata con molta semplicità. Se commetteva qualche infedeltà, giusta la legge di Solone, doveva espiare la sua colpa con la perdita della libertà o della vita. Il marito poteva venderla come schiava.
        «Ma e allora e in seguito la bisogna procedeva ben diversamente in Atene per gli uomini. Siccome l’uomo per riguardo alla procreazione di eredi legittimi – un bisogno reclamato come necessario dalla proprietà privata – imponeva alla donna una continenza rigorosa, non era punto disposto ad imporla anche a sé stesso. Di qui l’origine delle Etere, donne che eccellevano per impegno e bellezza, e preferivano la vita libera e il libero amore alla schiavitù del matrimonio (...) Ma non ci si fermò alle Etere che avevano a che fare soltanto con uomini eminenti. Fattosi acuto il desiderio di donne venali, eccoci alla prostituzione, sotto le condizioni antiche sconosciuta (...) Prescindendo affatto dalla questione se la donna è oppressa come proletaria, essa è oppressa quasi generalmente come donna nel mondo moderno della proprietà privata. Per essa esistono una infinità. di vincoli e di impedimenti ignoti all’uomo, che la impacciano ad ogni passo. Molte cose permesse all’uomo, sono negate a lei, molti diritti sociali e molte libertà che sono godute dal primo costituiscono un errore o un delitto se esercitati da essa. La donna soffre come ente sociale e nella sua qualità di donna, ed è difficile dire in quale di queste due qualità essa soffra di più (...) Giuste le idee già riferite da Kant, soltanto uomo e donna insieme formano l’uomo, il sano sviluppo della specie umana riposa sulla unione normale dei sessi. L’esercizio naturale dell’istinto sessuale è una necessità per un vigoroso sviluppo fisico e psichico dell’uomo e della donna. Ma poiché l’uomo non è un animale, per il completo soddisfacimento del suo più energico ed impetuoso istinto non gli basta il semplice appagamento del senso; egli esige anche l’attrattiva intellettuale e l’armonia con l’essere col quale si accoppia, Se codesto accordo non c’è l’accoppiamento è puramente meccanico, e tale unione si dice, a buon diritto, immorale (...) L’uomo superiore esige che la forza d’attrazione dei due sessi duri anche dopo la copula, ed estende la sua efficacia nobilitante anche all’essere vitale che nascerà dall’accoppiamento (...)
        «Dalla maggior parte delle donne il matrimonio viene considerato come una specie di istituto di collocamento, in cui esse devono entrare a qualunque costo. Viceversa, anche un grande numero di uomini considerano il matrimonio dal solo punto di vista dell’affare, e tutti i vantaggi e i danni vengono accuratamente calcolati e pesati soltanto sotto un aspetto materiale. Così ne deriva, che il matrimonio moderno è molto lontano dal raggiungere il suo scopo e che perciò esso non può considerarsi né “santo” ne “morale” (...)
        «Nel decadente impero romano, si cercava di favorire i matrimoni e le nascite mediante premi dello Stato. Nell’impero Germanico, che si trova sotto una simile costellazione come già il corrotto impero dei Cesari, si cerca di impedire collettivamente la risoluzione di numerosi matrimoni. Il risultato sarà lo stesso qui come là.
        «Vi sono in tal modo esseri che restano insieme incatenati contro la loro volontà per tutta la vita. Una parte diventa schiava dell’altra ed è costretta a subire gli abbracci più intimi e le carezze per “dovere matrimoniale”. Carezze e accoppiamenti che essa forse aborrisce più ancora degli insulti e del cattivo trattamento. Dice bene il Mantegazza: “Non vi è maggior tortura di quella che costringe un essere umano a lasciarsi accarezzare da una persona che non ama”.
        «Ed ora domandiamo: questo matrimonio (e ve ne sono senza fine) non è peggiore della prostituzione? La prostituta è almeno fino a un certo punto libera di sottrarsi al suo turpe mestiere e, se non vive in postribolo, ha il diritto di rifiutare il prezzo dell’abbracciamento di colui che per qualsiasi motivo non le piace. Ma una donna maritata deve consentire alle voglie del marito anche quando avesse mille ragioni di odiarlo e aborrirlo (...)
        «In altri matrimoni conchiusi con mira speciale di vantaggi materiali le condizioni sono un po’ meno cattive. Ci si accomoda, si trova un modus vivendi. si accetta come immutabile il fatto compiuto, perché si ha paura dello scandalo, o ci sono i figliuoli a cui si deve aver riguardo, sebbene siano appunto i figliuoli che vanno a soffrire per il contegno freddo ed insensibile dei genitori, freddezza e insensibilità che non c’è bisogno prorompano in aperta ostilità, in contese e alterchi, ovvero perché si temono danni materiali (...)
        «La donna può traviare assai più raramente: anzitutto perché è per lei più pericoloso per ragioni fisiche, come parte che concepisce, poi perché ogni passo fuori del matrimonio le viene imputato come delitto, che né il marito né la società le perdonano. La donna si decide alla separazione solo nei casi più gravi di infedeltà maritale o di seri maltrattamenti, poiché essa deve considerare il matrimonio come un istituto di mantenimento».
     
    Nessuna distinzione tra prostituta e moglie legale

    Sempre in “La Donna e il Socialismo”:

        «Se il matrimonio rappresenta un lato della vita sessuale della società borghese, la prostituzione ne rappresenta un altro. Il matrimonio è il diritto della medaglia, la prostituzione ne è il rovescio. Gli uomini che non trovano soddisfazione nel matrimonio, si gettano in braccio alla prostituzione. Chi per qualche ragione deve rinunciare al matrimonio, cerca generalmente di appagare i suoi istinti nella prostituzione. Le condizioni per il soddisfacimento di codesti istinti sono incomparabilmente più favorevoli per gli uomini che, volenti o nolenti, vivono nel celibato, o ai quali il matrimonio non dà quanto prometteva, che non lo siano per le donne. Gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi hanno considerato l’uso della prostituzione come un privilegio a loro spettante di diritto. E sono quegli stessi uomini che vigilano severamente e più severamente condannano tutte le donne che, vivendo fuori della sfera delle prostitute, commettono una colpa.
        «Abusando della loro condizione di padroni le costringono a soffocare i loro più gagliardi istinti e fanno dipendere dalla loro castità la reputazione sociale e il matrimonio. Non può esprimersi in modo più drastico la dipendenza della donna dall’uomo, che mediante questa diversità di concetti e di giudizi intorno alla soddisfazione di uno stesso e medesimo istinto, a seconda del sesso (...) Per il celibe le condizioni sono in modo particolare favorevoli. La natura non fa che segnalare nella donna la conseguenza dell’atto generativo. L’uomo oltre il piacere, non ha né pene né corre alcun rischio (...)
        «La prostituzione diventa quindi un’istituzione sociale necessaria alla società borghese come è necessaria la polizia e l’esercito stanziale, la chiesa, gli imprenditori».
    Qui si fa l’elenco dei medici dell’epoca – medici di polizia ed altri – fra i quali un certo dottor Foch che sul “Giornale trimestrale per la tutela della pubblica igiene” scriveva sotto il titolo: “La prostituzione nei riguardi etici e sanitari”.
        «Egli considera la prostituzione come un “corollario inevitabile delle nostre istituzioni civili”. Egli teme un eccesso di produzione se tutti gli uomini atti a generare si maritano, quindi ritiene importante di “regolare la prostituzione con leggi dello Stato” (...)
        «Lo Stato cristiano dichiara ufficialmente che la presente forma di matrimonio non è soddisfacente, e che l’uomo ha il diritto di procurarsi un soddisfacimento illegittimo del suo istinto sessuale. La donna non maritata non conta nello Stato come individuo se non in quanto essa si abbandona alle voglie illegittime dell’uomo, in quanto cioè essa si prostituisce. E la vigilanza esercitata dagli organi dello Stato sulla prostituzione non concerne anche l’uomo che va in cerca di prostitute (ciò che pure sarebbe ragionevole se il controllo medico dovesse avere significato ed ottenere qualche successo) mentre l’eguale applicazione della legge ai due sessi come atto di giustizia non può essere nemmeno accennata, ma colpisce soltanto la donna.
        «Codesta protezione dell’uomo rispetto alla donna per mezzo dello Stato indica la vera natura dei rapporti tra i due sessi; sembra che il sesso più debole siano gli uomini, e il sesso più forte le donne; pare che la donna sia la seduttrice, e l’uomo, il povero maschio, il sedotto».
    A dimostrazione della continuità di posizioni riportiamo un brano tratto da un articolo pubblicato su “Rassegna Comunista” del 1921 sotto il titolo “Lotta alla prostituzione”. L’articolo è di una comunista, Aleksandra Kollontaj, e non fa che riportare la posizione del partito bolscevico sia sulla prostituzione “evidente” sia, e soprattutto, per smascherare la prostituzione che si nasconde dietro il “morale” matrimonio.

    I comunisti non hanno mai accettato la contrapposizione fra l’immagine definita “immorale” della prostituta e quella definita “morale” della sposa fedele ed esemplare, moderna vestale del focolare domestico: ci si prostituisce tutte le volte che attraverso la concessione del proprio corpo sì cerca di sottrarsi ai doveri sociali, alla fatica del lavoro per la collettività.

    Perciò la dittatura del proletariato, diretta dal partito comunista, conduce sì la lotta contro la prostituzione ma non attraverso la imposizione – esclusivamente borghese – della “santa crociata” contro quelle donne che hanno avuto l’unica sventura di non trovare un compratore fisso, bensì richiamando tutte le forze idonee al lavoro comune, all’inserimento attivo nell’organizzazione sociale.

    Non a caso uno dei punti della costituzione sovietica dopo la conquista del potere in Russia affermava con estrema semplicità “chi non lavora non mangia”, elementare discriminante – sconosciuta alle società precedenti – per stabilire la moralità o la immoralità di un individuo nei confronti della Repubblica dei lavoratori indipendentemente dalla sua collocazione sociale e dal sesso.

        «Intanto cos’è la prostituta di professione? La prostituta di professione è una persona le cui energie lavoratrici non sono date a vantaggio della società, del benessere collettivo, una persona che vive a spese degli altri (...) Come si deve considerare la prostituta di professione dal punto di vista degli interessi dell’economia nazionale? Come una persona che diserta il lavoro. Nell’interesse d’un ragionato piano economico noi dobbiamo iniziare immediatamente la lotta contro questo pericolo (...) Ma quando noi consideriamo le prostitute e le combattiamo come elementi non produttivi della società non dobbiamo porle in una categoria speciale. Per noi, per la Repubblica dei lavoratori, è assolutamente indifferente che la donna si venda ad uno o più uomini, che sia una prostituta di professione che vive con cespiti diversi da quelli del proprio lavoro utile, oppure che vende le proprie carezze ad un marito legale o ad un compratore occasionale di piaceri femminili la cui identità può variare di giorno in giorno. Tutte le donne che disertano il lavoro, che non compiono nessun lavoro per i loro piccoli, sono poste allo stesso livello delle prostitute, esse devono essere obbligate a lavorare.
        «Noi non possiamo fare nessuna distinzione fra la prostituta e la moglie legale che vive a spese di suo marito, chiunque questi sia fosse pure un “commissario”».

     
     
     
     


    2. Nascita e dissoluzione della famiglia
     

    La famiglia borghese

    Aleksandra Kollontaj: “Le basi sociali della questione femminile”, 1909.

        «Nell’epoca in cui il terzo stato cominciava appena a compiere la sua grande missione – l’accumulazione di favolose ricchezze in seno alla famiglia – la solidità e la stabilità delle organizzazioni familiari erano una delle condizioni di successo della borghesia, nella lotta per l’esistenza contro gli altri strati della popolazione.
        «Non è senza ragione che la borghesia dei secoli XVII e XVIII si gloriava della propria moralità e opponeva, compiacendosene, le proprie virtù familiari ai costumi di una nobiltà depravata e frivola che non aveva compreso il grande segreto della accumulazione capitalistica e considerava la famiglia non come la custode ma come la dissipatrice delle ricchezze accumulate.
        «Per rafforzare la solidità della famiglia, per sollevare più in alto il prestigio delle virtù familiari, il terzo stato ha fatto intervenire la religione, che predice l’indissolubilità del sacramento del matrimonio; la legge che punisce l’adulterio della moglie; la morale che esalta il carattere “sacro del focolare domestico”.
        «Quando la borghesia ebbe conquistato una posizione sociale egemone, quando tutti i fili della produzione mondiale furono riuniti nelle sue mani, la sua morale, le sue regole di condotta e i suoi codici civili, che avevano il fine preciso di proteggere i suoi interessi di classe, divennero a poco a poco la legge obbligatoria anche per gli altri strati della popolazione.
        «La morale del terzo stato fu riconosciuta come la morale dell’intera umanità. Interessi strettamente materiali e di classe obbligarono la borghesia a preoccuparsi della “PUREZZA” del letto nuziale e a dare la caccia ai “FIGLI ILLEGITTIMI”, vale a dire a coloro che non potevano né dovevano ereditare foss’anche un frammento dei tesori accumulati dalla famiglia.
        «Questi interessi materiali contribuiscono al consolidamento della norma della “DOPPIA MORALE” e all’istituzione di severe disposizioni di legge nel campo del diritto familiare. E noi tutti educati secondo norme artificiali di morale sessuale, che avevano l’unico scopo di proteggere gli interessi della borghesia, noi c’inchiniamo ancora davanti a questi principi di classe come davanti a categorie altamente ideologiche, noi siamo pronti a riconoscerli come i principi normativi della vita morale! Il matrimonio monogamico venne dichiarato istituzione sociale permanente e intangibile, mentre contemporaneamente il modo di produzione capitalistico fu proclamato forma definitiva ed eterna della vita economica dell’umanità. Qualsiasi punto di vista evoluzionistico sul matrimonio fu perseguitato e condannato con lo stesso accanimento e lo stesso odio che si metteva nel contestare e nel negare l’evoluzionismo nella vita economica della società.
        «La proprietà e la famiglia sono legate troppo strettamente: se uno di questi pilastri del mondo borghese è stato scosso, la solidità dell’altro diviene incerta. Per questo la borghesia ha difeso sempre così accuratamente le proprie basi familiari (...)
        «Qualsiasi forma di rapporti sociali fra gli uomini esige, per essere solida, l’esistenza di cause economiche che, al loro tempo, abbiano fatto nascere precisamente questa forma di rapporti sociali e non un’altra. Nell’epoca in cui dominava l’economia naturale la famiglia era prima di tutto una cellula economica, produttrice di tutti i beni indispensabili al gruppo di persone che la componeva.
        «A mano a mano che si sviluppava e si rafforzava l’economia di scambio, i membri della famiglia erano sempre maggiormente in grado di soddisfare i propri bisogni senza l’aiuto di essa in quanto cellula economica; nondimeno, fino al XIX secolo, fino all’alba cioè della grande produzione capitalistica, la famiglia conservò tutta una serie di piccole funzioni economiche, che recavano l’elemento materiale determinante e decisivo nella morale dell’unione matrimoniale. Finché nella famiglia risiedeva, in misura più o meno grande un valore produttivo, la sua esistenza sociale era assicurata; potenti legami vitali univano i suoi membri più solidamente di quanto non potessero fare le leggi più severe e le norme morali più coercitive. Ma dal momento in cui la grande produzione capitalistica strappò di mano alla famiglia le sue prerogative economiche la famiglia perdette il proprio valore di cellula economica necessaria e al tempo stesso fu condannata ad una lenta ma ineluttabile disgregazione.
        «Dove sono oggi infatti, questi solidi legami che rendevano la famiglia così tenace e così stabile? Tanto per cominciare prendiamo la famiglia borghese e vediamo quali sono, tra le funzioni che da lunghi secoli le competevano, quelle che ha conservato ai giorni nostri. L’attività produttiva della famiglia nel senso della fabbricazione della lunga lista di oggetti di prima necessità, è ridotta al minimo; il campo dell’economia domestica si è ristretto fino a diventare irriconoscibile. Dove trovereste oggi una famiglia borghese che si occupi di fabbricare le proprie candele, il sapone e la birra, il filo e il tessuto, di conservare i prodotti per l’inverno, di cuocere il pane, di cucire i vestiti?
        «Non c’è necessità né profitto a consumare le forze dei membri della famiglia per produrre o fabbricare oggetti – fossero anche di prima necessità – che ci si può procurare a buon mercato in qualsiasi negozio. Uno dopo l’altro i rami della produzione sono sfuggiti di mano all’economia domestica per diventare oggetti di speculazione industriale (...)
        «Ma se all’interno della famiglia sono cessate la fabbricazione e la produzione di oggetti di uso corrente, la famiglia ha forse conservato tuttavia, altre funzioni economiche? Perché dopotutto, nel corso dei numerosi secoli della sua esistenza, la famiglia non è stata soltanto creatrice indipendente di ricchezze ma anche la fedele custode di esse.
        «La casa, la mobilia, il tesoro familiare: tutto era protetto e conservato devotamente dalla famiglia. Poco mobile, attaccata alla proprietà alla terra, alla casa, nel recente passato la famiglia costituiva lo strumento più sicuro per la conservazione delle ricchezze familiari, e in queste condizioni, la solidità dei legami familiari era strettamente connessa agli interessi materiali della stirpe. Se la famiglia si fosse disgregata le ricchezze familiari sarebbero state disperse dilapidate. Oggi le cose vanno in altro modo: le banche ed altri istituti di risparmio sì sono assunti in maniera totale l’incarico che adempiva la famiglia, di conservare i beni; sono questi istituti – e non le unioni morali e sessuali delle coppie – che si assumono la custodia e la conservazione delle ricchezze familiari già accumulate.
        «Inoltre queste ricchezze sempre più spesso assumono la forma di titoli al portatore, i quali non esigono assolutamente nessun incarico particolare da parte dei membri della famiglia. Con la mobilità sempre crescente della vita, con lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, che permettono alla famiglia di traslocare sempre più frequentemente, una mobilia voluminosa diventa un fardello; in queste condizioni l’unica forma di ricchezza che non sia onerosa è il denaro e i titoli. È così che l’antica, abituale funzione della famiglia – la conservazione delle ricchezze familiari accumulate – sfugge al cerchio degli obblighi familiari.
        «Ma il consumo – questa condizione indispensabile della vita della famiglia – si pratica nella stessa misura di un tempo in seno al focolare? Il focolare domestico ha ceduto il posto ai ristoranti, ai club, alle case ammobiliate, agli hotel. L’alta borghesia ricca passa metà della sua vita andando a zonzo per le stazioni eleganti e godendo dei servizi degli hotel-palaces; la media e piccola borghesia, per sbarazzarsi delle noiose responsabilità familiari e ridurre le spese domestiche, abita nelle case a ammobiliate, mangia nei ristoranti; lavora nelle biblioteche e nei laboratori pubblici; nei musei e nelle gallerie nazionali. A mano a mano che, in seguito alla domanda crescente di forza-lavoro a buon mercato in tutti i campi, la donna viene attratta fuori della sua stretta cellula familiare e congiunta al fiume della popolazione attiva, questo genere di vita si diffonde sempre più (...) Adesso, nella piccola e anche nella media borghesia, la donna copre sempre più spesso, grazie al suo salario, una parte dei bisogni domestici; la dipendenza della moglie nei confronti del marito e della figlia nei confronti del padre ne risulta distrutta alla radice e, uno dopo l’altro, si rompono i potenti legami che un tempo stringevano i membri della famiglia borghese fra di loro.
        «Che cosa resta della famiglia ai giorni nostri? Quali funzioni le spettano ancora, quali legami stringono ancora i suoi membri? Forse l’educazione dei figli? Ma dove sono le madri e i padri borghesi che si occupano loro stessi dell’educazione e dell’istruzione della propria prole? Non solo la piccola e media borghesia, ma anche l’alta borghesia non disdegna più gli istituti d’insegnamento pubblico. Le scuole materne primarie conoscono un’espansione senza precedenti per non parlare degli istituti d’insegnamento secondario e superiore. La funzione dell’educazione esattamente come gli altri ruoli della famiglia, è uscita fuori della cellula familiare per passare a carico della società e dello Stato.
        «Che resta dopo di ciò alla famiglia? Qual’è il suo compito nella struttura individualistica e di classe della società contemporanea? Unicamente la trasmissione in linea diretta del patrimonio acquisito.
        «I molteplici ostacoli attualmente opposti al divorzio hanno il fine di favorire l’adempimento di quest’unico compito della famiglia d’oggi – famiglia che non è al servizio dei bisogni morali della persona, ma a quello degli interessi della proprietà (...)
        «Non bisogna dimenticare nemmeno che le leggi di tutti gli Stati ostacolano con tutti i mezzi lo scioglimento dei matrimoni, e in questo modo, impedendo con la forza la rottura di unioni utili come quella dei milioni con i titoli di nobiltà, o quella della terra con il capitale».
    Come si verifica la distruzione della famiglia negli altri strati sociali? A. Kollontaj fa un’ampia analisi della disgregazione della famiglia contadina – prendendo esempio dalla retrograda Russia – che non riportiamo integralmente essendo un fenomeno già portato alle estreme conseguenze, ai giorni nostri, dallo stesso capitalismo; basti vedere il rapporto fra città e campagna nettamente a sfavore, numericamente, del contadiname, come conseguenza della proletarizzazione della popolazione contadina che semmai ritorna alla terra sotto forma di mano d’opera salariata. Accenniamo solo ad alcuni fatti riguardanti l’inizio dell’esodo delle donne contadine dalla famiglia patriarcale quale inizio del loro processo di emancipazione dalla schiavitù familiare: il passaggio dalla grande famiglia “Clan” dove l’unica volontà è quella del capo famiglia, alla “piccola famiglia” dove il lavoro delle donne è ben misurabile e dove la donna ha una maggiore libertà d’azione e la possibilità di conquistare una situazione indipendente di padrona; il consistente moltiplicarsi dei voti monastici femminili, testimonianza che il malcontento delle donne della classe contadina cresce con l’evoluzione delle forme familiari; l’immissione delle donne contadine nei lavori stagionali costrette spesso a cambiar provincia per guadagnare un salario agricolo; essa è già un nuovo tipo di contadina,
    «la cui psicologia ricorda piuttosto quella dell’operaia di fabbrica che quella della comare rassegnata del villaggio, la quale docilmente si carica di tutte le fatiche della vita domestica consacrate dalla tradizione della vita patriarcale (...) Lentamente ma costantemente, vediamo compiersi nella famiglia contadina una serie di profondi cambiamenti, i quali distruggono la sua secolare stabilità».
     
