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COMUNISMO
n. 54 - luglio 2003
Presentazione
Imperialismo questione strategico-militare – L’intreccio Stato-guerra (II - RG84) (53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).
I GIOVANI MARX ED ENGELS, GLI OPERAI, GLI SCIOPERI, I SINDACATI ( I - II )
1. Un “giovane hegeliano” - 2. La Rheinische Zeitung - 3. Proletariato scoperta classe rivoluzionaria
- 4. I Manoscritti parigini - 5. Il lavoro in una società post-capitalista - 6. Prime conclusioni.
L’Antimilitarismo nel movimento operaio in Italia (I): Coscrizione e renitenza nello Stato unitario - “Né un uomo, né un soldo”
STORIA ED ECONOMIA DEL BRASILE ( I - II )
Breve richiamo storico - Prime incursioni nella sconfinata foresta - Lo sviluppo demografico
- La questione agraria - L’affermarsi del capitalismo - 1930-1964: Industrializzare per il mercato interno
- 1964-1973-1985: Miracolo sotto la dittatura militare - 1985: Arriva la democrazia, continua il capitalismo
- Alcol o Petrolio per dissetare il Capitale?
Dall’Archivio della Sinistra:
Carlo Liebknecht - Tre interventi al Reichstag, 18, 19, 26 aprile 1913.







Presentazione

Troppi spettri si aggirano per il mondo – l’Europa è ormai stretta per contenerli.
Se ne sono accorti gli esegeti e i teorici del capitalismo perbene, del libero mercato, con le regole e i vincoli che lo rendono morale, dignitoso e benefico. Siccome da tempo il meccanismo internazionale di produzione e della finanza mostra vistosi segni di cedimento, con l’inizio del ciclo di ripresa posposto di anno in anno, questi spiriti forti hanno alla fine compreso che è nella sua natura il fantasma, che ne disturba e corrompe l’armonia e la funzionalità. Ancora non sono riusciti a capire come materialmente se ne possa arrestare il turbinare, ma si affannano a rammentare i pericoli che questa situazione può avere sul futuro del Mondo, sulla pacifica convivenza e collaborazione degli Stati.
Sia chiaro, lo spettro che vedono all’opera non è più quello del Comunismo; questo, nel senso comune della storia e secondo l’ideologia dei tempi correnti, appartiene ad una fase ormai tramontata, tutta da ripudiare e dimenticare. E se tra lorsignori qualche demagogo ancora lo agita a mo’ di spauracchio davanti all’incurabile e imbecille viltà delle mezze classi, è solo per ravvivare un po’ l’ambiente, con vantaggio per destri e sinistri, non certo perché ci credano o desti preoccupazione. No, il Comunismo non c’entra nulla in tanto filosofeggiare.
Benché la minacciosa presenza che incombe sul Mondo sia intuita come un prodotto del capitalismo stesso, il suo lato oscuro, la sua anima, in fondo, demoniaca, quel fantasma in realtà non viene individuato, netto e preciso, nel capitalismo e nel mercato stessi, liberisti o statalisti che siano, né si ha l’onestà di riconoscerne la ineluttabile e intrinseca forma regressiva. Ogni critico borghese, per mettersi in pace la coscienza, secondo lo specifico campo di attività e la tinta politica che si ritrova addosso, vede solo una particolare faccia dello spettro, e le dà il nome che ritiene più suggestivo. Ne viene fuori un campionario di mali parziali, e dei corrispondenti parziali, quanto ipocriti e illusori, rimedi.
Ecco che salta fuori l’importuno “conflitto di interessi” che privilegiando il potente impedisce di perseguire il Bene comune. Ecco la “bolla speculativa”, enfiata di nulla dalle spregiudicate mene della grande finanza e che, scoppiata, rovina le sudate risorse dei piccoli risparmiatori. Ecco il maneggio dell’”insider trading”, la conoscenza dei meccanismi reconditi della finanza societaria, che permette a pochissimi addetti di approfittare della moltitudine di investitori. Ecco i “bilanci truccati” delle aziende, che gabbano gli investitori. Ecco gli Stati medesimi sull’orlo del fallimento, che emettono obbligazioni fondate sul nulla per finanziare il loro deficit. Ecco il collasso della “new economy”, il miraggio dei soldi fatti dal nulla se non dalla promessa di un futuro in continua espansione, che ingoia i fondi pensionistici di quei lavoratori che, dicevano, erano garantiti. Ecco infine la spettro della guerra, non frutto maturo del capitalismo ma prodotto del “militarismo”, della “politiche aggressive”, della stupidità “dei guerrafondai”.
Ricette pratiche efficaci, nemmeno per esorcizzare questi singoli spettri, non se ne trovano nell’armamentario delle buone intenzioni, mentre il modo di produzione capitalistico, unico spettro dai cento volti, continua a scardinare le certezze nelle sorti progressive e prospere del mondo borghese.
Nei fatti la quantità, la massa, il Moloc, la montagna di Capitale – altro che “fantasma” – fino ad oggi prodotta monta ad altezze mostruose. Niente ormai di questo Blob alieno, informe e debordante è utilizzabile per il bene della specie umana, grava infetto sul lavoro vivo imponendo ogni mezzo per incrementare ancora e ancora la sua pervasività ed ingombro. D’impiccio a questo suo fine unico e implacabile il Capitale non tollera regole, vincoli, disciplina.
Questa verità definitiva, raggiunta dal marxismo oltre un secolo e mezzo fa, è talmente dura da accettare e gravida di conseguenze terribili per i borghesi, che questi non possono che ridursi a “credere ai fantasmi”. Preoccupati per il fosco domani del capitalismo è giocoforza ripetano i soliti esorcismi: più “trasparenza” per le aziende e per gli investitori; certezza nei patti sottoscritti dalle parti sociali “concertanti”; “più controllo” da parte degli “organismi a ciò preposti”; istituzionale “divisione dei poteri”; responsabile “democrazia parlamentare”; “certezza del diritto”; “cooperazione” tra gli Stati; “soluzione pacifica” dei conflitti, ecc. ecc.
Intanto, dall’altra parte, quanti sono preposti al governo dell’infernale sistema, col pragmatismo che la situazione richiede, inevitabilmente con metodi sempre più “informali” se non “illegali” rispetto allo scema ritualità democratica, continuano dittatorialmente ad usare la solita ovvia unica loro ricetta di “politica economica e monetaria”: scaricare sulle spalle delle classi più deboli il peso della crisi industriale e finanziaria, iniziando a distruggere, dove esistenti, le strutture dei cosiddetti ammortizzatori sociali. Nel frattempo riorganizzano alleanze e strategie per la prossima, sempre più difficile, ripartizione dei mercati internazionali, per il controllo delle fonti energetiche, e cominciano a considerare l’ipotesi di attrezzare di nuovo gli Stati in vista di un non più tanto remoto conflitto generalizzato.
Di “animi candidi”, nella sua secolare storia, il Comunismo molti ne ha conosciuti. In altri, lontani, periodi anche disposti a fare un pezzo di strada insieme ai partiti del proletariato. Ma nell’attuale fase storica di imperialismo dispiegato, tutti questi “sinceri democratici” candidi lo sono soltanto all’apparenza; in realtà sono e saranno schierati ferocemente contro la classe operaia e rivoluzionaria e, senza remore, col Capitale, con la sua infame legge economica e con tutte le sue mostruosità.












Imperialismo, Questione strategico-militare

Rapporto esposto nella riunione di Torino, settembre 2002.

(53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).

Quando Lenin ha scritto Imperialismo ha scritto Capitalismo. Soltanto i sedicenti marxisti-leninisti hanno potuto pensare, nella loro interpretazione dell’Imperialismo, o addirittura del “leninismo”, come fase nuova, che questa formula abbia voluto rinnegare le premesse del marxismo ottocentesco.
Il capitalismo, finita l’epoca, almeno nei paesi di vecchia industrializzazione, delle definizioni nazionali, non poteva che sfociare nell’imperialismo, con le sue espressioni di oppressione coloniale e di pressione sul proletariato metropolitano, fino alle inevitabile guerra tra Stati, che noi abbiamo sempre letto come guerra sociale piuttosto che nazionale.
Quando allora, quasi inconsciamente parafrasando i nostri testi, certi ideologi borghesi in veste di “politologi” o di “strateghi della guerra”, ammettono che la guerra terroristica è l’ultima modalità della guerra tradizionale o convenzionale, non fanno che riferirsi ad un tipo di guerra “a nemico invisibile” nella quale i più martoriati sono i cosiddetti “civili”, più ancora dei “militari” impegnati nelle operazioni.
Se si avesse la pazienza di quantificare statisticamente il numero delle vittime “civili” delle diverse forme di guerra, dalle imprese napoleoniche ad oggi, potremmo rappresentare questa quantità in grafici in cui l’impennata dell’ultima guerra mondiale desterebbe grande impressione. Noi sappiamo bene per quale motivo si manifesta questo fenomeno: perché nel modo di produzione capitalistico la guerra non svolge più la funzione di confronto semplicemente territoriale tra le potenze, ma di lotta economica e commerciale legata a determinati livelli di sviluppo delle forze produttive.
I proletari sono chiamati non solo a “produrre” secondo il rapporto che li lega al Capitale come rapporto sociale, ma a sostenere il peso delle azioni militari, e così subire quei salassi che sono necessari alla guerra intesa come azzeramento dei contenziosi aperti tra le opposte bande borghesi nel mondo.
Così per noi la guerra non comporta semplicemente lo studio delle questioni specificamente strategico-militari, che pure ci competono, ma soprattutto il quadro completo che lega la produzione al fenomeno guerra, in tutte le sue possibili implicazioni.
Nella fase imperialistica sappiamo come la guerra esploda in quanto momento necessario, nel quale le contraddizioni vengono al pettine. Se è vero, parafrasando l’abusato Clausewitz, che la guerra è la continuazione della politica (e dell’economia), si deve dire che continuazione non significa sospensione né della produzione, né della politica, né della diplomazia, ma invece prevalere d’una dimensione sull’altra, fino al punto che l’una – la guerra e la questione militare – prende chiaramente il sopravvento sulle altre ed a sé le subordina per una serie di fattori che vanno analizzati e spiegati.
Oggi, nel clima di quasi totale mancanza di influenza della corrente rivoluzionaria, si è giunti a riconoscere che il fattore militare può essere utile per la ripresa economica minacciata di stagnazione, in qualche modo si afferma “ben venga la guerra”. Non ne facciamo certo una questione morale o peggio moralistica di indignazione davanti al fenomeno guerra, ma mai accetteremo la guerra capitalistica come una inevitabilità alla quale di deve soggiacere, anche se la classe operaia a livello generale si trova largamente infeudata alle logiche nazionali e sovranazionali.
Vedere quando, e secondo quali incidenze, la guerra diventa argomento all’ordine del giorno, e secondo quale coinvolgimento di Stati e di aree, non è un’esercitazione accademica ma una necessità.
Noi abbiamo indicato secondo quali logiche gli equilibri di Yalta cominciarono ad incrinarsi, dopo decenni di guerra fredda nel corso dei quali ciascun blocco sacrificò sull’altare degli equilibri usciti dalla Seconda Guerra mondiale ogni incursione seria nell’area di influenza altrui. Da Berlino 1953, alla rivolta ungherese, alla invasione della Cecoslovacchia del 1968, alla crisi polacca culminata nel 1979, abbiamo osservato come, nonostante le polemiche e le “condanne”, il cosiddetto Occidente non si è mai mosso militarmente, fatta eccezione per il caso Cuba, allorché stava per essere messa in discussione la dottrina Monroe enunciata nel lontano 1823, che va sotto la formula “l’America agli Americani”... Valore e resistenza delle dottrine, vero “compagni” Yankee? In quella circostanza si rischiò la guerra atomica, almeno così si è detto. Ma il bluff sovietico si manifestò per quello che era. Non si butta all’aria un equilibrio uscito da una carneficina mondiale, seppure precario, solo dopo un quindicennio.
Eppure l’imperialismo mondiale, non solo quello Usa!, non stava certo fermo. È stato dopo la sindrome Vietnam, per quel che riguarda gli Stati Uniti, e dopo che la cintura degli Stati satelliti dell’URSS è entrata in fibrillazione che gli equilibri di Yalta hanno cominciato a non tenere. Al di là di tutte le fantasticherie sull’aggressività russa, nessuno può mettere in discussione che la Russia non ha e non poteva spingersi verso Occidente, tanto è vero che la sconfitta nella competizione della cosiddetta coesistenza, teorizzata dallo “zappaterra” Krusciov, ha spinto l’impero a implodere e a dichiarare la sua fine senza colpo ferire. Si era insomma ingloriosamente svelato per quello che era il Mito Russia, come avevamo da tempo, e da soli contro tutti, preconizzato.
Ma noi non abbiamo mai considerato la dinamica imperialistica come immodificabile ed immobile. Abbiamo cominciato a prevedere, negli anni 1975-80 delle linee di movimento, che definimmo nella morsa della alternativa: o guerra o rivoluzione. Naturalmente tra le risate degli avversari che possono averci letto. Troppo semplicistico, improponibile, schematico ecc.! In realtà nessuno, crediamo, ha mai voluto fare il Nostradamus della situazione. La nostra alternativa non è del momento, ma è storica nella fase imperialistica. Se sono passati decenni, per certi anche di “disillusione”, di stanca e logorante “attesa”, per noi il tempo della storia, lungo o corto, è tempo storico, da nessuno manovrabile a piacimento, in barba ad ogni illusione di histoire évenémentielle!
Saltati gli opposti veti militari, col crollo dell’ex URSS, era inevitabile che si dovessero disegnare nuovi assetti geopolitici, del resto già in embrione prima ancora che il Muro cadesse.
Per noi l’imperialismo russo non da poco tempo trescava col più organizzato e “articolato” imperialismo occidentale; ma gli assetti economici d’area possono bene essere mascherati da sovrastrutture politiche, come fu per oltre 60 anni. Sotto quella pressione l’opportunismo staliniano aveva illuso il proletariato, largamente, che le sue lotte potessero trovar protezione sotto lo scudo russo. Noi lo abbiamo sempre contestato. E così, allorché nel decennio scorso 1990-2000 il prevalente imperialismo USA (ed accoliti) ha pensato di gestire da gendarme unico l’apparato politico mondiale, non solo non ci siamo sorpresi, ma abbiamo saputo vedere come la situazione si sarebbe messa in movimento, non in previsione della “pace perpetua”, ma di nuovi, non del tutto prevedibili assetti mondiali.
Che gli USA abbiano “umiliato” la Russia in panne al suo interno durante la guerra con l’Irak, e dimostrato la superiorità netta degli strumenti di distruzione a disposizione; nel decennio il tentativo costante di erodere l’influenza russa, fino ad attrarre nella sua orbita gli ex Stati satelliti, ha portato alla situazione attuale, allorché, in virtù di tre guerre balcaniche e dell’ultima guerra arghana, l’accerchiamento strategico sta portando ad una cintura di Stati che vanno dal Mar Caspio all’India. La vecchia potenza russa si trova, nel suo gioco a scacchi, secondo la tattica a lei nota da Kotuzov a Stalin, a giocare di riserva, facendo inevitabilmente le finte di non volersi opporre alla Nato. Del resto, come lo potrebbe?
Ecco allora il nemico comune islamico, che forse permetterà al vecchio orso polare di farsi togliere qualche castagna dal fuoco dal potente ex nemico. Ma il nuovo assetto è in fase di assestamento, ed ha bisogno di risorse e grande dispiegamento di forze.
Per questo c’è bisogno del petrolio, delle fonti di energia (altro che fonti alternative credibili!) che giacciono nel Mar Caspio, e interessano tutta l’area che dalla Balcania porta all’Oceano Indiano. In questo scenario, che non si è certo prodotto d’amblais, così per caso, l’episodio da film a effetti speciali dell’atto terroristico dell’11 settembre s’iscrive in un copione che se non noto nella pur agghiacciante realtà, non era estraneo a timori da tempo coltivati dalla superpotenza USA. Infatti episodi già molto significativi, come quelli del Kenia, e un precedente attentato alle torri perpetrato da un ultrà americano che non è stato forse indagato a fondo per carità di Patria, la dicono lunga sulla “guerra terroristica” che viene annunciata per lungo, anzi lunghissimo periodo.
Il processo di “militarizzazione” di larghe aree del globo, in particolare quella indicata che parte dell’Adriatico inferiore e porta all’Oceano Indiano, significa controllo anche territoriale dei giacimenti e delle risorse petrolifere che si stimano interessanti per i paesi industrializzati per almeno altri 20 anni.
La storia fa di questi scherzi: se allarghiamo l’evento e lo leghiamo ad altri, e cerchiamo una logica che li leghi in qualche misura, ciò che sembrava “singolare” o irripetibile, assume invece contorni d’una realtà di lungo periodo, in un certo senso d’una continuità esemplare. Come si fa allora a farneticare, solo perché è di moda parlare di “guerre virtuali”, come fa il filosofo Cacciari, noto federalista di sinistra, a sostenere che «l’epoca delle volontà egemoniche contrapposte, degli “Stati combattenti” si è conclusa», per riconoscere subito dopo che «nessuno Stato, per propria intrinseca natura, può esercitare un effettivo governo mondiale» (“Corriere Economia” 12-10-2001).
Certo, l’imperialismo non è un Superstato, non è da identificare con una sola per quanto devastante potenza. È ancora peggio: è scontro inevitabile di necessità ed appetiti che non possono in nessun modo essere mascherati, anche quando si indossa la maschera delle vittime. Se soltanto si richiama alla mente la macchina da guerra messa a punto in lunghi decenni dagli Stati imperialisti, ci si domanda come era ed è possibile illudersi che la polveriera non prenda fuoco, che lo si voglia o no!
La “guerra” viene definita “operazione di polizia internazionale”, come l’inconscio opportunista suggerisce, perché non si tenga a mente la lezione secolare di due macelli imperialistici e oltre 169 guerre “per procura”, come furono chiamate quelle che hanno devastato per decenni Africa, Asia, ed America Latina. È il succedaneo momentaneo della “guerra dispiegata”. Certo, “polizia internazionale” allude a misure di “sicurezza” contro il “nemico invisibile”, protetto dagli “Stati canaglia” che al momento opportuno si sono dichiarati sorpresi dalle malefatte dei fondamentalisti. Non fanno eccezione i preti barbuti di Kabul, del paese apparentemente più povero, popolato da tribù vessate da una schiera di fanatici già allevati e utilizzati dallo stesso imperialismo tecnologico per i propri fini. Si veda la cartina che segna il passaggio reale e progettato degli oleodotti, e si capirà qualcosa!
Del trucco e dell’ambiguità delle parole ne sappiamo qualcosa: se volessimo essere sottili ogni fase della guerra tra opposte frazioni del Capitale è stata accomodata con un nome speciale. Dopo la discinta belle époque del primo Novecento, la “Grande Guerra”, un nome maestoso che incuteva rispetto e terrore; poi la “Guerra Democratica” contro la “Barbarie nazi fascista”, guerra nobile per eccellenza, che aveva il compito di debellare il “pazzo furioso invasato dal demonio” (recente definizione dell’esperto Ratzinger); poi la “Guerra Fredda”, servita naturalmente ghiacciata ai più sfortunati, lasciati nelle mani del proprio blocco di appartenenza. Quindi l’interregno 1990-2000, segnato dalla guerra peggiore, detta “Umanitaria” che, in nome del nuovo ordine mondiale, ha provveduto a fare dell’America il “Gendarme Unico”, che in nome del “Pensiero Unico”, avrebbe dovuto segnare la fine d’ogni guerra guerreggiata, inaugurando la “Globalizzazione”, il regno del mercato, d’una nuova belle époque danzata al ritmo del rock e della sfrenata società dei consumi, del sesso e della carne a buon mercato, cruda e cotta... È durata poco, e come allora risvegliata alla realtà in modo oscuro e minaccioso. Ma in tutti questi nomi era ed è presente il seme che gli aveva dato la vita: il capitalismo imperialistico.
C’è chi, inevitabilmente, la mette in “metafisica”, con la solita considerazione che “la guerra” c’è sempre stata, e sempre ci sarà; a meno d’una “rivoluzione interiore” dell’Uomo!
Poiché è urgente attenersi ad una analisi circoscritta, concreta della situazione concreta, si tratta di stabilire fino a che punto è il caso di dilatare il tempo e lo spazio da prendere in esame: noi l’abbiamo detto fin dalla nostra nascita: il Novecento, finite le guerre per la definizione dei confini nazionali, almeno in Europa, è il secolo lungo (altro che breve alla Hobsbawm) delle guerre antiproletarie di cui non si vede la fine, anche una volta che è finito.
L’obiezione, più che seria, che ormai l’Europa non è il mondo, e che noi stessi dovremmo riprendere in mano il nostro testo Fattori di razza e nazione, non è certo da sottovalutare. Certo non possiamo cadere nella formula etnico-razziale secondo la quale l’Europa ha sempre peccato di “eurocentrismo”, non riuscendo a valutare appieno l’apporto e la specificità di altre aree geografiche e culturali.
Lo stesso Marx è stato spesso tacciato di razzismo tedesco, per aver privilegiato la dialettica moderna nata in questo paese con Hegel, per non aver avuto buona considerazione della cultura asiatica, ecc. Dovremmo dire meglio, proprio a chi in nome del relativismo non riesce a capire la “relatività” non solo applicata al mondo fisico e naturale, ma anche a quello storico e sociale, che è inutile far finta di non vedere che nell’epoca della industrializzazione, la cultura del vecchio continente ha avuto la prevalenza, ha irradiato potere e potenza economica e culturale! Che cosa dovremmo fare: far finta di non vedere, e magari non comprendere perché Marx parla di coniugare l’economia politica inglese, con la politica francese e la filosofia tedesca? Almeno si dimostrò (non si rivolti nella tomba!) europeo molto prima di lorsignori.
Ma la questione non è questa. È invece che lo sviluppo delle forze produttive, irradiandosi dalla favorita, anche dal clima, civiltà anglosassone, ha plasmato di sé il mondo intero. Non ce ne doliamo, sarebbe tempo perso, e forse anche ingiustamente.
Il tanto citato ed abusato Huntigton (The crash of the civilisations), che si muove sull’onda delle “sovrastrutture”, come tutti quelli che vogliono nascondere il tanto odiato economicismo (che noi stessi consideriamo insufficiente e fuorviante), comunque tenta di decifrare le tensioni del nuovo millennio. È fuori discussione che il primato della tecnologia prodotta dall’Occidente costringe determinate culture già in auge nel passato a fare i conti con l’imperialismo preminente dell’area anglosassone, sia quelle dell’area mediorientale (che comprende e il trapiantato ebraismo e l’Islam), sia quelle dell’area indiana induista, sia il confucianesimo travestito da “comunismo”, sia lo scintoismo giapponese. Ma se in nome delle diversificate aree culturali non vedessimo più la sottostruttura economica e sociale, allora sì che avremmo venduto la teoria ed ogni chiave di lettura dell’attuale crisi di guerra!
Dovremmo invece chiederci con serietà la ragione dell’operazione malamente mascherata, che tende a vedere in certe culture, malate di integrismo, la causa del conflitto. Noi abbiamo sempre sostenuto che quando il Capitale si è rivestito dei connotati odiosi del nazionalismo estremo, dal fascismo al nazismo, ed oggi del terrorismo a sfondo religioso, aveva ed ha da mascherare interessi inconciliabili, che solo con la guerra si possono se non azzerare, almeno mettere in pari il loro contenzioso accumulato storicamente.
Chi non vede che le nazioni islamiche, molto diverse e variegate nel loro sviluppo, si sono illuse di vivere di “rendita petrolifera” per lungo tempo, dalla crisi del 1973, allorché il “petrodollaro” sembrava dover mettere in ginocchio l’economia occidentale ed in specie statunitense. Eppure, nonostante che l’Arabia Saudita sia tutt’ora governata dai “wahabiti” (dottrinariamente il nucleo più integrista e conservatore dell’Islam), si è assistito allo allineamento di questo paese, massimo produttore di petrolio, con la superpotenza USA. Come si spiega, stando al “fondamentalismo” islamico, questo fenomeno? Non cadiamo nella trappola: l’Islam, apparentemente impermeabile al Capitale inteso in senso anglosassone, cadrà, come già ha fatto il cristianesimo più arretrato, sotto la pressione non della neutrale “Tecnica” (vedi Severino) ma del micidiale Capitale! Non che, ai nostri occhi, questa potenza sia un dato insuperabile e demoniaco, ma perché la superiorità delle forze produttive moderne, come ha vinto il feudalesimo, così vincerà la ummah.
Sarà travolto solo dalla coalizione del lavoro estorto, dai proletari di tutto il mondo uniti. Ma dove sono? si chiede l’infedele. Non vedete come sono sottomessi, lì ad Allah, qui alla fabbrica, al padrone ormai sempre più anonimo? Non vi disperate. Negli svolti che la storia sa creare, che si determinano, non per il motore dell’amore reciproco, ma per necessità sociale (che creerà anche empatia effettiva, piuttosto che misera e squallida competizione per delle briciole), quella coalizione rinascerà dalle sue ceneri, come l’araba fenice.
Nessuno sembra “crederci”. E stando ai fatti, ai “merdosi fatti”, pare aver ragione. Ma noi stiamo al verdetto della storia. Anche alla fine dell’Ottocento i più abili dei sofisti si erano vantati di aver costretto il marxismo in “soffitta”, pena vederselo vivo e vegeto solo 15 anni dopo, ed in che modo!
Forti di questa convinzione, di questi dati inoppugnabili, dobbiamo anche curarci dell’imperialismo, dei suoi assetti strategici e militari. Lo studio serio e sistematico di Marx ed Engels delle condizioni storiche del loro tempo, degli schieramenti reali e possibili, non intendeva essere accademico; come pure non si illudeva di manometterli a piacimento. Ma nell’epoca della “doppia rivoluzione” possibile in determinate aree, comportava delle alleanze inevitabili e necessarie, poiché lo schieramento del proletariato a favore momentaneo delle borghesie progressiste era vitale.
Ed oggi? Non è sufficiente dire che ormai, nella suprema fase del capitalismo, non si pongono assolutamente questi problemi. Certo non nelle aree metropolitane. Ma in aree arretrate, in cui si dibattono problemi di tribalismo, di uso cinico delle contrapposizioni tra “gruppi dirigenti” corrotti con altri velleitari o impotenti, non è detto. L’analisi concreta della situazione concreta è ancora utile e necessaria. Di questo il Partito dovrà farsi carico. E di fatto, nei limiti dei suoi mezzi, lo ha fatto. Ci riferiamo ai lavori sul Sud Africa, sull’Etiopia, e quelli molto elaborati sulla Cina. Certo, il mondo globalizzato di oggi non è quello dell’Europa dell’Ottocento, e paradossalmente soltanto per conoscerlo sarebbe necessaria una forza di Partito 10 volte più potente di quella del tempo. Ma è anche vero che in dottrina il problema fondamentale è la bussola, la capacità di orientarsi. E soprattutto la forza, che è stata storicamente decimata dal tradimento!
Concludendo velocemente sul nostro tema, per contrasto, abbiamo la “fortuna” di assistere a crepe interne dell’imperialismo che non ci faranno mai dire frasi del tipo “tigre di carta”, oppure le solite fregnacce d’un Negri, nel suo ultimo “Empire” (non a caso pubblicato da Harvard: quando si dice l’America universitaria!) che sostiene che «la globalizzazione in sé non è un male perché ha finalmente spazzato via gli Stati nazionali»!.
L’imperialismo sa che sta attraversando un’epoca difficile. Se fosse per i mezzi militari, avrebbe da mettere sul campo forze distruttive, ma, a spese sue, sta imparando che la “distruzione” dovrebbe essere “creativa”, e non semplicemente “distruttiva”! Sappiamo della ingenuità d’un Einstein che, sommo in fisica, era ingenuo in politica al punto di dire «la IV guerra mondiale si combatterà con le pietre»! La dialettica materialistica non riduce tutto a forza: sa riconoscere il valore della politica, perché conosce bene la natura dell’economia che la sorregge, gli interessi che la animano. Ma in ultima istanza sa che l’economia è prodotto di lungo periodo, di modi di produzione di forme che per modellarsi hanno metabolizzato uomini e cose!
Allora, sappiamo che la guerra imperialistica, al di là dei nomi che possiamo darle per comodità, è il frutto di modi di produrre e di pensare antagonistici. Certo, né gli USA né gli altri contendenti lasceranno il campo al socialismo senza lacrime e sangue. Ma dovranno cedere alla potenza delle forze produttive che hanno evocato.
A noi non perdere di vista le condizioni reali effettive, né gonfiandole con l’illusione, né sottovalutandone le crepe.

L’intreccio Stato-guerra

In questi ultimi tempi certi “strateghi”, a livello mondiale, hanno fatto notare che in particolari aree del pianeta l’esclusiva dell’uso della violenza, che per “contratto sociale” dovrebbe essere dello Stato, è in mano a gruppi non meglio identificati, dalla mafie ed ambienti criminali di grande spessore a terroristi collegati tra di loro, anche se secondo clausole e modi da comprendere meglio. La questione è quanto mai importante, poiché Lenin, in Stato e Rivoluzione riconosce agli «Stati sovrani capitalisti» di essere i «comitati d’affari» della borghesia.
Ciò non significa che gli Stati del mondo, ieri ed oggi, siano stati in grado di realizzare l’effettiva riserva dell’uso della forza. Ciò è imputabile a quella anarchia propria del modo di produzione capitalistico, che non si limita ai rapporti produttivi, alla concorrenza solo nelle belle intenzioni “leali”, ma invade anche il terreno della cosiddetta “sovranità”. Questa osservazione ci serve per rimarcare che il presunto “ordine” è incompatibile con l’anarchia del mercato e dei rapporti tra le opposte frazioni del Capitale.
Quando determinati Stati hanno introdotto la “dittatura”, come nel caso del fascismo e del nazismo, per non parlare della degenerazione staliniana in Russia, non con questo hanno saputo mettere effettivamente ordine nel loro ambito, per la semplice ragione che ordine senza giustizia è “ladrocinio” (Agostino docet!, senza scomodare la nostra dottrina che lo ha affermato da sempre).
Allora, dovendo capire bene quali sono i poteri, le forze agli ordini degli Stati imperialisti oggi, dobbiamo capire quanto e fino a che punto la borghesia dei diversi paesi si affida al suo “comitato d’affari” centralizzato nei rispettivi Stati-nazione, e quando invece tresca con gruppi irregolari, in modo da essere più efficiente o più favorita, se del caso. Tutti gli studiosi hanno dovuto sottolineare che alle origini gli Stati autoritari, anzi “totalitari”, si sono visti spianata la strada da “bande di irregolari” scontenti della scarsa efficienza dell’apparato statale vigente. Si pensi ai “fasci di combattimento” del 1919 in Italia, al nascente nazionalsocialismo che in corso d’opera vide regolamenti di conti sanguinosi, come l’eliminazione delle S.A. di Röhm da parte delle emergenti S.S. di Himmler. Insomma, gli “irregolari”, nella nostra ottica, non furono gli “antistato”, come i democratici hanno in più occasioni lamentato (peraltro fautori oggi, e sempre più, della “continuità dello Stato!”). Ma, al contrario, hanno rappresentato le forze di appoggio del “comitato d’affari” permanente del Capitale.
Dunque la grande campagna attuale contro il terrorismo internazionale andrebbe letta come la continuazione d’una funzione: l’imperialismo nella sua interna inestinguibile tendenza al fagocitamento del proletariato, ove questo non si decida alla riorganizzazione alla scala generale, ha bisogno di indicare bersagli, di scegliersi nemici. Questo sul pianoideologico: sul piano pratico gli eserciti irregolari in ogni parte del mondo sono il termometro del disagio profondo in cui vengono a trovarsi gli Stati nazionali, premuti da nuove esigenze, nella necessità costante di tenere alta la tensione.
Naturalmente il fenomeno è quanto mai antiproletario, poiché impedisce l’organizzazione disciplinata, la difesa economica e la possibilità di permettere un’influenza adeguata al partito di classe. Come è già stato sperimentato nel corso dei cosiddetti anni di piombo in Italia (ma anche in paesi interessati al fenomeno per altre ragioni, come la Spagna, l’Irlanda del Nord, l’ambiente mediorientale dal conflitto palestinese ed israeliano), quando gli irregolari hanno cominciato a sparare, la classe operaia è stata stretta d’assedio dagli apparati regolari, che hanno così potuto stringere la morsa su ogni tentativo di effettiva riorganizzazione di classe. Nella nostra interpretazione dunque il terrorismo alla scala sia nazionale sia transnazionale non è affatto estranea alla logica degli Stati-nazione o degli apparati sovranazionali in via di formazione. Senza pretendere di conoscere nel dettaglio le loro confuse strategie, sappiamo per esperienza secolare che sono sempre inevitabilmente antiproletarie. La nascente storiografia sulla loro funzione ormai non può negare più come sono stati utilizzati dagli apparati “legali”, secondo la cosiddetta tattica dei “servizi deviati” pescati una infinità di volte a “depistare”, indirizzare, inquinare, suggerire... Insomma, anche all’interno dell’apparato “legale” e “legittimo” dello Stato ufficiale, il confine tra “legalità” ed “illegalità” è un problema sempre aperto.
Se allora è vero, come certi strateghi sostengono, che forze come non mai complesse collaborano, si intrecciano, fino al punto di avere dato corpo ad apparati militari extrastatali, ci si domanda quale sia lo stato complessivo delle forze militari in campo nell’attuale realtà imperialistica. Se vogliamo parlarne, non per ragioni polemiche ma “conoscitive”, come è necessario se si vuole rappresentare uno o più scenari credibili, allora dovremmo scremare gli epifenomeni di propaganda ufficiale la cui funzione è quella di influenzare, tener sotto controllo la cosiddetta opinione pubblica. Gli stessi addetti dell’ambiente borghese, allorché parlano tra di loro, sono costretti a mettere da parte la grancassa, e riconoscere il rapporto di forze.
La copertura democratica non può negare che, specie nei momenti cruciali, le decisioni devono essere “segrete”, le garanzie legali “sospese” in gran parte; si ha un bel dire che in “democrazia” ci sarà a suo tempo il controllo del voto. Ma intanto, secondo recenti pubblicazioni di carattere storiografico, si viene a sapere che il democratico Roosevelt, pur al corrente dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, agì in modo da costringere l’isolazionismo americano ad uscire dal suo guscio. Ci si domanda: e se, come successe al “duce”, avesse perso la partita?
Secondo la nostra critica la sostanza degli apparati militari rappresenta il nucleo duro che al momento opportuno fa sentire il suo peso. Lo Stato imperialista, che si presenti sotto la veste democratica, o sotto quella “autoritaria”, rimane “Stato”. Questo viene riconosciuto proprio di questi tempi, allorché lo spirito liberal ha preteso di demolire o ridimensionare la funzione dello Stato, fino alle teorizzazioni dello “anarcocapitalismo”, proprio in USA. Fa un certo effetto, di punto in bianco, subito dopo l’attacco alle due torri, sentire un liberal di sé tanto compreso come il politologo Panebianco, titolare per il Corriere della Sera “Il ritorno dello Stato, in guerra e in pace”, e fare ammissione che questa entità data per superata, messa in disparte dal mercato globale, si sta riportando al centro della scena.
Non sorprende certo noi, che mai abbiamo trascurato di sostenere come lo Stato borghese e le sue moderne ramificazioni in organismi sovranazionali sono il tema politico da sempre centrale. La sbornia della “globalizzazione”, senza mai citare il suo vero nome, l’imperialismo, sta passando? «Tanto la politica “anti” quanto la politica “pro” globalizzazione sembravano ormai sul punto di “de-territorializzarsi” (altra parola magica!) di riorganizzarsi in forme tali da scavalcare gli Stati, accelerandone l’obsolescenza (...) poi è arrivato l’11 settembre, è scoppiata una guerra certamente “sui generis”, che tuttavia non è illecito, credo, definire “terza guerra mondiale”. E tutto ciò che sembrava acquisito è rimesso in discussione. Non è più sicuro che la globalizzazione continuerà, o, per lo meno, che continuerà con i ritmi tumultuosi dell’ultimo decennio». Per fortuna che non ha usato, lui pure, il termine “fine della bell’èpoque”... ma insomma il riconoscimento che la “III guerra mondiale è in atto” è venuto fuori. Sappiamo bene quanto si è litigato e si litigherà sulla questione “dell’inizio” delle guerre. Per noi, che abbiamo sempre sostenuto che in ultima analisi la guerra capitalistica contro il proletariato è “permanente”, sentire certe cose, certi riconoscimenti è d’un certo interesse.
Seguono poi delle considerazioni “comparative” con altre calamità del passato: «Lo scoppio della prima guerra mondiale determinò la fine di globalizzazione dei mercati che aveva interessato il mondo occidentale nel cinquantenni precedenti. Solo alla fine degli anni Settanta del XX secolo, ad esempio, l’interscambio commerciale ritornò al livello che aveva raggiunto nel 1914. Oggi l’intensificarsi dei controlli sugli spostamenti d’uomini e cose è dovuto alla necessità di prevenire nuovi attentati, i nuovi controlli statali (destinati presumibilmente a diventare sempre più pervasivi) sugli spostamenti bancari al fine di colpire la “finanza terroristica”, le più che probabili contrazioni di certe libertà personali a fronte delle esigenze della lotta contro le reti terroristiche dislocate nei paesi occidentali...». Quando abbiamo sostenuto, senza deflettere di una virgola, che liberismo e protezionismo sono due facce della stessa medaglia, siamo stati scambiati per incalliti “statalisti”, fautori della centralizzazione in un’epoca in cui tutti si sono convertiti alle trappole federalistiche o modelli similari. Ci si dovrebbe spiegare ora quale sarà il nesso tra le prospettive federalistiche e le necessità militari che riesumano ed esaltano la funzione dello Stato centrale, anzi, dei programmi intestatali di tipo militare, logistico e strategico.
La spiegazione è questa: «Se la globalizzazione arretra o ristagna, allora lo Stato torna a svolgere un ruolo politico di primo piano. La causa di ciò “è proprio la guerra”. Cinquanta e passa anni di pace (?) hanno fatto credere a molti, in Europa, che lo Stato sia, essenzialmente, un erogatore di servizi, si tratti di pensioni, scuole o sicurezza, interna. Non è così. Lo Stato, nella sua vera essenza, è una macchina da guerra. Lo Stato nasce, sulle ceneri dell’anarchia feudale, dalla guerra. Ed è la guerra che lo fa diventare, nei secoli, una grande organizzazione burocratica. In Europa, terra che gli dà i natali, lo Stato sbaraglia, in una lunga competizione, armata, di tipo darwiniano, ogni altro genere di organizzazione politica, proprio perché si rivela la “macchina da guerra più efficiente”».
D’un tratto, dunque, si riscopre la natura, l’essenza dello Stato. Anzi, con l’immagine della “macchina da guerra”, che non ci è estranea, si finisce con esagerare; ma neanche un riferimento, per ora, alle classi. Un po’ alla Dühring, ad un tratto tutto viene messo in atto dalla violenza. È la guerra che dà origine allo Stato, è la violenza che lo alleva e lo fa crescere. Ciò è in parte vero: ma noi non siamo tanto drastici ed unilaterali. Il “comitato d’affari della borghesia” non svolge, alla nostra scuola, un’esclusiva funzione militare, anche se questa è centrale ed ineliminabile. Lo Stato cura tutti gli affari del Capitale, che una ragione che l’ha: quella di massimizzare il profitto. Se per ottenere questo scopo, in determinate condizioni, il protezionismo è più efficace e funzionale del “liberismo”, non avrà problemi a determinare le condizioni che lo favoriscono. Il “comitato d’affari” ha questo fine da perseguire, per cui, che oggi, dopo l’attacco alle torri, si venga a scoprire che lo Stato è innanzi tutto “macchina da guerra” poco significa; ma se questa già nota “macchina da guerra”, in clima di “recessione economica” (iniziata prima dell’attacco alle torri), richiede la sospensione delle libertà personali o la loro limitazione, e la fine dello sbracato “liberismo”, allora niente può ostacolarla.
Ciò spiega perché il principiante Bush ha subito imparato la lezione: la guerra dovrà essere lunga... di anni! Per sconfiggere il nemico invisibile? Purché frutti profitto al Capitale di cui è commissario d’affari principe! E lo sanno bene gli industriali americani (e del mondo intero, che subito hanno promesso la loro totale collaborazione!). Il fatto è che costituzionalmente le emozioni, anche forti e sincere durano poco, secondo la loro natura; mentre le “ragioni del Capitale” come forza storica, durano e travalicano non solo i momenti, ma gli anni, i decenni, i secoli!
La strategia militare, allora, non è da confondere con la “logistica”, perché la sua “logica” complessiva è qualcosa di più complesso e serio. Per questo motivo – e lo diciamo da sempre – la guerra non è questione “militare” o da affidare ai militari, ma è questione politica che rispecchia le determinazioni economiche, e non può essere affidata che alla logica di classe, lo sappiano o no gli attori in scena in un determinato svolto storico.
Dopo l’emozione del momento, infatti, si riconosce senza mezzi termini che lo scenario attuale della “guerra terroristica” è stato da tempo preparato dalle mene del Capitale legato alle scorte di petrolio, alla politica ambigua dell’Arabia Saudita, alle riserve degli Usa che devono decidere se mettere mano ai giacimenti dell’Alaska, del Messico, o continuare a far conto sul grande produttore, ai prezzi più favorevoli del mercato mediorientale in generale.
Inevitabilmente quando la guerra “scoppia” tutta l’attenzione tende ad essere catturata dalle “operazioni militari”, e non c’è chi non si atteggi in qualche modo a “stratega”: è quello che sta avvenendo ancora una volta sotto i nostri occhi.
Il solito tiro alla fune tra i “militari” d’accademia, che premono per avere mano libera, e impostare la loro guerra tecnologica, possibilmente sempre in nome del taglio chirurgico, o del blitz krieg risolutore, e gli altri apparati dello Stato, secondo il gioco delle parti tra diplomazia e economia.
Nel caso della guerra “terroristica” c’è chi ha fatto notare come l’insidioso e invisibile nemico non possa essere sconfitto che tramite una campagna di “intelligence” mirata e segreta. Ma siamo sicuri che la cosa stia veramente e completamente in questi termini? Se i nemici, tra quelli diretti e potenziali, raggiungono il bel numero di 60 Stati, ci si domanda come possa finire in breve termine e secondo piani improntati alla razionalità.
La nostra tesi è molto diversa: è da tempo che il Capitale nella sua fase imperialistica, con tassi di profitto in inevitabile tendenza alla contrazione, non può contentarsi più di guerricciole regionali, sia pure strategicamente importanti: ha bisogno di ripulire l’ambiente per creare condizioni di distruzione in grado di ripristinare tassi di profitto elevati, che solo una guerra molto dura e lunga può garantire. In secondo luogo, poiché il casus belli questa volta è eclatante, si tratta di non farsi sfuggire l’occasione per mettere alla frusta amici e nemici, tiepidi e incerti. Lo schieramento che si va profilando è quanto mai variegato. L’ex URSS, dopo un decennio di anarchia interna, ha bisogno di riorganizzarsi; se gli Usa saranno pronti a cavargli qualche castagna dal fuoco, sarà ben appoggiata. La Cina, definita col suo “comunismo capitalistico!” grande potenza che dovrebbe occupare la scena in modo sempre più evidente (si dice con conseguenze preoccupanti, ma solo dal 2015!) ha tutto l’interesse di dare l’impressione della moderazione e dell’equilibrio.
Dunque, certi “giganti” in campo, non vanno presi alla lettera, attenendosi alle dichiarazioni ufficiali. Ciò che interessa e che va sottolineato è comunque che la funzione dello Stato, ancora una volta è insostituibile, anche se la guerra viene definita anomala, antiterroristica. «L’intervento armato contro l’Afghanistan dei talebani, dimostra che anche il “nemico” viene costretto a “ri-territorializzarsi”, a farsi, suo malgrado, Stato».
Dunque anche l’utopia, oppure l’accusa che viene rivolta al movimento fondamentalista islamico di Bin Laden, di essere una forza senza base territoriale, estremista e nichilista, è senza un fondamento valido. In realtà, come già il terrorismo alla scala nazionale tendeva a farsi “Stato”, così il terrorismo alla scala internazionale tende a far leva su determinati complessi statali. Come noi sosteniamo la tesi secondo la quale è utopistica e fuorviante l’Idea borghese d’una comunità mondiale superstatale, che amministri equamente il capitale, si chiami “nuovo ordine mondiale” o con qualsiasi altra sigla, così rimaniamo della convinzione che la presa del potere del comunismo non sarà genericamente “internazionale”, perché la conquista dello Stato si dovrà realizzare in determinati ambiti geo-politici, che non escludono gli attuali Stati “nazionali”. Tutto il chiasso insomma che si è fatto sull’epoca “post-statale”, “transnazionale”, è destinato a fare i conti con la realtà degli Stati, che sono vivi e vegeti e la cui funzione è duplice: quella classica di repressione interna e di aggressione - difesa in rapporto agli Stati stranieri. Lo stesso autore infatti riconosce che «la teoria della sovranità statale distingue tra sovranità esterna e interna (...) Ma sovranità esterna ed interna sono connesse. A un recupero di sovranità esterna per effetto della guerra fa riscontro una ripresa del ruolo della sovranità interna, nel senso di maggior peso dello Stato». È facile capire in che senso: la guerra portata all’esterno comporta la pressione sulle classi subalterne all’interno, nel timore di disfattismo e di attacco allo Stato stesso impegnato contro il “nemico”.
Ciò che preme rilevare è che le fughe in avanti non sono consentite: ecco perché non abbiamo mai rinunciato ad una nostra specifica “teoria dello stato”. Non siamo certo sul terreno di Panebianco, ma la sua ammissione che lo Stato, “per effetto della guerra”, sta riprendendo la sua funzione evidente, dopo slogans del tipo “meno Stato, più mercato”, fa un certo effetto. È solo da immaginare, nelle circostanze che si stanno profilando, che figura ci faranno quelli che, di fronte alle limitazioni della “libertà personale”, al fermo preventivo a tempo indeterminato, come proposto da ministro della giustizia Ashcroft, protesteranno in nome dello Stato di diritto. Noi sappiamo da sempre in che consiste, per il proletariato lo “Stato di diritto”: lavorare, stare attenti al regolamento, prendere aria quel tanto che serve per ricreare la forza lavoro.
E dal punto di vista militare? Per ora, in nome della guerra contro il nemico invisibile, saranno usati “reparti ad alta professionalità”... Ma basteranno? Non è un caso che negli ultimi decenni si sono un po’ tutti, a destra ed a sinistra, pronunciati per “l’esercito di nuova concezione”, rinunciando così all’esercito di leva in senso tradizionale. Ci si obietterà: come potrete ora gridare contro la coscrizione obbligatoria che falcidia operai e contadini, proletari in generale? La guerra la fanno gli “specialisti”, con rischi inversamente proporzionali alla professionalità raggiunta. Ed infatti sono i cosiddetti “civili” a pagare... come se la cosa fosse più accattivante e meno grave. Al punto che di fronte alle esecrazioni levate contro questi massacri, certuni si sono indignati nel sostenere che “militari o civili, tutti sono sullo stesso piano davanti al dovere della guerra!”. Almeno Federico II riservava all’esercito la funzione esclusiva della guerra! Il fatto è, assolutamente non controvertibile, che la guerra si è evoluta secondo le esigenze d’un modo di produzione che della mobilitazione permanente, della competizione more militari ha fatto il suo segreto preferito per ottenere i risultati voluti.
Ancora una volta, come si vede, l’alternativa sarà netta: non semplicemente contro la guerra, perché è sempre sporca e cattiva, ma, come noi abbiamo sempre detto: Guerra alla guerra per la guerra rivoluzionaria. In caso diverso proletari e mezze classi più scoperte pagheranno il solito tributo, che non sappiamo ancora quanto potrà essere alto.
Ma poiché gli esperti in “polemologia”, non ultimo “l’emerito” Sartori, stanno disputando se si può ufficialmente dire che la III guerra mondiale è scoppiata oppure no, è utile ricordare che l’evento “guerra” in senso stretto sta assumendo, nella fase putrida dello imperialismo, tempi e modi di fatto peculiari. Siamo certamente stati gli unici a sostenere che le 160 e passa guerre per procura, nel bel mezzo della guerra “fredda”, sono stati una vera e propria carneficina di “ultimi” del mondo, schiacciati e dimenticati, provocando, specie nell’ultimo decennio, dei veri e propri genocidi. Per la borghesia e l’opportunismo ancora in combutta erano episodi spiacevoli che potevano turbare la “pace”, anche se sull’orlo costante della minaccia atomica.
C’è chi ha anche vantato che mai si erano verificati oltre 50 anni di sviluppo crescente; da noi contraddetto in nome della tesi, che continuiamo a sostenere, della miseria crescente (relativa) del proletariato come classe alla scala mondiale! Bestemmia, naturalmente, per chi ha misurato fetidamente alla scala degli Stati più industrializzati, parlando di secondo e terzo mondo, formule vomitevoli che hanno dato alla classe operaia metropolitana l’illusione di far parte dei “fortunati”!
Allora, al di là dello “scoppio”, la terza guerra mondiale è stata combattuta e si sta combattendo da tempo. Come il pennino del sismografo impazzisce nella misura del tasso di profitto, così, sia pure non meccanicamente, il Capitale ha dovuto dosare “guerra” e pace, illusioni di pace perpetua con crisi a ripetizioni, capaci di mandare tutto a gambe all’aria, dal lontano, ormai, 1962 (Crisi di Cuba), alle invasioni di Ungheria, Cecoslovacchia e per poco Polonia, fino al Vietnam, all’Afghanistan, che ha segnato l’implosione della Russia, all’Iraq. Ma poiché tutti i nodi vengono prima o poi al pettine, sarebbe stato troppo che il Capitale potesse continuare a barare; ora non manda a dire che “la guerra sarà lunga, sarà dolorosa”, ed i corifei dell’imperialismo non fanno altro che sostenere che l’11 settembre ha cambiato la vita a tutti.
La vita della classe operaia deve invece veramente cambiare.