    La realtà della famiglia proletaria

    Aleksandra Kollontaj, riportato nello stesso opuscolo, affronta l’esame della famiglia proletaria.

        «Resta lo strato più numeroso della società contemporanea, LA CLASSE DEI PROLETARI. Come si presenta la questione della famiglia in questa classe della popolazione? Non troveremo almeno qui, condizioni tali da assicurare la vitalità dell’attuale struttura familiare? D’altra parte si può porre seriamente questa domanda? Dov’è la famiglia per l’operaio moderno, per colui che vende la propria forza lavoro? L’alba spunta appena quando marito e moglie si affrettano a lasciare il loro stretto e povero alloggio per obbedire docilmente all’appello della sirena delle fabbriche e sottomettersi con rassegnazione al potere del loro padrone senz’ anima ma onnipotente, LA MACCHINA. Gli sposi restano fuori casa fino a tarda ora della serata; i figli sono affidati alle cure del buon dio; nel migliore dei casi è una vicina di casa anziana oppure una che ha perduto la capacità di lavoro ad occuparsi di loro (...) la strada, rumorosa e sporca, depravata: ecco la loro educatrice, ecco la prima scuola dei figli dei proletari (...) Se l’officina è lontana dalla casa i genitori, all’ora di pranzo, non hanno il tempo di andare a dare una occhiata alla loro abitazione abbandonata a se stessa. Gli inquilini uomini e donne, i malati, gli alcolizzati, i vecchi e i bambini, tutti gli intrusi e gli estranei distruggono l’ultima illusione d’isolamento familiare.
        «La miseria, ossessionante, bussa alla finestra e spia con occhi avidi la disgrazia improvvisa – malattia, disoccupazione, morte di un membro della famiglia, nascita di un figlio – per conficcare le sue unghie uncinate nella famiglia proletaria, per dilaniarla e disperderla da qualche parte (...)
        «In tali condizioni il matrimonio, quand’anche sia il risultato d’una reciproca inclinazione, si trasforma ben presto in un giogo intollerabile che ciascuno dal canto suo cerca di dimenticare nella vodka (...)
        «Il basso salario del marito, la domanda continua, da parte del capitale di mani femminili a buon mercato spingono la moglie nelle grandi braccia aperte della produzione capitalistica. Ma dal momento in cui le grandi porte della fabbrica si sono richiuse sulla donna lavoratrice la sorte della famiglia proletaria è decisa. Lentamente ma inesorabilmente la vita dell’operaio va verso la rovina. Il focolare si spegne e cessa di essere il centro d’unione dei membri della famiglia. Quale beffa, quale bestemmia in tutte quelle esclamazioni sentimentali della borghesia sul “carattere sacro” del “focolare domestico” e della “maternità”, quando milioni, decine di milioni di madri non sono neppure in grado di adempiere ai propri obblighi più elementari. All’appello imperativo del capitale le madri strappano dal proprio seno il figlio, che ancora non distingue il giorno dalla notte, e docilmente vanno a bussare alle porte della fabbrica.
        «I difensori borghesi del matrimonio e della maternità sanno perfettamente come nel ventre stesso della madre i figli siano deformati o storpiati dalle emanazioni e dai gas nocivi; come milioni di bambini muoiono per aver assorbito sostanze tossiche insieme al latte materno (...)
        «Ma l’ipocrisia della borghesia non ha limiti: che importanza può avere per essa che i figli delle operaie impiegate nelle fabbriche di fiammiferi o di mercurio, nelle vetrerie o nelle fabbriche di bianco di cerussa, nascano con lo scheletro deformato, una debole attività vitale, o che nascano per morire tra dolorose convulsioni? Che importanza può avere per essa che gli aborti o i figli nati morti siano l’inesorabile risultato del rivoltante sistema di sfruttamento delle donne nell’industria? Che importanza può avere il fatto che, spinte dal furore dalla fame e dalla miseria, le madri si sbarazzino dei propri figli presso le “mammane”. Che le statistiche rivelino la crescita continua degli aborti e che, tra queste “madri criminali” si contino non solo ragazze lasciate dai fidanzati ma anche mogli legittime di proletari, rispettabili madri di famiglia?».
    Scrive Bebel:
        «La possibilità che il proletariato si elevi ad una posizione indipendente, è oggi tanta lontana che non viene neppure tenuta in considerazione dalla grande massa degli operai. Per il salariato dunque il matrimonio per denaro è impossibile, come è impossibile per la donna del suo ceto.
        «Di regola, egli si decide al matrimonio per affetto verso una donna, ma non di rado conta anche su quel guadagno che essa è in condizione di fare, ovvero sulla aspettativa che i figli si facciano valere presto come strumenti di lavoro, e provvedano così da sé alle loro spese. Non mancano però motivi perturbatori anche per il matrimonio degli operai. Una più copiosa prole dimezza la forza produttiva della donna o la toglie del tutto ed aumenta le spese. Le crisi commerciali, l’introduzione di nuove macchine o di migliorati sistemi di lavoro, le guerre, i trattati commerciali e doganali poco favorevoli, le imposte indirette, insomma tutto ci ò che perturba o muta la vita economica e industriale, diminuisce più o meno e per un tempo più o meno lungo il guadagno del lavoratore, se pur talvolta non lo getta sul lastrico.
        «Questi rovesci di fortuna amareggiano e inaspriscono la vita domestica, poiché non passa giorno ed ora che la moglie e i figlioli non domandano ciò che è strettamente necessario; e non sempre il marito può appagare tali richieste (...) La rovina del matrimonio sta qui (...) Inoltre la paura della miseria, la preoccupazione di non poter educare i figli secondo il loro stato spingono le donne di ogni classe ad atti che non sono in armonia né con gli scopi della natura, né sempre del codice penale. Fra tali atti si annoverano i molteplici mezzi per impedire il concepimento o se questo ebbe luogo pur contro volontà la soppressione del figlio immaturo, l’aborto».
    Abbiamo voluto riportare le lunghe citazioni sulla situazione della famiglia proletaria, non solo perché le riteniamo attuali per migliaia di proletari e sottoproletari del mondo intero, ma anche perché – se non abbiamo una visione statica della situazione – queste condizioni tenderanno a generalizzarsi anche nei paesi “civili” con l’inasprirsi della crisi economica che getterà milioni di operai nella disoccupazione e tanto più nell’eventualità di una futura guerra imperialistica con la quale la borghesia tenterà di risolvere la situazione critica da essa stessa determinata. Ma anche senza spingerci nel futuro possiamo citare alcuni fra i tanti esempi che dimostrano come l’analisi di Bebel di un secolo fa e di Aleksandra Kollontaj, che qualche pigro conservatore potrebbe credere limitata alla arretrata “situazione russa”, non siano affatto superate. Addirittura possiamo rimanere alla provinciale Italietta e paesi limitrofi per averne esempi a sufficienza:

    NAPOLI, con le sue migliaia di fanciulli in cerca di sbarcare il lunario sfruttati e malmenati da genitori più disperati di loro, costretti ad una esistenza da sottoproletari per l’eccesso del capitalismo decadente; la vendita dei fanciulli diffusa nel Sud: anzi non proprio di vendita si tratta ma di una tragedia di migliaia di famiglie diseredate che cercano di collocare i propri figli presso coppie di piccolo-borghesi sterili ed annoiate pur di non vederli morire di fame; le fabbriche del cancro dove i proletari uomini e donne si ammalano con grave danno anche dell’eventuale prole;

    SEVESO dove già centinaia di bambini sono nati deformati non solo a causa della sete di profitto che ha ammorbato la terra ma anche per la vecchia ipocrisia borghese (come dice Kollontaj) che tratta le madri proletarie da “criminali” perché non vogliono accettare la disperazione di figli deformi, dramma altamente aggravato dalle loro precarie condizioni economiche.

    In SVIZZERA s’impedisce ai genitori emigrati di portare i figli appresso minacciando l’estradizione e non pochi sono i casi di genitori che, incapaci di separarsi dai loro bambini, li tengono clandestinamente mentre migliaia sono i piccoli abbandonati al paese d’origine senza più “focolare domestico”, affidati a vecchi avvizziti ormai inadatti al lavoro.

    Questo l’aspetto disperato di migliaia di famiglie proletarie al giorno d’oggi, anche all’interno dei “nostri” confini nazionali.

    Certo, esiste anche – almeno per ora – l’operaio aristocratico, che non vende né sfrutta i propri figli, che magari fa studiare all’università, anche se ciò gli costa lo straordinario e, in molti casi l’impossibilità di vedere per giorni la propria moglie che fa turni di lavoro diversi; ma anche qui per niente è risolta la situazione della donna legata alla schiavitù del lavoro domestico oltre che a quello del padrone. Anzi, tanto più in questo tipo di famiglia viene accumulata una crescente grettezza ed egoismo. L’obiettivo di questa famiglia porta, nei momenti floridi del capitalismo, alla esasperata difesa delle “quattro mura domestiche” dove domina l’ideologia piccolo-borghese superindividualistica.

    Netta è la posizione della Sinistra Comunista a questo proposito: qui una citazione da “Il Programma Comunista” del 1960.

         «Il capitalismo ha distrutto il matrimonio monogamico. Anche se tale istituzione formalmente sopravvive, la sua base storica viene mano a mano sgretolandosi. Il lavoro femminile ha dimostrato ormai che tranne gli impedimenti transitori, connessi alla maternità, la donna può sostituire con successo l’uomo in qualsiasi attività. Un tempo si credeva che solo alla guerra fosse negata. Ma oggi anche questa estrema limitazione è caduta. Proprio come l’uomo, la donna oltre che produrre beni economici, ha imparato anche a macellare i propri simili. Che si vuole di più? (...) Nella famiglia anzi proprio nella famiglia moderna nella quale la moglie porta a casa un salario, o uno stipendio, si perpetuano tutte le degenerazioni egoistiche della natura umana. La famiglia è il fortilizio entro il quale l’uomo si trincera contro il proprio simile, la giustificazione di tutte le bassezze, soperchierie, le viltà che l’uomo compie contro il proprio simile. Per la famiglia, l’uomo si trasforma in una belva rapace ma la preda che porta a casa trionfante è stata strappata dalla bocca del proprio simile. E in ciò l’uomo scende al di sotto del livello delle bestie. L’aquila che esce a caccia non porta al nido il cadavere di un aquilotto. Né i cuccioli di lupo mangiano carne di lupo. Ma la legge morale borghese mi esonera dall’obbligo di contribuire alla nutrizione e all’allevamento dei bambini tuoi: anzi, poiché questi non mi appartengono cioè non fanno parte della “mia” famiglia io posso senza rimorsi affamare i “tuoi” bambini, se ciò mi permette, non dico di sfamare, ma di procurare il superfluo ai “miei”. Tale è la legge morale che regola la famiglia borghese».
     
    Patria e famiglia capisaldi dello sciupio sociale

    Per chiudere questo capitolo sulla famiglia nella società capitalistica, che tende a dimostrare che nessun tipo di famiglia è da “salvare” o da prendere come modello per la società futura (quindi nessuna riforma della famiglia ma sua totale distruzione, tale e quale come lo Stato borghese), vogliamo mettere in evidenza un altro aspetto non ultimo, ma parallelo, di negatività di questa fradicia struttura che ne fa una grossa ed insanabile contraddizione per lo stesso capitalismo: il dispendio di enormi capacità produttive che la gretta economia domestica toglie alla collettività, alla produzione sociale; le mille monotone operazioni giornaliere che richiedono intelligenza, sforzo fisico, spirito di adattamento, ecc., che però ogni nucleo familiare e particolarmente gli “angeli del focolare” dedicano unicamente ai “propri figli”, ai “propri piatti”, ai “propri vestiti”, ecc.

    Ecco quindi un’altra conferma tratta da “Il Programma Comunista” del 1962, da un articolo intitolato “Patria e famiglia, capisaldi dello sciupio sociale”.

        «Engels, passa poi alla odierna economia domestica. Egli scrive: “Se noi consideriamo la Casa, il Santo dei Santi del ricco (e ormai, noi aggiungiamo, d’ogni filisteo da ceto medio, colcosizzato a dovere dall’incafonimento cui collaborano stampa, radio, televisione) non è un folle sciupio di forze di lavoro quello di occupare tanta gente a servire un unico individuo le cui uniche occupazioni consistono nel poltrire? A che serve in realtà quel gran numero di servitori, di cuoche, di lacchè, di valletti, di cocchieri, di domestici, di giardinieri, ecc.? Essi non fanno che lavori che hanno la loro origine nell’isolamento di ogni uomo tra le sue quattro mura. Oggi è ovvia la banale obiezione che la società borghese si sarebbe liberata dal parassitismo esoso di questo personale di servizio, anzi il medio cafoname sarebbe ridotto a piangerci sopra, quando dopo i lauti pranzi lava all’americana insieme agli ospiti le stoviglie, passando in cucina. Ma in effetti le funzioni servili nel magma sociale se hanno in un certo senso cambiata l’etichetta umiliante, non hanno certo migliorato la loro utilità, e le forme che hanno preso non sono né più utili, né meno ignobili nella sostanza.
        «A questo punto il nostro maestro Engels ritiene d’aver già dimostrato “che nella nostra organizzazione razionalizzata il tempo di lavoro individuale oggi vigente, può essere già e subito ridotto della metà, col solo utilizzare le forze di lavoro che oggi non lo sono affatto o lo sono male”. Siamo nel 1845, ricordiamolo.
        «Ma Engels ritiene che non siamo ancora al punto più importante, e passa a quello della distruzione del focolare domestico familiare. Si tratta della associazione sostituita all’individuo non solo nella vita della produzione, ma in quella del consumo, anche per ora solo dei consumi materiali (...)
        «Engels si richiama qui alle proposte del contemporaneo “socialista inglese Robert Owen”. Un utopista, diciamo oggi, senza nulla togliere della stima che Marx ebbe per lui. Ma se non ci diffondiamo sulle idee schematiche che Owen prese ad attuare a New Lanark nelle sue fabbriche comunistiche, che Engels descrive per essere intelligibili a quel tempo remoto, come il palazzo quadrato di 1650 piedi di lato (circa 500 metri) e contenente un grande giardino, capace di ospitare da due a tremila persone (che forse ben decifrato è un progetto più valido di molta della ultimissima ipocrita urbanistica, specie tipo INA Casa italiana che in quasi 25 ettari ammasserebbe più di 10 mila persone!), la parte critica del passo è del tutto decisiva.
        «120 anni fa, era visione avvenirista il riscaldamento centrale. Pensate che proprio nella tradizionalista Inghilterra ancora nel 1962 si vituperano i progetti che rinunziavano al caminetto a legna in ogni camera da letto del grasso borghese (tanto più ipocrita se meno grasso)! Il geniale Owen calcolò tutte queste economie immediatamente realizzabili. Quello che Engels dimostra con i minuti conti di Owen è l’enorme volume di sciupio di forze e tempi di lavoro che comporta la sminuzzatura della umanità nelle cellule familiari molecolari, i cui effetti economici sono tuttavia meno deleteri di quelli sociali e politici in quanto è lì il vero limite che tarpa le ali alla nascita dell’uomo sociale nuovo, incapace di rendersi solidale al suo simile sotto il pretesto idiota che ha amore per sé stesso e per il suo minimo cerchio familiare, pretesto che ogni giorno di più si riduce a menzogna esosa.
        «Sotto le codine e retoriche lodi a questo tipo di società per famiglie, ormai fradicio da millenni, si nasconde una delle più turpi schiavitù, quella delle casalinghe o donne di casa da cui escono per vie parimenti degenerative e contro natura le nazioni ricche di stile americano e quelle più povere in cui le donne della classe lavoratrice, reggono due fardelli sulle loro misere spalle di sesso detto debole dalla ipocrisia dei benpensanti.
        «Con Owen, Engels deride lo sciupio del tempo perso a fare le stesse provviste in duemila parcelle dal panettiere e dal beccaio. Ma il moderno uomo cretinizzato da due secoli di capitalismo crede, convinto sulla fede dello schermo televisivo o cinematografico, che il girar botteghe sia il supremo piacere dell’umana vita! E le redente donne russe gelano in file bestiali! (...)
        «Utopismo è il contrapporre alla società odierna un modello di società futura pensato e dipinto a freddo. Buon marxismo è condurre la analisi della economia capitalistica, come uscita dalla storia, ossia nella sua nascita per il potenziamento delle forze produttive umane, e oggi nella sua corruzione verso un dilapidamento sempre più folle, fino alla certezza delle forme che prenderà, distruggendola, la società nuova».
    Perciò, nella società borghese tutto è rovina e disumanizzazione: l’unico embrione della società futura sta nella lotta rivoluzionaria di classe, nell’unione rivoluzionaria del proletariato – uomini e donne – nella solidarietà fra sfruttati, nel PARTITO COMUNISTA.
     
     
     
     
     


    3. La questione femminile moderna
     

    L’utopia del femminismo interclassista

    Abbiamo scritto che la questione femminile in senso moderno nasce proprio con la fine della famiglia come cellula economica ed il suo permanere quale involucro “politico” ai soli fini della conservazione sociale, capace di tenere insieme ciò che lo stesso capitalismo ha dissolto: la presunta “unità familiare” è infatti un nonsenso dal momento che la produzione e l’organizzazione sociali si occupano di tutte quelle funzioni che prima erano appannaggio della famiglia.

    Proprio quando milioni di donne sono costrette a cercare lavoro fuori della famiglia, in questa fase d’obiettiva trasformazione dell’organizzazione familiare, sorgono le prime rivendicazioni femminili, le quali coinvolgono le donne di tutti gli strati e di tutte te classi sociali.

    Clara Zetkin, nel suo discorso tenuto al Congresso di Gotha del Partito Socialdemocratico Tedesco il 16 ottobre 1896, riferendosi alle ricerche di Bachofen, Morgan ed altri dichiara:

        «Non si poteva tuttavia parlare ancora di questione femminile nel senso moderno del termine. Solo il modo di produzione capitalistico ha provocato i capovolgimenti sociali che hanno dato vita alla moderna questione femminile essi hanno frantumato l’antica economia familiare che nel periodo pre-capitalista aveva garantito alla grande massa del mondo femminile un mezzo di sostentamento e un senso alla propria vita. Sarebbe inesatto applicare all’attività prestata dalle donne nell’antica economia domestica quei concetti negativi di miseria e di angustia che caratterizzano l’attività della donna ai giorni nostri. Finché l’antica famiglia sussistette, la donna vi trovò un senso di vita attraverso l’attività produttiva che vi svolgeva e perciò non era cosciente di essere priva di diritti sociali anche se lo sviluppo della sua individualità era fortemente limitato (...)
        «Le macchine il modo di produzione moderno cominciavano però gradualmente a scavare la fossa alla produzione autonoma della famiglia, ponendo milioni, non migliaia, di donne di fronte al problema di trovare un nuovo mezzo di sostentamento, un senso alla propria vita, un’attività che fosse anche piacevole. Milioni di donne vennero costrette a cercarselo fuori, nella società. Esse divennero allora coscienti che la mancanza di diritti rendeva difficoltosa la salvaguardia dei loro interessi e da questo momento sorse la vera e propria questione femminile moderna. La questione femminile esiste però solo in seno a quelle classi della società che sono a loro volta prodotti del modo di produzione capitalistico. Non vi è perciò questione femminile nella classe contadina anche se la sua economia naturale è molto ridotta e fa acqua da molte parti. Troviamo invece una questione femminile in seno a quelle classi della società che sono le creature più dirette del modo di produzione moderno. Dunque, la questione femminile si pone per le donne del proletariato, della media, piccola borghesia, degli strati intellettuali e della grande borghesia, essa presenta diverse caratteristiche a seconda della situazione di classe dei vari gruppi».
    Da qui la nascita della questione femminile moderna. Da questo momento tutte le donne, dalle borghesi alle proletarie vengono coinvolte nella lotta perché tutte sono prive dei diritti civili e politici consentiti agli uomini: proibizione del diritto di voto, proibizione del diritto di associazione, esclusione dalle università e dalle professioni, indissolubilità del matrimonio con punizione dell’adulterio femminile e non maschile, nessun diritto sui figli, proprietà esclusiva del marito ecc. Perfino le proletarie dovettero difendere il loro diritto al lavoro nella produzione industriale avversato dagli uomini proletari che vedevano in questo una spietata concorrenza che avrebbe abbassato i loro salari, atteggiamento che mutò solo quando il proletariato espresse l’associazione economica.