(53 - 54 - 55 - 56 - 57 - 58).








I giovani Marx ed Engels,
gli operai, gli scioperi, i sindacati

Rapporto esposto alla riunione di Genova, maggio 2003.

I giovani Marx ed Engels, gli operai, gli scioperi, i sindacati (I)
1. Un “giovane hegeliano” - 2. La Rheinische Zeitung - 3. Proletariato scoperta classe rivoluzionaria
- 4. I Manoscritti parigini - 5. Il lavoro in una società post-capitalista - 6. Prime conclusioni

I giovani Marx ed Engels, gli operai, gli scioperi, i sindacati ( II )
7. Origini borghesi - 8. Sbarco in Inghilterra - 9. «La condizione della classe operaia» -
10. L’esercito industriale - 11. I sindacati - 12. Sindacati e Partito di classe - 13. Fermandoci qui.

Il movimento sindacale si presenta come una complessa rete di organizzazioni che nascono, si sovrappongono, si associano, talvolta si fondano, si estinguono o riappaiono con altre caratteristiche, con corrispondenti apparati di iscritti, militanti, funzionari e strutture burocratiche, dalla minima scala locale e della singola fabbrica e reparto, alla massima delle grandi confederazioni nazionali e internazionali. I sindacati di questa molteplicità si ispirano a più tradizioni del movimento operaio, o i minori a nessuna, e si strutturano secondo moduli organizzativi diversi.
Benché molti sindacati di oggi vantino caratteri che gli provengono dal corso della loro anche lungo storia, è ormai tratto dominante il crescente legame degli apparati dirigenti con le istituzioni ufficiali degli Stati, alle quali diventano sempre più sottomessi, sia accettando la carota del riconoscimento ufficiale, di vantaggi finanziari e di accettazione nel mondo borghese, sia subendo il bastone delle costrizioni legali sulle loro attività, della minaccia di denunce penali e della confisca dei fondi, fino all’incarcerazione e all’assassinio di loro dirigenti ed attivisti da parte dell’apparato repressivo statale o di bande prezzolate.
In Gran Bretagna i capi delle Trade Unions hanno opposto un sonoro silenzio alla crescente stretta borghese, che sicuramente andrà chiudendosi sempre più intorno alla classe operaia, aggiungendosi alla camicia di forza degli stessi statuti delle Unions che a tutto sono dedicati tranne che alla lotta di classe. Nelle sempre più rare occasioni nelle quali i sindacati indicono uno sciopero, il confronto tende oggi a mantenersi per lo più isolato all’interno di una particolare categoria o mestiere, e questo sia per il loro atteggiamento angustamente corporativo, sia per la recente legislazione che proibisce le azioni operaie di solidarietà. Per contro diventa sempre più difficile per i lavoratori strappare qualche concessione al capitale, o difendere quel che hanno, senza rompere con la legge. I sindacati di regime, di fronte alla difficoltà di lanciare una vigorosa battaglia che esca dalla legalità per difendere gli interessi operai, ripongono le loro speranze nelle vaghe promesse dei “partiti operai borghesi” di ammorbidire le norme di legge una volta arrivati al governo, promesse immancabilmente poi non mantenute. Così la classe dei lavoratori è abbandonata alla “sovranità parlamentare”, cioè borghese, mentre i capi sindacali si riducono sempre più ad attività di consulenza per le tasse o le pensioni, o a farsi mediatori per la misera corruzione assistenziale e, infine, a trasformarsi in società per il piccolo prestito ipotecario!
Fatto è che gli attuali sindacali di regime, mentre escludono per principio di opporsi al capitalismo in quanto tale, convincono i lavoratori che oggi, all’interno del capitalismo, è pretesa assurda un’esistenza sicura e decentemente pagata. È un sogno però, che nello stesso tempo i dirigenti si danno ad alimentare poiché la loro funzione di inganno si basa solo su quella disonesta utopia di “benessere” e di “progresso”. È un Paradiso terreno, paragonabile, anche se peggiore, a quello che i preti e santoni che si accalcano intorno agli oppressi almeno fanno apparire “in Cielo”.
Ovunque, reagendo alla cinica accondiscendenza dei dirigenti sindacali alle direttive borghesi, il movimento sindacale si divide. Alcuni lavoratori talvolta abbandonano le vecchie organizzazioni per aderire a comitati o ad altre organizzazioni economiche difensive che sorgono come effetto dello svuotamento dei vecchi sindacati. In queste organizzazioni è talvolta possibile di nuovo per i comunisti formare frazioni e far sentire la loro voce. Nell’attuale crisi economica che peggiora la condizione operaia e nella crescente illegalità imposta a ogni lotta, queste nuove organizzazioni saranno del massimo interesse per i lavoratori, anche per coloro che sono ancora imprigionati nelle vecchie sclerotiche confederazioni: sempre più sono costretti a chiedersi se non sia giunto il momento di dedicarsi alla riorganizzazione della propria classe.
Quando avverrà? perché non adesso? Per rispondere a una simile domanda dovremmo tracciare un confronto sulla storia dei movimenti sindacali dei principali paesi, lavoro nel quale il partito si è sempre impegnato, nel quadro della storia generale del capitalismo.
Intanto, nella situazione di oggi, val la pena di rinfrescarci la memoria sui fondamenti della nostra dottrina circa la questione sindacale, rintracciando qui l’approccio alle lotte operaie dei nostri grandi maestri, Carlo Marx e Federico Engels. La loro storia “biografica”, così intrecciata e spesso coincidente con la storia del nostro partito, comprova come essi, personalmente intellettuali e di estrazione borghese, abbiano sempre considerato essenziale e motore della storia la lotta delle classi, fatto da scientificamente studiare come un fenomeno naturale con la sua oggettività, forza, regolarità e necessità, e come subito abbiano ben impostato le basi della strategia comunista nei sindacati, ribadita poi in testi e tesi di congressi, che disegnano il dialettico rapportarsi del moto spontaneo difensivo della classe con la coscienza completa ed offensiva del programma comunista.

1. Un “giovane hegeliano”

Marx affrontò la questione del conflitto sociale in generale quando era ancora studente all’Università di Berlino. Immatricolato nella facoltà di Legge nell’ottobre 1836, avrebbe presto abbandonato il suo infantile romanticismo e, nel tentativo di risolvere un problema che aveva incontrato nei suoi studi di legge, dello iato fra “ciò che è e ciò che dovrebbe essere”, si sarebbe convertito alla scuola di Hegel in modo improvviso quanto intenso. Non passò molto prima che Marx entrasse nel fuoco delle controversie che dividevano i “vecchi hegeliani”, che rimanevano fedeli al sistema e ne conservavano gli ideali, e i “giovani”, che intendevano dar forza agli elementi rivoluzionari di quel metodo, il significato del quale risiede in che «per la prima volta la totalità della natura, gli aspetti storici e spirituali del mondo erano concepiti e rappresentati come un processo di costante trasformazione e sviluppo e fu fatto uno sforzo per mostrare il carattere organico del processo» (Engels, Il Socialismo dell’Utopia alla scienza).
Marx sarebbe presto stato riconosciuto come uno dei maggiori collaboratori al Doktorklub, punto di riferimento del movimento dei giovani hegeliani, e vi avrebbe assunto una posizione di estrema sinistra. Le discussioni iniziarono intorno alla questione della religione, ma presto, in un’atmosfera nella quale la nascente borghesia iniziava ad avere occasionali scaramucce con lo Stato assolutista prussiano, il Doktorklub si sarebbe sempre più compromesso in questioni politiche schierandosi con i sostenitori di una monarchia costituzionale. Questi, quando Federico Guglielmo IV salì al trono nel luglio 1840, erano impazienti di sapere se avrebbe mandato in essere le molte riforme che aveva promesso da principe incoronato, compresa la libertà di parola. Furono presto bruscamente disillusi: su di loro si abbatterà la prima repressione insieme a un attacco bruscamente concertato per allontanare gli hegeliani dagli incarichi governativi ed accademici. Nell’inverno 1840-41 il circolo si rinominò Gli Amici del popolo con posizioni teoriche che si collocavano all’estrema ala sinistra del repubblicanesimo rivoluzionario.
Il risultato sulla persona di Marx fu che dovette abbandonare le speranze di diventare lettore universitario e si orientasse al giornalismo.

2. La Rheinische Zeitung

Nel corso del 1841 un gruppo variamente assortito di industriali (fra cui Camphausen, il re delle ferrovie e futuro primo ministro prussiano), commercianti, scrittori e filosofi si trovava a Colonia, epicentro della regione più industrializzata del paese, la Renania. Verso la metà dell’anno il gruppo progettò di darsi un proprio giornale quotidiano, il che fu attuato rilevando un foglio esistente, benché in difficoltà, il Giornale di Colonia, con denaro fornito per lo più dagli industriali della città. L’1 gennaio 1842 uscì il primo numero.
Marx era associato al gruppo fin dal suo sorgere, e dopo il successo della sua prima collaborazione, un articolo sulla libertà di stampa (il suo primo articolo pubblicato) fu invitato a redigere quanti più articoli potesse. Nell’ottobre Marx ne assunse la direzione editoriale.
Commentando questo periodo Marx avrebbe più tardi scritto: «Negli anni 1842-43, come direttore della Rheinische Zeitung, feci per la prima volta l’imbarazzante esperienza di prender parte a discussioni sui cosiddetti interessi materiali. Gli atti del Parlamento renano sui furti forestali e simili mi dettero la prima occasione di occuparmi di questioni economiche» (da Una Prefazione alla Critica dell’Economia Politica). Engels lo avrebbe confermato scrivendo a R. Fischer che «aveva sempre sentito dire da Marx che era proprio concentrandosi sulle leggi circa i furti di legname e sulla situazione dei viticoltori della Mosella che fu portato a spostarsi dalla politica pura alle relazioni economiche e così al socialismo».
Il crescente interesse per il socialismo era stato alimentato dai movimenti comunisti di Francia e dal Cartismo inglese, le attività dei quali erano regolarmente riferite dalla Gazzetta Renana e dalla stampa tedesca in generale. Contagiato da questi slanci fu Moses Hess, che nell’agosto del 1842 fondò un circolo di studio per la discussione dei problemi sociali, che di fatto diventò il comitato editoriale del giornale. Hess fu il primo dei giovani hegeliani a volgere l’attenzione al comunismo ed Engels riferisce che fu il primo dei tre ad farlo suo.
Per dialettica, anche nella “biografia”, il primo articolo di Marx scritto da direttore fu per respingere le accuse di comunismo mosse alla Gazzetta Renana da un altro giornale (Il Comunismo e la Augsburger Allgemeine Zeitung), ma l’articolo consisteva più in una critica di come il giornale rivale si rifiutava di considerare il comunismo con serietà e Marx ebbe cura di aggiungere che «La Gazzetta Renana non riconosce validità teorica alla idee comuniste», ma «la loro forza attuale».
Durante questo periodo, però, Marx si collocava ancora essenzialmente all’estrema sinistra della borghesia democratica. La mancata verifica dell’ipotesi che potesse esser possibile convincere il potere della necessità di cambiamenti lo fece approdare alla conclusione che, in assenza di intervento divino, la storia dell’Inghilterra indicava un diverso percorso: «Carlo I salì sul patibolo per una ispirazione divina proveniente dal basso».
Il crescente coinvolgimento di Marx nella questione sociale, unito alle continue persecuzioni dei censori prussiani, lo spinse ad una sempre maggiore convinzione che la semplice “critica” dello status quo non era sufficiente. Questo avrebbe portato ad una scissione del movimento dei giovani hegeliani fra i “critici critici”, capeggiati da Bruno Bauer, e il gruppo dei “pratici” intorno a Marx. Nicolaievsky e Maenchen-Helfen scrivono nel loro Karl Marx, Man and Fighter: «Quanto più Marx si immergeva nella realtà tanto più i suoi amici di Berlino si perdevano nelle astrattezze. Il loro criticismo diventava sempre più “assoluto”, ed era destinato a finire in una vuota negazione. Divenne “nichilista”. La parola “nichilismo”, che data da quei tempi, fu coniata da loro e non dallo scrittore russo Turgheniev, che si ritiene dalla generalità esserne l’inventore: lo aveva appreso in quel periodo a Berlino, incontrando i membri del circolo Bauer, e lo consegnerà ai rivoluzionari russi venti anni dopo (...) Trassero una nuova teoria dalla loro propria impotenza, fecero un feticcio della coscienza individuale, che consideravano l’unico campo di battaglia sul quale si poteva combattere e vincere, finendo in un anarchismo individuale che raggiunse il suo zenit nell’ultra-radicale e ultra-inoffensivo Einzigen, l’Unicità, di Max Stirner».
Il crescente disinganno di Marx nei confronti del gruppo Freien, ciò che restava del vecchio Doktorklub, con la sua indulgenza verso vuoti filosofemi, rifletteva i dubbi dello stesso Marx che i potenti potessero essere indotti alla necessità di cambiamenti con i metodi della filosofia. Alla fine la questione si sarebbe risolta, allora e per sempre, con la risposta assai poco filosofica delle istituzioni alle critiche ad esse indirizzate. Il giornale fu chiuso d’autorità, insieme a tutta la stampa liberale di Prussia. L’ultimo numero uscì il 31 marzo 1843 con i seguenti versi a mo’ di epigrafe: «Osiamo alzare la libera bandiera. Ciascuno della ciurma ha fatto il suo dovere. Pur non raggiunto lo scopo, giusto era il cammino e non lo rinneghiamo. Dagli dèi adirati, benché fallito il fine, mai fummo intimiditi. Anche Colombo, disprezzato pria, scorse infine il Mondo Nuovo. Con gli amici che ci hanno applaudito e con gli avversari che ci hanno combattuto ci ritroveremo sulla nuova sponda. Se tutto rovina, il coraggio resta intatto». La “nuova sponda” sarà Parigi.

3. Proletariato scoperta classe rivoluzionaria

Prima di partire per Parigi Marx poté per un breve periodo «ritirarsi dalle attività pubbliche e dedicarsi alla studio per risolvere i dubbi che stava maturando (...) Nel marzo 1843 si trasferì nella casa della suocera a Kreuznach dove risiedette per sei mesi, sposando Jenny in giugno. Fu durante questo soggiorno che decise di farsi padrone della filosofia politica di Hegel, un progetto che aveva in animo da più di un anno (...) Una critica della Filosofia del Diritto di Hegel fu scritto mentre le idee di Marx erano in una fase di definizione: ha adottato l’umanesimo fondamentale di Feuerbach e, con esso, il suo capovolgimento fra il soggetto e il predicato della dialettica hegeliana. Gli apparve evidente che l’obbiettivo successivo dell’uomo sarebbe stato il recupero della dimensione sociale della sua natura, andata perduta anche se la Rivoluzione francese aveva livellato tutti i cittadini nello Stato politico e così accentuato l’individualismo della società borghese» (Karl Marx, Selected Writings, D. McLellan, OUP). È qui che Marx anche individua esplicitamente la «classe del lavoro immediato, del lavoro concreto», che non costituisce «una classe della società civile in quanto provvede al fondamento sul quale muovono i cerchi della società civile e traggono la loro essenza».
Marx avrebbe successivamente scritto nella prefazione alla Critica dell’Economia Politica: «La mia ricerca arrivò alla conclusione che, primo, i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono spiegarsi né da se stessi né con il cosiddetto sviluppo dello spirito umano, ma hanno le loro radici, invece, nelle condizioni materiali di vita (...) Secondo, che l’anatomia della società civile deve essere cercata nell’economia politica».
Nell’ottobre 1843 Marx si trasferì a Parigi per assumere la codirezione di un nuovo giornale, il Deutsche-Franzosische Jahrbucher, Annali Franco-Tedeschi, che si ponevano l’intento di portare ad una “alleanza intellettuale” fra i tedeschi, che erano più progrediti nella teoria, e i francesi, più ferrati nella pratica.
A Parigi Marx avrebbe scoperto e descritto come il compito della “classe del lavoro immediato” fosse di attuare nella pratica quella rivoluzione che già egli aveva compiuto nella filosofia. In Per una Critica della Filosofia di Diritto di Hegel, con introduzione scritta all’inizio del 1844, Marx, ponendosi la domanda: «Dunque dov’è la reale possibilità della emancipazione tedesca?» rispondeva: «Nella formazione di una classe con catene radicali, una classe nella società civile che non è una classe della società civile, un gruppo sociale che è la dissoluzione di tutti i gruppi sociali, una sfera che ha un carattere universale per le sue sofferenze universali e non avanza rivendicazioni di diritti particolari perché non è oggetto di nessuna ingiustizia particolare ma della ingiustizia in generale. Questa classe non può più pretendere uno status storico ma solo direttamente umano. Non è in una particolare opposizione agli effetti del regime politico tedesco, ma in totale opposizione ai suoi presupposti. È, infine, una sfera che non può emancipare se stessa senza emanciparsi da tutte le altre sfere della società e quindi emancipare queste stesse altre sfere. In una parola, è la perdizione totale dell’umanità e quindi può solo recuperare se stessa con una redenzione completa dell’umanità. Questa dissoluzione della società, intesa come una classe particolare, è il proletariato».
Più avanti Marx abbatte gli argomenti sulla presunta natura utopistica della società comunista in quanto senza proprietà privata, rilevando il fatto che ciò è già il caso per il proletariato: «Quando il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordine mondiale finora esistente, non fa che esprimere il segreto della sua stessa esistenza, giacché esso è di fatto la dissoluzione di quest’ordinamento del mondo. Quando il proletariato chiede la negazione della proprietà privata, solo stabilisce un principio per la società che la società ha già stabilito come principio per esso, che è già stato assimilato a sé stesso senza il suo consenso come riflesso in negativo della società». Il rapporto fra la filosofia tedesca e il socialismo francese corrisponde a quello fra le idee comuniste e il vivente proletariato: «Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi intellettuali, e appena il lampo del pensiero sarà penetrato a fondo nel suolo ingenuo del popolo, la emancipazione dei tedeschi in uomini sarà completata».