    Insomma, la rivoluzione democratica aveva lasciato fuori le donne che furono costrette a scendere in lotta per i diritti democratici, per la parità con l’uomo. È da ciò che trae giustificazione la nascita dei movimenti femministi, il più noto dei quali è quello delle suffragette. Vi è una descrizione di Clara Zetkin che testimonia di tante “eroine” borghesi, vere audaci combattenti, così come tanti di autentici ne ebbe la rivoluzione borghese.

    Ciò non di meno il partito pur riconoscendo i meriti di questo movimento e la necessità della conquista della “democrazia” anche per le donne, per tutte le donne, adottò in questo settore lo stesso metodo analitico e la stessa prassi adottati nei confronti della rivoluzione borghese: non rivoluzione per tappe, cioè nessuna sottomissione del proletariato femminile alla borghesia femminile nemmeno fino alla conquista dei diritti democratici; di conseguenza: netta separazione fra borghesia e proletariato fin dall’inizio.

    Intendiamo dire che il partito comunista non ha mai accettato le tesi del “popolo femminile” contro il “popolo maschile”, ha invece denunciato gli scopi borghesi che spingono le donne della borghesia nella lotta e gli scopi delle proletarie, nettamente contrapposti anche se momentaneamente convergenti su una parte delle rivendicazioni. Attenzione donne proletarie, sosteneva il partito, mentre per le borghesi la democrazia è un fine per voi deve essere un mezzo che vi permetta di accedere alla lotta di classe insieme agli uomini proletari per la conquista del potere politico.

        «Come si presenta la questione femminile per le donne della grande borghesia? – prosegue Zetkin – Queste donne, grazie al loro patrimonio, possono sviluppare liberamente la propria individualità, seguire le proprie inclinazioni. Come mogli però esse dipendono ancora dall’uomo. Lo strascico della tutela sessuale dei tempi antichi si è riversato nel diritto di famiglia, dove è ancora valida la frase: “ed egli sarà il tuo signore”. Quale aspetto presenta la famiglia grande borghese in cui la donna è legalmente sottomessa al marito? Sin dalla creazione questa famiglia è priva di presupposti morali. L’unione è stata decisa in base al denaro, non in base alla persona; vale a dire: ciò che il capitale unisce non può essere diviso da una morale sentimentale. Così nella morale matrimoniale due prostituzioni fanno una virtù. A ciò corrisponde anche lo stile della vita familiare. Là dove una donna non è più costretta ad assolvere i suoi doveri di moglie, madre e massaia essa li riversa sul personale di servizio stipendiato. Se le donne di questi strati desiderano dare un certo significato alla propria vita, esse devono innanzi tutto rivendicare di poter disporre liberamente e autonomamente del loro patrimonio.
        «Questa rivendicazione si situa così al centro di quelle avanzate dal movimento delle donne borghesi. Queste donne si battono per conquistare questo diritto contro il mondo maschile della loro classe e la lotta è esattamente la stessa che la borghesia ha intrapreso contro gli strati privilegiati, una lotta per l’abolizione di tutte le discriminazioni sociali fondate sul patrimonio».
    Una lotta fra frazioni borghesi dunque. Separazione dei beni! Ecco l’aspirazione delle donne borghesi, cioè lo stesso diritto concesso all’uomo della propria classe di accedere al plusvalore estorto al proletariato.
        «Le femministe più a destra – continua Clara Zetkin – quelle che per la loro situazione sociale appartengono all’alta borghesia, pongono in primo piano due problemi: 1) la sostituzione del matrimonio religioso con quello civile, il che faciliterebbe al tempo stesso il divorzio; 2) la possibilità della separazione dei beni degli sposi nei paesi in cui non è stata ancora istituita. Queste due rivendicazioni rivestono senza alcun dubbio una grandissima importanza per le donne della media ed alta borghesia, per le rappresentanti del capitale sotto la tale o talaltra delle sue forme: questo per loro sarebbe il mezzo migliore per difendere i propri interessi economici – da una parte salvaguardando i beni comuni del padre e della madre attraverso il matrimonio civile dei figli; dall’altra preservando la loro completa indipendenza economica nei confronti del marito (...) In quanto rappresentanti dell’alta borghesia è evidentemente in questo spirito che le nostre progressiste ci tenevano a elaborare le proprie rivendicazioni a proposito della questione familiare. Il programma del partito femminile progressista dichiara: “Sul terreno del diritto familiare bisogna istituire il matrimonio attraverso atto notarile, obbligatorio per tutti. La consacrazione religiosa del matrimonio deve essere lasciata libera scelta di ognuno. Il divorzio sarà, facilitato e le forme ne saranno semplificate. I genitori dovranno godere di uguale potere sui propri figli. La donna sarà in tutto pari all’uomo: avrà diritto ai beni familiari, e la legislazione dovrà renderla economicamente indipendente dal marito, se, per ragioni familiari, non è in grado di guadagnarsi la vita. Allo stesso modo la legislazione deve instaurare una vasta protezione dei figli, in particolare di quelli che nascono fuori del matrimonio (...)
        «Partendo dalla considerazione che la struttura economica e sociale è immutabile, le progressiste desiderano soltanto portare alcune correzioni agli attuali rapporti familiari, correzioni che tuttavia non minano affatto alle radici la famiglia borghese. Il correttivo introdotto in questo modo ha non solo il fine di migliorare le reciproche relazioni tra le persone unite dai legami legali del matrimonio, ma anche quello di rendere più solida e più vitale l’attuale forma della famiglia.
        «Quali sono le caratteristiche della questione femminile negli strati piccolo e medio borghesi ed in seno agli intellettuali borghesi? La famiglia non viene qui disgregata dalla proprietà, ma essenzialmente dai fenomeni concomitanti la produzione capitalistica; nella misura in cui questa procede nella sua marcia trionfale, la media e piccola borghesia si vanno progressivamente incontro alla distruzione. In seno agli intellettuali borghesi vi è poi un’altra circostanza che contribuisce al peggioramento delle loro condizioni di vita, il capitale ha bisogno di forza lavoro intelligente e scientificamente preparata e, in questo senso, ha favorito una sovraproduzione di proletari del lavoro mentale determinando in tal modo un mutamento negativo della posizione sociale degli appartenenti alle professioni liberali, che nel passato era stata molto decorosa e redditizia.
        «Nella stessa misura decresce però il numero dei matrimoni, in quanto, se da un lato le premesse materiali sono peggiorate, sono tra l’altro accresciute le esigenze vitali del singolo e, quindi, l’uomo appartenente a quegli strati riflette parecchio prima di decidersi a sposarsi. Il limite d’età per la creazione d’una propria famiglia viene vieppiù dilazionato e l’uomo si sente sempre meno incline al matrimonio anche perché ai nostri giorni l’assetto sociale consente allo scapolo una vita: comoda senza richiedere una moglie legittima. Lo sfruttamento capitalistico della forza lavoro proletaria con salari di fame provvede affinché la domanda di prostitute da parte del mondo maschile venga largamente coperta da un’offerta cospicua. E così il numero delle donne nubili tra gli strati medio-borghesi è in continuo aumento.
        «Le donne e le adolescenti di questa classe vengono ributtate nella società perché vi possano fondare un’esistenza che non procuri loro solo il pane, ma anche un soddisfacimento morale. In questi strati la donna non è equiparata con l’uomo in qualità di beni privati, non è neppure equiparata in qualità di proletaria come avviene negli strati proletari: la donna di quelle classi medie deve innanzi tutto conquistarsi l’eguaglianza economica con l’uomo e lo può fare solo attraverso due rivendicazioni, quella d’uguali diritti nella formazione professionale, quella d’uguali diritti nella pratica professionale. Da un punto di vista economico, ciò non significa altro che la realizzazione della libertà di professione e della concorrenza tra uomo e donna.
        «Il realizzarsi di questa rivendicazione scatena un contrasto di interessi tra gli uomini e le donne della media borghesia e dell’intellighentia. La concorrenza delle donne nelle libere professioni è la causa della resistenza degli uomini contro le rivendicazioni delle femministe borghesi».
    È dalla mancanza di un patrimonio da spartire, dunque, che scaturisce anche una diversa impostazione da parte delle femministe piccolo borghesi intellettuali della questione familiare; mentre le femministe di destra, le grandi borghesi, si preoccupano di volgere a loro favore la legislazione del diritto familiare (come abbiamo visto prima), le intellettuali sono per l’assoluta indipendenza al di fuori di ogni istituzione: uomo e donna alla pari sul mercato del lavoro e “libero amore” nel campo dei rapporti sessuali.
        «Aleksandra Kollontaj: «Perciò la parola d’ordine delle femministe di sinistra, a proposito della questione familiare non è una riforma della legislazione matrimoniale, bensì il trionfo del principio della “libera unione”, e del “libero amore”. Questa parola d’ordine, lanciata per la prima volta dai socialisti nel XIX secolo, resta ancora oggi lo slogan preferito dalle femministe più emancipate: numerose sono quelle che addirittura fanno del libero amore il centro della questione femminile. Dichiarando apertamente guerra all’ipocrisia della doppia morale, hanno dato coraggiosamente battaglia alla massa di filistei borghesi, che irti di rabbia, sputano veleno (...) Credendo ingenuamente alla possibilità di creare nuove forme di rapporti coniugali e familiari sul tetro fondale della contemporanea società di classe le femministe e i riformatori sociali di campo borghese cercano con gran fatica queste nuove forme.
        «Poiché la vita stessa non le ha fatte sorgere ancora, bisogna inventarle, costi quel che costi. Deve pur esistere, comunque, una forma perfetta di rapporti fra i sessi che risolva, anche nella società attuale, il difficile problema della famiglia!» (ivi).
    Come si vede, non distruzione rivoluzionaria del sistema capitalistico unico responsabile e generatore di ogni oppressione, ma sovrapposizione di presunte nuove forme sulle vecchie. Le femministe di sinistra, pur distinguendosi nettamente da quelle di destra dichiaratamente conservatrici della famiglia tradizionale, si trovano però obiettivamente accanto a loro nella conservazione della società esistente. Esse combattono gli effetti e non le cause che hanno determinato la loro oppressione dimenticando che la PROPRIETÀ’ PRIVATA – vera marcia sopravvivenza da distruggere – se trova il suo migliore involucro nella forma della famiglia tradizionale non risparmia per questo le “unioni libere” in quanto essa si interpone in tutte le relazioni che gli uomini stabiliscono fra di loro in questa società.
         «Quale suono utopistico emettono queste formule matrimoniali – prosegue Aleksandra Kollontaj – Quali insulsi palliativi esse appaiono sul tetro fondale della nostra attuale struttura familiare! La “libera unione”, il “libero amore”! Perché queste formule possano vedere la luce bisogna procedere anzitutto a una riforma (è chiaro che va intesa in senso rivoluzionario, n.d.r.) di tutti i rapporti sociali tra gli uomini, molto di più, bisogna che le norme della morale sessuale, e con esse tutta la psicologia umana, subiscano una profonda fondamentale evoluzione. Oggi la psicologia dell’uomo è realmente disposta ad ammettere il principio del “libero amore”? E la gelosia, che rode anche gli spiriti migliori? E quel sentimento, profondamente radicato del diritto di proprietà, non soltanto sul corpo ma anche sull’anima del partner? E l’incapacità di inchinarsi con rispetto davanti a una manifestazione dell’individualità dell’altro, l’abitudine di “dominare” l’essere amato come pure di farsene lo “schiavo”? Verso che cosa, dal fondo delle sue prove, l’uomo, “solo”, l’individualità volgerà la testa? La “collettività”, con le sue gioie, le sue pene e le sue aspirazioni, è nel migliore dei casi un “obiettivo” verso cui prodigare le proprie forze morali e intellettuali. Ma l’uomo d’oggi è capace di comunicare con questa collettività, fino a sentire che essa si realizza dentro di lui, mentre egli si realizza in essa? La vita della collettività è in grado di sostituire queste piccole gioie personali? Senza un’anima vicina, “unica”, anche un socialista, anche un collettivista è infinitamente solo nel nostro mondo antagonistico, ed è soltanto nella classe operaia che possiamo scorgere il pallido bagliore che annuncia nuovi rapporti fra gli uomini, più stretti, con spirito più sociale. Il problema della famiglia è complesso, ingarbugliato e molteplice come la vita stessa, e non è la nostra organizzazione sociale che permetterà di risolverlo».
    Ribadiamo comunque che dalla critica a questa deviazione piccolo-borghese noi non facciamo derivare una maggiore simpatia per la famiglia tradizionale, nemmeno, in modo ipocrita, “...nell’attesa della conquista del potere”: come abbiamo già dimostrato, moglie legale e prostituta sono in moltissimi casi due tristi facce della stessa medaglia.

    Combattiamo l’ideologia del “libero amore” solo in quanto si pretende sostituirla alla rivoluzione come mezzo per risolvere definitivamente anche il problema dei rapporti fra i sessi. Anzi, vogliamo mettere bene in evidenza che è proprio il femminismo – come ideologia – che vuole deformare in una finalità politica a se stante la positiva tendenza di milioni di donne alla ricerca della propria indipendenza interiore ed esteriore, all’affermazione della propria individualità nel tentativo di sottrarsi già oggi alla tutela dell’uomo per cercare di ristabilire con lui un rapporto, non antagonistico, ma di parità.

    La ricerca del libero amore, se depurata da tutte le ideologie radical-borghesi e dall’anatema di conservatori e reazionari, è un aspetto dell’affermazione di se stesse – in quanto persone – di cui milioni di donne sentono il bisogno. Forme nuove dei rapporti fra i sessi non possono affermarsi senza spezzare tutto quanto l’ordine sociale esistente, ma il processo che porterà verso questa finalità è individuabile già oggi nella strada indipendente che tante donne stanno faticosamente percorrendo e che deriva appunto dalla crescente decomposizione delle istituzioni attuali.

    Sotto la spinta della produzione capitalistica, milioni di donne sono state costrette ad entrare nella collettività esistente al di là delle mura domestiche e, quindi, ad entrare contemporaneamente in contraddizione con la propria immagine recente di accessorio dell’uomo su tutti i piani: economico, sociale, sessuale.

    Tanto più è indispensabile rigettare l’angustia e il separatismo che il femminismo esprime per riaffermare con forza il percorso di classe comprendente anche l’esercito di donne in marcia per la loro liberazione.
     

    La condizione della donna proletaria
     

        Clara Zetkin: «Per quanto concerne la donna proletaria, la questione femminile sorge dal bisogno del capitale che lo costringe alla ricerca continua di forza-lavoro più a buon mercato. In tal modo anche la donna proletaria viene inserita nel meccanismo della vita economica dei nostri giorni, viene trascinata nell’officina e costretta alla macchina. Essa è entrata nella vita economica per portare qualche aiuto al marito: il modo di produzione capitalistico l’ha trasformata in una concorrente della famiglia, e ne ha peggiorato la situazione; la donna proletaria voleva guadagnare perché i suoi figli avessero un destino migliore e viene quasi sempre strappata dalle loro braccia. Essa è diventata una forza lavoro del tutto uguale all’uomo: la macchina ha reso superflua la forza dei muscoli e ovunque il lavoro delle donne ha potuto fornire gli stessi risultati del lavoro maschile.
        «Essendo inoltre, e prima di tutto, una forza lavoro volenterosa che solo in rarissimi casi osa opporre resistenza allo sfruttamento capitalistico, i capitalisti hanno moltiplicato la possibilità di poter impiegare il lavoro industriale delle donne su massima scala. Di conseguenza, la donna del proletariato si è così potuta conquistare l’indipendenza economica (qui va inteso: la possibilità d’un salario personale, magari insufficiente quanto lo è quello dell’uomo, n.d.r.). Ma non ne ha tratto nessun vantaggio. Se nell’era della famiglia patriarcale, l’uomo aveva il diritto di usare moderatamente la frusta per punire la donna, il capitalismo la punisce con il flagello. Allora il dominio dell’uomo sulla donna era mitigato dalle relazioni personali, mentre tra operaia e imprenditore vi è soltanto un rapporto mercificato. La proletaria ha raggiunto la propria indipendenza economica, ma sia in quanto persona, sia in quanto donna e in quanto moglie, essa non ha la possibilità di sviluppare la propria individualità. Per il suo compito di moglie, di madre le rimangono solo le briciole che la produzione capitalista lascia cadere a terra.
        «Perciò la lotta d’emancipazione della donna proletaria non può essere una lotta simile a quella che conduce la donna borghese contro l’uomo della sua classe (...) Essa, la donna proletaria, non ha più bisogno di lottare contro gli uomini della sua classe per abbattere le barriere erette dalla libera concorrenza. I bisogni di sfruttamento del capitale e lo sviluppo del moderno modo di produzione si sono completamente sostituiti a lei in questa lotta. Al contrario, nuove barriere vanno erette contro lo sfruttamento della donna proletaria. Obiettivo i finale della sua lotta non è la libera concorrenza con l’uomo ma la conquista del potere politico da parte del proletariato. La donna proletaria combatte fianco a fianco con l’uomo della sua classe, contro la società capitalistica» (ivi).
        «Gli operai – scrive Lafargue – sono stati i primi a tirare le logiche conseguenze della partecipazione delle donne al lavoro sociale: all’ideale della donna al focolare che era proprio dell’artigiano, hanno sostituito l’ideale della donna compagna nella lotta per l’aumento dei salari e per la liberazione del lavoro; soltanto la borghesia non ha ancora capito che il suo ideale è sorpassato da lungo tempo e che bisogna rinnovarlo perché tutto sia in accordo con le attuali condizioni dell’ambiente sociale».
        «Tutto ciò non significa – continua Clara Zetkin – che essa non debba appoggiare anche le rivendicazioni del movimento femminile borghese. Ma la realizzazione di queste rivendicazioni rappresenta per essa solo lo strumento come mezzo per il fine, per entrare in lotta ad armi pari al fianco del proletariato (...) Anche se le donne ottengono l’equiparazione politica nulla cambia nei concreti rapporti di forza. La donna proletaria si mette dalla parte del proletariato e quella borghese dalla parte della borghesia. Non dovremo lasciarci ingannare da tendenze socialiste in seno al movimento femminile borghese: esse si manifestano finché le donne borghesi si sentono oppresse».
        «La proletaria – precisa Aleksandra Kollontaj – affronta le cause che hanno determinato l’attuale forma del matrimonio e della famiglia (...) Sta qui la differenza radicale tra la maniera borghese e quella proletaria di affrontare il complesso problema della famiglia».
    Da quest’analisi appare evidente l’assunto: le donne, tutte le donne, devono affrontare con la lotta il problema della loro emancipazione “democratica” – ove per democratica intendiamo l’equiparazione con l’uomo, obiettivo di per sé non incompatibile con l’esistenza della società borghese, ma non possono e non devono raggrupparsi in maniera indifferenziata sotto l’unica bandiera “femminista” perché le diverse collocazioni di classe presenti all’interno dello strato femminile rendono divergenti gli scopi finali ed i mezzi che da questi discendono per questa lotta.

    Proprio alle proletarie spetta invece il compito più arduo: affrontare insieme agli uomini della propria classe qualsiasi rivendicazione democratica con i metodi dell’azione diretta e della lotta di classe – propri ed esclusivi del movimento operaio generale – non contro i maschi ma contro la società intera rappresentata dallo Stato borghese.

    Questa e solo questa è l’unica bandiera che deve prevalere attraverso uno scontro frontale contro tutte le altre ideologie borghesi e piccolo-borghesi allo scopo di creare un fronte di combattimento in cui tutte le donne che sinceramente sentono ardente il bisogno di liberarsi dalla loro condizione di schiave possano confluire.
     
     
     
     
     


    4. Il partito di fronte alle rivendicazioni democratiche

    Quando i marxisti parlano di rivendicazioni democratiche è chiaro che non intendono parlare della democrazia formale, come, per esempio, il fradicio gioco parlamentare fra cricche politiche, né tantomeno dare qualsiasi peso all’idealistica e demagogica conta dei cervelli fra maggioranze e minoranze, bensì ravvisare in determinate rivendicazioni sociali e politiche elementi di progresso storico indispensabili nel processo rivoluzionario per l’emancipazione del proletariato e di tutta quanta la società. Queste rivendicazioni si definiscono “democratiche” proprio perché non riguardano una sola classe – per esempio il proletariato – ma diversi strati sociali, anzi tutti gli strati sociali dalla borghesia al proletariato; si tratta insomma di tutti quei diritti di “libertà” e di “uguaglianza” per i quali si svolse la rivoluzione appunto borghese.

    Ma non è stata proprio e soltanto la critica marxista a dimostrare l’impossibilità della borghesia ad essere conseguente con le sue stesse rivendicazioni? I marxisti hanno dimostrato non solo che il potere della borghesia si fondava sull’oppressione della classe proletaria – ultima classe della storia – ma anche la sopravvivenza di forme storiche arretrate rispetto allo stesso sviluppo capitalistico come la schiavitù delle donne all’economia domestica e la loro segregazione politica e civile.

    La rivoluzione borghese aveva lasciato fuori le donne, verso di loro non si applicarono nemmeno i canoni della democrazia formale “tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge e di fronte allo Stato”, perché, come si è visto, verso di loro furono applicate leggi speciali, discriminanti, che limitavano tutto lo strato femminile. Su tutte le donne gravava questo fardello, salvo le proletarie che ne dovevano portare due: quello della discriminazione sociale e politica e quello economico in quanto appartenenti alla classe dei diseredati.

    Ecco perché sarebbe settario e negativo per la rivoluzione delimitare la questione femminile al puro ambito “operaio”, riconoscere l’oppressione delle donne solo nella situazione delle donne operaie. Sarà proprio Lenin che esclamerà appassionatamente nel corso della famosa conversazione con Clara Zetkin del 1920, che questa pubblicherà nel gennaio del 1925:

        «Noi odiamo, sì, odiamo tutto ciò che opprime e tortura la donna lavoratrice, la massaia, la contadina, la moglie del piccolo commerciante e, in molti casi, la donna delle classi possidenti. Noi rivendichiamo dalla società borghese una legislazione sociale a favore della donna perché della donna noi comprendiamo la situazione e gli interessi ai quali dedicheremo le nostre cure durante la dittatura del proletariato. Naturalmente non come fanno i riformisti, non facendo uso di blande parole per convincere le donne a starsene inattive, non tenendole alla briglia. No, naturalmente no, ma, come si conviene a rivoluzionari, chiamandole a lavorare da pari a pari per trasformare la vecchia economia e la vecchia ideologia».
    Ci pare di sentirli gli antifemministi interessati allo status quo: “ma come, Lenin non vedeva il fronte di classe? È possibile che si rivolgesse a tutte le donne?”.

    Lenin era un superbo rivoluzionario che sapeva maneggiare l’arma della dialettica, non solo a parole ma anche nei fatti, e sapeva benissimo – la Russia insegna – che il fronte di classe non andava ricercato nel campo delle rivendicazioni, molte delle quali erano necessariamente comuni a tutte le donne, bensì nel campo dei mezzi da usare per tali fini e che tali mezzi altro non erano che quelli tradizionali del movimento operaio e del partito rivoluzionario: azione diretta contro lo Stato capitalistico e non divisione fra uomini e donne; unità proletaria di uomini e donne che avrebbero partecipato alla lotta organizzati, autonomamente dalle altre classi, nel partito.

    Infatti, se certe rivendicazioni sono comuni a tutto il “popolo” femminile, non altrettanto comuni sono i mezzi per affermarle proprio perché il popolo è diviso in classi antagonistiche con differenti finalità storiche. Appunto per questo solo i comunisti – unici proclamatori a tutt’oggi di questa verità – possono condurre conseguentemente anche la lotta per le rivendicazioni democratiche, per realizzare quella famosa ”giustizia sociale” che democratici a parole di ieri e di oggi invocano ad ogni passo.

    Errore sarebbe quindi identificare i ”diritti democratici” con i “mezzi democratici” e negare i primi in quanto negatori dei secondi. È ancora Lenin che parla:

        «Il movimento comunista femminile deve essere un movimento di massa, una parte del movimento generale di massa, non solo del proletariato, ma di tutti gli sfruttati e di tutti gli oppressi, di tutte le vittime del capitalismo e di ogni forma di schiavitù».
    Vedremo più avanti come intendeva Lenin porsi praticamente su questo terreno di scontro contro la borghesia; intanto vogliamo entrare nel merito di tre rivendicazioni fondamentali: libertà di divorzio, di aborto, suffragio universale che il partito si è trovato non solo a valutare ma – come si suol dire – a “gestire” all’indomani della presa del potere in Russia.
     

    Il diritto di voto

    Nonostante questa particolare rivendicazione sia stata già accolta nelle società occidentali, i termini nei quali fu impostata dalla Seconda e dalla Terza Internazionale Comunista chiariscono la necessità della lotta per i diritti politici delle donne anche dopo il compimento della rivoluzione borghese e come il partito definiva il fronte di classe all’interno del movimento femminile. Nella risoluzione presentata da Clara Zetkin al congresso socialista internazionale di Stoccarda il 22 agosto 1907 si dice:

        «Il riconoscimento del diritto di voto al sesso femminile non sopprime la contraddizione di classe tra sfruttati e sfruttatori, dalla quale nascono gli ostacoli più difficili per lo sviluppo libero ed armonico delle donne proletarie. Quel riconoscimento non elimina neppure i conflitti che sorgono dalle contraddizioni sociali tra uomo e donna in seno all’ordinamento capitalista, conflitti che toccano la donna in quanto esponente del suo sesso. Al contrario: la piena equiparazione politica del sesso femminile prepara il terreno sul quale questi conflitti raggiungono la loro massima acutezza, conflitti di vario genere, tra i quali il più importante e il più doloroso è quello tra lavoro professionale e maternità. Per noi socialisti il diritto di voto alle donne non può essere perciò l’obbiettivo finale come per le donne borghesi (...) Per le proletarie questo diritto rappresenta un’arma per la battaglia che esse devono combattere perché l’umanità abbia il sopravvento sullo sfruttamento sul dominio di classe; consente loro una partecipazione maggiore alla lotta per la conquista del potere politico da parte del proletariato al fine di superare l’ordinamento capitalista (...) Noi socialisti chiediamo il diritto di voto per le donne non quale diritto naturale, nato con la donna stessa. Lo chiediamo quale diritto sociale fondato sulla mutata attività economica, sull’ esistenza e sulla coscienza personale del tutto trasformata della donna (...)
        «La donna viene strappata al focolare, sua fonte di vita, ha la possibilità di esistere economicamente al di fuori della famiglia, ottiene l’indipendenza economica dalla famiglia, dall’uomo. Sottoposta al pari dell’uomo, alle sue stesse condizioni, spesso ancor più dure, la donna deve intraprendere la lotta con la vita ostile costretta da motivi vitali più o meno intrinseci. In questa lotta essa ha bisogno come l’uomo di pieni diritti politici in quanto questi diritti sono armi attraverso le quali essa può e deve difendere i propri interessi. Il rivoluzionamento della sua vita sociale implica anche un rivoluzionamento del suo mondo intuitivo e intellettuale. La mancanza di diritti politici, che il sesso femminile ha dovuto sopportare come una cosa ovvia per lunghi secoli, le sembra un’ingiustizia inaudita. Attraverso un processo lento e doloroso, la donna è uscita dalle strettoie dell’antica vita di famiglia per entrare nel forum della vita pubblica. Essa esige la piena equiparazione politica – quale è espressa nel diritto di voto – come necessità di vita sociale e come affermazione di maturità sociale. Il diritto di voto per la donna rappresenta il necessario completamento politico dell’indipendenza economica della donna.
        «Da questa situazione si dovrebbe pensare che tutto il sesso femminile privo di diritti politici si batte come una falange per il suffragio universale femminile. Ma non è così, le donne borghesi non sono neppure unite sul principio della piena equiparazione politica. E ciò non è dovuto, in ultima istanza, all’incomprensione e alla tattica miope delle dirigenti femministe, quali che siano le loro responsabilità personali. Questa situazione è l’inevitabile conseguenza delle diverse stratificazioni sociali all’interno del mondo femminile. Gli obiettivi e i valori per i quali si vuole il diritto di voto è inversamente proporzionale all’entità del patrimonio. È quindi molto ridotto per le donne della grande borghesia ed è massimo per le proletarie. Anche la battaglia per il suffragio femminile è così dominata dal contrasto di classe; non vi può essere una lotta unitaria di tutto il sesso femminile. Le proletarie non possono dunque contare sull’appoggio delle donne borghesi nella lotta per i loro diritti civili; le contraddizioni di classe escludono che le proletarie possano allearsi con il movimento femminista borghese. Con ciò non si vuoi dire che esse respingono le femministe borghesi se queste ultime, nella lotta per il suffragio universale femminile, dovessero mettersi al loro fianco ed al loro seguito per battere su fronti diversi il comune nemico. Ma le proletarie devono essere perfettamente coscienti che il diritto di voto non si può conquistare attraverso una lotta del sesso femminile senza discriminazione di classe contro il sesso maschile, ma solo con la lotta di classe di tutti gli sfruttati, senza discriminazione di sesso, contro gli sfruttatori, sempre senza discriminazione di sesso».
    La libertà di divorzio

    La recente legislazione anche dei paesi più progrediti conferma la difficoltà reale per le donne per riottenere la propria libertà personale dal matrimonio. Non è quindi sostanzialmente mutata, anche in questo campo, la condizione di inferiorità giuridica della donna, in generale, mentre ancor oggi per le proletarie si aggiunge spesso la impossibilità economica di potersi emancipare dal vincolo matrimoniale. Sul tema del divorzio così si esprime Lenin in un articolo del 1916:

        «L’esempio del divorzio mostra all’evidenza che non si può essere democratici e socialisti, se non si rivendica subito la piena libertà di divorzio perché l’assenza di questa libertà è una forma di superoppressione per la donna (...) In regime capitalistico si danno per solito, non come casi isolati ma come fenomeni tipici, condizioni tali, che le classi oppresse non possono “esercitare” i propri diritti democratici. Il diritto al divorzio rimane, nella stragrande maggioranza dei casi inattuato sotto il capitalismo, perché il sesso oppresso è schiacciato economicamente, perché la donna continua ad essere in ogni democrazia capitalistica una “schiava domestica”, confinata nella stanza da letto, nella camera dei bambini, in cucina. Solo chi è assolutamente incapace di riflettere e chi ignora del tutto il marxismo può trarre da questo la conclusione che la repubblica, la libertà di divorziare, la democrazia e l’autodecisione delle nazioni non giovano a niente!
        «I marxisti sanno invece che la democrazia non distrugge l’oppressione di classe, ma rende solo più pura, più ampia, più aperta e più energica la lotta di classe: ed è quanto ci occorre. Quanto più completa è la libertà di divorziare, tanto più chiaro risulta per la donna che la fonte della sua “schiavitù domestica” va ricercata nel capitalismo, e non già nella mancanza di diritti. Quanto più integrale è la parità giuridica delle nazioni (ed essa è incompleta senza libertà di separazione), tanto più risulta chiaro per gli operai della nazione oppressa che il male è nel capitalismo, ma non nella mancanza di diritti. E così via (...)
        «Il diritto al divorzio, come tutti i diritti democratici senza eccezione, può essere attuato in regime capitalistico difficilmente, in modo convenzionale, limitato, angusto e formale, e tuttavia nessun socialdemocratico onesto potrà considerare non solo socialista, ma neppure democratico chi neghi questo diritto. Sta qui l’essenza del problema. Tutta la “democrazia” consiste nella proclamazione e nell’attuazione di “diritti” realizzati assai poco e assai convenzionalmente sotto il capitalismo, ma il socialismo è inconcepibile senza questa proclamazione, senza la lotta per realizzare questi diritti immediatamente, senza l’educazione delle masse nello spirito di questa lotta».
    Il diritto all’aborto contro l’atrocità dell’aborto clandestino

    Riteniamo necessario soffermarsi in particolare sul discusso “diritto d’aborto” perché meglio si adatta a dimostrare tutta l’ipocrisia borghese visto l’accanimento (per esempio in Italia) che preti e volgari “obiettori” mettono per impedire l’applicazione di questa legge, quando per anni si è taciuto sull’aborto clandestino e su tutte le miserie morali e materiali che accompagnano la mancata pianificazione delle nascite.

    Clara Zetkin individua nel conflitto fra lavoro professionale e maternità – da lei definito “il più doloroso” – l’elemento più grave nel percorso d’emancipazione della donna. Il diritto d’aborto s’inserisce nel piano di rivendicazioni a favore della donna per proteggerla – in certi periodi storici – dalle dolorose conseguenze della maternità e per ridurre il suo grado di asservimento allo sfruttamento capitalistico. Il ricorso all’aborto non l’ha inventato il partito considerandolo il mezzo migliore per risolvere i problemi sociali delle donne e il problema della miseria in generale, ma è una conseguenza della società di classe e del suo bestiale sfruttamento, tant’è che le pratiche abortive sono vecchie come la stessa fradicia società in cui viviamo. Ai morti sul lavoro, infatti andrebbero aggiunte le migliaia di donne morte per pratiche abortive clandestine e le migliaia di bambini morti o maltrattati per mancanza di quella protezione che la società capitalistica non assume su di sé ma impone alla singola donna, sia pure proletaria a basso salario o espulsa dalla produzione per mancanza di lavoro o proprio a causa dei troppi figli da badare (che ne pensano i moralisti e gli obiettori che cianciano sul diritto alla vita dei “bassi” napoletani dove si rannicchiano nella sporcizia di una stanza fino a quattordici bambini?).

    C’è da notare però che Lenin al di là di queste considerazioni definisce la libertà d’aborto un aspetto della “difesa dei fondamentali diritti democratici per i cittadini di ambo i sessi”. D’altra parte la regolamentazione delle nascite non è una rivendicazione borghese, bensì una necessità sociale che ogni classe e ogni modo di produzione non può ignorare ma che ogni classe e ogni modo di produzione cerca di risolvere per i propri fini.

    Proprio per questo i comunisti non possono avere uno schema fisso: SI alle nascite o NO alle nascite, ma, come la borghesia manovra questa funzione sociale per fini capitalistici quindi contro una parte della società, i comunisti vogliono dirigere questa funzione per riportarla a coincidere con l’interessé stesso della specie e cioè di tutta la società. La rivendicazione dell’aborto libero e gratuito che tanta opposizione trova sta su questa strada. La borghesia se da una parte ha dovuto per sue necessità di sfruttamento approvare una legge parziale, dall’altra lascia mano libera al suo alleato clericale di combatterla.

    D’altra parte, essendo il fine della borghesia il mantenimento dello sfruttamento non può esserci altra conseguenza che metodi aberranti anche nel campo della regolamentazione delle nascite. Ci si scandalizza di fronte all’aborto quando, come Bebel scrive nel suo libro, in certi periodi storici è la stessa borghesia a spingere alla omosessualità maschile e alla prostituzione come freno alla sovraproduzione d’uomini; e che dire della moderna “pillola”, che è pur sempre il minor male, di cui nessuno conosce le conseguenze negative che può avere sulla donna e sulla eventuale prole oltre alla condanna psicologica per migliaia di donne costrette a questo metodo anticoncezionale?

    Indifferentemente la borghesia dà premi alle famiglie prolifere, che ovviamente saranno famiglie proletarie, quando la sua sete di profitto richiede una superproduzione di forza lavoro, un aumento degli sfruttati. Ecco il vero volto del capitalismo che ha una sola “morale”: il profitto che si tenta di nascondere dietro roboanti principi sociali. Quindi da una parte condanna prostituzione e omosessualità che esso stesso ha suscitato, come il prodotto di ghiandole perverse di certi uomini e di certe donne, emarginandoli dalla società, dall’altra nega l’aborto in nome della difesa della vita e difende il matrimonio – già da noi definito la più grande prostituzione legalizzata – in nome dell’amore.

    Noi rispondiamo con Lenin che anche i comunisti hanno una sola “morale”, – la rivoluzione sociale – e non hanno bisogno di nascondersi dietro nessuna ipocrita predicazione sulla vita, pur essendo gli unici rispetto a tutte le altre sètte e partiti a cui sta veramente a cuore. È per questo che affrontiamo il problema dell’aborto da materialisti pensando a ciò che serve alla lotta che – ci teniamo a ripeterlo – è l’espressione organizzata degli immediati bisogni degli oppressi. Si obietterà: non è forse Lenin che picchia contro i maltusiani, contro la loro predicazione per la limitazione delle nascite? Certo; e noi rivendichiamo pienamente questa battaglia contro la piccola-borghesia pavida che nei momenti di crisi capitalistica sente il malessere e teme la fine dei suoi privilegi e tanto più la spaventa il pericolo di essere ricacciata nel proletariato. La piccola borghesia non ha prospettiva storica, non prevede né desidera la fine del regime capitalistico, così la limitazione delle nascite diventa la sua teoria (“meno siamo a mangiare più possiamo sopravvivere”) nel tentativo di arginare la crisi che la opprime senza ricorrere alla rivoluzione. Lenin combatte questa teoria perché dannosa al proletariato e alla sua lotta, perché esprime la sfiducia nel futuro rivoluzionario che le nuove generazioni dovranno portare a termine:

        «La classe operaia non corre verso la rovina, ma cresce, diventa più forte e più matura, diventa compatta, si educa e sì tempra nella lotta (...) Noi gettiamo le fondamenta del nuovo edificio e i nostri figli lo porteranno a termine. Ecco la ragione per cui siamo decisamente nemici del malthusianesimo».
    Così Lenin si esprime a nome di tutta la classe operaia per respingere la mollezze delle mezze classi, ma è pur sempre Lenin che conclude sostenendo altrettanto chiaramente che
    «questo non c’impedisce di esigere l’abrogazione di tutte le leggi che vietano l’aborto e vietano la diffusione degli scritti medici riguardanti i sistemi preventivi ecc. Queste leggi non sono che un’ipocrisia delle classi dominanti. Queste leggi non guariscono le piaghe del capitalismo, ma le rendono particolarmente maligne e gravi per le classi oppresse (...) Una cosa sono la libertà di propaganda sanitaria e la difesa dei fondamentali diritti democratici per i cittadini di ambo i sessi e un’altra la dottrina sociale del malthusianesimo».
    Lo dimostrerà nei fatti la dittatura del proletariato nella Russia rivoluzionaria con la legge del 20 novembre 1920. Aleksandra Kollontaj in una conferenza tenuta nel 1921, al termine di una lunga esposizione sulla situazione delle donne così si esprime sull’aborto:
        «Con la legge 20 novembre 1920 la Repubblica dei Lavoratori ha riconosciuto che l’aborto non è un delitto. Questa legge è stata promulgata grazie all’iniziativa e all’ardente partecipazione della sezione femminile. Qual’è la motivazione di tale atteggiamento in questa questione? Riconosciamo che l’URSS non soffre certo per sovrabbondanza di forza lavoro, ma piuttosto di scarsità. L’URSS non è un paese sovrappopolato, bensì sottopopolato. Da noi la forza-lavoro è contata. Come si è potuto allora decretare che l’aborto non era condannabile? Nella sua politica il proletariato non ama l’ipocrisia, né la tartuferia. L’aborto è un fenomeno connesso al problema della maternità, è conseguenza della precaria situazione delle donne (non parliamo della classe borghese, in cui l’aborto ha cause diverse: disgusto di “dividere” l’eredità, disgusto da parte di donne avide, d’una esistenza senza preoccupazioni, di sopportare le sofferenze della maternità, di sfigurare la loro silhouette, d’essere tenuta in disparte, per qualche mese, da una stagione di “piaceri”, ecc.).
        «L’aborto esiste e prospera in tutti i paesi, e né leggi, né misure di repressione hanno potuto estirparlo. Esistono sempre dei mezzi per aggirare la legge. Ma l’“aiuto clandestino” finisce solo per mutilare le donne, per farne per lungo tempo un peso per lo Stato dei lavoratori, e col diminuire in fin dei conti la quantità di forza-lavoro. Un aborto praticato nelle condizioni di un normale intervento chirurgico è molto meno nocivo, molto meno pericoloso. La donna può in questo caso tornare rapidamente al suo lavoro. Il potere dei soviet, consapevole che l’aborto scomparirà solo quando da una parte la Repubblica disporrà di un’ampia rete di istituti di protezione della maternità e di educazione sociale, e dall’altra le donne saranno ben ancorate alla idea che mettere al mondo un figlio sano è per loro un dovere sociale, ha quindi ammesso la pratica dell’aborto alla luce del sole, in condizioni cliniche sane. La necessità dell’aborto sarà ugualmente diminuita dalle misure igieniche di regolamentazione delle nascite.
        «Il compito della Repubblica dei lavoratori consiste nel consolidare nelle donne, attraverso un ampio sviluppo della protezione della maternità, un sano istinto materno, nel rendere compatibile la maternità con il lavoro per la collettività, eliminando così la necessità dell’aborto. Tale è il modo in cui la Repubblica dei lavoratori ha affrontato la soluzione di questo problema, che ancora si pone, in tutta la sua ampiezza, alle donne dei paesi borghesi» (e non ci venite a parlare della Russia “arretrata”! A più di 50 anni di distanza le donne si trovano davanti non solo il gendarme ma la figura ancora più bieca dell’obiettore di coscienza!).
        «Le donne dei paesi borghesi si dibattono nella penosa situazione generata dalla guerra mondiale; soccombono sotto un duplice fardello: il lavoro salariato per il capitale e la maternità (...) Dal momento in cui la donna sarà diventata, dal punto di vista dell’economia nazionale, un’indispensabile individualità lavoratrice, sarà trovata la chiave che permetterà di risolvere le complesse e fondamentali questioni della sua esistenza. Nella società borghese in cui l’economia domestica è parte integrante del sistema capitalistico, in cui la proprietà privata genera la stabilità del chiuso quadro familiare, le donne che lavorano non hanno via d’uscita».
    Ecco come ragionano i marxisti! Lottiamo perché sì sviluppi un sano istinto materno che sarà alla base d’un armonico sviluppo della specie, ma non con vuote prediche alle migliaia di donne oppresse da tremendi fardelli né tantomeno risparmiando il nostro disprezzo per quel certo “sentimento” ipocrita sui piccoli fanciulli soppressi ancora in embrione, sentimenti che di solito albergano nel cuore di chi non conosce le sofferenze materiali e morali delle migliaia di madri senza via d’uscita.