4. I Manoscritti parigini

Nel 1844 Marx era stabilmente insediato a Parigi, dove fu subito impressionato e stimolato dalle numerose associazioni di operai, alle riunioni dei quali cercava di partecipare il più possibile: «Agli incontri degli operai comunisti la fratellanza non è una frase ma una realtà, ed un vero spirito nobile si riflette in quei visi di uomini induriti dal lavoro».
Parigi ospitava allora circa centomila immigrati tedeschi, il che contribuiva a deprimere le paghe degli artigiani francesi, con i quali si erano anche avuti alcuni scontri di strada. La tensione non diminuì finché diversi gruppi rivoluzionari non iniziarono ad intervenire fra gli operai: presto nessuna società segreta francese mancava di membri tedeschi mentre i blanquisti avevano addirittura speciali sezioni tedesche. Contatti fra Marx e la Lega dei Giusti – composta quasi totalmente di artigiani e che si proponeva di attuare una “repubblica sociale” in Germania – furono così stretti che Karl e Jenny provarono perfino un effimero tentativo di coabitazione in un “falansterio”, del quale faceva parte anche Maurer, uno di capi della Lega.
In questa sovraccarica atmosfera parigina Marx avrebbe scritto i suoi famosi Manoscritti. Il linguaggio è qui già più semplice e concreto, meno avvolto nelle astrattezze della terminologia hegeliana. Marx è ora meno occupato con le contraddizioni filosofiche e più con quelle materiali della società moderna, ovviamente sotto la grande influenza degli scritti di Feuerbach ai quali nella prefazione si riferisce come agli unici che «contengono una vera rivoluzione teorica da Hegel in poi». Benché il piglio radicale del materialismo di Feuerbach avesse già con successo “capovolto” la filosofia di Hegel, col derivare lo Spirito dalla Materia piuttosto che la Materia dalla “Idea Assoluta”, Marx avrebbe progredito oltre le astrattezza del concetto di Natura e di Specie Vivente di Feuerbach per precisarli in Società Capitalista e Società Vivente, rispettivamente. Per scoprire le contraddizioni materiali della società occorreva uno studio della società di fatto, piuttosto che del riflesso di queste contraddizioni nella mente dei filosofi.
I Manoscritti parigini sono divenuti oggetto di molti dibattiti accademici, nei quali si pretende si aver scoperto un Marx “umanista”, che deporrebbe contro il Marx “rivoluzionario”. Questo è possibile impostarlo sul piano, appunto, accademico, cioè ignorando le implicazioni rivoluzionarie della prime profonde analisi di Marx sul salario e sulla classe lavoratrice dei senza riserve.
Nelle primissime righe del manoscritto, nel capitolo intitolato “Il Compenso del Lavoro”, leggiamo: «I salari sono determinati attraverso la lotta fra gli opposti capitalista e operai. La vittoria va necessariamente al capitalista. Il capitalista può vivere più a lungo senza l’operaio piuttosto che l’operaio senza il capitalista. Associazioni fra capitalisti sono frequenti ed efficaci: la associazione di operai è proibita e di gravose conseguenze per essi (...) L’operaio non può aggiungere alle sue entrate alcun reddito né di industria né terriero né di interesse da capitale. È questa la ragione della concorrenza fra gli operai». Qui troviamo il primissimo Marx che esclude la possibilità di un esito stabilmente favorevole delle lotte immediate, e, di conseguenza, di tutti i tentativi riformisti di modificare contrattualmente il sistema salariale piuttosto che rovesciarlo. Oggi, 150 anni dopo, possiamo dire che queste parole sono state confermate: nonostante le associazioni di operai siano oggi legali, il capitalista può ancora resistere più a lungo, e anche quando costretto ad arrivare ad un compromesso con le richieste dei lavoratori, le vittorie operaie che ne derivano sono di ben breve durata.
Il lavoro non entra nei calcoli del capitalista che come un costo di produzione fra gli altri. Ma il salario non è determinato solo dal rapporto di forza delle classi: la media intorno alla quale oscilla il livello delle paghe è il costo necessario alla produzione dell’operaio stesso, cioè la somma del valore dei mezzi per la sua sussistenza. «Per i salari il grado minimo e necessario è quello richiesto dalla sopravvivenza dell’operaio durante il lavoro, oltre ad un di più per sostenerne la famiglia ed impedire che la razza dei lavoratori si estingua. Secondo Smith il salario normale è il minimo che è compatibile per la comune umanità, cioè con la esistenza animale. La domanda di uomini necessariamente regola la produzione di uomini come quella di ogni altra merce. Se l’offerta eccede di troppo la domanda una parte dei lavoratori precipita nella mendicità e nella fame. L’esistenza dell’operaio è quindi ridotta alla stessa condizione di esistenza di ogni altra merce. L’operaio è diventato una merce, e deve esser felice se riesce a trovare un compratore».
Così è utopica la rivendicazione degli operai di un sostanziale e stabile miglioramento delle loro condizioni, specie quando il capitalismo si trova nel ciclo depresso, in quanto verrebbe a collidere con in fondamenti stessi del sistema capitalistico. Questa verità di antagonismo storico di classe viene negata e tenuta nascosta dai dirigenti riformisti dei sindacati, con lo sbandierare costantemente davanti agli operai la seducente prospettiva di un cambiamento della loro sorte sotto il capitalismo.
Come anticipata risposta a questa illusione Marx afferma: «Prendiamo le tre principali condizioni in cui la società si può trovare e consideriamo la corrispondente situazione degli operai: 1) Se la ricchezza della società sta decrescendo sono gli operai a soffrirne di più, perché, sebbene la classe operaia non possa guadagnare tanto quanto i proprietari quando la classe è prospera, nessuno soffre più crudelmente per il suo declinare quanto la classe operaia. 2) Consideriamo una società di crescente benessere. Questa è la sola favorevole al lavoratore. Qui interviene la concorrenza fra capitalisti: la domanda di operai eccede la loro offerta. Ma: in primo luogo l’aumento dei salari porta con sé il sopralavoro fra gli operai. Più che guadagnano più devono sacrificare il loro tempo e libertà e lavorare come schiavi al servizio dell’avarizia. Nel far questo abbreviano le loro vite (...) Questa classe deve sempre sacrificare una parte di se stessa se vuole evitare la totale distruzione».
Ma anche questa più favorevole condizione per i lavoratori implica la propria negazione. Marx puntualizza che «la società si trova in progressivo arricchimento come risultato della accumulazione di una grande quantità di lavoro, il capitale essendo lavoro accumulato e la maggior parte del prodotto degli operai essendo loro portato via».
Questa crescente accumulazione di capitale risulta in una crescente divisione del lavoro che produce «un tipo di lavoratore molto unilaterale, mentalmente e fisicamente abbassato a macchina», che lo fa «sempre più dipendente da ogni fluttuazione dei prezzi di mercato, dell’investimento di capitale e dei capricci dei benestanti».
Altro fattore che minaccia i supposti vantaggi per gli operai nel “boom” capitalistico è la concorrenza che cresce fra i capitalisti, e quindi la crescente concentrazione dei capitali, che getta una moltitudine di piccoli affaristi nella classe operaia, accrescendo così la concorrenza per i posti di lavoro e ancora una volta causando un abbassamento delle paghe. «Una parte della classe operaia è ridotta a mendicare o alla fame per lo stesso motivo che ha precipitato gran parte dei capitalisti medi nella classe operaia».
I capi riformisti dei sindacati, per i quali esisteva il “buon capitalismo” fatto di latte e miele, dovrebbero oggi essere costretti ad ammettere che questa non è proprio la condizione generale dei lavoratori. Hanno ammannito filmetti sulla virtuosità del duro lavoro e degli eroismi stakanovisti, assicurando che sarebbe stato un “diritto” dei lavoratori “sacrificarsi” per “qualificarsi”, sugli altri lavoratori, cioè, a sgomitare per farsi posto a spese dei vicini compagni, ovvero diventare dei capitalisti anch’essi. Marx osserva: «Un aumento delle paghe fa nascere nel lavoratore lo stesso desiderio di arricchirsi del capitalista, ma esso può solo soddisfare questo desiderio immolandogli la mente e il corpo. Un aumento delle paghe presuppone, e determina, l’accumulazione del capitale, e così oppone il prodotto del lavoro al lavoratore come qualcosa che gli diventa sempre più alieno. Ugualmente, la divisione del lavoro lo rende sempre più unilaterale e dipendente, introduce la concorrenza fra le macchine così come fra gli uomini. Da quando l’uomo è stato ridotto simile ad una macchina, da allora la macchina gli si può opporre come un concorrente». La canzone ha immortalato la leggenda di John Henry, gran lavoratore e campione di forza, che muore nel tentativo di dimostrarsi superiore sulla macchina. «Infine, appena l’accumulazione del capitale ha accresciuto la quantità delle fabbriche e quindi il numero degli operai, ciò permette alla stessa quantità di fabbriche di produrre una maggiore quantità di prodotti. Questo porta alla sovrapproduzione e finisce o per mettere un gran numero di operai fuori del lavoro o col ridurre i loro salari ad una miseria».
La terza condizione che si presenta nella società è quando questo stato di crescita raggiunge il culmine. Detto crudamente, «la sovrappopolazione deve allora morire».
Riassumendo. «Nella fase del declino della società abbiamo una miseria crescente dei lavoratori; nella fase del progresso, una miseria difforme; nella fase terminale, una miseria costante».
Se esiste un Marx umanista nei Manoscritti parigini è solo nel senso che riesce a dar voce al vaneggiare dell’operaio di fabbrica, legato ad un lavoro penoso e ripetitivo; vaneggiare che però esprime la prima evasione, l’iniziale capovolgimento dalla società capitalistica nella coscienza rivoluzionaria. Così nel capitolo “Il Lavoro Estraniato” si puntualizza che: «un accelerato aumento dei salari (ignorando qui tutte le altre difficoltà, compreso il fatto che tale anomale situazione potrebbe prolungarsi solo con la forza) non sarebbe niente altro che una migliore paga per degli schiavi e non implicherebbe un accrescimento del rilievo umano né in dignità per entrambi l’operaio e il lavoro».Si noti come Marx, nonostante consideri un sostanziale aumento dei salari come anormale, tuttavia affermi come possa mantenersi con la forza.
A quel vagheggiare operaio, a quel sogno fantastico non di maggior salario ma di una reale riappropriazione e piacere dalla attività lavorativa umana, Marx si inspirò, ma spese il resto della vita a provare che erano le condizioni effettive storiche a provocare quel sogno, perché i sogni sorgono solo quando esistono le possibilità materiali per realizzarli.
«Anche la eguaglianza dei salari, prefigurata da Proudhon, significherebbe solo trasformare la relazione fra l’operaio di oggi davanti al suo lavoro con la relazione di tutti gli operai davanti al lavoro. La società sarebbe concepita come un capitalista in astratto». Già nel 1844 Marx aveva quindi previsto questo grave equivoco per il corso rivoluzionario, di rivendicare la nazionalizzazione delle industrie e le future “economie pianificate”, poi attuate dal cosiddetto “blocco socialista”; schemi di capitalismo collettivo che avrebbero mantenuto tutte le caratteristiche del lavoro estraniato, benché si siano fatte passare come vantaggiose per i lavoratori già al tempo di Marx e sconciamente dopo. Troppo spesso sarebbero caduti i lavoratori nella trappola di partiti pseudo operai e di sindacati da essi diretti che vantavano le industrie nazionalizzate come la soluzione ai mali sociali solo perché non vi apparirebbe la figura odiata del padrone individuo.
Questi assunti di base rivelano anche le falle nel perenne sogno del sindacalismo: “Una giusta giornata di lavoro per un giusto salario”. Invece di rifarsi a concetti morali astratti di giustizia, Marx ha mostrato come la forza lavoro obbedisce alle leggi delle altre merci; una merce il cui “giusto” prezzo non è nient’altro che il suo equivalente in massa di beni di consumo richiesti per mantenere l’operaio al lavoro e perché possa riprodursi. Forse, anche più notevole, in quei giorni lontani Marx aveva già anticipato, e condannato, la più pericolosa e seducente delle visioni opportuniste: uno Stato comunista dove i lavoratori ancora esistono come salariati e vendono il loro lavoro allo Stato.

5. Il lavoro in una società post-capitalista

In Estratti dagli Elementi di Economia Politica di James Mill, scritto allo stesso tempo dei Manoscritti, Marx ci fornisce una esplicita prefigurazione della futura società comunista, alla quale non è uso indulgere, un “sogno” che mette a contrasto con la condizione del lavoro allineato sotto il capitalismo.
Marx, con la sua analisi del lavoro salariato in organica connessione al capitale, esclude ogni possibilità di stabile progresso per i lavoratori sotto il capitalismo, nemmeno durante i suoi periodi di “benessere”, e gli oppone una futura società nella quale il lavoro sarà davvero soddisfacente ed umano, perché l’uomo sarà capace di tornare ad agire come un essere di una comunità sociale.
Non c’è dubbio che le osservazioni di Marx sono valide oggi come quando furono scritte e in senso generale: benché le condizioni del proletariato sono apparse migliorare con l’affermarsi del capitalismo, se misurate come massa di beni consumati, relativamente agli accresciuti bisogni che il moderno capitalismo suscita ed impone il miglioramento è del tutto insignificante, mentre come condizione di salute complessiva e di infelicità sono senz’altro peggiorate. Inoltre, sia nelle fasi di accumulazione primitiva sia di tardo declino del capitalismo, la condizione del proletariato è così orrenda, se non peggiore, di quella che dominava nel diciannovesimo secolo in Europa: carestie, aumento della mortalità infantile, riduzione della vita media delle classi inferiori, mentre le guerre devastano le menti e i corpi e del proletariato dei paesi “poveri” e di quelli “ricchi”, e sono cessate le avvelenate briciole del “benessere” sociale che cadevano dalle tavole del banchetto imperialistico.

6. Prime conclusioni

Questi i primi decisi e definitivi passi verso l’impostazione della “questione sindacale”, che vogliamo ripercorrere ancora una volta con la mano in quella ben ferma e robusta del nostro grande Carlo. Intanto abbiamo respinto alcune delle illusioni propagate dai dirigenti operai passati al nemico.
Nostro scopo è approfittare dell’esperienza di lotta dei lavoratori per convincerli della bontà del metodo comunista per la difesa della loro classe anche nella contingenza, e della rovina che li aspetterebbe seguendo i metodi ai nostri opposti.
Non prevediamo che la rivoluzione verrà quando la maggioranza degli operai sarà comunista: appunto il nocciolo della questione sindacale risiede nel problema di come riuscire ad indirizzare il movimento delle masse di lavoratori non comunisti, esterni ai sentimenti, alla organizzazione e alla disciplina del partito. Inquadrati in organizzazioni economiche spesso dominate da controrivoluzionari o senz’altro da spie della borghesia, cionondimeno sappiamo che, nel momento cruciale, il loro muoversi contingente e difensivo li porterà nella direzione che avrà da sempre indicato loro il partito rivoluzionario, quella dello scontro diretto e della guerra civile, e politica, fra le classi.
Marx fin dai suoi primi studi ha identificato alcuni principi che rimangono pietre miliari per l’atteggiamento del Partito nell’avvicinarsi alle organizzazioni dei lavoratori. Li elenchiamo:
1. Il minimo possibile livello dei salari è quello necessario per la sopravvivenza del lavoratore come tale ed al più sufficiente per sostenere la sua famiglia ed impedire che la razza dei lavoratori perisca.
2. Offerta e domanda di lavoro, cioè la concorrenza fra i capitalisti alla ricerca di operai e fra gli operai alla ricerca di un capitalista, causano delle fluttuazioni intorno a questo livello medio.
3. L’illusione sindacalista di un forte aumento nelle paghe si potrebbe socialmente mantenere solo con l’esercizio permanente della forza operaia.
4. L’aumento dei salari si risolverebbe solo in un compenso migliore per degli schiavi, non significherebbe una diversa né migliore dipendenza del lavoratore dal capitale. L’eguaglianza delle paghe, rivendicata da Proudhon, solo trasformerebbe l’attuale rapportarsi dell’operaio con il suo lavoro nel rapporto di tutti gli uomini con il lavoro. La società sarebbe concepita come un capitalista in astratto.
Questi concetti si sarebbero ulteriormente affinati ed elaborati nel corso degli anni mentre il marxismo, come scuola di comunismo, prendeva forma. Alle future indagini di Marx, e alle circostanze sotto le quali si producevano, si aggiungerà il grande contributo di Federico Engels che si dedicherà anch’esso alla formulazione della materiale dialettica del sindacalismo operaio.

(continua al prossimo numero)







L’Antimilitarismo
nel movimento operaio in Italia

Rapporto espoto alle riunioni di Firenze gennaio 2002, Firenze gennaio 2003, Genova maggio 2003.

Carlo Liebknecht iniziava la sua opera Militarismo e Antimilitarismo con queste parole: «Militarismo! Poche parole nella nostra epoca vengono adoperate con tanta frequenza e nessun altro termine definisce qualcosa di così complesso, multiforme, variegato, un fenomeno nella sua origine e nella sua sostanza, nei suoi mezzi e nelle sue ripercussioni così interessante, così importante, un fenomeno che affonda le sue radici così profondamente nella natura degli ordinamenti della società classista e che tuttavia può assumere forme così molteplici anche all’interno del medesimo ordinamento sociale, a seconda delle particolari condizioni naturali, politiche, sociali ed economiche dei singoli Stati e territori (...) Una storia del militarismo condotta nel senso più profondo mette a nudo la natura più intima della storia dell’evoluzione dell’umanità, le sue molle, e sezionare il militarismo capitalista significa mettere allo scoperto le radici più nascoste e più sottili del capitalismo. La storia del militarismo è al tempo stesso la storia delle tensioni politiche, sociali, economiche e in linea generale di civiltà tra gli Stati e le nazioni, nonché la storia delle lotte di classe all’interno delle singole unità statali e nazionali. Naturalmente qui non è possibile osare di compiere anche soltanto il tentativo di una storia del genere».
Noi qui nemmeno ci assumeremo la presunzione di portare a termine un’opera del genere, ma l’opinione di Liebknecht ci conforta almeno nel tentativo di abbozzare una traccia di ricerca in tal senso.

Coscrizione e renitenza nello Stato unitario

Al momento dell’unificazione, in gran parte delle regioni d’Italia, la coscrizione obbligatoria rappresentò una novità fino ad allora sconosciuta, ed in particolar modo nelle Romagne, nelle Marche e nell’Umbria. La Sicilia, per antico privilegio, era esentata dal servizio di leva, dal quale affrancava i suoi abitanti con un tributo in denaro. Dal servizio militare erano dispensati pure gli abitanti delle isole di Capri, Lampedusa, Linosa. Nelle province napoletane la leva era regolata da una legge del 1834 per la quale concorrevano sette classi, dal 19° al 25° di età, ma, salvo esigenze straordinarie, venivano arruolati solo i giovani che compivano il 21° nell’anno della chiamata.
Anche se nei tempi moderni forme di coscrizione obbligatoria erano già state sperimentate, possiamo affermare che il fenomeno della leva obbligatoria abbia assunto rilievo europeo solo con la levée en masse giacobina del 1793 e che venne definitivamente sancita dalla legge Jourdan del 1798. Napoleone la impose su tutto il continente e, nel corso del XIX secolo, con modalità diverse, venne adottata da tutti i paesi europei, fatta eccezione dell’Inghilterra.
Nel Regno di Sardegna l’obbligo del servizio di leva era regolato dalla legge Lamarmora del 1854, che venne via via estesa a tutti i territori annessi al neonato Regno d’Italia fino a che, come ebbe a dichiarare l’allora ministro della guerra Petitti-Baglioni, nel 1862 era ormai possibile «esigere finalmente il tributo di militare servizio con le norme di una sola legge e sopra gli individui di una stessa età indistintamente dalle Alpi al Lilibeo». Il nuovo Stato aveva necessità di rendere omogeneo il reclutamento su tutto il territorio nazionale; occorreva poter disporre di un contingente armato di oltre 200 mila giovani tra i quali reclutare secondo le necessità, garantirsi un sistema di selezione uniforme ed efficace, fissare scadenze periodiche, preparare il personale necessario alle operazioni: tali erano le condizioni indispensabili per la costituzione di un esercito robusto ed efficiente. Il 10 luglio 1864, con 66 voti favorevoli su 68 votanti, il senato approvava l’estensione a tutto il Regno della legge Lamarmora.
Con la legge sulla leva il Parlamento italiano vedeva risolto un problema essenzialmente tecnico-politico, reso urgente dalla necessità di dotarsi di uno strumento di repressione efficace per fronteggiare le ribellioni popolari, soprattutto del Mezzogiorno. Naturalmente la giustificazione ufficiale puntava sulla necessità della costituzione di un esercito che garantisse la difesa dei raggiunti confini nazionali e fosse in grado di completare l’unificazione attraverso la liberazione delle terre irredente. Era soprattutto la sinistra liberal-democratica a fare pressioni per il riarmo. Dai banchi della sinistra parlamentare si gridava: «Primo di tutti i nostri bisogni è quello di armare, e che c’importa delle strade ferrate, tanto più che queste strade non si possono avere in poco tempo? A che vale cercare la popolarità, mentre prima condizione si è di esistere? (...) Armiamo! Armiamo! Se l’Italia si porrà in una attitudine armata proporzionata ai suoi mezzi e alla sua popolazione, la nostra grande questione sarà risolta anche per Roma e Venezia» (On. Benedetto Musolino, 25.6.1862).
In Parlamento la volontà di approvare la legge, abbiamo visto i risultati, era stata generale. Solo il Ricciardi aveva accennato alle conseguenze sociali che il provvedimento avrebbe causato e, chiedendo l’esonero dal servizio militare per i figli unici, «benignità che usava anche il gran divoratore di uomini che aveva nome Napoleone I», ricordava come vi fossero «molte famiglie di poveri contadini, le quali sarebbero ridotte alla fame se voi toglieste loro l’unico sostegno dei vecchi parenti». A Ricciardi rispondeva Nino Bixio che se modifiche dovevano essere apportate alla legge sul reclutamento, queste modifiche andavano fatte «nel senso che si prenda un numero maggiore di coscritti».
L’obbligo del servizio militare quinquennale aveva suscitato opposizione già nelle province centrali e la leva sui nati del 1840 aveva registrato 4.800 renitenti su un contingente di 45.000 unità. Parallelamente si era diffuso il fenomeno della diserzione che il governo attribuiva «all’opera iniqua di subornatori contro i quali non è abbastanza armato il rigore della legge» (Petitti-Baglioni, 3.6.1862).
La prima leva nazionale si ebbe nel 1863: secondo i dati ufficiali i renitenti furono 25.749, ossia l’11,5% con punte altissime a Napoli (57,2%), Catania (45,6%), Palermo (44,4%), Trapani (41,3%), Urbino (40,5%). Nel complesso si ha l’immagine di una nazione divisa sull’atteggiamento nei confronti dell’obbligo militare, con un’area di assuefazione localizzata nella pianura padana e parte di Toscana e Sardegna ed un’area di rifiuto comprendente gli ex territori pontifici e l’ex Regno delle due Sicilie.
I figli dei benestanti «potevano esimersi dal servizio militare grazie agli istituti previsti dalla normativa (la liberazione completa, per i più agiati, dietro versamento di L.3.000, pari allo stipendio medio annuale di un docente universitario; la surrogazione, cioè la possibilità di farsi sostituire da qualcuno dietro compenso; lo scambio dei numeri, tra chi, avendo sorteggiato nelle operazioni di leva un numero basso, era assegnato alla prima categoria con ferma quinquennale e chi, avendo estratto un numero alto, era assegnato alla seconda categoria con un periodo di addestramento non superiore ai quaranta giorni)» (Gianni Oliva, Esercito, Paese e Movimento Operaio).
La pratica dell’estrazione del numero risaliva ad una vecchia tradizione francese del ‘600 quando, su iniziativa del ministro della guerra di Luigi XIV, venne stabilito di integrare i reparti mercenari con aliquote di giovani celibi estratti a sorte in ogni provincia. Per la verità nel Regno d’Italia la motivazione era opposta: poiché vi era esuberanza di uomini delle singole classi di leva rispetto alle esigenze dell’esercito (e alle finanze dello Stato), le autorità militari stabilivano di anno in anno la percentuale dei coscritti che avrebbero dovuto fare il servizio militare per intero (cinque anni), gli altri avrebbero ricevuto un addestramento di soli quaranta giorni (questo fino al 1870, in seguito la ferma sarebbe stata di 3 anni quella intera e di 2 quella ridotta).
A differenza dei borghesi, i figli del popolo avevano un solo modo per scansare la leva, quello di rendersi irreperibili: cosicché la legge sulla coscrizione obbligatoria nel Sud divenne concausa della situazione insurrezionale poiché i renitenti potevano trovare uno sbocco alla latitanza solo entrando nelle bande dei ribelli.
Nel 1864 il numero dei renitenti venne drasticamente ridimensionato: 13.476 su 232.154 iscritti, pari al 5,8%; l’anno successivo il tasso scendeva ancora: 4,8% (10.708 su 223.548 iscritti) attestandosi poi, all’incirca, su questa percentuale.
Chiaramente questi dati ufficiali non sono veritieri e forse un criterio più valido sarebbe «con tutta probabilità quello di raddoppiare, perlomeno per il periodo che va dall’Unità ai primi anni ‘70, gli indici ufficiali offerti dalle statistiche ministeriali» (Piero del Negro, La Leva Militare), però è indubbio che vi sia stata una brusca contrazione del fenomeno e ciò anche grazie agli ampi poteri discrezionali concessi dalla Legge Pica secondo la quale potevano essere arrestati «tutti quanti s’incontrano per la campagna con l’età apparente del renitente e col viso dell’assassino». Rastrellamenti militari su vastissima scala erano sistematici con blocco totale dei paesi, con il taglio degli acquedotti, il divieto assoluto di entrata o di uscita. I paesi venivano ridotti alla fame ed alla sete fino a che tutti i renitenti non fossero stati consegnati alle autorità. Fu grazie a questi sistemi, continuati per anni, che il numero dei renitenti alla leva diminuì drasticamente.
Dopo il 1866 l’andamento degli indici di renitenza rimase sostanzialmente costante attorno al 4%.
Possiamo quindi concludere che l’imposizione della leva obbligatoria si scontrò con un forte rifiuto iniziale, ma la repressione brutale del nuovo Stato unitario, nel giro di pochi anni riuscì a circoscrivere il fenomeno all’interno di percentuali accettabili.
La volontà di sfuggire all’arruolamento forzato è fenomeno antichissimo; la mitologia ci narra come i due massimi eroi dell’antichità greca, Achille ed Ulisse, tentassero di sottrarsi alla guerra di Troia l’uno mascherandosi da donna e l’altro fingendosi pazzo. Nella lingua latina murcidus era l’appellativo derisorio che veniva dato a quanti si procuravano delle infermità per risultare inabili alle armi. Nella prima metà dell’ 800 il fenomeno aveva vasta diffusione in tutti gli eserciti europei ed i finti inabili venivano puniti con un anno di reclusione in Prussica, con detenzione da sei mesi a due anni nel Granducato di Toscana, con un’ammenda da 200 a 1.000 franchi od il carcere fino a due anni in Francia, mentre in Austria una patente del 1820 stabiliva che dovessero «essere chiamati per primi al servizio militare quei coscritti i quali dolosamente avessero allegata una malattia, un difetto fisico o altra imperfezione da cui non fossero affetti» (Federico Cortese, Malattie ed Imperfezioni...). In Italia, secondo la legge del 1863 i simulatori erano soggetti a reclusione da sei mesi ad un anno se coscritti, da 3 a 5 anni se già arruolati.
La minaccia delle pene non rappresentava però un deterrente capace di eliminare il fenomeno tant’è vero che il tenente medico Tomellini, in un testo dal titolo Delle Malattie più Frequentemente Simulate o Provocate dagli Inscritti, pubblicato nel 1875, ammetteva: «Inante ai consigli di leva sono ben pochi gl’inscritti atti al servizio che si presentano lieti e giulivi, e che deposti prontamente gli abiti si pongono già in attitudine militare dichiarando di non avere alcun difetto. I più (...) cercano con ogni via di ottenere la riforma. Se trovansi affetti da leggere infermità ne esagerano i sintomi, se occorre se ne procurano ad arte (...) Alcuni finalmente fingono vere e proprie malattie appoggiando l’asserzione dell’origine a documenti che uomini spudorati e senza onore rilasciano senza alcuna difficoltà».
La casistica delle simulazioni era vastissima spaziando da esempi di astuzia a casi di autolesionismo. Un espediente, a cui si ricorreva nelle campagne già all’epoca di Napoleone, e che fu ripreso dopo l’unità d’Italia, era quello di porre dei nomi femminili ai figli maschi. Sennonché i preti, che erano tenuti a mostrare i registri di battesimo ai funzionari governativi, o per collaborazionismo o per timore, all’atto del battesimo controllavano il sesso del neonato.
Da parte sua l’esercito si dimostrava estremamente deciso e determinato a scoprire i simulatori ed allo scopo riteneva lecito l’utilizzo di qualsiasi mezzo: «Nei casi in cui l’individuo si ostina, e ricusa di capitolare, e s’hanno grandi indizi di simulazione si può senza dubbio ricorrere all’applicazione di vescicanti, di ventose secche e a taglio, all’elettricità e alla doccia fredda, mezzi tutti che stancano maledettamente i simulatori» (Tomellini).
Per alcuni il rifiuto dell’obbligo di leva era così profondo da portare perfino all’automutilazione: «V’hanno giovani che hanno tanta freddezza da porre il dito sul tronco di un albero e reciderlo con un colpo di falce, e quindi chiamare al soccorso per potere all’occorrenza avere testimoni che depongano in favore dell’accidente avvenuto loro».
Il terrore che la vita di caserma ispirava ai giovani coscritti non era affatto ingiustificato. In caserma alla durezza delle esercitazioni ed ai maltrattamenti morali e fisici si univano l’isolamento dei soldati verso la società esterna e le divisioni all’interno tra le diverse provenienze regionali. Nel 1880 apparve a Genova un opuscolo dal titolo Autopsia della Vita Militare ed era firmato “R. S., ex-sottufficiale dell’esercito italiano”. Il Ministero dell’Interno vietò la sua diffusione in quanto «recante grave offesa alla dignità dell’esercito». In tale opuscolo l’atmosfera di caserma era descritta come quella di un regime disciplinare repressivo dove il comandante poteva stabilire a proprio arbitrio le pene più severe: «Prigione semplice, prigione di rigore (pane e acqua e tavolato a vece del letto), persino progressione ferri (cioè giornalmente sei ore di ferri corti e sei di ferri lunghi): e tantissime volte i comandanti si prendono la libertà di infliggere punizioni che non sono considerate dal regolamento di disciplina, come un colonnello che nel 1877 aveva inventato la ‘passeggiata di salute’, inflitta a coloro che, dichiaratisi ammalati durante la settimana, venivano invece dal medico riconosciuti di buona salute e ai quali la domenica mattina, riuniti in armi e bagagli, si facevano eseguire ottanta, novanta, cento giri intorno a una piazza ove era fabbricata la caserma».
Per le colpe più gravi vi erano le compagnie di disciplina dove il soldato poteva essere inviato con semplice provvedimento amministrativo. A partire dal 1870 vennero anche introdotte le cosiddette classi di punizione che mantenevano il soldato al proprio reparto, consegnato per un periodo di sei mesi che spesso si allungava e poteva anche triplicare, costretto a portare un particolare distintivo, veniva severamente punito ad ogni lieve mancanza. Praticamente era sottoposto ad un domicilio coatto all’interno della caserma. Non di rado il sottoposto alle classi di punizione finiva nelle compagnie di disciplina. Le cause per le quali i soldati potevano essere inviati alle compagnie di disciplina erano molto vaghe e discrezionali: innanzi tutto vi erano quei militari ritenuti colpevoli di infrazioni disciplinari non punibili dal codice militare perché lievi o non dimostrabili, gli omosessuali ed i sospetti di omosessualità, i militari rei di aver preso moglie senza il permesso del ministero della guerra, gli antimilitaristi socialisti ed anarchici. Senza dilungarsi sul trattamento dei militari sottoposti alle compagnie di disciplina ci limitiamo a riportare quanto scrisse Sylva Viviani basandosi su di una statistica diffusa nel maggio 1908 dal ministero della guerra, dalla quale risultava che in un anno su 726 puniti, 183 erano stati riformati, ossia «stroncati» per malattia; altri 10 erano stati congedati anticipatamente, sempre per ragioni di salute; 19 inviati in licenza di convalescenza di un anno dopo lunga malattia. «In totale 212 malattie gravissime nel corso i soli dodici mesi sulla piccola forza di 726 soldati» (La Pace, 16.7.1908). «Viviani aggiungeva che le malattie che più avevano infierito nel passato nelle compagnie di disciplina e nei reclusori riguardavano “l’asse cerebro-spinale”, e che erano diffuse enormemente, più che in tutti gli altri corpi, “le malattie del sistema nervoso”; c’erano fondate ragioni, dunque, per dubitare dell’esistenza di veri e propri sistemi di tortura» (Ruggero Giacobini, Antimilitarismo e Pacifismo nel Primo Novecento).
«Nel primo decennio post-unitario la giustizia militare celebra una media di otto-novemila processi all’anno, con una punto di 10.549 nel 1864. Nel 1865 i tribunali militari emanarono 146 condanne a morte, 3.912 condanne in contraddittorio, 2.180 condanne in contumacia, 1.975 assoluzioni, per un totale di oltre 8.000 processi, pari all’incirca al 3% della forza in armi: nello stesso anno i detenuti nelle carceri militari oscillano intorno ai 2.200/2.300» (Gianni Oliva, Esercito, Paese e Movimento Operaio). Nei decenni successivi il fenomeno si ridusse pur rimanendo molto alta la proporzione dei reati: Uno ogni 50 uomini in armi, il doppio di ciò che nello stesso tempo avveniva nell’esercito francese. Nella maggior parte dei casi si trattava di reati contro la disciplina e all’interno di questi predominavano quelli per diserzione: una media di circa 1.400 l’anno. Non mancavano neppure gli ammutinamenti: 34 nel 1880.
Accanto alle manifestazioni di indisciplina e di insubordinazione si sviluppava il fenomeno del suicidio. Nel decennio 1874/1883, secondo i dati ufficiali, si verificarono 777 suicidi, con una punta di 86 nel 1880. Non erano rarissimi nemmeno casi di soldati che, in preda a raptus di follia, sparavano ed uccidevano commilitoni o superiori. Tra questi l’innodia popolare ci ha tramandato le canzoni che narrano di Misdea, Costanzo, Scarnari, Marino, ecc., tutti quanti condannati alla fucilazione tra il 1884 ed il 1885. Misdea, nella primavera del 1884, in un raptus di follia esplodeva cinquanta colpi di fucile uccidendo cinque commilitoni e ferendone gravemente altri sette; Costanzo l’anno successivo sparava ed uccideva il proprio caporale ed altri due commilitoni. In un’epoca in cui il dibattito sull’abolizione della pena di morte era di piena attualità, il caso Misdea fu occasione per la stampa reazionaria di svolgere una calorosa campagna antiabolizionista. Commentava Luigi Lucchini: «Gli apostoli del patibolo non si chetarono, fecero balenare agli occhi la ragion militare, la disciplina dell’esercito, le esigenze di una giustizia che deve essere soprattutto l’espressione della forza e del rigore» (L. Lucchini, Soldati Delinquenti: Giudici e Carnefici). Da parte sua L’Illustrazione Italiana, riferendosi al caso Costanzo, invocava le guerre coloniali: «Benedetta l’Africa che ci dà l’occasione di far uscire il nostro esercito dal torpore delle guarnigioni!» (22.2.1885).
Carlo Cattaneo aveva scritto: «Dio toglie all’uomo mezza anima quel dì che lo fa schiavo, e gli toglie tutta l’anima quel dì che lo fa soldato; perché al soldato non è nemmen lecito lagnarsi delle infamie che gli fanno commettere. Lo schiavo può avere la ragione e la coscienza; può avere anche i lamenti e le maledizioni; il soldato non ha che l’onore e l’ordine del giorno» (C. Cattaneo, Dell’Insurrezione di Milano del 1848).
In Italia la visione dell’esercito inteso come strumento della politica reazionaria e repressiva attingeva ad una tradizione tipicamente risorgimentale. Erano stati gli eserciti permanenti al servizio dell’impero asburgico e delle varie monarchie che avevano represso i moti, imposto la censura, soffocato il dibattito politico, costretto alla clandestinità od all’esilio gli intellettuali rappresentativi della coscienza nazionale. Non ci potevano essere dubbi, ad impedire l’unità nazionale era stata «la soldatesca di 400.000 gladiatori, messa ad arbitrio dell’uno o di pochi, serva sempre dell’altrui volere» (C. Cattaneo, Considerazioni).
D’altro canto la scarsa efficacia, dimostrata nel corso del Risorgimento dagli eserciti permanenti a confronto delle brillanti operazioni condotte dalle truppe volontarie ed irregolari si traduceva nella convinzione che la difesa nazionale non sarebbe dovuta dipendere da eserciti regolari, ma garantita dal concorso di tutto il popolo in armi. Lo stesso Garibaldi non nutriva dubbi in merito: «La classe dei contadini forma il nerbo dell’esercito dando ad esso la maggior parte della forza bassa (...) e gli uomini del ventre sanno modellarla talmente a loro modo che ne fanno ciò che vogliono. Questi poveri contadini, una volta vestita l’assisa del soldato, servono ciecamente, e colle vuote parole d’onore del soldato, d’onor militare, d’onor della bandiera, colla paura dei castighi e della fucilazione si portano a combattere indifferentemente amici e nemici» (G. Garibaldi, Scritti e Discorsi Politici e Militari). L’eroe dei Due Mondi considerava questi eserciti «un’istituzione perniciosa – poiché – chi governa con tale terribile strumento nelle mani vuol essere ubbidito governando bene o governando male. Quindi l’esercito non servirà solo a combattere i nemici esterni, ma combatterà pure il proprio popolo quando ne abbia ordine dall’imperante». In altra occasione, in seguito ad un eccidio compiuto a Brescia nel maggio 1862, Garibaldi scriverà: «Io non conosco ancora il numero esatto dei morti e dei feriti della strage di Brescia. So che vi sono ragazzi morti e ragazzi e donne ferite (...) Soldato italiano, io non voglio credere che soldati italiani possano aver ammazzato e ferito donne inermi e fanciulli. Gli uccisori dovevano essere sgherri mascherati da soldati! E chi comandò la strage... Oh, io lo proporrei per il boia... E proporrei ai bresciani di innalzare un monumento a Popoff, ufficiale russo, che ruppe la sciabola quando gli domandarono di caricare il popolo inerme di Varsavia». (Il Diritto, 20.5.1862).