    Trotski in “La rivoluzione tradita” parla del periodo in cui la controrivoluzione staliniana stava riportando indietro tutte le conquiste dell’Ottobre; fra l’altro si doveva rivalutare la famiglia, formidabile bastione della conservazione borghese. Era necessario quindi interrompere il processo di emancipazione delle donne con le solite formule fin troppo note nell’Occidente borghese: “le gioie della maternità”, abrogando la legge sull’aborto libero e gratuito:

        «Il gran numero di fanciulli abbandonati è indiscutibilmente la prova più tragica e più infallibile della penosa situazione della madre. Anche la stessa Pravda si vede costretta ad amare ammissioni a questo proposito: “La nascita di un bambino è per molte donne una seria minaccia”. Ed è proprio per questo – continua Trotski – che il potere rivoluzionario ha assicurato alla donna il diritto all’aborto, uno dei suoi diritti civili, politici e culturali essenziali sinché durano la miseria e l’oppressione familiare, checché ne pensino gli eunuchi e le zitelle. Ma questo triste diritto diviene, causa l’ineguaglianza sociale, un privilegio. Le notizie frammentarie fornite dalla stampa sulla pratica degli aborti sono estremamente interessanti: “195 donne mutilate dalle levatrici” di cui 33 operaie, 28 impiegate, 65 contadine colkosiane, 58 donne di casa, passano nel 1935 per un ospedale di campagna nell’Ural (...) Quante donne sono ogni anno mutilate da aborti male praticati nell’URSS intera?
        «Dimostrata la sua incapacità a fornire alle donne costrette all’aborto il soccorso medico necessario e installazioni igieniche, lo Stato cambia bruscamente rotta e si impegna sulla via delle proibizioni (...) Uno dei membri della corte suprema, Soltz, specializzato nelle questioni che si riferiscono al matrimonio, giustifica la prossima proibizione dell’aborto dicendo che, poiché la società non ha disoccupati (...) la donna non può avere il diritto di respingere le “gioie della maternità”. Filosofia da curato, che dispone in sovrappiù del pugno del gendarme. Abbiamo letto nell’organo centrale del partito che la nascita d’un bambino è per molte donne – e sarebbe più giusto dire, per la maggior parte, – “una minaccia”. Abbiamo udito un’alta autorità sovietica costatare che “la liquidazione dell’abbandono dell’infanzia si compie debolmente”, il che significa certo un aumento dell’infanzia abbandonata; ed ecco un alto magistrato annunciarci che nel paese, in cui “è dolce vivere”, gli aborti debbono essere puniti con la prigione, esattamente come nei paesi capitalistici, dove vivere è triste. Si capisce anticipatamente che nell’URSS, come in Occidente, saranno soprattutto le operaie, le contadine, le domestiche, cui sarà difficile dissimulare il peccato, che cadranno nelle grinfie dei carcerieri (...) “Abbiamo bisogno d’uomini” – aggiunge Stolz – chiudendo gli occhi sui fanciulli abbandonati. Milioni di lavoratori, se la burocrazia non avesse posto sulle loro labbra il sigillo del silenzio, potrebbero rispondergli: “Fateli dunque voi i figli!”. Questi signori hanno dimenticato che il socialismo dovrebbe eliminare le cause che spingono le donne all’aborto e non far intervenire bassamente il poliziotto nella vita intima della donna per imporle le gioie della maternità».
    È così che tutte le donne d’oggi devono rispondere al prete, al poliziotto, al proprio uomo che per viltà si adegua e si sottomette alle regole borghesi soprattutto per il fatto che il figlio non sarà un suo fardello. Questo significa che nella società borghese tutto è truce in quanto tutto è in funzione del capitale; il limitare le nascite come il favorirle serve solo all’aumento dei profitti. È per questo che non esiste la medicina preventiva in quanto non potrebbe che coinvolgere tutta la sfera sociale e produttiva e perciò i fini che persegue la classe che detiene il potere. Abortire legalmente non è più pericoloso che togliersi un dente legalmente. Se fosse vietata l’estrazione di denti ci sarebbero migliaia di morti per pratiche dentarie clandestine. Solo che, essendo l’aborto legato al mantenimento dell’oppressione della donna attraverso il mantenimento della famiglia, viene vietato e perciò reso mille volte più pericoloso.
     

    Solo il Comunismo libererà la piena individualità e socialità della donna

    Certo, l’aborto è un triste diritto – come dice Trotski – perché milioni di donne sono veramente costrette a rinunciare alle gioie della maternità, e ogni essere umano soffre se solo una delle sue organiche attività gli è impedita. Nel socialismo come sarà possibile prevenire e ridurre al minimo la carie dentaria (tanto per rimanere al nostro esempio) così, si cercherà di prevenire le occasioni di abortire. Come fase di transizione ci battiamo per l’aborto libero e gratuito e lo applicheremo là dove potremo conquistare il potere, per portarlo almeno al livello di una estrazione dentaria legale.

    Il che non significa “socialismo” ma riduzione delle sofferenze dell’umanità proletaria compito primo di ogni comunista.

    Ancora una parola su questo argomento: non si deve pensare che il socialismo sarà la fredda e meccanica sottomissione dei bisogni individuali ai bisogni generali della società che si giustificherebbe chiamandosi “di specie”. Se per esempio dicessimo che le donne del socialismo partoriranno tutte le volte che verrà loro imposto dall’organizzazione socialista, nulla avremmo fatto. Anzi, è proprio nel socialismo che l’individuo troverà la sua piena realizzazione anche nelle personali inevitabili differenziazioni, la piena e libera espressione della propria individualità, e solo il socialismo potrà eliminare la contraddizione fra individuo e società.

        Scrive Bebel: «Osserviamo infine che nella società dell’avvenire la condizione della donna sarà ben diversa e che essa non si compiacerà di dare alla luce un gran numero di figli, facendosi di ciò una missione, ma vorrà invece godere la sua libertà e indipendenza e non già consumare la metà o i tre quarti dell’età più bella in istato di gravidanza o coi bambini al seno. Certamente vi sono poche donne che non bramano avere figli, ma d’altra parte la grandissima maggioranza ne desidera solo un numero limitato. Tutti questi fatti ci condurranno al punto da regolare la popolazione senza che i nostri malthusiani trovino necessario di rompersi la testa a vicenda, e d’altronde senza astinenze nocevoli alla salute e senza ributtanti sistemi preventivi»
    Nello Stato socialista quindi le donne saranno libere di avere figli o non averne, non verrà imposto loro di abortire o di partorire come nella società borghese. La legge sulla liberalizzazione dell’aborto propria del partito proletario non sarà ad un certo punto “abrogata” ma cadrà spontaneamente in disuso quando le condizioni materiali della organizzazione sociale lo consentiranno; allo stesso modo si estinguerà la famiglia borghese soppiantata dalla vita comunitaria in tutte le sue forme. I figli non peseranno più sulle madri ma le madri potranno rimanere con i propri figli se lo vorranno, esprimendo finalmente un autentico sentimento materno, in quanto non più prodotto dall’egoismo verso la propria prole, non più deformato dalla pratica oscena di affamare i figli altrui per nutrire e ingrassare i propri.
        Aleksandra Kollontaj: «Che le madri lavoratrici si rassicurino: la società comunista non si appresta affatto a sottrarre il figlio ai genitori, né a strappare il bimbo dal seno della madre; d’altronde, essa non ha l’intenzione di ricorrere a mezzi violenti per distruggere la famiglia. Niente di simile! Non sono di tal genere gli scopi della società comunista. Che cosa vediamo oggi? L’antica famiglia sì decompone; essa si affranca a poco a poco da tutti i lavori domestici, che costituivano tanti pilastri i quali sostenevano la famiglia in quanto tale. Il ménage? Allo stesso modo esso ha cessato d’essere una necessità. I figli? I genitori proletari sono nell’impossibilità di prendersi cura di loro; essi non possono assicurarne né il sostentamento né l’educazione; situazione di cui soffrono in ugual misura genitori e figli. La società comunista viene dunque incontro all’operaia e all’operaio per dir loro: siete giovani, vi amate. Ognuno ha diritto alla felicità. Vivete dunque la vostra vita. Non schivate affatto la felicità, non avete paura del matrimonio, il quale è veramente una catena per l’operaio e per l’operaia della società capitalistica. Soprattutto non temete, giovani e sani quali siete, di dare alla patria operaia nuovi lavoratori, nuovi figli cittadini. La società dei lavoratori ha bisogno di nuove forze-lavoro, essa saluta l’arrivo al mondo d’ogni neonato. Non inquietatevi più per il futuro di vostro figlio: non avrà né fame né freddo; non sarà né infelice né abbandonato alla propria sorte, come accadde sotto il regime capitalistico.
        «Fin dal momento in cui il bambino viene al mondo la società comunista, lo Stato dei lavoratori assicura al figlio e alla madre la loro parte di sostentamento e di cure premurose. Il bambino sarà nutrito, educato, istruito a cura della patria comunista, quest’ultima però eviterà assolutamente di strapparla a quei genitori che volessero partecipare all’educazione del piccolo. La società comunista prenderà su di sé i pesi che l’educazione dei figli comporta, ma lascerà le gioie del padre e le soddisfazioni della madre a coloro che si mostreranno capaci di comprendere e di assaporare tali gioie. Non c’è che dire: la famiglia antica ha fatto il suo tempo; lo Stato comunista non può farci niente: sono le nuove condizioni di vita che ne sono la causa. La famiglia cessa di essere necessaria allo Stato, come lo è stata in passato; al contrario, essa distoglie inutilmente le lavoratrici da un lavoro più produttivo e di gran lunga più serio. A maggior ragione, essa non è necessaria ai membri stessi della famiglia, passa sempre più spesso da questa alla collettività. Ma sulle rovine della famiglia antica si vedrà presto sorgere una forma nuova, la quale comporterà relazioni assolutamente diverse tra l’uomo e la donna e sarà l’unione dell’affetto e del cameratismo, l’unione di due membri uguali della società comunista, ambedue liberi, ambedue indipendenti, ambedue lavoratori. Non più “schiavitù” domestica delle donne! Non più ineguaglianza in seno alla famiglia! Non più timore per la donna di restare senza appoggio né aiuto, con dei piccoli sulle braccia, nel caso il marito l’abbandoni. La donna dello Stato comunista non dipende più da suo marito, bensì dal suo lavoro. Non è il suo uomo ma sono le sue braccia di operaia a nutrirla. Non c’è neppure l’angoscia per la sorte dei figli. È lo Stato dei lavoratori che se ne incarica. Si vedrà il matrimonio depurato dall’aspetto materiale, dai calcoli materiali – questa piaga orrenda della vita familiare dei nostri giorni – Il matrimonio si trasformerà perciò in quello accostamento sublime di due anime che si amano e che hanno fede l’una nell’altra, quello accostamento che promette a ciascun lavoratore e a ciascuna lavoratrice la gioia più completa e al tempo stesso la massima soddisfazione che possa capitare a essere coscienti di se stessi e della vita che li circonda» (“La famiglia e lo Stato comunista”, 1918).


    Con quest’inno all’amore e alla difesa della vita espresso non da ipocriti poeti borghesi né da mercenari obiettori ma da una militante rivoluzionaria nel fuoco della lotta, si conclude l’analisi della condizione delle donne nella società borghese e delle rivendicazioni indispensabili per la loro emancipazione, o meglio, per l’affrancamento di tutta quanta l’umanità dalla preistorica società capitalistica. Resta ora da vedere come il partito intendeva inquadrare queste masse di supersfruttate per condurle nella lotta rivoluzionaria insieme a tutto il proletariato verso la conquista del potere.
     
     
     
     
     


    5. Coincidere della lotta di classe e della lotta di emancipazione femminile

    Come abbiamo cercato di dimostrare nel corso della trattazione, l’atteggiamento pratico del partito nei confronti delle rivendicazioni delle donne è lo stesso che tiene nei confronti delle rivendicazioni salariali, che in termini giuridici possono essere definite il diritto a mangiare, alla sopravvivenza, destinate a diventare la leva più potente di mobilitazione rivoluzionaria. La difesa dei salari, che molti ci rimproverano come opportunismo, come il riconoscere la società borghese, non è questo e neanche una tattica speciale studiata a tavolino come la più adatta a vincere, ma scaturisce direttamente dallo scopo del comunismo di liberare gli sfruttati dal bisogno; le rivendicazioni immediate hanno il duplice scopo di mobilitare l’intera classe su obbiettivi comuni e di ridurre le immediate loro sofferenze. I proletari devono mangiare tutti i giorni né devono morire di lavoro! Per questo devono battersi per rivendicazioni immediate in una lotta difensiva contro il capitalismo. È nel corso di questa lotta, inizialmente difensiva, che i proletari si renderanno conto che se vorranno affermare definitivamente il loro diritto alla vita dovranno passare all’attacco armato contro il regime stesso e all’abbattimento di tutti i mezzi coercitivi che si frappongono alla realizzazione dei loro bisogni, primo fra tutti lo Stato borghese. Ecco perché non vi è nessuna contraddizione fra le rivendicazioni salariali indispensabili alla sopravvivenza giornaliera di milioni di uomini e lo scopo finale del comunismo che prevede la fine della forma salariale del lavoro e che è l’emblema di questo sfruttamento.

    È proprio per questo che impegnarsi nella lotta per ottenere tutto ciò che viene rivendicato dagli sfruttati e da tutti gli oppressi all’interno della società borghese sul piano sociale non è “opportunista”, anche se sì tratta di rivendicazioni che solo il comunismo potrà attuare realmente; non vuol dire riconoscere la società borghese, anzi significa una dichiarazione di guerra.

    Per quanto riguarda la questione femminile, la condizione irrinunciabile per questo confronto sta nella determinazione di classe, nel prevedere fin dall’inizio lo scontro diretto e armato contro le classi possidenti e il loro regime, ed è questo indirizzo pratico che porterà inevitabilmente la discriminante fra i vari strati e classi che apparentemente sembrano muoversi omogeneamente. Anche in questo campo dunque, la proposizione di nessuna rivendicazione è da rimandare a “dopo la rivoluzione”, proprio perché la rivoluzione altro non è che la mobilitazione di tutti gli sfruttati, determinata dall’impossibilità della borghesia a soddisfare realmente questi bisogni. Allo stesso modo, No alla rivoluzione per tappe, sostenuta da quanti si contentano degli “straccetti di leggi” ritenuti pur sempre un progresso in attesa dell’olimpo comunista, bensì concorrenza serrata alla borghesia e ai suoi servi opportunisti di destra e di sinistra avanzando subito le stesse rivendicazioni sociali sbandierate dal regime, ma in senso classista e rivoluzionario.

        Bebel: «Se dunque questo lavoro non avesse altro scopo se non quello di dimostrare l’eguaglianza giuridica della donna di fronte all’uomo sul terreno della società odierna, io l’abbandonerei. Ma si tratta invece di trovare la via per giungere alla soluzione del problema, il quale è complesso, poiché non tende soltanto a parificare giuridicamente la donna all’uomo, ma anche a renderla economicamente libera e da lui indipendente e, per quanto possibile, a lui eguale nell’educazione intellettuale. Ora, siccome la completa soluzione di esso, dati gli attuali ordinamenti sociali e politici è altrettanto impossibile quanto la soluzione della questione operaia (!), così la via che conduce a risolvere la questione della donna sarà quella stessa che condurrà a risolvere la questione operaia». Bebel conclude riconoscendo che «quello che la società borghese chiedeva indarno, e cioè nel fondare la libertà, l’eguaglianza e la fratellanza, sarà attuato nel socialismo».
        Commenta Clara Zetkin: «Questo riconoscimento non conduce Bebel all’errata conclusione che la rivendicazione d’eguaglianza da parte delle donne debba essere aggiornata sino all’attuazione dello Stato futuro, anche se questa fuga avrebbe rappresentato un ulteriore elemento di comodo per alcuni opportunisti poco accorti presenti tra le file della socialdemocrazia. A conferma di ciò sta il fatto che Bebel già nel 1875, al Congresso per la unificazione tenutosi a Gotha, aveva inserito nel programma rivendicativo il diritto di voto per ambo i sessi. Il primo dirigente del proletariato tedesco proclamò la lotta per la piena equiparazione del sesso femminile quale componente della lotta del proletariato e quale compito del presente. A questa lotta non doveva partecipare solo il proletariato maschile: vi dovevano partecipare anche le donne, per il socialismo e per la loro emancipazione».
    Creare un movimento di massa sotto la direzione dei comunisti

    Lenin nella Conversazione con Clara Zetkin ripropone la necessità di questa lotta in generale, ma mette anche in evidenza che non si tratta solo di battere le tesi avversarie quali il femminismo ecc., ma prima di tutto di convincere gli stessi compagni i quali, nascondendosi dietro l’antifemminismo politico oppongono resistenza all’accettare di organizzare immediatamente le donne per la loro lotta di emancipazione. Deterministicamente, non pochi comunisti avvertono – coscientemente o no poco importa – che su questo terreno hanno qualcosa da perdere, e cioè la loro posizione di privilegio in quanto maschi. Ciò li rende “sinceramente” ottusi e restii ad accettare l’impostazione del partito e bollano di “femminismo” tutto ciò che viene proposto in favore delle donne.

        Lenin: «Il lavoro d’agitazione e propaganda tra le donne, la diffusione dello spirito rivoluzionario tra di loro, vengono considerati come questioni occasionali, come faccende che riguardano unicamente le compagne. Soltanto alle compagne si rivolgono rimproveri se il lavoro in questa direzione non procede più speditamente ed energicamente. Ciò è male, assai male. È separatismo bello e buono, è femminismo alla rovescia! Cosa c’è alla base di questo atteggiamento sbagliato delle nostre sezioni nazionali? In ultima analisi non si tratta altro che di una sottovalutazione della donna, e del suo lavoro. Proprio così! Disgraziatamente si può ancora dire di molti compagni: “Gratta un comunista e troverai un filisteo!” Evidentemente dovrete grattare il punto sensibile: la loro concezione della donna» (e noi possiamo aggiungere oggi, non tanto la “concezione” che molti uomini hanno della donna – che a parole tutti sono “femministi” – ma gli effetti pratici che a loro personalmente verrebbero da un classista risveglio femminile!).
        «Può esserci prova più riprovevole – continua Lenin – della calma acquiescenza degli uomini di fronte al fatto che le donne si consumano nel lavoro umiliante, monotono della casa, sciupano, sperperano energia e tempo, acquistano una mentalità meschina e ristretta, perdono ogni sensibilità, ogni volontà? Naturalmente non alludo alle donne della borghesia che scaricano sulla servitù la responsabilità di tutto il lavoro della casa, compreso l’allevamento dei bambini. Mi riferisco alla schiacciante maggioranza delle donne, alle mogli dei lavoratori e a quelle che passano le giornate in un’officina. Pochissimi uomini – anche tra i proletari – si rendono conto della fatica e della pena che potrebbero risparmiare alla donna se dessero una mano al lavoro della donna. Ma no, ciò è contrario ai “diritti e alla dignità dell’uomo”, essi vogliono pace e comodità. La vita domestica della donna costituisce un sacrificio quotidiano fatto di mille nonnulla. La vecchia supremazia dell’uomo sopravvive in segreto (...) Il nostro lavoro di comunisti tra le donne, il nostro lavoro politico, comporta una buona dose di lavoro educativo tra gli uomini. Dobbiamo sradicare del tutto la vecchia idea del “padrone”! Nel partito e tra le masse. È un nostro compito politico non meno importante del compito urgente e necessario di creare un nucleo direttivo di uomini e donne, ben preparati teoricamente e praticamente per svolgere tra le donne un’attività di partito».
    Come si vede, Lenin non vedeva la questione femminile come un accessorio della lotta di classe; la piena e reale eguaglianza della donna in tutti i campi la riteneva un principio indiscutibile del comunismo.

    Lenin passa poi a descrivere per grandi linee la tattica comunista nella questione femminile dove la maggiore preoccupazione deve essere rivolta alla necessità di distinguersi da tutti gli altri partiti e movimenti. Ancora una volta ritorna il classico insegnamento “leninista” che non vi è pratica rivoluzionaria senza teoria rivoluzionaria:

    «Noi dobbiamo assolutamente creare un potente movimento femminile internazionale, fondato su una base teorica netta e precisa (...) È chiaro che non può aversi una buona pratica senza teoria marxista. Noi comunisti dobbiamo mantenere su tale questione i nostri principi in tutta la loro chiarezza. Dobbiamo distinguerci nettamente da tutti gli altri partiti».
    Lenin muove un ulteriore rimprovero al partito per il ritardo che manifesta nel mettere all’ordine del giorno questa questione; si riferisce esplicitamente al II Congresso internazionale che “disgraziatamente” non ha trovato il tempo di prendere posizione e accusa la commissione di tirare in lungo le cose.
         «Essa deve elaborare una risoluzione delle tesi, una linea precisa. Le tesi devono mettere bene in evidenza che soltanto attraverso il comunismo si realizzerà la vera libertà della donna. Bisogna sottolineare i legami indissolubili che esistono tra la posizione sociale e quella umana della donna: questo servirà a tracciare una linea chiara e indelebile di distinzione tra la nostra politica ed il femminismo. Questo punto sarà anche la base su cui trattare il problema della donna come parte della questione sociale, come problema che tocca i lavoratori, per collegarlo solidamente con la lotta di classe del proletariato».
    Viene qui ribadito il concetto, fondamentale per distinguere l’indirizzo marxista da quello borghese, che l’oppressione della donna e tutti i problemi da essa derivanti vanno ricondotti all’esistenza delle classi; che le donne sono schiave non solo perché appartenenti al sesso femminile ma perché prive di indipendenza economica e sociale in quanto ancorate ai vincoli arcaici dell’economia domestica e dell’allevamento dei figli.
        «Il movimento comunista femminile – prosegue Lenin – deve essere un movimento di massa, una parte del movimento generale di massa, non solo del proletariato, ma di tutti gli sfruttati e di tutti gli oppressi, di tutte le vittime del capitalismo e di ogni forma di schiavitù (...) Nessuna organizzazione particolare per le donne comuniste, una donna comunista è membro del partito non meno di un uomo comunista. Non deve esserci al riguardo un’impostazione particolare. Tuttavia non dobbiamo nasconderci che il partito deve avere enti, gruppi di lavoro, commissioni, comitati, uffici o quel che più piacerà, con il compito specifico di risvegliare le masse femminili, di mantenere con esse i contatti e di influenzarle. Il che è ovvio esige un lavoro sistematico (...) Non mi riferisco soltanto alle donne proletarie che lavorano in fabbrica o in casa. Anche le contadine povere, le piccolo-borghesi sono vittime del capitalismo e lo sono in misura ancora maggiore dallo scoppio della guerra. La mentalità antipolitica, antisociale, retriva di queste donne, l’isolamento a cui le costringe la loro attività, tutto il loro modo di vivere: questi sono i fatti che sarebbe assurdo, assolutamente assurdo trascurare. Abbiamo bisogno d’organismi appropriati per condurre il lavoro tra le donne. QUESTO NON È FEMMINISMO: È LA VIA PRATICA RIVOLUZIONARIA».
    Qui Lenin scioglie l’annoso scontro esistente all’interno del partito (già denunciato da Clara Zetkin) il quale non affrontava il problema praticamente, nascondendosi dietro un falso purismo rivoluzionario: 1) deve esserci un movimento di massa femminile influenzato e diretto dai comunisti prodotto da un lavoro specifico di propaganda agitazione e organizzazione delle donne oppresse; 2) a questo scopo il partito deve approntare strumenti specifici di elaborazione e organizzazione per il lavoro tra le donne che, escluso le borghesi, comprendano non solo le operaie o le proletarie ma anche le contadine povere e le piccolo borghesi. Infatti, la schiavitù domestica e il fardello dei figli pesano e rendono oppressa la stragrande maggioranza delle donne delle quali solo una parte è inserita nel lavoro industriale, a contatto quindi con un ambiente di classe. Le donne, nella stragrande maggioranza, sono quindi mille volte più arretrate degli uomini perché sono vittime del capitalismo, perché in moltissimi casi l’uomo stesso, sia esso borghese o proletario, si comporta con esse da padrone nell’ambito della struttura familiare e sta al partito aiutarle a prendere coscienza della loro condizione sociale di oppresse e di indirizzarle e organizzarle con specifici obiettivi immediati per la lotta generale contro il capitalismo a fianco di tutto il proletariato.

    Lenin (La prima parte di questa citazione è stata ricavata dal testo originale di Clara Zetkin “Memorie” dato il completo travisamento di esso su quello italiano edito dagli Editori Riuniti):

        «Il rifiuto d’organizzazioni differenziate per il nostro lavoro fra le masse femminili significa un rifiuto non diverso da quello dei nostri più radicali e altamente morali amici del Partito Comunista Operaio secondo i quali dovrebbe esistere un’unica forma organizzativa: i sindacati operai. Li conosco. Molti rivoluzionari affetti da confusionismo si richiamano ai principi quando mancano idee, cioè quando la loro intelligenza è chiusa ai fatti puri e semplici, ai fatti che vanno tenuti in considerazione. Ma come, possono i custodi del “principio puro” adattare le loro idee alle esigenze della politica rivoluzionaria che il momento storico comporta? Tutte quelle chiacchiere vanno in fumo di fronte alle necessità inesorabili. Soltanto se milioni di donne sono con noi possiamo esercitare la dittatura del proletariato, possiamo costruire seguendo direttrici comuniste. Dobbiamo studiare per trovare questa maniera. Perciò è giusto formulare rivendicazioni a favore delle donne: non si tratta già di un programma minimo, di un programma di riforme nel senso dei socialdemocratici della Seconda Internazionale. Non è un riconoscimento dell’eternità o per lo meno della lunga durata del potere della borghesia e della sua forma statale. Non è un tentativo di appagare le donne con delle riforme e fuorviarle dal comunismo, dalla lotta rivoluzionaria. Non si tratta né di questo né di altri trucchi riformisti. Le nostre esigenze si spiegano con le conclusioni pratiche che abbiamo tirato dalle necessità pressanti, dalla vergognosa umiliazione della donna e dai privilegi dell’uomo (...)
        «Naturalmente ci preoccupiamo non solo del contenuto delle nostre rivendicazioni, ma anche del modo come le formuliamo. Naturalmente non formuleremo le nostre rivendicazioni per le donne come se contassimo meccanicamente i grani del rosario. No, secondo le esigenze del momento, lotteremo ora per questo obiettivo ora per quello. E, naturalmente, tenendo sempre presenti gli interessi generali del proletariato (...) In altri termini, la lotta mette in luce la differenza fra noi e gli altri partiti, mette in luce il nostro comunismo. Ci assicurerà la fiducia delle masse femminili che si sentono sfruttate, asservite, oppresse dall’uomo, dal datore di lavoro, da tutta la società borghese.
        «Occorre che vi ricordi di nuovo che le lotte per le nostre rivendicazioni a favore delle donne devono essere legate alla finalità di impadronirsi del potere e di realizzare la dittatura del proletariato?
        «Questo è oggi il nostro obiettivo fondamentale. Ma non basta semplicemente formularlo di continuo come se suonassimo le trombe di Gerico, perché le donne si sentano attratte irresistibilmente alla nostra lotta per il potere statale. No, no! Le donne devono prendere coscienza del legame politico che esiste tra le nostre rivendicazioni e le loro sofferenze, i loro bisogni, le loro aspirazioni. Devono comprendere quello che vuol dire per loro la dittatura del proletariato: completa eguaglianza con l’uomo di fronte alla legge e nella pratica, nella famiglia, nello Stato, nella società; la fine del potere della borghesia (...) Legarle alla nostra causa per mezzo di una chiara comprensione e di una solida base organizzativa è essenziale per i partiti comunisti e per il loro trionfo. Ma non lasciamoci ingannare. Le nostre sezioni nazionali non hanno ancora una visione chiara del problema. Se ne stanno inerti mentre incombe il compito di creare un movimento di massa sotto la direzione dei comunisti».
    Da quest’ultima affermazione “creare un movimento di massa sotto la direzione dei comunisti” si arriva alle Tesi del III Congresso dell’Internazionale Comunista che realizzeranno l’aspirazione di Lenin. Infatti vi troveranno finalmente posto anche le tesi sulla propaganda e metodi d’agitazione fra le donne lasciando così una direttiva pratica preziosa, un punto di riferimento per il futuro e risolvendo anche per sempre l’aspetto teorico di qualsiasi polemica all’interno del partito.
     

    Scagliare le rivendicazioni femminili contro lo Stato borghese

    Le tesi – la cui chiarezza ci esonera da ulteriori commenti – verranno riportate per intero come appendice del lavoro che riteniamo possa essere considerato un quadro completo – almeno nelle sue linee essenziali – di tutta la questione femminile nella tradizione marxista. Vogliamo solo mettere in rilievo due punti (riguardo al femminismo borghese e riguardo al riformismo) sui quali sarà sempre necessario ritornare con forza: i Pannella, il PCI, il movimento femminista attuale, sono gli stessi avversari contro cui si esprimono le tesi e con i quali il partito si dovrà misurare nelle battaglie future. Nella parte dedicata ai “principi generali” ai punti 4 e 5:

        «In nessun caso il movimento femminista borghese saprebbe dare alle donne ciò che il comunismo darà loro. Finché esisterà la dominazione del capitale e della proprietà privata, l’affrancamento della donna non è possibile. Il diritto elettorale (o qualsiasi altro diritto aggiungiamo noi) non sopprime la causa prima dell’asservimento della donna nella famiglia e nella società e non le offre la soluzione del problema dei rapporti tra i due sessi. L’uguaglianza non formale ma reale della donna non è possibile che in un regime in cui la donna sarà la proprietaria dei suoi strumenti di produzione e di ripartizione, prendendo parte alla loro amministrazione e con l’obbligo di lavoro alle stesse condizioni di tutti i membri dell’operosa società; in altri termini, questa uguaglianza non sarà realizzabile che dopo il rovesciamento del sistema capitalistico e la sua sostituzione con le forme economiche comuniste (...)
        «5) Il III Congresso dell’Internazionale comunista conferma i principi fondamentali del marxismo rivoluzionario secondo i quali non esistono “questioni specifiche femminili” (ciò significa che non esistono rivendicazioni per le donne da condurre al di fuori della lotta di classe di tutto il proletariato, che non riguardino lo stesso proletariato maschile); qualsiasi avvicinamento dell’operaia al femminismo borghese, come qualsiasi appoggio che essa prestasse alla tattica delle mezze misure e dell’aperto tradimento dei social-riformisti e degli opportunisti non farebbe che indebolire le forze del proletariato e, ritardando la rivoluzione sociale, impedirebbe nello stesso tempo la realizzazione del comunismo, cioè l’affrancamento della donna. Noi non perverremo al comunismo che attraverso l’unione nella lotta tra tutti gli sfruttati; non per l’unione tra le donne delle due classi antagonistiche».
    Il secondo periodo riguarda la tattica del partito nei confronti delle istituzioni legislative borghesi, cioè l’uso che i comunisti devono fare di queste istituzioni e delle leggi, appunto secondo la tattica allora non ancora rigettata dal partito del parlamentarismo rivoluzionario. Qui si mette ancora una volta in evidenza come le rivendicazioni dei diritti formali non siano un fine ma un mezzo di mobilitazione classista. Nel capitolo dedicato al “lavoro politico del partito tra le donne nei paesi capitalistici” si legge:
        «Le commissioni femminili aiuteranno le grandi masse del proletariato femminile e delle contadine ad esercitare i loro diritti elettorali, alle elezioni parlamentari e altro, a favore del partito comunista, facendo però notare il poco valore di questi diritti sia al fine di indebolire il capitalismo sia a quello dell’affrancamento della donna, e opponendo al capitalismo il regime soviettista».
    Ancora più interessante il terzo periodo perché, se ormai il problema elettorale non esiste più, essendo i comunisti astensionisti, esiste però sempre il problema delle leggi a favore degli sfruttati. Ne è un esempio la legge sull’aborto – per quanto riguarda le donne – attualissima in Italia, sulla quale tutti si sono pronunciati e tutti indicano vergognosamente alle donne di andare a votare a favore di partiti, o per referendum, pro o contro. I più “sinistri”, o che si ritengono tali, hanno parlato di uno “straccetto di legge” che però sarebbe “meglio che niente”. Insomma, ogni partito ha visto la propaganda fra le donne come pressione per spingere più avanti possibile la riforma borghese, allineandosi tutti sul più volgare gradualismo.

    Cinquant’anni fa, quando addirittura il partito entrava nelle istituzioni legislative, così si esprimevano i comunisti:

        «Le commissioni femminili si devono assicurare che le donne comuniste collaborino a tutte le istituzioni legislative e municipali per portare in queste sedi la politica rivoluzionaria del loro partito. Ma ogni volta che entreranno nelle istituzioni legislative dovranno seguire strettamente i principi e la tattica del partito. Esse non si devono preoccupare di ottenere riforme dal regime capitalistico, ma di riuscire a trasformare ogni rivendicazione delle donne che lavorano in parole d’ordine di natura tale da suscitare l’attività delle masse e di dirigere tali rivendicazioni sulla strada della lotta rivoluzionaria e della dittatura del proletariato».
    Come si vede, il metodo comunista è completamente rovesciato: tutte le rivendicazioni immediate sono effimere finché dura il regime borghese. Esse possono avere un solo significato: partire dalla loro necessità immediata per mobilitare tutto il proletariato e tutti gli oppressi in senso rivoluzionario, per dimostrare la necessità della dittatura del proletariato. D’altra parte, solo l’azione diretta del proletariato è l’unica arma anche per ottenere più vantaggi possibili dai singoli episodi della lotta di classe. La legge delle otto ore fu una vittoria del proletariato che costrinse la borghesia a questa “riforma”. Gli obiettori di coscienza – tanto per fare un esempio – e tutto l’apparato reazionario approntato contro l’aborto – non saranno eliminati dalle battaglie parlamentari né dal referendum. Spariranno solo se i milioni di donne oppresse si organizzeranno per cacciarli di forza.

    Perfettamente allineato con le tesi del III Congresso dell’Internazionale è il giornale “Compagna”, testimonianza pratica dell’importanza che il partito dà all’organizzazione delle masse femminili. Infatti è l’organo del PCd’I che nel 1922 si occupava della propaganda fra le donne. Vi è il saluto dell’Internazionale alle donne lavoratrici che così si rivolge alle compagne:

        «Voi dovete essere il portavoce di queste donne che si svegliano alla coscienza di classe e che incominciano a rendersi conto della loro situazione nella società capitalistica. Voi dovete giungere ad esse con un giornale che esse comprendano, al quale parlino, che a loro si rivolga (...) Il vostro giornale che si propone di propagandare in mezzo alle donne l’idea dell’emancipazione proletaria, acquisterà presto la simpatia delle masse femminili d’Italia (...) Le donne che oltre a le cure familiari hanno il peso del lavoro professionale che crea profitto al capitale, saranno le prime a comprendere il vostro appello».
    Ci interessa però mettere in particolare evidenza la funzione di propaganda che il giornale svolgeva nei confronti di tutte le donne non lavoratrici. È ovvio che le lavoratrici sono l’avanguardia delle masse femminili oppresse, non a caso il punto a) delle conclusioni della conferenza nazionale riportate da “Compagna” del 16 aprile 1922 dice che:
        «Compito preminente delle donne comuniste è quello di organizzare sindacalmente e di assimilare nelle file del partito politico le donne operaie»,
    ma al punto b) si dice anche che:
    «la propaganda fra le donne proletarie si svolge direttamente nei sindacati dove queste sono organizzate, e il processo di assimilazione di queste nel partito è agevolato dalle ragioni stesse per le quali esse lottano nel sindacato economico. Ma vi è una numerosa categoria di donne (donne di casa, contadine, piccolo-borghesi) verso le quali l’opera di propaganda e di assorbimento da parte del partito comunista può avvenire solo con azione indiretta. Questa categoria di donne lavoratrici può essere assorbita, oltre che con un’accorta e specifica opera di propaganda, suscitando in esse l’interesse attorno ai problemi immediati (caro viveri, alloggi, ecc.)».
    Infatti le tesi indicano la necessità di
    «pubbliche riunioni di operai, di lavoratrici di ogni genere, contadine, casalinghe (...) La propaganda e l’agitazione per mezzo di riunioni o altre istanze del genere dev’essere completata da un’agitazione nell’ambiente familiare. Ogni comunista con tale incarico dovrà visitare al massimo dieci donne nelle loro case, ma dovrà farlo regolarmente, almeno una volta la settimana (...) Le sezioni devono creare e diffondere materiale di propaganda semplice e conveniente: brochures e volantini per esortare e raggruppare le forze femminili».
    A questo proposito ci sembra importante la valutazione che il partito dà delle donne di casa, uno strato numerosissimo che si deve riuscire a raggiungere e ad organizzare:
        «Le donne di casa rappresentano ancora una di quelle categorie che sono lontane e qualche volta restie alla lotta della classe operaia. Non conoscono la pesantezza snervante dei lavori monotoni, gli orari estenuanti, la caparbietà dei capi; la disciplina, lo sfruttamento, quindi il sentimento di ribellione contro l’offensiva padronale in loro è molto più attenuata che non nelle altre categorie di donne salariate. Non essendo le donne di casa soggette al diretto sfruttamento capitalistico, non vuol dire che le loro condizioni di vita siano migliori. Esse sono quelle che dirigono la casa, e quindi devono provvedere all’indispensabile della vita familiare, cosa non facile quando, e questa è la condizione di quasi tutte le famiglie proletarie, i salari non sono sufficienti. Allora devono ricorrere a tutte le economie, servirsi di tutti i ripieghi, di tutti gli adattamenti, non badando alle rinunce, ai sacrifici personali pur che la barca familiare si regga a galla (...) Esse sono una potentissima arma nelle mani della società borghese di cui questa sa servirsene a meraviglia.
        «I suoi emissari, dal pulpito delle chiese, attraverso i giornali, nelle conferenze, raccomandano continuamente alle donne, in nome della loro pace familiare, dell’ordine collettivo, di frenare le idee ribelli dei loro uomini (...) Le donne di casa che soffrono tutti i dolori di cui soffre la classe proletaria, devono fare uno sforzo, uscire dalla grettezza della ristretta cerchia di idee ed elevare la mente verso gli interessi della propria classe, anche se occupandoci di questo bisognerà trascurare un poco i propri interessi personali, tanto, mentre le donne di casa si affaticano a riparare le brecce del loro bilancio domestico, l’offensiva borghese farà a questo brecce sempre più grandi che non riusciranno più a riparare. Gli interessi delle donne di casa sono strettamente legati a quelli della classe proletaria, perciò esse non devono disertare le file» (“Compagna”, luglio 1922).
    L’ultimo articolo che vogliamo citare s’intitola “Pregiudizi”. Esso è rivolto all’interno del partito, ai compagni. Si propone quell’opera di “rieducazione” degli uomini di cui parla Lenin che già abbiamo citato, dalla quale i compagni non possono in moltissimi casi essere esclusi. Si parla di compagni che addirittura ostacolano il processo d’evoluzione delle proprie donne verso il partito, ma si rivolge anche verso quei compagni che facendo finta che l’arretratezza della donna sia una “scelta morale” o il portato della “congenita” frivolezza femminile e non una condizione materiale d’oppressione della quale loro sono i maggiori beneficiari, non fanno niente né materialmente né spiritualmente per elevare la propria donna al di sopra della grettezza a cui la vita domestica e le fatiche di madre conducono. Giusta Engels, nella famiglia l’uomo è il borghese e la donna è il proletario. Per abolire questa disparità sociale bisogna distruggere la famiglia e quindi la società capitalistica. Ma il riscatto del singolo proletario o uomo comunista da questa condizione borghese, è l’azione immediata verso la propria donna per aiutarla in tutte le forme possibili ad entrare nella lotta alla pari, così come il singolo operaio appartiene alla classe solo quando abbandona i suoi egoistici interessi di individuo per abbracciare quelli di tutti i suoi compagni di lavoro e di lotta.
        «I compagni, spesse volte, fanno in modo che le loro mogli si allontanano dal gruppo adducendo la ragione che quando una donna sì forma una famiglia è assurdo che continui ad essere iscritta ad un partito politico; che essa deve curare la propria casa e che nel partito non ci dovrebbero far parte le donne, perché deboli e senza coraggio.
        «Tutto questo è in contrasto stridente con i principi comunisti, dato che il nostro partito riconosce che senza la partecipazione dell’elemento femminile il proletariato riuscirà difficilmente a compiere una rivoluzione vittoriosa. Questi compagni non sentono la necessità di elevare moralmente la loro donna, essi la considerano come cosa nulla; è un male però perché se tutti i compagni coscienti, che sentono in loro la grande fede, che sono entusiasti dell’idea che professano, sentissero l’impellente necessità di comunicare questo loro entusiasmo alla loro moglie, alla compagna della loro vita, se svegliassero con la forza della loro fede che li illumina quella sonnolente indifferenza che fa delle donne creature eternamente sottomesse, incitando la donna ad entrare nelle fila del Partito Comunista, preparandola a prendere parte alla lotta, interessandola al movimento politico, affidandole dei compiti importanti, trattandola da eguale, non mancherebbero di convincerla della bontà della nostra causa.
        «Ma anche noi compagne abbiamo dei doveri, dobbiamo gettare lontano da noi i pregiudizi, la timidezza, ribellandoci alle false convenienze sociali, schierandoci a fianco dei compagni per combattere la lotta comune, facendo valere i nostri diritti, osservando i nostri doveri, dando al partito il nostro aiuto morale e materiale. Così tante creature stanche come noi dal peso che le opprime, che le sfinisce, seguirebbero con simpatia sicure e fiere la nostra via di redenzione, nostra, dei nostri figli, dell’umanità sofferente».

     
     
     
     


    Concludendo questo lavoro, vogliamo ribadire con forza che non si è voluto tracciare una qualsiasi tattica con la quale fare concorrenza a partiti o sètte avversari per la contesa strumentale delle donne oppresse, bensì stabilire – così come per la questione operaia – il legame inscindibile fra azione immediata e comunismo.

    Ancora più precisamente: è proprio dalla previsione del futuro, di una società senza classi, che è stato possibile all’analisi marxista, descritto il percorso fino alla presente situazione delle donne, stabilire l’azione pratica capace di condurre al fine.

    Senza la distruzione dei rapporti di proprietà non è possibile nessuna vera liberazione della donna. È per questo che, se l’opportunismo di destra, con la sua famiglia riformata, manifesta apertamente la volontà di mantenere intatti i rapporti fra i sessi – e quindi l’assetto attuale della società – in ugual misura il femminismo non esce da questo quadro borghese proponendo in maniera ancora più esasperata la libera concorrenza fra i sessi con il travisamento del contenuto che il “libero amore” esprime.

    Infatti, il giusto rifiuto della famiglia monogamica – ammessa la possibilità materiale per molte donne di sottrarvisi – porterebbe, secondo questa ideologia, ad una generalizzazione dell’antagonismo che, dai nuclei familiari scagliati l’uno contro l’altro, si trasferirebbe fra i milioni di individui – uomini e donne – liberi sì, ma di sbranarsi fra loro, di ricattarsi vicendevolmente sia sul piano sociale ed economico che su quello sessuale. È appunto questo il senso della rivoluzione borghese conseguente – se lo potesse essere – rivendicato obiettivamente dal femminismo.