“Né un uomo, né un soldo”

Negli ultimi anni dell’800, quando in Italia si affermano le prime organizzazioni del movimento proletario, il rapporto fra esercito e paese appare quindi già ben delineato: da un lato il tentativo di rifiuto alla coscrizione obbligatoria si può dire che sia stato già debellato attraverso una sistematica repressione e sostituito, nella coscienza collettiva, da una rassegnata accettazione di tale tappa necessaria della vita maschile; dall’altro lato la stragrande maggioranza della popolazione, anche se con motivazioni diverse, si dimostra estranea ed ostile ai miti del militarismo. Non può quindi stupire se nei primi documenti ufficiali del movimento operaio si ritrovino tematiche comuni a tutte le correnti del pensiero democratico: denuncia degli eserciti permanenti, rovinosi per la pubblica finanza e pericolosi per la libertà, anche se la denuncia del militarismo assume un connotato di classe e di accusa del suo uso come strumento di repressione antiproletaria; per quanto la democrazia radicale, per alcuni aspetti, lo avesse già anticipato.
Nella primavera del 1885 i dibattiti parlamentari sulla spedizione di Massaua e sulla politica coloniale del governo coinvolgono i gruppi dirigenti del movimento proletario per una prima riflessione sul problema del militarismo. Non ci saranno inviti alla mobilitazione ed indicazioni di lotte rivolte al proletariato, la battaglia antimilitarista si svolgerà tutta all’interno delle istituzioni. Ma a merito del movimento socialista dobbiamo dire che sarà l’unico ad opporsi all’avventura africana, mentre democratici e radicali aderirono alla teoria della “missione civilizzatrice”.
È Andrea Costa che, seppure con argomentazioni non rivoluzionarie, chiede il ritiro immediato dei soldati dall’Africa: «L’Italia che lavora è assetata di giustizia, è assetata di libertà, è assetata di cultura, e come base di ogni suo miglioramento intellettuale, politico e morale vuole il miglioramento delle sue condizioni economiche: perciò vede con orrore sprecato il patrimonio pubblico nelle facili conquiste delle sabbie africane, vede con orrore mandati colà i suoi figli più forti (...) Richiamiamo di conseguenza le nostre truppe dall’Africa, dove le abbiamo mandate con tanta leggerezza; e prima di pensare di portare la civiltà in casa d’altri, sbarazziamoci noi di ciò che ci resta di un tristissimo passato e rivolgiamo tutta la nostra forza, tutta la nostra energia alla soluzione di quello che è il tormento e l’orrore del nostro secolo: la questione sociale» (7.5.1885).
Dalla disfatta di Dogali, dove i 500 della colonna De Cristoforis vennero annientati, la maggioranza parlamentare traeva spunto per chiedere crediti straordinari al fine di preparare una massiccia reazione. Mentre un altro tradizionale antigovernativo, il radicale Felice Cavallotti, si allineava docilmente al potere: «I paesi non vivono soltanto di pane e benefici materiali. I paesi vivono anche di onore» (3.2.1887), ancora una volta Andrea Costa presentava un ordine del giorno di netta opposizione. L’impresa africana «incostituzionale nei suoi primordi, è diventata oggidì disastrosa e per le vite che è costata e per l’erario (...) e ciò in momenti in cui l’Italia ha bisogno di convergere tutte le sue forze al suo sviluppo economico e morale e al miglioramento delle classi lavoratrici (...) il prestigio militare e l’onore della bandiera sono i soliti pretesti con cui tutti i governi cercano di far passare le loro imprese avventurose; deplorando i poveri fanti d’Italia, caduti lontano dalla patria per una causa che non è loro, come non è quella della vera civiltà, invita il Governo a richiamare dall’Africa nel più breve tempo e nel migliore modo possibile le truppe italiane colà rimaste». Andrea Costa concludeva poi il suo discorso con quella netta affermazione di rifiuto di ogni tipo di avventura militarista: «Noi non vi daremo né un uomo né un soldo».
Alle prese di posizioni ufficiali da parte del socialismo seguirono poi mobilitazioni e manifestazioni di piazza nelle maggiori città italiane per iniziativa di organizzazioni socialiste, anarchiche ed anche repubblicane. Ma il dato di fatto importante è determinato dal netto rifiuto, espresso dal movimento socialista, della guerra di espansione e dei crediti militari.
Al congresso di Milano del 1891, l’anno precedente alla nascita ufficiale del Partito Socialista, venne redatto il primo documento ufficiale antimilitarista. Il documento si ispirava a quanto era stato approvato al congresso internazionale di Parigi del 1889: gli eserciti permanenti erano stigmatizzati come «negazione di ogni regime democratico e repubblicano (...) espressione militare del regime monarchico e oligarchico-capitalistico (...) strumento per colpi di Stato reazionari e per l’oppressione sociale». Nel documento veniva affermato che la pace rappresenta «la condizione prima e indispensabile di ogni emancipazione operaia», richiedeva l’eliminazione degli eserciti permanenti e l’introduzione dell’armata «formata da tutti i cittadini validi organizzati per regioni», mentre considerava la guerra stessa come conseguenza inevitabile del capitalismo.
Basandosi su questi concetti il documento di Milano stabiliva:
«1 – Fare una continua ed attiva propaganda contro i dannosi effetti del militarismo e contro i sentimenti patriottici e nazionali che ne formano il pretesto, nonché contro l’insegnamento morale della gloria e dell’onor militare;
«2 – Rifiutarsi di partecipare a qualunque manifestazione che possa giovare a mantenere nella popolazione i pregiudizi e le influenze militari;
«3 – Educare la gioventù operaia ai sentimenti della fratellanza e della solidarietà, affinché sotto le armi i giovani possano resistere all’influenza demoralizzatrice dello spirito militare e non siano più un cieco strumento della disciplina e della tirannia;
«4 – Transitoriamente, finché durano le presenti condizioni sociali, il Congresso riconosce il dovere di agitarsi per la riduzione e l’abolizione degli eserciti permanenti, accettando il principio della nazione armata e dell’arbitrato internazionale».
Dopo il congresso di Genova la questione militarista venne affrontata soprattutto in merito all’atteggiamento che il neo Partito Socialista avrebbe dovuto assumere nei confronti delle organizzazioni pacifiste di emanazione democratico-borghese. Al dibattito che si svolge all’interno della rivista Critica Sociale presero parte i più autorevoli rappresentanti del socialismo italiano: Treves, Lerda, Turati...
Per una parte del socialismo, che trovava il suo interprete in Treves, il militarismo rappresentava un residuo della vecchia società feudale, un peso economico che gravava soprattutto sulle classi lavoratrici, ma anche sulla borghesia ostacolando lo sviluppo industriale. Scriveva Treves: «Questi enormi eserciti permanenti costano alla borghesia in linea di danno emergente – per dirla coi giuristi – tanti miliardi strappati ai lavori pubblici, ai commerci, alle industrie, alle cartelle di rendita, e in linea di lucro cessante tanti miliardi per mancato sfruttamento di milioni di lavoratori attivi, forti ed intelligenti» (30.12.1892). Di conseguenza, continuava Treves, «La borghesia è, per le sue origini e per la sua costituzione, antimilitarista (...) La grande industria, che rappresenta l’apice, la sublimazione del sistema capitalistico, è quella che ha il maggior interesse a rimandare a casa parecchi milioni di soldati che rappresentano per lei un continuo lucro cessante e danno emergente» (15.2.1893). Da tali premesse veniva prospettata l’alleanza delle organizzazioni operaie con i settori più illuminati della borghesia nella loro battaglia contro gli eserciti permanenti e la guerra, fattori che avrebbero impedito di portare a compimento la rivoluzione democratico-borghese.
Opposta era la concezione di Lerda, questi dichiarava che l’esercito rappresenta «la forza stessa del potere della borghesia» (30.1.1893). Turati, infine, sosteneva che «una verità appare a noi evidente: i socialisti possono bensì fare la loro propaganda pel disarmo, ma essa, all’ora che corre, non può avere nulla di comune – né la parola, né il significato, né il corpo, né lo spirito – con la propaganda pel disarmo fatta dai non socialisti» (1.2.1893). Anche la richiesta dell’abolizione dell’esercito e la sua sostituzione con la nazione armata veniva guardata da Turati con scetticismo; la cosa avrebbe potuto avere un valore solo «in quanto strappato al privilegio e mantenuto vivo e attivo da una forte ed intelligente organizzazione popolare militante» (30.9.1891).
All’approfondimento teorico, da parte della stampa socialista corrispondeva un impegno attivo nella propaganda, nell’agitazione, nelle denunce degli aspetti più degradanti della vita delle caserme, delle compagnie di disciplina e dei tribunali militari, ma soprattutto nelle prese di posizione riguardo all’intervento dell’esercito nell’ordine pubblico, della denuncia degli eccidi proletari compiuti dalle forze dell’ordine.
Riguardo agli eccidi proletari conviene, a questo punto, riportare una pagina della citata opera di Carlo Liebknecht: «Dappertutto e da sempre le autorità militari sono pervase dalla verità capitalistica secondo la quale dietro ogni sciopero sta in agguato l’idra della rivoluzione. Di conseguenza l’esercito è sempre pronto a sbaragliare gli indisciplinati schiavi dei capitalisti con i fendenti delle sue sciabole e i tiri dei suoi fucili dove non siano immediatamente sufficienti il pugno, la sciabola e il revolver della polizia nei confronti dei cosiddetti eccessi degli scioperanti. E ciò vale naturalmente per tutti i paesi capitalistici; e nella misura più sfrenata anche per la Russia, che non essendo ancora interamente capitalistica nel suo complesso (...) non può essere considerata un caso tipico. Seppure sotto questo profilo si trovino in testa l’Italia e l’Austria, è tuttavia della massima importanza ai fini della valutazione storica della forma attuale repubblicana in presenza del modo di produzione capitalistico sottolineare costantemente che, se si prescinde dall’Inghilterra, in nessun altro paese la soldataglia si è dimostrata così volonterosa ed ha infierito in modo altrettanto cruento e spietato per schiacciare gli scioperi nell’interesse dei capitalisti come negli Stati semi o interamente repubblicani, come in Belgio e in Francia, con i quali possono ben reggere il paragone gli Stati più liberi del mondo, la Svizzera e l’America».
Nonostante un aspetto del tutto tralasciato dal Partito Socialista fosse quello della penetrazione all’interno dell’esercito attraverso l’organizzazione dei proletari in divisa, il governo si preoccupava dell’«attività di propaganda contro l’esercito» che minacciava di minare «le più salde fondamenta dello Stato». Così il Ministro di Grazia e Giustizia, il 4 giugno 1894, inviava a tutti i procuratori generali presso le corti di appello la seguente circolare riservata: «Non dubito che l’autorità giudiziaria, d’accordo colle autorità militari e politiche, saprà in ogni evenienza adempiere scrupolosamente e con energia l’ufficio che le compete, di valersi dell’azione penale per rendere vano, coi mezzi legali, sia di procedimento che di punizione, qualunque criminoso mezzo di propaganda fatta a voce o per iscritto, o per mezzo della stampa, la quale tenda ad indurre i militari alla violazione dei loro doveri di fedeltà e di disciplina».
La magistratura però, per quanta buona volontà mettesse nell’adoperarsi a reprimere ogni forma di indisciplina proletaria, aveva le mani legate proprio dalla legge borghese. La Corte di Cassazione, già l’anno precedente, nella sua sentenza del 13.11.1893, aveva espresso questa sua impotenza nei seguenti termini: «Perché sussista il delitto preveduto dall’art. 126 codice penale (vilipendio delle istituzioni costituzionali – n.d.r.) in confronto dell’esercito, non basta il solo biasimo della sua organizzazione, ma vuolsi l’attacco contro di esso come istituzione; i biasimi alla rigorosa disciplina, che non è che una manifestazione organica militare, non possono risalire all’ente esercito come istituzione costituzionale». Ma la lacuna non tardò ad essere colmata e con la legge 315 del 1894 venne stabilito che: «Chiunque per mezzo della stampa, o di qualunque altro segno figurativo indicato dall’art. 1 della legge 26 marzo 1848, istiga i militari a disubbidire alle leggi, od a violare il giuramento dato o i doveri della disciplina, od espone l’esercito o l’armata all’odio o al disprezzo della cittadinanza, è punito con la detenzione da tre a trenta mesi e con la multa da lire trecento a tremila» (Art. 2).