    «Nella società descritta nel nostro programma rivoluzionario il lavoro pagato, la proprietà il capitale non devono essere resi comuni, ma soppressi, scomparsi», scriviamo nei Commentari dei Manoscritti del 1844. Sempre da questo testo un’altra citazione di Marx che si contrappone al comunismo grossolano a proposito della comunanza delle donne: «infine tale movimento che consiste nell’opporre la proprietà privata generale alla proprietà privata, si manifesta, la sua forma animale: al matrimonio (che è indubbiamente una forma di proprietà privata ESCLUSIVA), si contrappone la COMUNANZA DELLE DONNE, dove la donna diventa proprietà della COMUNITÀ, una proprietà COMUNE (...) Allo stesso modo che la donna passa dal matrimonio alla prostituzione generale, così l’intero mondo della ricchezza, cioè dell’essenza oggettiva dell’uomo, passa dal rapporto di matrimonio esclusivo col proprietario al rapporto di prostituzione generale con la comunità». Questo è il comunismo grossolano predicato tutt’oggi dai radicali piccolo-borghesi che, senza distruggere i rapporti mercantili che avvolgono l’intero mondo, pretendono, cambiando le forme, di arrivare all’autogestione, in questo caso... del proprio corpo, nel misero tentativo di contrapporsi all’atroce sottomissione della donna nella gerarchica famiglia monogamica.

    La visione comunista non sta nel mezzo di queste due correnti borghesi ma ben più in alto: essa prevede non la generalizzazione della prostituzione delle donne ma l’affermazione dell’“AMORE come BISOGNO DI TUTTI” e quindi l’avvento di una comunità che renda inutile il metodo contabile del dare e dell’avere anche nei rapporti fra i sessi.

    Per arrivare a questo è necessario liberare non l’individuo – sia esso uomo o donna – ma l’intera società dalla forma capitalistica che la opprime condannando milioni di uomini nell’animalità più feroce, gli uni contro gli altri in tutte le sfere della loro attività e perciò anche in quella sessuale e dove quasi sempre l’amore dell’uno è miseria morale ed oppressione per l’altro.

    Di fronte alla sterile società attuale, che produce forme sempre più esasperate di sfruttamento e di solitudine interiore, dove milioni d’uomini vivono fisicamente vicini ma estranei gli uni agli altri, risalta formidabile la definizione di Marx sul significato UMANO dell’amore che sboccerà dalla rivoluzione vittoriosa:

    «“Ponete l’uomo in quanto uomo, e il suo rapporto col mondo, come un rapporto umano; e voi non potete che scambiare amore con amore, fiducia con fiducia (...) Se tu mi ami senza provocare amore in ritorno, cioè se il tuo amore non sa produrre altro amore che vi corrisponda, se nel manifestare la tua vita come uomo che ama non sai fare di te un uomo amato, il tuo amore è impotente, e il suo nome è infelicità».
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     


    Appendice
     
     

    III Congresso da Internazionale Comunista
    (Mosca, 1921)
    Tesi sulla propaganda tra le donne
     

    Principi generali

    1.
         Il III congresso dell’Internazionale Comunista, congiuntamente con la II conferenza internazionale delle donne comuniste, conferma l’orientamento del I e del II congresso per quel che riguarda la necessità, per tutti i partiti comunisti d’Occidente e d’Oriente, di rafforzare il lavoro tra il proletariato femminile e in particolare l’educazione comunista delle grandi masse di operaie che bisogna coinvolgere nella lotta per il potere dei soviet o per l’organizzazione della repubblica operaia soviettista.
        Per la classe operaia del mondo intero, e conseguentemente per le operaie, la questione della dittatura del proletariato diventa primordiale.
        L’economia capitalistica si trova ad un punto morto. Le forze produttive non possono più svilupparsi nel quadro del regime capitalistico. L’impotenza della borghesia a far rinascere l’industria, la miseria crescente delle masse lavoratrici, lo sviluppo della speculazione, la decomposizione della produzione, la disoccupazione, l’instabilità dei prezzi, il costo della vita sproporzionato ai salari provocano in tutti i paesi una recrudescenza della lotta di classe. In questa lotta bisogna prima di tutto sapere chi deve organizzare la produzione: un pugno di briganti e sfruttatori, sulla base del capitalismo e della proprietà privata o la classe dei veri produttori, sulla base del comunismo.
        La nuova classe che ascende, la classe dei veri produttori, deve, in conformità con le leggi dello sviluppo economico, prendere in mano l’apparato produttivo, creare nuove forme di economia. Soltanto così si potrà consentire alle forze produttive il loro massimo sviluppo, impedito dall’anarchia della produzione capitalistica, per cui non possono esprimere tutto il rendimento di cui sarebbero capaci.
        Fintanto che il potere è nelle mani della classe borghese, il proletariato è impossibilitato a ricostruire il modo di produzione. Nessuna riforma, nessuna misura proposta dai governi democratici o socialisti dei paesi borghesi sarà capace di salvare la situazione, di alleviare le sofferenze insopportabili degli operai; perché queste sofferenze sono un effetto naturale della rovina del sistema capitalistico e persisteranno fintanto che il potere sarà nelle mani della borghesia. Soltanto la conquista del potere da parte del proletariato consentirà alla classe operaia di impadronirsi dei mezzi di produzione e di assicurare così la possibilità di ristrutturare l’economia nel suo interesse.
        Per accelerare l’ora dello scontro decisivo del proletariato con il mondo borghese, la classe operaia deve conformarsi alla tattica ferma e intransigente preconizzata dalla Terza Internazionale. La realizzazione della dittatura del proletariato dev’essere posta all’ordine del giorno. Questo è l’obiettivo che deve definire i metodi di azione e la linea di condotta del proletariato di entrambi i sessi.
        Partendo dal punto di vista secondo il quale la lotta per la dittatura del proletariato è all’ordine del giorno, per il proletariato di tutti gli Stati capitalistici, e che la costruzione del comunismo è il compito attuale nei paesi in cui la dittatura è già nelle mani degli operai, il III congresso dell’Internazionale Comunista dichiara che, oltre che la conquista del potere da parte del proletariato anche la realizzazione del comunismo nei paesi che hanno già rovesciato l’oppressione borghese non potrebbe essere compiuta senza l’appoggio attivo delle masse del proletariato e del semiproletariato femminile.
        D’altra parte il congresso attira una volta di più l’attenzione delle donne sul fatto che senza l’appoggio dei partiti comunisti le iniziative che hanno come scopo la liberazione della donna, il riconoscimento della sua uguaglianza personale completa e il suo vero affrancamento non sono realizzabili.

    2.
        L’interesse della classe operaia esige in questo momento con particolare forza l’entrata delle donne nei ranghi organizzati del proletariato che combattono per il comunismo; esige ciò nella misura in cui la rovina economica mondiale diviene sempre più intensa e intollerabile per tutta la popolazione povera delle città e delle campagne e nella misura in cui di fronte alla classe operaia dei paesi borghesi capitalistici la rivoluzione sociale si profila inevitabilmente; mentre davanti al popolo laborioso della Russia soviettista si impone il compito di ricostruire l’economia nazionale su nuove basi comuniste. Questi due compiti saranno tanto più facilmente realizzati quanto più le donne vi prenderanno parte più attivamente, più coscientemente e più volontariamente possibile.

    3.
        Ovunque sorga direttamente il problema della conquista del potere, i partiti comunisti devono saper apprezzare il grande pericolo rappresentato nella rivoluzione dalle masse inerti delle operaie non coinvolte nel movimento, delle casalinghe, delle impiegate, delle contadine non affrancate dalle concezioni borghesi, dalla Chiesa e dai pregiudizi e non collegate con un qualsiasi legame al grande movimento di liberazione comunista. Le masse femminili d’Oriente e d’Occidente non coinvolte in questo movimento costituiscono inevitabilmente un appoggio per la borghesia e un pubblico per la sua propaganda controrivoluzionaria. L’esperienza della rivoluzione ungherese, nel corso della quale l’incoscienza delle masse femminili ha giocato un ruolo così sciagurato, deve servire d’ammonimento al proletariato di quei paesi arretrati che entrano nella strada della rivoluzione sociale.
        La pratica della repubblica soviettista ha dimostrato all’operaio quanto sia necessaria la partecipazione dell’operaia e della contadina sia alla difesa della repubblica durante la guerra civile sia in tutti i settori dell’organizzazione soviettista. Si sa l’importanza del ruolo che le operaie e le contadine hanno giocato nella repubblica soviettista, nell’organizzazione della difesa, nel rafforzamento della retroguardia, nella lotta contro la diserzione e contro tutte le forme di controrivoluzione, di sabotaggio, ecc.
        L’esperienza della repubblica operaia deve essere imparata e utilizzata dagli altri paesi.
        Da tutto ciò che abbiamo detto risulta un compito per il partito comunista; estendere l’influenza del partito e del comunismo tra vasti settori della popolazione femminile paese per paese, per mezzo di un organo speciale, che funzioni nell’ambito del partito, e di metodi particolari che permettano di affrontare più facilmente le donne per sottrarle all’influenza delle concezioni borghesi e all’azione dei partiti traditori per farne delle vere combattenti per il totale affrancamento della donna.

    4.
        Imponendo ai partiti comunisti d’Occidente e d’Oriente il compito immediato di consolidare il lavoro del partito tra il proletariato femminile, il III congresso dell’Internazionale Comunista mostra allo stesso tempo alle operaie del mondo intero che la loro liberazione dall’ingiustizia secolare dalla schiavitù e dalla disuguaglianza è realizzabile soltanto con la vittoria del comunismo.
        In nessun caso il movimento femminista borghese saprebbe dare alle donne ciò che li comunismo darà loro. Finché esisterà la dominazione del capitale e della proprietà privata, l’affrancamento della donna non è possibile.
        Il diritto elettorale non sopprime la causa prima dell’asservimento della donna nella famiglia e nella società e non le offre la soluzione del problema dei rapporti tra i sessi. L’eguaglianza non formale ma reale della donna non è possibile che in un regime in cui la donna sarà proprietaria dei suoi strumenti di produzione e ripartizione, prendendo parte alla loro amministrazione e con l’obbligo di lavoro alle stesse condizioni di tutti i membri della società operosa; in altri termini, quest’uguaglianza non sarà realizzabile che dopo il rovesciamento del sistema capitalistico e la sua sostituzione con le forme economiche comuniste.
        Solo che il comunismo cercherà di creare un tale stato di cose per cui la funzione naturale della donna, la maternità, non sia in conflitto con gli obblighi sociali e non impedisca più il suo lavoro produttivo a profitto della comunità. Ma il comunismo, allo stesso tempo, è il fine ultimo di tutto il proletariato. Conseguentemente la lotta dell’operaia e dell’operaio per questo fine comune devono, nell’interesse di entrambi, essere condotte insieme e inseparabilmente.

    5.
        Il III congresso dell’Internazionale comunista conferma il principio fondamentale del marxismo rivoluzionario secondo il quale non esiste una “speciale” questione della donna e che qualsiasi avvicinamento dell’operaia al femminismo borghese, come qualsiasi appoggio che essa prestasse alla tattica delle mezze misure e dell’aperto tradimento dei socialriformisti e degli opportunisti non farebbe che indebolire le forze del proletariato e, ritardando la rivoluzione sociale impedirebbe allo stesso tempo la realizzazione del comunismo, cioè l’affrancamento della donna.
        Noi non perverremo al comunismo che attraverso l’unione nella lotta tra tutti gli sfruttati; non per l’unione tra le donne delle due classi antagoniste.
        Le masse proletarie femminili devono, nel loro stesso interesse, sostenere la tattica rivoluzionaria del partito comunista e prender parte il più attivamente e il più direttamente possibile alle azioni di massa e alla guerra civile in tutte le sue forme e in tutti i suoi aspetti, sia nel quadro nazionale sia su quello internazionale.

    6.
        La lotta della donna contro il suo doppio sfruttamento, il capitalismo e la dipendenza familiare, domestica, deve assumere, nella prossima fase del suo sviluppo, un carattere internazionale e trasformarsi in lotta del proletariato dei due sessi per la dittatura e il regime soviettista, sotto le bandiere della Terza Internazionale.

    7.
        Dissuadendo le operaie di tutti i paesi da qualsiasi specie di collaborazione e di coalizione con le femministe borghesi, il III congresso dell’Internazionale comunista le avverte, allo stesso tempo, che qualsiasi appoggio che esse fornissero alla Seconda Internazionale o agli elementi opportunisti che vi si avvicinano non può comportare che il peggior male per il loro movimento. Le donne devono sempre ricordarsi che la loro schiavitù ha tutte le sue radici nel regime borghese. Per farla finita con questa schiavitù bisogna passare a un nuovo ordine sociale.
        Sostenendo i gruppi e i partiti delle Internazionali Seconda e 2-e-1/2 si paralizza lo sviluppo della rivoluzione, di conseguenza si impedisce la trasformazione sociale allontanando l’ora dell’affrancamento della donna.
        Più le masse femminili si allontaneranno decisamente e senza ritorni dalla Seconda Internazionale e dall’Internazionale 2-e-1/2, più la vittoria della rivoluzione sociale sarà certa. Il dovere delle donne comuniste è di condannare tutti coloro che temono la tattica rivoluzionaria dell’Internazionale comunista e di impegnarsi decisamente per farli escludere dai ranghi serrati della Internazionale Comunista.
        Le donne devono anche ricordarsi che la Seconda Internazionale non ha neppure cercato di creare un organo destinato alla lotta per la liberazione totale della donna. L’unione internazionale delle donne socialiste, nella misura in cui esiste, è stata realizzata fuori dal quadro della Seconda Internazionale su iniziativa propria delle operaie.
        La Terza Internazionale, fin dal suo I congresso del 1919, ha formulato chiaramente il suo atteggiamento sulla questione della partecipazione delle donne alla lotta per la dittatura; su sua iniziativa e con la sua partecipazione fu convocata la prima conferenza delle donne comuniste e nel 1920 fu fondato il Segretariato Internazionale per la Propaganda tra le Donne, con una rappresentanza permanente nel Comitato Esecutivo della Internazionale Comunista. Il dovere delle operaie coscienti di tutti i paesi è rompere con la Seconda Internazionale e con l’Internazionale 2-e-1/2 e di sostenere fermamente la politica rivoluzionaria dell’Internazionale Comunista.

    8.
        L’appoggio che le operaie e le impiegate presteranno all’Internazionale Comunista si deve manifestare in primo luogo con la loro entrata nelle file dei partiti comunisti dei loro paesi. Nei paesi e nei partiti in cui la lotta tra la Seconda e la Terza Internazionale non si è ancora conclusa, il dovere delle operaie è di sostenere con tutte le loro forze il partito o il gruppo che segue la politica dell’Internazionale Comunista e di lottare senza pietà contro tutti gli elementi esitanti o apertamente traditori, senza guardare in faccia a nessuno. Le donne proletarie coscienti che lottano per il loro affrancamento non devono restare in un partito non affiliato all’Internazionale Comunista.
        Ogni avversario della Terza Internazionale è un avversario dell’affrancamento delle donne.
        Ogni operaia cosciente d’Occidente e d’Oriente deve prender posto sotto la bandiera dell’Internazionale comunista. Ogni esitazione delle donne del proletariato a rompere con i gruppi opportunisti e con le “autorità riconosciute” ritarda le conquiste del proletariato sul campo di battaglia della guerra civile, che assume il carattere di una guerra civile mondiale.
     

      

    Metodi di azioni tra le donne

    Partendo dai principi qui sopra indicati, il III congresso dell’Internazionale Comunista stabilisce che il lavoro tra il proletariato femminile deve essere condotto dai partiti comunisti di tutti i paesi sulle seguenti basi:

    1.
        Ammettere le donne a titolo di membri uguali per diritti e per doveri a tutti gli altri nel partito e in tutte le organizzazioni proletarie (sindacati, cooperative, consigli degli anziani dell’officina, ecc.).

    2.
        Rendersi conto dell’importanza di far partecipare attivamente le donne a tutti i settori della lotta del proletariato (compresa la sua difesa militare), all’edificazione delle nuove basi sociali e all’esistenza secondo i principi comunisti.

    3.
        Riconoscere la maternità come una funzione sociale, prendere e applicare tutte le misure necessarie alla difesa della donna nella sua qualità di madre.
        Dichiarandosi energicamente contrario a qualsiasi tipo di organizzazione separata di donne in seno al partito, ai sindacati o altre associazioni operaie, il III congresso dell’Internazionale Comunista riconosce la necessità che il partito comunista impieghi metodi particolari di lavoro tra le donne e ritiene utile che in tutti i partiti comunisti si formino degli organi speciali incaricati di questo lavoro.
        A ciò il congresso è spinto dalle seguenti considerazioni:
         a) l’asservimento familiare della donna, non soltanto nei paesi borghesi, ma anche nei paesi dove già esiste il regime soviettista, nella fase di transizione dal capitalismo al comunismo.
         b) La grande passività e lo stato politico arretrato delle masse femminili, difetti spiegabili con l’allontanamento secolare della donna dalla vita sociale e dal suo stato di schiavitù in famiglia.
         c) Le funzioni speciali imposte alla donna dalla stessa natura, cioè la maternità e le particolarità che ne derivano alla donna, con la necessità di una maggior protezione delle sue forze e della sua salute, nell’interesse di tutta la società.
        Questi organi per il lavoro tra le donne devono essere sezioni o missioni funzionanti accanto a tutti i comitati di partito, cominciando dal Comitato Centrale per finire in quelli di quartiere o di distretto. Questa decisione è obbligatoria per tutti i partiti aderenti all’Internazionale Comunista.
        Il III congresso dell’Internazionale Comunista indica come compiti dei partiti comunisti da compiere grazie alle sezioni per il lavoro tra le donne:
         1. Educare le grandi masse femminili nello spirito del comunismo e attirarle nelle file del partito.
         2. Combattere i pregiudizi sulle donne tra le masse del proletariato maschile, rafforzando nello spirito degli operai e delle operaie l’idea della solidarietà degli interessi del proletariato dei due sessi.
         3. Affermare la volontà dell’operaia, utilizzandola nella guerra civile in tutte le forme e gli aspetti, sollecitare la sua attività facendola partecipare alle azioni di massa, alla lotta contro lo sfruttamento capitalistico nei paesi borghesi (contro il carovita, la crisi degli alloggi e la disoccupazione), all’organizzazione dell’economia comunista e dell’esistenza in generale nelle repubbliche soviettiste.
         4. Porre all’ordine del giorno del partito e delle istituzioni legislative le questioni relative all’uguaglianza della donna e alla sua difesa come madre.
         5. Lottare sistematicamente contro l’influenza della religione, della tradizione e dei costumi borghesi, al fine di preparare la strada a rapporti più sani e più armoniosi tra i sessi e al rinascimento morale e fisico dell’umanità lavoratrice.
        Tutte le sezioni di lavoro femminile dovranno essere costituite sotto l’immediata direzione e sotto la responsabilità dei comitati di partito.
        Tra i membri della commissione o della direzione delle sezioni dovranno anche figurare, nella misura del possibile, dei compagni comunisti maschi.
        Tutte le misure e tutti i compiti che vengono imposti alle commissioni e alle sezioni delle operaie dovranno essere espletati da loro, in modo indipendente; ma nel paese dei soviet attraverso i rispettivi organi economici e politici (sezioni dei soviet, commissariati, commissioni, sindacati, ecc.) e nei paesi capitalistici con l’aiuto delle corrispondenti organizzazioni del proletariato (sindacati, consigli, ecc.).
        Ovunque i partiti comunisti abbiano un’esistenza legale o semilegale essi devono costituire un apparato illegale per il lavoro tra le donne. Questo apparato deve essere subordinato e adattato all’apparato illegale del partito nel suo insieme. Anche là, come nell’apparato legale, ogni comitato deve comprendere una compagna incaricata di dirigere la propaganda tra le donne.
        Nel periodo attuale, i sindacati professionali e di produzione devono essere per i partiti comunisti i principali campi di lavoro tra le donne, sia nei paesi in cui la lotta per il rovesciamento del giogo capitalistico non è ancora terminata, sia nelle repubbliche operaie soviettiste.
        Il lavoro tra le donne deve essere condotto con il seguente spirito: unità nella linea politica e nelle strutture del partito, libera iniziativa delle sezioni e delle commissioni per tutto ciò che tende a creare la completa liberazione ed uguaglianza per la donna, il che non può essere ottenuto che con l’impegno complessivo di tutto il partito. Non si tratta di creare un parallelismo, ma di completare gli sforzi del partito con l’attività e l’iniziativa creatrici della donna.
     

      

    Il lavoro politico del partito tra le donne

     

    - nei paesi a regime soviettista

        Il ruolo delle sezioni, nelle repubbliche soviettiste, consiste nell’educare le masse femminili nello spirito del comunismo e nel fare confluire nelle file del partito comunista; consiste poi nello sviluppare l’attività, l’iniziativa della donna chiamandola al lavoro di costruzione del comunismo e facendone una ferma sostenitrice dell’Internazionale Comunista.
        Le sezioni devono in tutti i modi far partecipare le donne a tutti i settori dell’organizzazione soviettista, dalla difesa militare della repubblica ai piani economici più complicati.
        Nella repubblica soviettista, le sezioni devono vigilare affinché siano applicate le decisioni del III congresso dei soviet riguardanti la partecipazione delle operaie e delle contadine all’organizzazione e alla costruzione dell’economia nazionale, nonché a tutti gli organi dirigenti amministrativi che controllano e organizzano la produzione.
        Attraverso loro rappresentanti e attraverso il partito le sezioni devono collaborare all’elaborazione di nuove leggi e alla modifica di quelle che devono essere trasformate in vista del reale affrancamento della donna. Le sezioni devono dare prova di particolare iniziativa per lo sviluppo della legislazione che protegge il lavoro della donna e dei minorenni.
        Le sezioni devono impegnare il maggior numero possibile di operaie e di contadine nelle campagne elettorali per i soviet e curare che tra i membri di questi e dei comitati esecutivi siano elette anche operaie e contadine.
        Le sezioni devono favorire il successo di tutte le campagne politiche ed economiche condotte dal partito.
        Ruolo delle sezioni è anche curare il perfezionamento e la specializzazione del lavoro femminile sulla base dell’allargamento delle scuole professionali; le sezioni dovranno favorire l’accesso di operaie e contadine nei vari istituti.
        Le sezioni cureranno l’entrata di operaie nelle commissioni per la protezione del lavoro, funzionanti presso le imprese e il consolidamento dell’attività delle commissioni di soccorso e protezione della maternità e dell’infanzia.
        Le sezioni favoriranno lo sviluppo di tutta una rete di istituti sociali: orfanotrofi, riformatori, laboratori di ricupero [nel testo in inglese: communal dining rooms, laundries, repair shops, institutions of social welfare, house-communes etc.], che trasformeranno la vita di tutti i giorni verso le nuove forme della vita comunista; alleggeriranno le donne del fardello dell’epoca di transizione; avvieranno alla loro indipendenza materiale e trasformeranno la schiava domestica e familiare in un libero membro della classe operaia – la classe padrona e creatrice di nuove forme di vita.
        Le sezioni dovranno facilitare l’educazione dei membri donne dei sindacati nello spirito del comunismo utilizzando le organizzazioni per il lavoro tra le donne, costituite dalle frazioni comuniste dei sindacati.
        Le sezioni procureranno che le operaie assistano regolarmente alle riunioni dei delegati di officina e di fabbrica.
        Le sezioni divideranno sistematicamente le delegate di partito nelle diverse branche di lavoro (soviet, economia nazionale, sindacati), quali tirocinanti.

      

    - nei paesi capitalistici

        I compiti immediati delle Commissioni per il lavoro tra le donne sono determinati dalle condizioni obiettive. Da un lato la rovina dell’economia mondiale, l’aggravarsi prodigioso della disoccupazione, che hanno come conseguenza particolare la diminuzione della domanda di manodopera femminile e l’aumento della prostituzione, il rincaro della vita, la crisi degli alloggi, la minaccia di nuove guerre imperialiste; dall’altro gli incessanti scioperi economici in tutti i paesi, i rinnovati tentativi di sollevazione armata del proletariato nel mondo intero: tutti questi elementi appaiono come il prologo della rivoluzione sociale mondiale.
        Le Commissioni femminili devono porre in primo piano i compiti di lotta del proletariato, condurre la lotta per le rivendicazioni del partito comunista, far partecipare le donne a tutte le manifestazioni rivoluzionarie dei comunisti contro la borghesia e i social-traditori.
        Le Commissioni si assicureranno non solo che le donne siano ammesse con gli stessi diritti e gli stessi doveri degli uomini nel partito, nei sindacati e nelle altre organizzazioni operaie di lotta di classe, combattendo contro qualsiasi separazione e particolarizzazione dell’operaia, ma anche che le operaie siano elette come gli operai negli organi dirigenti dei sindacati e delle cooperative.
        Le Commissioni aiuteranno le grandi masse del proletariato femminile e delle contadine ad esercitare i loro diritti elettorali alle elezioni, parlamentari e altre, a favore del partito comunista, facendo però notare il poco valore di questi diritti sia al fine di indebolire il capitalismo sia a quello dell’affrancamento della donna, e opponendo al capitalismo il regime soviettista.
        Le Commissioni dovranno altresì vigilare affinché le operaie, le impiegate e le contadine prendano parte attiva e cosciente alle elezioni dei soviet rivoluzionari, economici e politici, dei delegati operai. Esse si sforzeranno di sollecitare l’attività politica delle casalinghe e di propagare l’idea dei soviet particolarmente tra le contadine.
        Le Commissioni dedicheranno la maggior attenzione alla applicazione del principio “a uguale lavoro, uguale salario”.
        Le Commissioni dovranno inserire le operaie in questa campagna con corsi gratuiti e accessibili a tutti e di natura tale da porre in rilievo il valore della donna.
        Le Commissioni si devono assicurare che le donne comuniste collaborino a tutte le istituzioni legislative e municipali per portare in queste sedi la politica rivoluzionaria del loro partito.
        Ma ogni volta che entreranno nelle istituzioni legislative, municipali e in altri organi di Stato borghesi, le donne comuniste dovranno seguire strettamente i principi e la tattica del partito.. Esse non si devono preoccupare di ottenere riforme dal regime capitalistico, ma di riuscire a trasformare ogni rivendicazione delle donne che lavorano in parole d’ordine di natura tale da suscitare l’attività delle masse e di dirigere tali rivendicazioni sulla strada della lotta rivoluzionaria e della dittatura del proletariato.
        Le Commissioni devono, nei parlamenti e nelle municipalità restare in stretto contatto nell’ambito della frazione comunista e deliberare in comune su tutti i progetti, ecc. relativi alle donne. Le Commissioni dovranno spiegare alle donne il carattere arretrato e non economico dei nuclei familiari isolati, le manchevolezze dell’educazione borghese data ai bambini, unificando le operaie sui temi del reale miglioramento delle condizioni della classe operaia, questioni sollevate dal partito.
        Le Commissioni dovranno favorire l’entrata delle operaie e delle iscritte ai sindacati nel partito, e le frazioni sindacali comuniste dovranno distaccare a tal fine degli organizzatori del lavoro tra le donne, che agiscano sotto la direzione del partito e delle sezioni locali.
        Le Commissioni di agitazione tra le donne dovranno indirizzare la loro propaganda in modo da ottenere che le donne proletarie diffondano nelle cooperative l’idea del comunismo e che, inserendosi nella direzione di queste cooperative giungano a influenzare e a guadagnarle, visto che queste organizzazioni avranno un’importanza assai grande come organi di distribuzione durante e dopo la rivoluzione. Tutto il lavoro delle Commissioni deve tendere a questo unico scopo: lo sviluppo dell’attività rivoluzionaria delle masse al fine di affrettare la rivoluzione sociale.

      

    - nei paesi economicamente arretrati (in Oriente)

        Il partito comunista, d’accordo con le sezioni, deve ottenere, nei paesi a debole sviluppo industriale, il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri delle donne nel partito, nei sindacati e nelle altre organizzazioni della classe operaia.
        Le sezioni e le commissioni devono lottare contro i pregiudizi, i costumi, le abitudini religiose che pesano sulla donna e devono condurre la stessa propaganda anche tra gli uomini.
        Il partito comunista, e le sue sezioni e commissioni, devono applicare i principi dell’uguaglianza dei diritti della donna nell’educazione dei bambini, nei rapporti familiari e nella vita pubblica.
        Le sezioni, per il loro lavoro, cercheranno prima di tutto l’appoggio nella massa delle operaie che lavorano a domicilio (piccola industria), nelle lavoratrici delle risaie, delle piantagioni di cotone e simili, favorendo ovunque sia possibile la formazione di laboratori corporativi, di cooperative di piccole industrie (soprattutto tra i popoli d’Oriente che vivono in regioni confinanti con la Russia soviettista), e facilitando anche l’entrata delle operaie delle piantagioni, ovunque, nei sindacati.
        L’elevazione del livello culturale generale delle masse è uno dei migliori sistemi per lottare contro le abitudini e i pregiudizi religiosi diffusi nel paese. I comunisti devono dunque favorire lo sviluppo di scuole per adulti e per bambini e renderne facile l’accesso alle donne. Nei paesi borghesi le commissioni devono condurre un’agitazione diretta contro l’influenza borghese nella scuola.
        Ovunque sia possibile farlo, le sezioni e le Commissioni devono praticare la propaganda casa per casa, devono organizzare circoli di operaie e attirarle in queste sedi, insieme con gli elementi femminili più arretrati. I circoli devono essere focolai di cultura e di istruzione e organizzazioni modello, che dimostrino quel che la donna può fare per la sua stessa emancipazione e per la sua indipendenza (organizzare nidi, asili d’infanzia, scuole primarie per adulti, ecc.).
        Presso i popoli che conducono vita nomade sarà opportuno organizzare circoli ambulanti.
        D’accordo con i partiti, le sezioni dei paesi a regime soviettista devono contribuire a facilitare la transizione dalla forma economica capitalistica a quella della produzione comunista, ponendo l’operaia di fronte alla palese verità che l’economia domestica e la famiglia, quali erano finora, non possono che asservirla, mentre il lavoro collettivo la libererà.
        Tra i popoli orientali che vivono nella Russia soviettista, le sezioni devono vegliare affinché sia applicata la legislazione soviettista che parifica i diritti della donna a quelli dell’uomo e che difende i suoi interessi. A tal fine le sezioni devono facilitare l’accesso delle donne al ruolo di giurati nei tribunali popolari.
        Le sezioni devono anche far partecipare la donna alle elezioni dei soviet e assicurarsi che le operaie e le contadine entrino nei comitati esecutivi. Il lavoro tra il proletariato femminile d’Oriente deve esser condotto su una piattaforma di lotta di classe. Le sezioni dimostreranno l’impotenza del femminismo a trovare una soluzione per le diverse questioni della liberazione della donna; utilizzeranno le forze intellettuali femminili (per esempio le maestre) per diffondere l’istruzione nei paesi soviettisti d’Oriente. Evitando in ogni modo qualsiasi attacco grossolano e poco tattico alle credenze religiose e alle tradizioni nazionali, le sezioni e le Commissioni che lavorano tra le donne d’Oriente dovranno lottare chiaramente contro l’influenza del nazionalismo e della religione sugli spiriti.
        Ogni organizzazione delle operaie deve essere fondata, sia in Oriente sia in Occidente, non sulla difesa degli interessi nazionali ma sul terreno dell’unione del proletariato internazionale dei due sessi nei compiti comuni di classe.
        Il problema del lavoro tra le donne d’Oriente, essendo di grande importanza e allo stesso tempo presentando un nuovo problema per i partiti comunisti, deve essere corredato da una speciale istruzione sui metodi di lavoro tra le donne d’Oriente, appropriata alle condizioni dei paesi orientali. L’istruzione sarà allegata alle tesi.
     

      

    Metodi di agitazione e propaganda

        Per realizzare la missione fondamentale delle sezioni, cioè l’educazione comunista delle masse femminili del proletariato e l’aumento del quadro dei sostenitori del comunismo, è indispensabile che tutti i partiti comunisti d’Oriente e d’Occidente assimilino il principio fondamentale del lavoro tra le donne che è il seguente: “agitazione e propaganda nei fatti”.
        Agitazione nei fatti vuoI dire prima di tutto azione per sollecitare l’iniziativa dell’operaia, per la sua mancanza di fiducia nelle proprie forze e, impegnandola nel lavoro politico nel campo dell’organizzazione e della lotta, per farle imparare a comprendere dai fatti la realtà che ogni conquista del partito comunista, ogni azione contro lo sfruttamento capitalistico è un progresso che favorisce il miglioramento della condizione della donna. “Dalla pratica alla azione, al riconoscimento dell’ideale del comunismo e dei suoi principi teorici”, questo è il metodo con cui i partiti comunisti e le loro sezioni femminili devono avvicinare le operaie.
        Per essere davvero organi di azione, e non soltanto di propaganda orale, le sezioni femminili devono appoggiarsi ai nuclei comunisti delle fabbriche e dei reparti e incaricare in ogni nucleo comunista uno speciale organizzatore del lavoro tra le donne nella fabbrica o nel reparto.
        Le sezioni dovranno entrare in rapporto con i sindacati tramite i loro rappresentanti o i loro organizzatori, designati dalla frazione comunista del sindacato e che portano avanti il loro lavoro sotto la direzione delle sezioni.
        La propaganda dell’idea comunista con i fatti consiste, nella Russia dei soviet, nel far entrare l’operaia, la contadina. la casalinga e l’impiegata in tutte le organizzazioni soviettiste, cominciando dall’esercito e dalla milizia per finire in tutte le istituzioni che possano favorire l’affrancamento della donna: alimentazione pubblica. educazione sociale, protezione della maternità, ecc. Un compito particolarmente importante è la restaurazione economica in tutte le sue forme e in essa l’operaia dev’essere impegnata.
        La propaganda coi fatti, nei paesi capitalistici, tenderà prima di tutto a far scendere in sciopero l’operaia, a farla partecipare alle manifestazioni e all’insurrezione in tutte le sue forme, che la temprano ed elevano la sua coscienza rivoluzionaria, a farla intervenire in tutte le forme di lavoro politico. nel lavoro illegale (e particolarmente nei servizi di collegamento), nell’organizzazione di sabati e domeniche comunisti grazie ai quali le operaie simpatizzanti, le impiegate impareranno a rendersi utili al partito con il lavoro volontario.
        Il principio della partecipazione delle donne a tutte le campagne politiche, economiche e morali ingaggiate dal partito comunista, serve anch’esso allo scopo della propaganda coi fatti. Gli organi di propaganda tra le donne dei partiti comunisti devono estendere la loro attività verso categorie sempre più numerose di donne socialmente sfruttate e incatenate nei paesi capitalistici e, tra le donne degli Stati soviettisti. devono liberare i loro spiriti incatenati da superstizioni e dalle sopravvivenze del vecchio ordine sociale. Questi strumenti dovranno ricollegarsi a tutti i bisogni e a tutte le sofferenze, a tutti gli interessi e a tutte le rivendicazioni grazie alle quali le donne si renderanno conto che il capitalismo dovrà essere schiacciato, quale loro nemico mortale, e che devono tracciare la strada verso il comunismo, loro liberatore.
        Le sezioni devono condurre metodicamente la loro agitazione e la loro propaganda orale, organizzando riunioni nei reparti e riunioni pubbliche sia per le operaie e le impiegate dei diversi settori industriali che per le casalinghe è le lavoratrici di tutti i settori, per quartieri, zone della città, ecc.
        Le sezioni devono curare che le frazioni comuniste dei sindacati, delle associazioni operaie, delle cooperative eleggano organizzatori e agitatori appositamente incaricati del lavoro comunista tra le masse femminili dei sindacati, delle cooperative, delle associazioni. Le sezioni devono curare che negli Stati soviettisti le operaie siano elette nei consigli di fabbrica e in tutti gli organi incaricati dell’amministrazione, del controllo, della direzione della produzione. In breve, le operaie devono essere elette in tutte le organizzazioni che, nei paesi capitalistici sono utili alle masse sfruttate ed oppresse nella loro lotta per la conquista del potere politico o, negli Stati soviettisti, servono alla difesa della dittatura del proletariato e alla realizzazione del comunismo.
        Le sezioni devono delegare le donne comuniste più capaci nelle industrie, collocandole come operaie e impiegate là dove lavora un gran numero di donne, come fa la Russia soviettista; si collocano così queste compagne in settori assai ampi, in centri proletari.
        Seguendo l’esempio del Partito comunista della Russia soviettista, che organizza riunioni di delegate e conferenze di delegate senza partito, che hanno sempre un successo considerevole, le sezioni femminili dei paesi capitalistici devono organizzare pubbliche riunioni di operaie, di lavoratrici di ogni genere, contadine, casalinghe, riunioni che si occupano dei bisogni, delle rivendicazioni delle donne lavoratrici e che devono eleggere comitati ad hoc, approfondire le questioni che vengono poste, mantenendo un contatto permanente con la loro base e con le sezioni femminili del partito. Le sezioni devono mandare i loro oratori a prender parte alle discussioni nelle riunioni dei partiti ostili al comunismo.
        La propaganda e l’agitazione per mezzo di riunioni o altre istanze del genere dev’essere completata da un’agitazione metodica e prolungata nell’ambiente familiare. Ogni comunista con tale incarico dovrà visitare al massimo dieci donne nelle loro case, ma dovrà farlo regolarmente, almeno una volta alla settimana e in occasione di ogni azione importante dei partiti comunisti e delle masse proletarie.
        Le sezioni devono creare e diffondere materiale di propaganda semplice e conveniente: brochures e volantini per esortare e raggruppare le forze femminili.
        Le sezioni devono curare che le donne comuniste usino nel modo più attivo tutte le istituzioni e i mezzi di istruzione del partito. Per aumentare la coscienza e temprare la volontà dei comunisti ancora arretrati e delle donne lavoratrici che iniziano l’attività, le sezioni devono invitarli ai corsi e alle discussioni del partito. Corsi separati e serate di lettura e di discussione per le sole operaie possono essere organizzate soltanto in casi eccezionali.
        Per sviluppare lo spirito di fratellanza tra operai e operaie è desiderabile che non si creino corsi e scuole speciali per le donne comuniste; in ogni scuola di partito deve obbligatoriamente esserci un corso sui metodi di lavoro tra le donne. Le sezioni hanno il diritto di delegare un certo numero di loro rappresentanti ai corsi del partito.
     

    Struttura delle sezioni

        Presso i comitati regionali e di distretto e anche presso il Comitato centrale del partito saranno organizzate commissioni per il lavoro tra le donne.
        Ogni paese decide da sé i membri della sezione. Ugualmente, nei diversi paesi, è concessa al partito la libertà di fissare, a seconda delle circostanze, il numero dei membri della sezione designati dal partito.
        La direttrice della sezione dovrà anche essere membro del locale comitato di partito. Nel caso in cui questo non avvenga, la direttrice dovrà assistere a tutte le sedute del comitato con voto deliberante sulle questioni concernenti i problemi delle donne e con voto consultivo su tutte le altre questioni.
        Oltre ai compiti generali enumerati qui sopra, che spettano alle Sezioni e alle commissioni locali, queste donne saranno incaricate delle seguenti funzioni: mantenimento dei rapporti tra le diverse sezioni della regione e con la sezione centrale, riunioni informative sull’attività delle sezioni e delle commissioni della regione, scambio di informazioni tra le diverse sezioni della regione e con la sezione centrale, fornitura di materiale propagandistico alla regione e alla provincia; distribuzione delle forze di agitazione, mobilitazione delle forze del partito per il lavoro tra le donne; convocazione, almeno due volte all’anno, delle conferenze regionali delle comuniste, delle rappresentanti delle sezioni, nella proporzione di una o due per sezione, infine organizzazione di conferenze per operaie e contadine senza partito.
        Le sezioni regionali (di provincia) sono composte da cinque a sette membri; i membri della segreteria sono nominati dal corrispondente comitato di partito, su presentazione da parte della direttrice della sezione; essa è eletta, dal canto suo, come tutti gli altri membri del comitato di distretto o di provincia, nella corrispondente conferenza di partito.
        I membri delle sezioni o delle commissioni sono eletti alla conferenza generale di città, di distretto o di provincia, oppure sono nominati dalle rispettive sezioni, in contatto con il comitato di partito. La commissione centrale per il lavoro tra le donne si compone da due a cinque membri, dei quali almeno uno funzionario.
        La commissione centrale, oltre alle funzioni enumerate più sopra, avrà i seguenti compiti: dare istruzioni alle militanti delle varie località; controllare il lavoro delle sezioni; ripartire, in contatto con i corrispondenti organi di partito, le forze che fanno il lavoro tra le donne; controllare, attraverso rappresentanti e incaricati, la situazione e lo sviluppo del lavoro femminile sulla base delle trasformazioni giuridiche ed economiche necessarie per le donne; far partecipare le rappresentanti e le incaricate alle commissioni speciali che studiano il miglioramento delle condizioni di esistenza della classe operaia, la protezione del lavoratore, dei bambini, ecc.; pubblicare un “foglio” centrale e redigere giornali periodici per le operaie; convocare almeno una volta all’anno rappresentanti di tutte le sezioni provinciali; organizzare escursioni propagandistiche per tutto il paese; inviare istruttori di lavoro tra le donne; impegnare le operaie a partecipare in tutte le sezioni a tutte le campagne politiche ed economiche del partito; mantenere permanentemente i collegamenti con il Segretariato internazionale delle donne comuniste e celebrare annualmente la giornata internazionale dell’operaia.
        Se la direttrice della sezione femminile presso il Comitato centrale non è membro di questo comitato, ha diritto di assistere a tutte le sedute con voto deliberante sulle questioni riguardanti la sezione e con voto consultivo su tutte le altre. O viene nominata dal Comitato centrale del partito, o è eletta dal congresso generale di esso. Le decisioni e le delibere di tutte le commissioni devono essere confermate dal corrispondente comitato di partito.
     

    Il lavoro su scala internazionale

        La direzione del lavoro dei partiti comunisti di tutti i paesi, la riunione delle forze operaie, la soluzione dei compiti imposti dall’Internazionale comunista e la conquista delle donne di tutti i paesi e di tutti i popoli alla lotta rivoluzionaria per il potere dei soviet e per la dittatura della classe operaia su scala mondiale spettano al Segretariato internazionale femminile presso l’Internazionale Comunista.
        Il numero dei membri della Commissione centrale e dei membri con voto deliberante è fissato dal Comitato centrale del partito.