(Continua al n. 56)








Storia ed economia del Brasile

Rapporto esposto alla riunione di Genova, maggio 2003

Breve richiamo storico

Il Brasile fu scoperto, ovvero, entrò nella sfera economica degli Stati europei sulla scia dei viaggi che impegnavano sul finire del 15° secolo le due grandi potenze marinare dell’epoca, Spagna e Portogallo, nella ricerca di una via diretta per grandi traffici marittimi verso l’India, la Cina, il Giappone. Queste cercavano un’alternativa a quella praticata dai veneziani per mare fino alle coste libanesi e da lì via terra attraverso deserti, imperi mongoli e persiani inaffidabili: era un un viaggio molto rischioso, lungo, costoso e quindi poco adatto a commerci su grande scala. Il grande sviluppo della cantieristica navale, di bussole via via sempre più affidabili, dei primi ottanti, perfezionati poi in sestanti per il calcolo della latitudine, ovvero l’altezza sul meridiano di un punto della superficie terrestre rispetto l’equatore, e non per ultimo delle armi da fuoco furono le basi tecniche che spinsero il capitalismo mercantile a finanziare viaggi di esplorazione sempre più lontani. Per l’invenzione dell’orologio da marina, necessario per calcolare con esattezza le coordinate del punto nave, bisognerà aspettare gli Inglesi un secolo più tardi.
In particolare i portoghesi cercavano di raggiungere l’India e l’Oriente costeggiando l’Africa; nel 1488 Bartholomeu Dias completò l’esplorazione delle coste atlantiche dell’Africa raggiungendo quello che fu poi chiamato Capo di Buona Speranza e nove anni dopo Vasco da Gama giunse in India passando a sud dell’Africa, ponendo così le basi dell’impero coloniale e commerciale dei Portoghesi nell’oceano Indiano. Viaggio lungo ma relativamente sicuro considerando gli scali dove far rifornimenti e commerci di ogni genere, compreso quello degli schiavi che iniziò ben presto.
Ma un’altra ipotesi per giungere ai mercati indorientali in modo più rapido era quella verso ovest, via mare oltre lo stretto di Gibilterra ed era sostenuta dal medico cartografo fiorentino Paolo Dal Pozzo Toscanelli. Questi tramite suoi studi, che però erroneamente consideravano un diametro terrestre molto inferiore, ed un’estensione dell’Asia di molto superiore al reale, disegnò una carta navale secondo la quale un viaggio diretto via mare senza scali intermedi era fattibile con le conoscenze ed i mezzi a disposizione in quel tempo. In sostanza aveva collocato il Zippangu (Giappone), conoscendone la latitudine, nell’attuale America settentrionale, a ridosso della catena degli Appalachi negli attuali Alabama e Tennessee.
Cristoforo Colombo fece sua questa ipotesi e chiese finanziamenti per realizzare una esplorazione in questa direzione sia al Portogallo sia alla Spagna; il primo era già impegnato verso le rotte sudafricane e diffidava dell’esattezza della misura della sfera terrestre del Toscanelli, e rifiutò l’invito, mentre la seconda accettò, come noto, dopo mille esitazione e la garanzia che i capitali li avrebbero messi i banchieri genovesi e fiorentini rappresentati in Spagna da Giannetto Berardi.
La città di Palos, come tributo dovuto alla corona spagnola, avrebbe sostenuto i costi tecnico-organizzativi: in sostanza per Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona fu un appoggio a costo zero, con tante generosissime promesse in caso di successo, segno anche questo di quanto poco credito godessero queste ipotesi di esplorazione.
La spinta decisiva fu forse data dal tentativo di recuperare terreno rispetto al Portogallo dopo il ritorno di Dias ed il successivo allestimento della flotta per Vasco de Gama.
C’è da dire che quello che fu definito “il fortunato errore” del Toscanelli ci permette una breve considerazione a margine delle scoperte scientifiche che si possono “smarrire” perché non trovano un’applicazione pratica continua nel tempo. Partendo dalla considerazione che la terra è sferica l’esatto diametro terrestre fu calcolato da Eratostene di Cirene intorno al 250 a.C. con un errore di soli 300 Km rispetto alle moderne misurazioni, un niente, dati i tempi. In quella Alessandria d’Egitto che era il centro delle scienze dei paesi mediterranei aveva lavorato anche Archimede di Siracusa, coetaneo di Eratostene. Il modo con cui impostò i suoi semplici ragionamenti e misurazioni è anche la soluzione per il calcolo della latitudine.
Questa, come tante altre scoperte, rimase vincolata alle esigenze pratiche del sistema di produzione esistente. Affidata alla ristretta cerchia dei sacerdoti-custodi delle scienze, si perse principalmente perché non trovava diffusa applicazione e non fu trasferita nel tempo nella memoria sociale. Concorsero anche sfortunati incendi e distruzioni di ogni genere. Al momento del bisogno si dovette ricominciare da zero.
Occorre precisare che il continente Nordamericano era già stato scoperto in precedenza da navigatori Vichinghi nell’anno 1000, guidati da Leif Erikson, “Figlio di Erik il Rosso”, scopritore nel 984 della Groenlandia, i quali, percorrendo una rotta molto a nord, passando dall’Islanda e dalla Groenlandia, giunsero a Vinland sulle coste canadesi dove ora c’è Quebec nella baia di San Lorenzo, ma non vi si insediarono stabilmente.
È accertato che anche il navigatore veneziano Antonio Zeno alla guida di un convoglio di 12 navi, armate da Henry St. Clair signore delle Orcadi e Cavaliere del Tempio, arrivò nel 1398 partendo dalle Orcadi fino ai banchi di Terranova e nella Nuova Scozia. Effettivamente si trovarono queste rotte ma erano praticabili per la loro latitudine solo in determinati e ristretti periodi dell’anno a causa del clima troppo freddo e del pericolo degli iceberg: il modernissimo Titanic nel 1912 affondò per un urto contro uno di questi navigando su di una rotta molto più a sud. Questa spedizione però non determinò, come le precedenti, insediamenti stabili e continue relazioni con le terre d’origine; un conto era scoprire nuove terre per completare il quadro geografico terrestre, un altro era la definizione di agevoli rotte commerciali verso l’oriente
Colombo salpò da Palos il 3 agosto 1492 e vi ritornò portando la notizia della scoperta, avvenuta in modo molto fortunoso, di nuove terre, peraltro prive delle tanto attese ricchezze, il 15 marzo 1493.
Pochi mesi dopo ripartì con 17 navi per il secondo viaggio che non era più soltanto di esplorazione ma di vera e propria conquista in nome e per conto dei re di Spagna. A questo punto i Portoghesi, pur continuando sul progetto verso sud-est, trovarono anche i capitali per rivolgersi verso ovest.
Allo scopo di evitare conflitti con la Spagna, già subito nel 1493, si definì la “linea alessandrina”, così chiamata perché stabilita da papa Alessandro VI sul principio “A Dio le anime, la terra al Re”, che fissava una linea di demarcazione in quella parte dell’Atlantico fra gli imperi coloniali portoghese e spagnolo: le nuove terre scoperte entro le 100 miglia ad ovest delle Azzorre, già avamposto portoghese nell’oceano, ai portoghesi, oltre agli spagnoli. (È quell’Alessandro VI, al secolo lo spagnolo Rodrigo Borgia, eletto papa nel 1492, che si rese ben presto noto per le dissolutezze e il nepotismo che sollevarono lo sdegno e le proteste del Savonarola).
Secondo questo principio il papato si assicurava la protezione dei due eserciti per i suoi agenti, i missionari, e la possibilità di costituire in sicurezza delle missioni che erano e sono vere e proprie unità produttive, oltre che di evangelizzazione, che, tutt’ora funzionanti, in una misura non esigua versano anche loro un obolo al soglio di Pietro.
L’anno successivo, 1494, su pressione portoghese, il trattato di Tordesillas sposta questa linea a 370 miglia oltre le Azzorre, grosso modo sul meridiano dove ora c’è la città brasiliana di Belem sulla foce del Rio delle Amazzoni presso il confine a nord dell’attuale Brasile. In questo modo la Spagna, presumendo allora che verso sud non ci fosse nulla, si riservava il controllo, per lei ben più importante, delle rotte e degli eventuali passaggi verso ovest per l’Oriente.
In base a questo trattato il portoghese Pedro Alvares Cabral nel 1500, navigando con rotta a sud-ovest, scopre il Brasile e lo assegna a Giovanni II re del Portogallo, nonostante l’anno precedente Pinzon, il delegato spagnolo nelle esplorazioni di Colombo, giungesse all’estrema punta est del Sudamerica sull’Atlantico presso l’attuale Natal e da lì risalì, costeggiando verso nord il continente fino a Santo Domingo, dove fu poi insediata la base principale per la conquista spagnola delle Americhe. Ed è per questo trattato che il Brasile è l’unico paese del Sudamerica dove si è diffusa e conservata la lingua portoghese.
In questo contesto Francia ed Olanda, altre potenze marinare ma inferiori, giocano un ruolo minoritario in queste prime esplorazioni, anche perché ancora impegnate in assetti statali incerti, e cercheranno in seguito di occupare zone residue mentre gli inglesi in quel periodo erano ferocemente impegnati in lotte dinastiche; appena terminate, con il consolidamento della dinastia dei Tudor, si rivolsero verso le coste dell’America settentrionale, dovendo però prima battere lo strapotere della flotta spagnola.
Il flusso delle ricchezze che dalle colonie spagnole si riversavano verso Madrid determinò ben presto sia la rapina “indipendente” sui mari dei pirati sia quella legalizzata, con tanto di “patente” di sua maestà britannica, per la “guerra di corsa”, appunto, dei corsari, inglesi e non. Un secolo più tardi si aggiunsero i “bucanieri”, in origine allevatori e piantatori europei delle Antille che, rovinati dalla dominazione spagnola, si misero “al servizio” dell’Inghilterra contro la Spagna. Buona parte del capitale originario del nascente capitalismo arriva d’oltre oceano come catena di rapine.
La dominazione portoghese, basata sullo sfruttamento delle enormi risorse naturali di quell’immenso territorio, durò fino all’epoca napoleonica quando la casa reale si rifugiò in Brasile nel 1807 per sfuggire agli eserciti francesi. Dopo la caduta di Napoleone, Pedro, l’erede al trono del Portogallo che era cresciuto in Sudamerica, non rientrò con il resto della famiglia reale nella madrepatria e convocò un’assemblea nazionale che nel 1821 dichiarò il Brasile impero indipendente sotto di lui, Pedro I. In questo modo il Brasile è l’unico Stato che si stacca pacificamente dalla madrepatria; più che una lotta per l’indipendenza fu una apparente pacifica spartizione in famiglia tra padre e figlio. Giovanni VI in Portogallo e Pedro I in Brasile avevano un regno a testa separati da un oceano, segno questo più della debolezza e decadenza del Portogallo che della vitalità e forza del Brasile.
Nel periodo del lungo regno di Pedro II (1831-1889) si consolida l’economia basata sulla colonizzazione interna con un forte aumento della popolazione dovuta alla massiccia immigrazione europea – mentre la tratta degli schiavi che durava da secoli fu abolita nel 1850 – ed alle esportazioni di prodotti alimentari e materie prime.
La forma monarchica resistette fino alla rivoluzione del 1889, ottenuta anche con l’appoggio degli ex-schiavi che erano stati completamente affrancati l’anno prima; fu sostituita con quella repubblicana, guidata però da liberali e dalla borghesia terriera, che si era opposta all’abolizione della schiavitù.
Al tempo della grande crisi economica mondiale nel 1930 il capo dei liberali Vargas si impadronì del potere, attuò modifiche in senso autoritario alla Costituzione, mise fuori legge gli estremisti di sinistra e i fascisti, soppresse ogni forma di “libertà democratica” inaugurando il lungo periodo di continue successioni fra dittature civili, colpi di Stato e governi militari che hanno segnato profondamente, anche nel senso della lotta di classe, la storia del moderno Brasile.
Nel 1985 viene eletto il primo “civile” alla direzione del governo federale (il Brasile è una Federazione fra 26 Stati ed un Distretto molto indipendenti fra loro) e nel 1988 viene adottata una nuova Costituzione in sostituzione di quella imposta dai precedenti governi militari.

Prime incursioni nella sconfinata foresta

Il Brasile, privo dei grandi tesori immaginati da Colombo e soci, nasce come potenza agroalimentare e di prima trasformazione e nel tempo ha vissuto una serie di “cicli economici” di vari prodotti agricoli e di materie prime, destinati sempre all’esportazione. Il suo territorio è stato di conseguenza modellato nei secoli secondo una struttura per zone agricole e di trasformazione indipendenti, una sorta di arcipelago agroalimentare e solo recentemente è diventato un’economia a valenza industriale, ponendosi al decimo posto nella graduatoria dei paesi più industrializzati.
“Senza zucchero, niente Brasile” recitava un vecchio adagio dei colonizzatori portoghesi, che veniva meglio precisato aggiungendo: “Senza schiavi, niente zucchero”. Il Brasile in effetti nasce con lo sviluppo estensivo delle piantagioni di canna da zucchero, destinata ovviamente al mercato europeo, cui si dovevano subito affiancare gli impianti di prima trasformazione e raffinazione della canna per ottenere i pani di zucchero, prodotto alimentare finito, compattato e immediatamente destinato al commercio per il consumo, oltre che ai distillati alcolici della fermentazione della canna, il rhum.
Questa caratteristica economica di produzione e trasformazione, dovuta essenzialmente alla grande distanza, al lungo viaggio via mare ed alla sua fattibilità secondo le stagioni, darà un’impronta all’economia brasiliana che si riverbererà nei tempi successivi considerando che il grande vantaggio dell’agricoltura brasiliana risiede nella enorme disponibilità di spazio agricolo.
A tutt’oggi degli otto milioni e mezzo di chilometri quadri del paese, soltanto 550 mila chilometri quadri sono messi a coltura, corrispondenti a solo il 7% dell’intero territorio, con un disboscamento medio, a scapito della foresta pluviale amazzonica, di “solo” 22.264 chilometri quadri all’anno. Il paese, grande quasi quanto l’Europa, è abitato, da circa 170 milioni di persone.
Dal punto di vista morfologico il Brasile consiste essenzialmente di un vasto altopiano costiero che degrada lentamente verso le pianure interne e verso nord. È compreso tra l’equatore e ben oltre il tropico australe, con un clima che va da quello equatoriale, al sub-equatoriale caldo-umido a quello temperato.
Ovviamente, essendo zone collinari scarsamente abitate da popolazioni di cacciatori-raccoglitori e poco propense al duro lavoro delle piantagioni, si “dovette” far ricorso all’introduzione massiccia di schiavi, principalmente dalla sponda opposta dell’Oceano, dall’Africa. La razza mandinga del Senegal fu considerata la migliore, la più idonea al trasferimento e al lavoro coatto perché più forte, resistente e più facilmente adattabile viste le similari condizioni ambientali degli opposti siti geografici. Ma alla bisogna, purché forti, robusti e sensibili alla frusta, andavano bene quasi tutti.
Il commercio degli schiavi africani era già presente da tempo. Una serie di bolle papali tra il 1442 e il 1456, in epoca di papi ed antipapi, diedero al portoghese Enrico il Navigatore il nullaosta per la sottomissione dei popoli africani in cambio di una “sicura” loro conversione al cristianesimo, secondo il succitato principio delle anime a Dio e la terra ai re.
Dopo la scoperta delle Americhe il commercio degli schiavi si espanse seguendo la rotta del cosidetto “Triangolo”. Le navi partivano dall’Europa con carichi di ferro, acquavite, tessuti sgargianti, monili di poco conto, armi da taglio e raramente cavalli e facevano scalo nel tratto della costa africana fra i porti di St. Louis in Mauritania e Gorée-Dakar in Senegal e più a sud ad Accra nel Ghana, Luanda e Benguela in Angola. Le merci portate servivano per scambi con oro, avorio e naturalmente schiavi. Da lì ripartivano attraversando l’Atlantico in 17 giorni per giungere a Pernambuco, l’attuale Recife, in Brasile, dove rifocillati, reidratati e sommariamente curati venivano venduti sul mercato locale. Gli schiavi diretti verso le isole caraibiche e poi negli Stati dell’Unione dell’America del Nord non facevano scalo in Brasile ma compivano una traversata diretta verso il “mercato” finale. Il triangolo si chiudeva quando, venduti gli schiavi, le navi ripartivano per l’Europa carichi di zucchero, rhum e caffè.
Tutto efficiente e regolare dal punto vista del capitalismo mercantile, da quello religioso perché gli schiavi venivano anche convertiti e per la sicurezza dei viaggi in quanto appositi regolamenti stabilivano il numero massimo degli schiavi che ciascun tipo di nave poteva trasportare. Se qualche comandante viaggiava in sovracarico ed era fermato per un controllo veniva pesantemente multato e gli schiavi sequestrati, ma sovente i poveracci finivano in mare incatenati con grossi pesi a gruppi di tre o quattro perché non fossero “presi in carico” dalle navi militari a ciò preposte.
Un’agenzia dell’Onu per lo studio su razzismo e schiavitù, in una conferenza internazionale tenuta a Durban (Sudafrica) nel settembre 2001, ha stimato in oltre 14 milioni di individui ridotti in schiavitù tra il 1500 ed il 1850; di questi il 25%, cioè 3,5 milioni, perì durante il trasporto per malattie, naufragio, punizioni, fughe suicide e alleggerimenti del carico. Si stima che in quell’arco di tempo in Brasile siano arrivati da 3,5 a 5 milioni di africani, un terzo del totale degli schiavi “trattati”.
Al ciclo dello zucchero è successo quello dell’oro e dei legnami pregiati, poi il cotone, il caffè, il cacao ed il caucciù ed un’altra decina di prodotti. Ad eccezione dell’oro sono tutti prodotti agricoli che richiedono una trasformazione e compattazione prima del trasporto, fatto che rafforzava il carattere agroalimentare con varie fasi di trasformazione meccanica.
Vista la continua forte richiesta dei prodotti alimentari di base le classi dirigenti brasiliane che si sono succedute hanno provveduto ad una minima industrializzazione dell’economia, principalmente come appoggio al settore agricolo, puntando invece sull’importazione dall’estero dei prodotti necessari a tutti i livelli basandosi su un favorevole prezzo del mercato delle sue merci.
Con la successione dei cicli agroalimentari si è consolidato nella pratica uno speciale regime di monocoltura, o di coltura privilegiata, poiché nei vari periodi ci fu sempre un prodotto particolarmente richiesto che deteneva la schiacciante maggioranza rispetto gli altri, mentre i precedenti, pur riducendosi di importanza, continuavano con livelli di produzione ridotti. Questo retaggio durò secoli: basti pensare che nel 1959 il caffè rappresentava il 57% di tutte le esportazioni; le gelate della Florida del 1963 determinarono la coltura delle arance sia per frutto sia per succo concentrato e surgelato, mentre ora si punta sul grano e la soia di cui il Brasile è il secondo esportatore mondiale.
Questa situazione ha segnato profondamente il territorio brasiliano: i diversi cicli si sono svolti in aree differenti di nuovo dissodamento; gli “innovatori”, vista la grande disponibilità di terreno utilizzabile e puntando sulla fertilità naturale delle terre vergini, non si sono mai preoccupati di riconvertire lande già agricole, eccetto per lo Stato di San Paolo che è la regione economica più dinamica di tutta la Federazione, e si sono messe a coltura sempre nuove aree a detrimento delle foreste vergini, il cui legname sovente veniva bruciato per la sua sovrabbondanza o perché inadatto all’esportazione. L’incendio della foresta è un metodo sbrigativo per ottenere aree coltivabili utilizzando anche il povero potere fertilizzante delle ceneri.
Questa impostazione, ritenuta la più efficace, economica e redditizia – ovviamente dalle classi dei proprietari fondiari e dai capitalisti agrari – fu anche adottata nella colonizzazione degli Stati del Nord America, dove venivano messe a coltura nuove terre quando quelle in uso avevano esaurito la loro fertilità accumulata nei millenni. Si spostava quindi la frontiera del “mondo civile” sempre più ad Ovest a scapito delle popolazioni indigene che, volenti o, quasi sempre, nolenti, di fronte ad incomprensibili, perché mai visti, decreti governativi o alle più comprensibili fucilate, dovettero retrocedere. Questo sistema è ancora oggi molto ben in uso anche nel Brasile dell’antiglobalpresidente Luis Ignacio da Silva, ex sindacalista, “Lula”, per gli amici.
La terra di molte regioni brasiliane è così rimasta come un relitto dei precedenti cicli agro-economici, non più redditizia per l’economia.
Il paese quindi per secoli e fino alla prima metà del XX secolo è formato da un aggregato di cellule agroesportatrici giustapposte, un mosaico di regioni quasi autonome, formate a l’occasione secondo le esigenze di uno dei cicli e più direttamente dalle esigenze dello sviluppo del capitalismo europeo e nordamericano.
La grande disponibilità di territori vergini scarsamente popolati è stata la causa della relativa tranquillità e stabilità delle classi terriere e mercantili del Brasile che hanno potuto arricchirsi e sonnecchiare senza tanti problemi, ma è anche stata la sua zavorra storica nel ritardato sviluppo della grande industrializzazione capitalistica.
A scala regionale la geografia di questa produzione, per cicli in aree diverse e non sempre contigue, si legge ancora nella struttura dei trasporti interni realizzata per unire ciascuna regione produttrice ai mercati esterni tramite strade, ferrovie e propri scali marittimi e solo in misura minore, visto le grandi distanze, per collegare fra loro direttamente i vari bacini economici interni. Un’utilizzazione territoriale di questo tipo è chiamata “per corridoi di esportazione” che sfociano dai bacini produttivi nei più importanti porti di Santos, Paranaguà e Vitòria/Tubarao; lo schema è più semplice per il ciclo del cacao la cui regione di produzione è immediatamente a ridosso del porto di Ilheus.
Il legame diretto delle regioni agroalimentari con i mercati esterni rendeva ininfluente una rigida ed articolata organizzazione nazionale e le giustapposizioni delle varie entità regionali, che risolvere in loco tutte le questioni pratiche, hanno fatto del territorio brasiliano un arcipelago di entità a se stanti senza alcuna logica comune coerente.

Lo sviluppo demografico

Il Brasile è il quinto paese mondiale per superficie, grande quasi l’Europa intera, 2,5 volte l’India o 28 volte l’Italia. È anche quinto per popolazione che è stimata attualmente a oltre 170 milioni con un indice di urbanizzazione molto alto: dal 62% degli Stati che compongono il raggruppamento Nord all’89% del Sudest. Il ritmo dell’incremento demografico è raffrontabile a quello degli Usa per i caratteri comuni avuti in passato.
All’epoca della sua indipendenza, nel 1822, la popolazione brasiliana era di 3 milioni contro i 10 degli Usa; nel 1850 (fine della tratta degli schiavi) passa a 7 e a 18 milioni nel 1900, mentre negli Usa nello stesso anno sono già in 76 milioni. Nel 1950 è di 54 e di 147 milioni nel 1991 (negli Usa nel 1990 sono 249 milioni) e nel 1998 sono 162 milioni. La linea di tendenza è stata finora di triplicare la popolazione ogni 50 anni!
L’incremento della popolazione tra la fine del ventesimo secolo e i primi 20 di quello successivo è prodotto da una massiccia immigrazione europea. Foreman-Peck, in “Storia dell’economia internazionale dal 1850 ad oggi” così riferisce in merito: «In Brasile ed Argentina, le oligarchie dei proprietari terrieri si convinsero che i sussidi alla manodopera erano in grado di espandere l’offerta di lavoro in modo permanente attraverso il versamento di un tantum di sovvenzione per il viaggio (...) Tra il 1885 ed il 1913 il governo di San Paolo e quelli federali destinarono 11 milioni di Sterline per le sovvenzioni all’immigrazione».

Immigrazione lorda (cioè che non conta quelli che sono ripartiti)
Unità
1870-1880 194.000
1880-1890 449.000
1890-1900 1.198.000
1900-1910 662.000
1910-1920 815.000


Il totale lordo fra il periodo 1870-1920 (50 anni) è di 3.318.000 unità. Di questi il 30% sono italiani, il 29% portoghesi, 14% spagnoli e 5% tedeschi. Dalla stessa tabella leggiamo che nello stesso periodo negli Usa il saldo migratorio è di 17.775.000 uomini, ovvero 5 volte più intenso.
L’immigrazione intercontinentale si riduce fortemente, causa la seconda guerra mondiale, tra il 1940-1950, ma riprende subito portando il tasso di incremento annuo della popolazione al 3%, causa anche un migliorato tasso netto di natalità e una forte riduzione di quello della mortalità, mentre il tasso di fecondità negli ultimi trent’anni, dal 1965-96, è sceso da 5,7 a 2,3 figli per femmina. Il tasso di incremento della popolazione nel periodo 1990-95 è sceso allo 1,7%.
Secondo i gruppi etnici la popolazione brasiliana è composta dal 55% di bianchi; 35% di creoli e mulatti, 11% di negri africani, altri 2%, mentre gli amerindi sono stimati in 350 mila. Dal punto di vista puramente statistico, per la componente afro-brasiliana, negri più mulatti africani, il Brasile è il secondo paese negro al mondo, dopo la Nigeria. Zumbi è il suo eroe, il suo Spartaco. Zumbi, schiavo negro fuggitivo, assassinato dalle autorità coloniali nel 1695, fu strenuo difensore del celebre quilombo di Palmares, prima repubblica libera e indipendente dell’America del Sud. I quilombos, territori autogestiti dagli schiavi in fuga, sono stati molto numerosi ed ora al centro di un problema circa la spartizione delle terre richiesta da alcune organizzazioni per la difesa dei diritti dei negri come risarcimento al lavoro di tre secoli non pagato agli schiavi. In alternativa ogni afro-brasiliano che ha avuto schiavi tra i suoi antenati avrebbe diritto, secondo queste, ad un risarcimento pari a 102 mila dollari (“Le Monde Dipl.”, novembre 1996).
Occorre precisare che le cinque macroregioni in cui si divide il paese sono in effetti degli Stati molto differenti che coesistono avendo caratteristiche economiche e sociali assai diverse: se il prodotto per abitante del Sud e del Sudest è superiore a quello del Messico, dell’Argentina o del Cile, quello del Nord-Est è simile a quello della Colombia o del Paraguay.
L’eterogeneità di questo paese-continente si può così esprimere numericamente: la regione del Nord occupa il 45% del territorio con solo il 7% della popolazione e il suo reddito pro-capite è di 1.919 dollari; il Nord-Est, fanalino di coda, si estende per il 18% del territorio, la sua popolazione è il 28% del totale ed il reddito pro-capite annuale è di appena 1.363 dollari (pari a 3,7 dollari al giorno). Il Centrovest ha il 19% del territorio, il 7% della popolazione ed il reddito pro-capite è di 2.911 dollari. Il Sud col 7% del territorio, il 15% della popolazione raggiunge un reddito pro-capite di 3.255 dollari mentre il Sud-Est sull’11% del territorio, il 43% della popolazione raggiunge un reddito pro-capite di 3.833 dollari. Il reddito pro-capite medio per il Brasile è di 2.839 dollari, ma il reddito pro-capite degli Stati del Sud-Est è di 3 volte circa quello del vicino Nord-Est, rapporto che non si è mai sostanzialmente modificato e conferma la forte eteorogeneità del paese (dati “Datasus” del 1993, riferibili ovviamente ad anni precedenti, in P.É. n°2654/2000). In questo senso i “sociologi” parlano per quel periodo di “tre Brasili”, ciascuno grosso modo di 50 milioni di persone.
Questa statistica ci dà una vaga indicazione della divisione per classi: la prima “nazione”, costituita dalle classi più ricche, ha un tenore di vita paragonabile a quello di un paese europeo con reddito medio di 6.000 dollari l’anno. La seconda, della piccola borghesia e dell’aristocrazia operaia, ha un reddito medio più basso, di solo 3.000 dollari. La terza è allo sbando e la sua sopravvivenza fuori dalle riserve e dalla foresta è affidata a quello che, eufemisticamente, è chiamato “settore informale dell’economia”, ovvero a tutte le forme di precariato compreso il lavoro minorile e le attività criminali. Nel capitalismo questo è un importantissimo settore, il suo necessario esercito industriale di riserva, funzione che si dimostra bene col procedere della generalizzata crisi capitalistica: «Se nel 1991 il 53,7% dei lavoratori era entrato nell’economia ufficiale e aveva accesso ai diritti conferiti da un contratto di lavoro, nel 2000 questa percentuale era scesa al 45%, mentre il restante 55% rimane attivo nell’economia sommersa (“Le Monde.Dipl.”, ottobre 2002).

La questione agraria

Il regime agrario risente ancora fortemente dell’originaria attribuzione della proprietà e delle cause storiche che l’hanno determinato. La conquista ispano-portoghese di tutto il Nuovo Continente è stata intesa e gestita come prolungamento della “Riconquista” della penisola iberica contro la dominazione araba. Al tempo della spedizione di Colombo gli Arabi erano ancora insediati nell’attuale regione spagnola dell’Andalusia, da cui furono definitivamente espulsi proprio nel 1492.
Anche in Brasile sono state assegnate con gli stessi mezzi e criteri di ricompensa grande estensioni di terra ai nobili e ai capitani di ventura che avevano partecipato alle varie imprese militari di qua e di là dell’oceano. Secondo imprecisati titoli e prerogative storiche i latifondisti “eredi” degli antichi colonizzatori hanno continuato ad occupare territori indigeni e demaniali e, come già scrivemmo per il vicino Venezuela, non essendoci un catasto certo e storicamente documentato, la pretesa del più forte ha sempre vinto nonostante violente rivolte degli espulsi.
Nessuna riforma agraria è mai intervenuta in Brasile a sanare né correggere questo stato di cose. Nel 1963 un timido progetto di riforma è stato subito bloccato l’anno successivo dal golpe militare del 1964. Dal ritorno alla “democrazia” nel 1985 c’è stato un gran fiorire di progetti ma nessun fatto concreto.
È continuato, consolidato e sopravvissuto nel tempo, accanto ad uno più moderno, un regime arretrato di capitalismo agrario. Questo comprende un gran numero di minifundios, ovvero piccole proprietà a carattere quasi orticolo, non sufficienti come estensione a nutrire le famiglie che ci lavorano, dai numerosi componenti. Questa è la primaria causa dell’esodo verso le città. Nei latifundios, invece, proprietà oltre i 1.000 ettari, si sprecano le terre incolte che molto spesso sono anche le migliori.
In cifre abbiamo che il 53% delle aziende hanno estensione inferiore a 10 ettari, occupano il 3% dei terreni ed impiegano il 65% dei lavoratori agricoli; all’altro estremo, l’1% delle aziende più grandi detengono il 29% delle terre ed impiegano l’1% dei lavoratori agricoli. Questa disparità ha provocato a più riprese nel tempo e provoca ancor oggi conflitti e rivolte violente di contadini senza terra, i quali, se non altro, han capito che in democrazia o sotto dittatura sono sempre condannati alla miseria.
La contrapposizione tra minifundios orticoli e latifundios per allevamenti bovini in regime di soccida, cioè con contratti collettivi, ha determinato la classica e capitalistica situazione di vedere il Brasile al terzo posto mondiale come patrimonio bovino ma dover contemporaneamente importare, nel 1989, 70 mila tonnellate di latte in polvere e da alcuni anni anche fagioli rossi, dal Messico, base dell’alimentazione brasiliana.
Volta ai mercati esteri e spinta dalle imposizioni del Fmi per saldare i suoi conti non più così smaglianti come una decina d’anni fa, l’agricoltura brasiliana si è separata su due direzioni: una basata su grandi aziende modernizzate e ben sostenute che, dirette dagli interessi delle multinazionali alimentari, fanno grande impiego di lavoratori precari, l’altra, quella relegata nei piccoli appezzamenti, sia in regime di proprietà privata sia di concessioni governative nei nuovi territori, priva di protezioni e finanziamenti, stagna al livello di sottosviluppo.
Una tabella (P.É. n° 2169/1990) “Agricoltura e spazio: 1920-1985” ci illustra l’evoluzione del comparto agricolo brasiliano a cadenza ventennale.

1920 1940 1960 1980 1985
Superficie totale
delle aree sfruttate, milioni di ha 175 197 249 369 376
Percentuale del territorio 20 23 28 43 44
Superfici coltivate, milioni di ha 6 18 28 49 52
Percentuale del territorio 1 2 3 6 6
Numero delle aziende, migliaia 648 1.904 3.337 5.167 5.834
Superficie media, ettari 270 104 75 72 65


In sintesi abbiamo che la superficie messa in vario modo a frutto passa dal 20% al 44% del totale del territorio e la superficie coltivata passa da 6 a 52 milioni di ettari cioè dal 1% al 6% sul totale. In tutto questo ampliamento abbiamo anche che il numero di aziende, in tabella non meglio definite e che quindi possiamo pensare che contempli congiuntamente la misera schiappa del povero indio con l’avanzatissima azienda meccanizzata, balza dall’iniziale 648.000 a 5.834.000. Analoga considerazione va fatta per l’estensione media delle aziende che scende dall’originario valore medio di 270 ettari ai finali 65.
Questa diminuzione potrebbe far esultare i finti socialisti e i populisti di ogni tempo e latitudine sempre pronti a battaglie contro il latifondo, soprattutto se di origine nobiliar-feudale, ma ben altre considerazioni sorgerebbero dall’analisi dei dati specificati per classi di valori come estensione che separino le varie realtà produttive.
Da altra fonte, infatti, abbiamo, solo come punti estremi della forbice: ad un estremo 500 mila grandi imprese che assicurano la maggior parte delle esportazioni, dall’altro 5 milioni di aziende che in vario modo garantirebbero il fabbisogno interno. Le 20 maggiori proprietà da sole riuniscono la stessa quantità di terra che occupano 3,3 milioni di piccoli produttori.
Secondo i «dati della Banca mondiale del 1996, lo 0,83% dei proprietari detiene da solo il 43% delle terre coltivabili, mentre 23 milioni di braccianti agricoli e di piccoli contadini vivono al di sotto della soglia della povertà. Sempre per quell’anno il raccolto del Brasile avrebbe permesso di sfamare 300 milioni di persone, ma 32 milioni di brasiliani non mangiano abbastanza e in quell’anno il governo ha speso più di 3 miliardi di dollari per importare derrate agricole» (“Le Monde Diplom.”, settembre 1997).
La crudele realtà va nel senso dell’allargamento della forbice. Ovviamente in un contesto che presenta questi estremi, i conflitti fondiari, spesso accompagnati da fatti di sangue, sono sempre stati presenti nella storia del Brasile. Ma dal 1985, con la nascita del Movimento dei lavoratori rurali senza terra, MST, da una catena di fatti episodici, spontanei ed isolati, si passa ad un vere e proprio programma per il riutilizzo dei latifondi lasciati incolti in favore di cooperative di agricoltori organizzati. Il punto di forza legale, in ambito del tutto borghese, del MST sta in un articolo della Costituzione del paese che autorizza l’esproprio delle terre agricole incolte, che secondo l’Incra, Istituto nazionale della colonizzazione e della riforma agraria, sono 153 milioni di ettari, equivalenti ai territori di Francia, Germania, Spagna, Svizzera e Austria messi insieme.
Questi latifundios improduttivi sono lasciati nell’abbandono o con un allevamento molto estensivo; spesso servono come copertura per redditizie operazioni illecite o per grandi speculazioni immobiliari, custoditi da bande di “pistoleiros”, vere e proprie organizzazioni paramilitari che collaborano con le forze dell’ordine legali per il rispetto della proprietà privata dei grandi fazendeiros, il cui forte partito detiene un terzo dei seggi in parlamento. Questo la dice lunga sulla possibilità di una radicale riforma agraria in ambito borghese.
Il MST denuncia che negli ultimi 15 anni sono state assassinate 1.654 persone fra contadini, militanti dell’organizzazione, dirigenti sindacali, religiosi, avvocati e deputati a causa del loro impegno nelle lotte per la terra, mentre la Commissione Pastorale della Terra parla dell’assassinio di 1.237 piccoli agricoltori e conferma la durezza dello scontro.
Il MST è organizzato in 21 dei 27 Stati e dichiara, nel 1996, di aver sistemato 54.218 famiglie di agricoltori su 176 fazendas incolte. Il governo centrale dichiara da parte sua di aver sensibilmente aumentato le imposte sulle terre improduttive, espropriati latifondi abbandonati, con forti indennizzi ai proprietari, e di aver così distribuito appezzamenti di terre vergini e incolte a 60 mila famiglie. Queste però, oltre a versare un contributo allo Stato, devono provvedere senza particolari finanziamenti a tutte le opere necessarie, compresa la deforestazione che spesso è incontrollata e praticata tramite incendi.
Lo sviluppo agroalimentare, poi quello industriale, non si è distribuito in egual intensità in tutto il paese, anche per le diverse condizioni climatiche ed abitative. Tendenzialmente il sud è più ricco e sviluppato del nord. Oggi in Brasile si evidenziano 5 grandi regioni economiche: il Sud-Est; il Sud il Nord-Est; la regione Centrorientale ed il Nord. Negli Stati del Sud e Sud-Est l’agricoltura è ottimamente sostenuta da complessi agroalimentari che comprendono tutti i processi produttivi conferendo un carattere di completezza a tutta l’economia. In assoluto è lo Stato meridionale di San Paolo quello più sviluppato e ricco di tutti.
Solo recentemente, dopo le tremende gelate degli anni ‘80 che hanno praticamente distrutto le piantagioni di caffè degli Stati del Sud e del Sud-Est, è partito un programma di rilocazione delle colture agricole conforme alle condizioni climatiche e delle caratteristiche chimico-fisiche del terreno, tenendo anche conto dell’andamento delle quotazioni internazionali dei prezzi dei prodotti agricoli, e quello per l’irrigazione di vasti territori destinati alla canna da zucchero.
Questa è stata anche una condizione per lanciare, sostenuto da forti finanziamenti statali, il programma “Proalcol”, un piano agro-industriale completo per la produzione di l’alcol etilico da utilizzare come riserva di energia per il trasporto, derivato dalla distillazione della canna da zucchero. Inizialmente lo scopo era ridurre l’importazione di petrolio, ma successivamente il programma è stato modificato ed ha assunto altre connotazioni.

L’affermarsi del capitalismo

La partizione economica del paese per isole autonome durò fino alla prima grande crisi mondiale. Nel 1930 il Brasile, sotto la direzione paulista di Vargas, iniziava ad emanciparsi dalla logica dei cicli agroalimentari i cui prezzi, misura del grado di dipendenza dai mercati e dall’economia mondiale, erano fissati dalle borsa merci di Londra e New York. Da questa data, e dal crollo di prezzi delle materie prime e dei prodotti agroalimentari, si apriva il periodo dell’industrializzazione ed urbanizzazione accelerata del paese, che tendeva a relegare in secondo piano il mondo rurale, il settore agroalimentare e la potente classe dei proprietari fondiari. Questo processo, puntando sull’esplosione del mercato interno, prende il via dall’ampliamento, la diversificazione e il completamento del settore di trasformazione agroalimentare e della produzione di semilavorati e di prodotti finiti destinati al consumo finale e dall’avvio della produzione manufatturiera e industriale vera e propria, sostenuta dai capitali interni e dai forti finanziamenti internazionali.
Nel tempo però, da grande paese esportatore di prodotti alimentari, è diventato, come altri che hanno avuto lo stesso percorso, paese importatore di alimenti di base per masse diseredate ed affamate.
Nell’arco di una generazione il Brasile diventa un paese fortemente urbanizzato. Se nel 1950 il 65% della popolazione viveva ancora nelle campagne, nel 1980 il 75% dei brasiliani vive nelle città. È chiaro che questo processo, uno dei più rapidi al mondo, gestito da un capitalismo giovane ed irruente, non può che avvenire se non a scapito della cosidetta “qualità della vita”, che in questo vampiresco sistema può al massimo riguardare la media e grande borghesia e non di certo gli indios urbanizzati per miseria, i proletari e i contadini espulsi dalle terre.
Le città che si formano o si ampliano a dismisura apparentemente sono belle “cartoline” con bianchi grattacieli sul mare, poiché la maggior parte di esse sono sulla fascia costiera. In effetti mantengono la medesima struttura: schiere di grattacieli e quartieri residenziali ben urbanizzati e protetti in poche fasce parallele subito a ridosso della spiaggia per le classi medioalte, i vecchi quartieri coloniali in decadenza per la piccola borghesia ed enormi periferie e baraccopoli, le favelas, sulle colline retrostanti per tutti i disperati delle classi inferiori dove, come tutti ben conoscono dalle informazioni generosamente elargite dei media, la “qualità della vita” è simile a quella di un girone dell’inferno dantesco.
Il processo di urbanizzazione continua in tutte le regioni, la popolazione rurale decresce prima in termini relativi e dal 1970 anche in termini assoluti, altro segno dell’avvenuta trasformazione dell’economia brasiliana che è balzata, tramite lo sfrenato sfruttamento proletario, ai primi posti dei paesi più industrializzati del mondo.
Da un’economia basata sull’esportazione agricola e mineraria, durante il periodo intorno al 1990, diventa l’ottava potenza industriale dove il mercato interno, stimolato da un facile accesso al credito per i consumi, diventa il motore del suo stesso sviluppo. Le esportazioni in questo periodo non rappresentano che il 10% del Pil e quelle dei prodotti industriali sono più importanti di quelle tradizionali.
Per esemplificare, in pratica è accaduto un fenomeno analogo, ma di proporzioni ben più grandi per massa ed accelerazione, di quanto è successo in Italia col boom economico negli anni 60, dove però in Brasile, anche per altre cause che analizzeremo, si è generata un’iperinflazione che ha scardinato subito tutto questo sfrenato prendi oggi e paga domani.
Nel 1974 il caffè rappresentava ancora l’11% delle esportazioni, ma scendeva al 6,5% nel 1981 e, nonostante il Brasile sia ancora il primo produttore mondiale, le statistiche economiche, per sottolinearne la ridotta importanza, ora spesso inglobano nella stessa rubrica: caffè, the e spezie. La produzione del caffè si è ora spostata, come conseguenza della concorrenza al ribasso dei prezzi, verso il Sudest asiatico ed in particolare nel Vietnam.
La bilancia commerciale brasiliana dall’inizio del secolo è così indicata nella tabella riportata da “Problèmes Éc.” n° 2169/1990, evidenziando la forbice dei valori tra il 1907 e il 1986.

ESPORTAZIONI IMPORTAZIONI
1907 1986 1907 1986
Agricoltura 88% 37% 27% 9%
Minerario... 14%
Industria 12% 48% 73% 41%
Mat.prime 20%
prodotti 53%
Petrolio 47%
Totale 100% 99% 100% 97%


Benché la partizione non sia la medesima, si nota come nel 1907 si aveva, in percentuale: Esportazioni agricole 88%, di cui 53% di caffè e 20% di caucciù, ed esportazioni industriali 12%, non meglio definite. Sempre per lo stesso anno si hanno Importazione agricole 27% e importazioni industriali 73%, di cui 20% come materie prime e 53% di prodotti manufatturieri.
Le percentuali cambiano radicalmente 80 anni dopo: nel 1986 si vede che le Esportazioni agricole scendono al 37%, di cui 16% come prodotto grezzo e 21% come uscito dall’industria agroalimentare; i minerali sono al 14% (prima non conteggiati in tabella) e i prodotti manufatturieri esportati sono al 48% del totale. Sempre nello stesso anno abbiamo che le Importazioni di prodotti agricoli si riducono al 9% mentre l’importazione di petrolio (che nel 1907 non c’era) sale al 47% e i prodotti manufatturieri al 41%.
In sostanza: metà delle importazioni sono spese in energia per alimentare l’inferno della produzione capitalistica.
Il saldo commerciale sia dei prodotti agricoli sia dei manufatturieri sono entrambi in attivo.
Sembra il paese di Ben Godi, samba e sole dei tropici. Ma allora, perché i proletari e semi- e sotto-proletari brasiliani sono così furiosi?
Il processo di industrializzazione vero e proprio inizia dopo la crisi economica mondiale del 1929, in coincidenza con la presidenza Vargas, rappresentante della classe industriale brasiliana, la più dinamica di tutta la Federazione.
Ricordiamo anche la lunga serie di colpi di Stato militari, dittature civili e militari che, sostanzialmente, più che scontri fra frazioni diametralmente opposte sul piano politico, furono il misurarsi e l’accordarsi tra la classi al potere, fra i quali partiti quello dei proprietari terrieri ha sempre detenuto un ruolo egemone, condizionando a favore dei propri interessi l’economia brasiliana.
Sul piano economico generale questi eventi hanno rappresentato una sorta di alternanza e successione di piani e cicli di espansione capitalista, in cui la dittatura borghese assumeva tratti più o meno marcati, senza mai abbassare la guardia, anzi giocando d’anticipo sul fronte dell’inevitabile e mai soppresso scontro di classe. Oltre che un fatto di politica interna, inteso come rapporti di forza fra le classi, un governo autoritario o militarizzato era anche una garanzia per l’ingresso di masse di capitali esteri necessari allo sviluppo industriale del Brasile, che andavano a sommarsi a quelli della borghesia locale.
Questo l’andamento, assai alternato, dell’indice della Produzione Industriale, secondo il Bollettino statistico della Banca Centrale (base 100 nel 1991):

Anno Indice Increm.% Anno Indice Increm.%
1972 54,67 1988 109,51 -3,24
1973 63,90 16,8 1989 112,71 2,93
1974 68,16 6,7 1990 102,68 -8,90
1975 72,10 4,2 1991 100,00 -2,61
1976 80,69 11,90 1992 96,27 -3,73
1977 82,42 2,14 1993 103,50 7,51
1978 87,48 6,14 1994 111,37 7,60
1979 93,57 6,97 1995 113,41 1,83
1980 102,17 9,19 1996 115,37 1,73
1981 91,77 -10,18 1997 119,85 3,89
1982 91,80 0,03 1998 117,42 -2,03
1983 87,05 -5,18 1999 116,66 -0,65
1984 93,23 7,10 2000 124,41 6,64
1985 101,14 8,49 2001 126,37 1,58
1986 112,20 10,94 2002 129,34 2,35
1987 113,18 0,87
Si nota la partenza veloce fino al massimo del 1980. Calcolando gli incrementi medi annui fra i massimi crescenti abbiamo:

1972-1980 8,1% - 1980-1987 1,5% - 1987-1997 0,6% - 1997-2002 1,5%.

Il paese sembra precipitato prematuramente, dopo il 1980, nella zona di “maturità” capitalistica a bassi saggi di incremento, dimostrando anche la sua vulnerabilità alla crisi mondiale.

1930-1964: Industrializzare per il mercato interno

Lenin ci ricorda che la politica non è che un concentrato di economia. Così leggiamo anche il “periodo Vargas” in Brasile. Il governatore “liberale” dello Stato di Rio Grande nel 1930 si pone alla guida della rivolta militare ivi scoppiata, accentra il potere di tutta la Federazione e instaura una dittatura civile. Mette fuori legge tutti i partiti estremi di destra, di sinistra e di difesa dei negri; sopprime ogni forma di libertà ma attua notevoli riforme sociali nella sanità e nell’istruzione. L’esempio di Mussolini in Italia certamente gli fu d’aiuto.
Da un punto di vista capitalistico l’industrializzazione del paese inizia sotto i buoni auspici in quanto, con libertà sindacali e democratiche fortemente ridotte e una continua richiesta mondiale di materie prime e manufatti, il giovane capitalismo brasiliano può bruciare le tappe fabbricando dapprima beni di consumo semplici, destinati al mercato interno, passando poi all’industria pesante e all’impiantistica con un programma di industrializzazione che tende a sostituire le importazioni. Ciò marcherà fortemente l’economia brasiliana, che in breve passerà da importatrice ad esportatrice di prodotti industriali.
La sua corsa prosegue sostenuta anche dal secondo conflitto mondiale poiché il Brasile, come fece il Sudafrica, si colloca a fianco dell’alleanza anglo-americana fornendo in tutta tranquillità, perché lontano dai fronti di guerra, materiali e rifornimenti di ogni tipo.
Il periodo termina però con il suicidio di Vargas nel 1954, a seguito della ribellione dell’esercito che non lo sostiene più ma appoggia Kubiscek (1955-60). Prosegue però lo sviluppo dei piani industriali. È in questo periodo però che, a causa di spese pubbliche eccessive, inizia il processo di inflazione galoppante che segnerà poi tutta la storia economica brasiliana.
I successivi presidenti dovettero gestire il delicato equilibrio tra il forte ruolo e peso dell’esercito, che garantiva il controllo interno, la classe dei proprietari fondiari, quella industriale, la complessa e corrotta burocrazia che rivendicava una fetta del reddito nazionale e la necessità di riforme, sovente radicali, necessarie allo sviluppo industriale. Fra queste era compresa la plurisecolare questione della riforma agraria che ai primi accenni di una qualche revisione provocò nel 1964, a seguito di crescenti movimenti sociali, il colpo di Stato militare diretto del generale Castelo Branco, che restrinse le libertà costituzionali che erano state via via introdotte e tornò a congelare la questione della riforma agraria.

1964-1973-1985: Miracolo sotto la dittatura militare

L’arrivo dei militari al potere, che nominano ovviamente ministri a loro fedeli, quando non alleati o ispiratori, determina l’avvio di profonde riforme economico-sociali basate però sul principio della concentrazione del reddito, tipica del capitalismo, fatto questo che sul tempo porterà alla strutturazione dei “tre Brasili”.
In questo contesto economico i negri e gli afro-brasiliani sono emarginati ed esclusi dai vantaggi prodotti dall’industrializzazione. Di fatto la segregazione razziale nei confronti degli ex-schiavi si era perpetuata anche abolita la schiavitù: una serie di leggi ne limitavano la completa integrazione sociale, soprattutto per quanto concerneva la proprietà terriera.
Sul piano economico viene oltremodo rafforzata la centralizzazione con la nazionalizzazione o il controllo statale delle grandi imprese minerarie e produttive, mentre sul piano finanziario sono prese due importanti misure, oltre alla costante preoccupazione di mantenere forti riserve valutarie.
La prima riguarda il principio della “correzione monetaria” allo scopo di lottare contro l’erosione dei salari e del potere di acquisto della moneta legata ad un’inflazione galoppante. L’indicizzazione si applica a tutti i livelli dell’economia: fisco, tariffe, mercato dei capitali, tassi e salari. Si arriverà al calcolo giorno per giorno del tasso di inflazione e del prestito di denaro.
La seconda riguarda l’inizio della raccolta su vasta scala del risparmio nazionale volto a finanziare il debito pubblico con un meccanismo di calcolo degli interessi legato a sostanziali correzioni automatiche del tasso a causa dell’inflazione. In questo modo il deficit pubblico è finanziato con l’emissione monetaria in un circolo vizioso di autoalimentazione: il Brasile è anche in questo a tutti gli effetti una potenza capitalista, pur di secondo livello.
Il piano di sviluppo industriale prosegue fino alla grande crisi “petrolifera” del 1974. Anche in Brasile l’esaurirsi della spinta del ciclo di ricostruzione post-bellica fa sentire i suoi effetti e rallenta il ciclo produttivo: il “miracolo economico del periodo 1968-73” è definitamente alle spalle, anche se la congiuntura rimane favorevole fino al 1977.
Nel periodo 1974-80 i grandi lavori legati al II Piano nazionale di sviluppo, con ristrutturazione dell’apparato produttivo e l’avvio delle opere dei progetti monumentali, sono finanziati con i prestiti delle banche straniere. In questi sei anni il debito estero triplica e passa da 17,2 a 53,8 miliardi di dollari, i tassi d’interesse interno salgono notevolmente, l’inflazione si attesta al 40% annuo, il governo obbliga le imprese esposte verso l’estero a rimborsare il loro debito tramite la banca centrale e inizia così la statalizzazione del debito privato estero; tutto ciò sbocca poi nella maxi-svalutazione monetaria nel 1979.
Di quel periodo abbiamo la seguente sintesi numerica (da “L’état du monde 1981”, ed. Maspero):

1965 1975 1979
Pnl, miliardi di dollari 17,8 110,1 207,3
Pil pro capite, dollari 220 1.030 1.690
Una crescita molto forte così segmentata: crescita annua media di 5,4% per il periodo 1960-70; per il periodo 1970-77 la media annua sale al 9,8% mentre per il solo 1979 scende al 6,4% annuo.
Il tasso di inflazione nel periodo 1960-70 ha un valore medio annuo del 46,1%; nel periodo 1970-78 è del 30,3% mentre nel 1980 sale al 82,8%. Il debito estero nel 1975 è di 13,6 miliardi di dollari che diventano 35,9 nel 1979.
“Problèmes Éc.“ n°1995/1986 riporta gli investimenti diretti esteri dei progetti in corso nel periodo 1978-1984, che hanno questo andamento, in milioni di dollari:
Totali = Nuovi + Reinvestimenti
1978 2.512 1.368 1.154
1980 1.512 1.399 118
1984 541 792 -251
1985 846 478 368


La crisi finanziaria internazionale che scoppia nel 1982 provoca il blocco del flusso dei capitali esteri. La banca centrale confisca allora capitali privati per un totale di circa 30 miliardi di dollari, che sono utilizzati dal Tesoro per il rimborso del debito estero.
Paradossalmente in questo contesto si inverte la direzione del movimento dei capitali e il Brasile da importatore diventa esportatore di capitale finanziario nei confronti dei paesi sottosviluppati ed inizia un forte contrasto, mai sopito, con il Fmi per quanto riguarda il controllo dell’economia brasiliana e la forte spesa del settore pubblico, che normalmente assorbe il 30-40% del Pil. Segue un’altra maxi-svalutazione nel 1983 e, sempre in quell’anno, solo l’adozione di un nuovo programma di risanamento economico consente la ripresa degli aiuti del Fondo Monetario Internazionale.

1985: Arriva la democrazia, continua il capitalismo

Il partito di governo, quello dei militari, deve farsi da parte in favore del neo Partito del Movimento Democratico (PMDB) che dovrà gestire le crisi successive; precedentemente c’era un sistema bipartitico basato sull’alternanza elettorale al governo con la presenza di un piccolo partito d’opposizione.
Nel 1985 il PMDB è alla guida del Brasile; l’anno successivo adotta un piano radicale di riforme economiche, in particolare il congelamento dei prezzi e dei salari poiché l’inflazione è arrivata al 234% annuo e introduce una nuova unità monetaria il Cruzado, che ha un rapporto di cambio fisso col Dollaro, mentre il debito estero è arrivato a 102 miliardi di dollari e deve essere rinegoziato. Il governo brasiliano rifiuta la tutela del Fmi ed inizialmente dichiara di non voler onorare il prestito di 450 milioni di dollari concessi da creditori stranieri alle banche in fallimento Comind, Auxiliar e Maisonnave.
Nel 1988 viene promulgata una nuova Costituzione, più liberale di quella imposta dai precedenti governi militari. L’anno successivo il nuovo presidente Collor de Mello deve introdurre nuove misure economiche, cioè far tirar ancor più la cinghia ai proletari, tra le quali ancora il blocco dei prezzi e dei salari per frenare l’inflazione arrivata intorno al 2.000% annuo ed introdurre una nuova moneta, il Novo Cruzado, che vale un migliaio di volte la moneta introdotta appena tre anni prima, con un nuovo tasso fisso di cambio col Dollaro.Nel 1990 nel tentativo di bloccare la fuga dei capitali all’estero si congelano tutti i conti bancari.
I programmi per smorzare l’inflazione e ridurre la povertà introdotti nel 1985 ottengono solo minimi risultati mentre crisi e corruzione devastano il paese a tutti i livelli, prova ne sia che nel 1992 il Presidente Collor de Mello viene destituito per corruzione dopo lunghe e complesse inchieste.
L’andamento dell’inflazione nel periodo 1977-89 è descritto nella seguente tabella di fonte brasiliana riportata da “La Documentation Française” n° 4916-1990:

1977 38,8% 1982 99,7% 1986 65,0%
1978 40,8% 1983 211,0% 1987 415,8%
1979 77,2% 1984 233,8% 1988 1.037,6%
1980 110,2% 1985 235,1% 1989 1.782,9%
1981 95,2%
Il Fmi preme e teme per i suoi investimenti, soprattutto per le continue forti opposizioni brasiliane al controllo della sua economia e al contenimento della spesa del settore pubblico, ma alla fine, nel 1993, il nuovo presidente, Itamar Franco, non può far altro che introdurre una nuova riforma fiscale che determina un gettito del +30% rispetto l’anno precedente. Il Fmi riscagliona il debito brasiliano ottenendo come garanzia e contropartita la privatizzazione, il controllo e la vendita di importanti settori economici nei trasporti, energia, petrolio, telefonia fissa e mobile, officine ferroviarie, miniere, banche e assicurazioni che i precedenti governi militari avevano statalizzato o posto sotto il controllo governativo.
Grandi proteste furono successivamente organizzate in particolare per contrastare la vendita della compagnia mineraria Vale do Rio Doce, primo esportatore brasiliano, la più grande compagnia mineraria del mondo nel comparto del ferro; la quota di proprietà governativa era del 51% e generalmente i capitali esteri nelle aziende brasiliane non potevano superare la soglia del 30% senza diritto di voto. Questo grande gruppo era stato fondato nel 1942 e comprendeva miniere, la principale delle quali ha riserve per 400 anni ai ritmi di estrazione attuali, foreste, segherie, ferrovie, installazioni portuali e altro ancora ed è stata acquistata per 3,14 miliardi di dollari, un’inezia, da un consorzio con a capo la brasiliana Compagnia Siderurgica Nazionale associata alla statunitense National Bank.
“Problèmes Éc.” n°2466/1996 riporta una tabella a cura del Fmi sugli investimenti diretti, investimenti di portafoglio e finanziamenti del settore privato a lungo termine, espressi in milioni di dollari, di 10 paesi dell’America latina da cui traiamo i dati brasiliani organizzati nel modo seguente.
Investimenti: 1985 1986 1987 1988 1989 1990 1991 1992 1993 1994
Diretti 1267 177 1087 2794 744 236 -42 1443 -292 931
Di portafogl. -237 -450 -428 -498 -421 575 3808 7366 12872 11575
Finanz. l.t. -2421 -4135 -7471 -7272 -3670 -232 -1077 -2435 -1035 -2367


Da questi si legge il basso livello di fiducia degli investitori esteri che non ritengono di impegnare i loro capitali per finanziamenti di progetti a lungo termine ma privilegiano gli investimenti diretti e, dopo un’iniziale sfiducia, si rivolgono al settore del capitale finanziario speculativo che predilige le operazioni “mordi e fuggi”, cosiddette “di portafoglio”; il plusvalore del proletariato brasiliano pagherà tutte le cedole.
Nel 1994 entra in vigore un nuovo piano economico che garantisce alle fasce più povere un aumento del potere d’acquisto del 30% dovuto anche dall’aumento del salario minimo, l’accesso al credito e una nuova moneta, il Real, a parità fissa col Dollaro. In un arco di otto anni dal 1986 al 1994 sono state adottate in Brasile sei differenti monete. Per dare un contentino di pura facciata alle masse, si reintroducono le elezioni presidenziali dirette in sostituzione di quelle parlamentari.
Nello stesso anno parte il Mercosur, mercato comune sudamericano tra Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay che, nelle intenzioni, dovrebbe favorire gli scambi e le economie di quei paesi contro le penetrazioni degli Usa e del Nafta. In questo mercato l’85% delle merci circola già liberamente senza dazi doganali e gli economisti di quei paesi puntano su di un mercato di 300 milioni di persone con un reddito superiore ai 10 mila dollari annui.
Seguono due mandati consecutivi di Cardoso che, da “sociologo” si trasforma in economista borghese, gestisce abilmente i contraccolpi della crisi russa ed asiatica, primi segnali di quella generale che si sta avvicinando minacciosa a scala mondiale. Durante la sua presidenza l’economia brasiliana si assesta, i piani per contrastare l’inflazione, basata anche sulla parità di cambio col Dollaro la cui stabilità doveva fare da freno alla nuova moneta, hanno un grande successo immediato: si passa dall’1% al giorno del 1993 al 4% al mese, cioè al 60% su base annua, il livello più basso dal 1957.
Ne segue grande fiducia internazionale verso il Brasile, le cui riserve monetarie hanno battuto il loro record storico di 50 miliardi di dollari. Questo fa sì che l’ammontare degli investimenti esteri sia di 28 miliardi di dollari, il 70% del totale degli investimenti stranieri in tutta l’America latina. Ma si calcola anche che occorre un incremento annuo della produzione del 6% solo per assorbire la forza lavoro delle nuove generazioni che ogni anno si presentano sul mercato del lavoro brasiliano.
Contestualmente però sono richiesti come obbiettivi prioritari la riforma del sistema fiscale e la riforma pensionistica del settore pubblico. Sul piano della riforma agraria ci sono solo timide discussioni ed in via del tutto eccezionale si “tollerano” alcune sporadiche espropriazioni di terre incolte richieste dagli oltre due milioni di contadini senza terra.
Ma in Brasile tutto è rapido ed effimero. Vista la stabilità dei prezzi e l’iniziale sopravvalutazione del Real rispetto il Dollaro, la massa della popolazione, bloccata nei consumi da decenni di incredibile inflazione che obbligava i lavoratori a concentrare la maggior parte degli acquisti appena ricevuto la stipendio, si è riversata sul consumo a credito, soprattutto su prodotti medio-alti di importazione, reinnescando il processo inflazionistico contrastato solo con l’aumento delle tasse doganali e con l’aumento del tasso d’interesse della banca centrale. Il boom delle importazioni in termini numerici significa che esse raddoppiarono tra il luglio 1994 e l’aprile 1997. I prestiti per le merci straniere, soprattutto americane, furono però erogati in dollari.
Vista una situazione così mutevole e complessa i quadri statistici sui “cicli lunghi” sono inesistenti o molto generici, soprattutto per i periodi pre e post bellici, mentre per quelli più recenti abbiamo dati più significativi che qui esponiamo (Fonti: “Stato del mondo 1997”).

1975 1985 1995
Pil (miliardi di $) 126,5 213,7 536,3
Crescita annua % 9,0 2,7 4,0
Pil pro capite ($) 1801 3860 5630
Debito estero (miliardi $) 27 106 145
Servizio debito/esport. % 43,2 38,6 29,1
Tasso d’inflazione % 29,0 326,9 28,0
Struttura del Pil in %:
Agricoltura 12,1 11,5 10,8
Industria 40,2 45,3 37,3
Servizi 47,7 43,1 51,9


Contemporaneamente scoppia la crisi messicana.
La situazione precipita di nuovo e riprende la fuga dei capitali. La Banca centrale per contrastarla eleva i tassi di interesse che, se da una parte penalizzano gli investimenti produttivi interni, richiamano però forti capitali speculativi esteri.
Nel 1998, come primo atto da rieletto presidente, Cardoso annuncia un programma di austerità per 23,5 miliardi di dollari; subito dopo il Fmi sblocca un piano d’aiuti per il Brasile pari a 41,5 miliardi di dollari. Ma due settimane più tardi il Congresso respinge la proposta di un aumento delle quote assicurative versate dai lavoratori sul fondo pensioni del settore pubblico, richiesto come contropartita dal Fmi. Questo pretende la riforma del sistema previdenziale e pensionistico dei funzionari pubblici che, a suo avviso, hanno sempre goduto di un “eccesso di generosità”. Le misure recentemente riproposte ma più volte rifiutate dal Congresso riguardano anche l’aumento dell’età pensionabile ed il pagamento diretto da parte dei lavoratori delle quote previdenziali. Inoltre è richiesto lo sviluppo dei fondi pensione privati per “alleggerire” l’attuale sistema per ripartizione: a quella data solo il 17% dei salariati con alto reddito si rivolgevano ad un fondo pensione complementare.
Ancora una volta il non meglio precisato settore pubblico, che da solo partecipa come visto alla formazione della metà del Pil nazionale, rappresenta l’ago della bilancia nell’economia brasiliana; questo nel 1995 aveva già ottenuto un consistente aumento dei salari in netto contrasto con i piani di rigore economico imposti dal Fmi tramite il presidente Cardoso.
La situazione, in perfetta sintonia con quella mondiale, non può che proseguire in rapida discesa e nel 1999 il governatore dello Stato di Minas Gerais, uno dei più sviluppati, dichiara una moratoria unilaterale di tre mesi del suo debito, premessa per evitare una dichiarazione di insolvenza e fallimento. Dal canto suo il governatore della Banca centrale brasiliana si dimette dopo vari tentativi di contrastare la crisi federale. Ovviamente la Borsa di San Paolo subisce una forte perdita, il Real si svaluta immediatamente del 9% e in breve tempo del 40%, si sgancia dal Dollaro, fluttua sui mercati; si reintroduce il Selic ovvero il tasso d’interesse calcolato giorno per giorno imposto dalla Banca centrale su ordine del Fmi e riprende la fuga dei capitali all’estero.
Il deficit pubblico esplode. Circa l’80-90% del bilancio federale e degli Stati è destinato agli stipendi dei funzionari e dei dipendenti. Per finanziare i progetti interni le autorità locali attingono dalle riserve della Banca centrale con tassi sui prestiti che dal 1998 sono saliti al 49,75%.
I piani del Fmi già dal 1998-99, cioè alcuni mesi prima dello sganciamento del Real dal Dollaro, prevedevano una manovra di austerità per 28 miliardi di dollari del bilancio federale ottenuti con la riduzione dei salari nel settore pubblico, lo sganciamento dei salari dal costo della vita, il licenziamento di funzionari, minimi incentivi per le dimissioni dei dipendenti pubblici, aumento della disoccupazione intesa come male necessario, lo smantellamento dei programmi di intervento sociale, la riforma del sistema previdenziale, la vendita di beni pubblici, il congelamento dei trasferimenti finanziari agli Stati federali e l’utilizzo prioritario delle entrate dello Stato, incrementate dall’aumento delle tasse, per il servizio del debito estero (da una conferenza stampa di M. Camdessus, direttore generale del Fmi del 13-11-1998).
In numeri e soldoni la “road map” dei tagli presentata dal governo brasiliano ma studiata dal Fmi per il periodo 1999-2001 era così formulata, in miliardi di Reals (“Problèmes Éc.”, n° 2601/1999): Tagli nelle spese pubbliche discrezionali: nel 1999 di 8,7; nel 2000 di 8,8 e nel 2001 di 9,0 – Riforma strutturale (riduzione dei salari nella funzione pubblica, ecc.): nel 1999 di 3,5; nel 2000 di 9,2 e nel 2001 di 12,6 – Riforma del Sistema di Sicurezza sociale (pensioni) nel 1999 di 2,6; nel 2000 di 4,3; nel 2001 di 4,4 – Aumento delle imposte: nel 1999 di 13,3; nel 2000 di 11,4 e nel 2001 di 12,0.
Il totale è di 28 miliardi di Reals nel 1999, equivalenti al 2,8% del Pil del 1998; di 34 miliardi nel 2000, ovvero 3,5% del Pil e di 38 miliardi di reals nel 2001, 4,5% del Pil del 1998. Tra riduzione dei salari tagli alle spese e aumento delle tasse la ricetta è veramente dimagrante!
Le autorità americane, con l’obiettivo strategico di indebolire il Mercosur a favore del Nafta e del prossimo Alca, zona di libero scambio delle Americhe, che dovrebbe attivarsi dal 2005, puntano a scardinare la base industriale del Brasile, ad assicurarsi il controllo del suo mercato interno e ad accelerare il programma di privatizzazioni in corso. Il Selic raggiungeva nel febbraio 1999 quota 39% mentre i prestiti delle banche commerciali arrivavano a tassi dal 50 al 90% producendo fallimenti a catena di numerose imprese nell’impossibilità di rimborsare i crediti ottenuti mentre i prestiti alle famiglie erano concessi dal 150 al 200%. La conseguenza fu che molte multinazionali, specialmente nel campo automobilistico (il Brasile, con una produzione annua nel 1996 di 1,8 milioni di vetture, era il decimo costruttore mondiale), annunciarono drastiche riduzioni di attività e licenziamenti di massa. Per un non breve periodo l’indice di disoccupazione si attestò al 20%. Nel 2000 solo il 45% della forza lavoro è utilizzata nell’economia ufficiale mentre il restante 55% è attivo nell’economia sommersa.
La svalutazione del Real ha anche significato la riduzione del valore contabile delle imprese locali che ora si possono acquistare effettivamente a “prezzi stracciati”.
La situazione però non migliora e, allo scopo di evitare il peggio sul piano economico internazionale e di quello sociale interno, intervengono le autorità finanziarie mondiali con un primo prestito urgente di 15,2 miliardi di dollari per il periodo settembre 2001 e dicembre 2002 ed un secondo aiuto di 30 miliardi di dollari, di cui 6 miliardi entro l’ottobre 2002 e i restanti 24 miliardi di dollari a partire dal gennaio 2003.
Occorre precisare che il Brasile, essendo una valenza industriale non trascurabile, è dotato anche di un adeguato e considerevole sistema finanziario dove il totale dei crediti bancari depositati dal settore privato rappresenta una cifra pari al 28% del Pil; questi però preferiscono rivolgersi ad investimenti finanziari, soprattutto sostenendo il debito statale, piuttosto che soddisfare le esigenze delle imprese locali, come invece richiesto più volte dal Fmi, o nei momenti di crisi acuta spostarsi sui mercati esteri.
Nel 1995 il debito estero era il 26% del Pil, pari al totale dei crediti bancari privati stimati in 95 miliardi di dollari, ma sale al 42% nel 2001. L’indebitamento estero delle banche commerciali nel 2001 è di circa 40 miliardi di dollari mentre l’indebitamento estero del settore non finanziario privato è raddoppiato dal 1995 salendo a 100 miliardi di dollari sempre nel 2001.
Il reddito per abitante indicato in Real a valore costante del 2001 (prima cifra) e il tasso della crescita del Pil reale in percentuale (seconda cifra) è così espressa in forma numerica da una tabella redatta dalla Banca centrale brasiliana per il periodo 1990-2001 (in “Problèmes Éc.”, n. 2780/2002):

1990 6100 - 4% 1996 6650 + 2,8%
1991 6050 + 1% 1997 6750 + 3,2%
1992 5900 - 0,8% 1998 6700 + 0,2%
1993 6150 + 5% 1999 6650 + 1%
1994 6400 + 6% 2000 6850 + 4%
1995 6550 + 4,2% 2001 6870 + 1,5%
Nonostante questo continuo e frequente altalenare tra crisi e riprese, le imprese brasiliane hanno sempre goduto di un buon trattamento dai creditori i quali fanno anche affidamento come ottime garanzie dei loro investimenti sulle enormi ricchezze minerarie e naturali e alle forti riserve valutarie della Banca centrale.
Ovviamente il Fmi, che non è un’associazione benefica, impone le solite ricette, piani di riaggiustamento e relativo conto da pagare e spetterà a Ignacio da Silva, “Lula”, il nuovo presidente eletto il 1° gennaio 2003, ex-sindacalista e gran comunicatore, far digerire le prossime amarissime pillole preparate dal Fmi sia ai proletari sia ai contadini poveri brasiliani. La strada del capitalismo, anche ai tropici, è la stessa di altrove: che anche la classe operaia brasiliana trovi la sua, la strada della sua emancipazione, insieme ai suoi fratelli di classe di tutto il mondo.

Piccola nota in appendice:
Alcol o Petrolio per dissetare il Capitale?

Nato nel 1975, come risposta “autarchica” all’aumento del prezzo del greggio, questo programma tiene conto dell’esperienza fatta durante la crisi negli anni ‘30 quando già si miscelava alcol alla benzina in rapporto di 1 a 4, con la costruzione di motori appositamente progettati, distillerie e stazioni di rifornimento e forti incentivi agli acquirenti di vetture così attrezzate.
Il costo di produzione dell’alcol è un terzo rispetto quello del petrolio (ogni tonnellata di vegetale ha un potenziale energetico equivalente a 1,2 barili di petrolio), è una fonte “rinnovabile” (così dicono...), rilascia pochissimi residui da combustione nell’atmosfera a fronte di quelli della benzina. Inoltre le piantagioni di canna, attraverso la fotosintesi, assorbono oltre un quinto di tutto il carbonio rilasciato nell’atmosfera dal petrolio consumato nel paese, equivalente oggi ad una riduzione di 39 milioni di tonnellate di CO2.
Tutto faceva pensare ad un affare miracoloso considerando anche i benefici collaterali poiché dalla lavorazione di una tonnellata di canna, oltre allo zucchero, ai liquori alcolici ed altre sostanze alimentari, si ricavano fino a 60 litri di alcol, dai 300 ai 500 chilogrammi di scorze combustibili per alimentare le caldaie delle distillerie, fertilizzanti ed altri derivati.
La prima vettura ad alcol prodotta in Brasile è stata la “Fiat 147” nel 1979 (prima erano motori adattati). Inizialmente è andata a sostituire il parco auto governativo ma si espanse, grazie agli incentivi economici, al grande pubblico raggiungendo fino al 66% di tutto il circolante automobilistico del paese. In seguito alla riduzione del prezzo del petrolio, alle inferiori prestazioni dei motori ad alcol e alla riduzione degli incentivi la produzione di vetture crollò: il 94% delle nuove immatricolazioni nel 1984 erano di vetture ad alcol, scesero al 63% nel 1988, al 10% nel 1990 e solo all’1% nel 2000. Di conseguenza tutta la catena produttiva connessa si inceppò determinando fallimenti a cascata e forti perdite economiche che si andarono ad aggiungere alle altre di tutta l’economia brasiliana. Gli “automobilisti” alla fine si trovarono con automobili inutilizzabili ed invendibili.
Il Proalcol sembrava un programma da dimenticare senza rimpianti, ma è stato recentemente ripescato e modificato, secondo la intermittente ipocrisia “ecologica” capitalista, ed ora lo si rilancia pensando di estendere le piantagioni e gli impianti correlati per arrivare, dalla produzione attuale annuale di 16 miliardi di litri di alcol, equivalenti a 84 milioni di barili di petrolio, a produrre a pieno regime combustibile equivalente a 600.000 barili di greggio al giorno.
Nel “Vertice mondiale sullo Sviluppo sostenibile” di Johannesburg nel 2002, in cui si discusse di “capitalismo possibile e dal volto umano”, tra i tanti argomenti in agenda si ripresero i precedenti di Kyoto sul clima, meglio noti come “il commercio delle emissioni di CO2”. In sintesi si tratta della possibilità di finanziare “tecnologie pulite” nei paesi in via di sviluppo in cambio per il paese donatore di conteggiare l’investimento fatto all’estero in riduzione delle emissioni di inquinanti in patria. Una specie di scambio: con i miei soldi riduco le emissioni all’estero ma è come se fossero fatte in casa mia.
Secondo questo principio la Germania finanzia il nuovo progetto Proalcol in Brasile con 32 milioni di dollari e come contropartita acquisisce un “credito” per l’imissione nell’atmosfera sopra casa sua di ben 710 mila tonnellate di CO2 all’anno. Certamente la cifra risparmiata per gli adeguamenti dei suoi impianti o per il sostegno sociale per la riduzione della produzione è compatibile con quella stanziata per il Proalcol. Inoltre in questo modo i “verdi” tedeschi, puntello dell’attuale governo, si sentono appagati per la grande vittoria ambientalista conseguita e possono ancora ricevere sussidi per “migliorare il mondo da affidare ai nostri figli”.
Ma, poiché gli affari son sempre affari, l’industria automobilistica tedesca si è ritagliata una cospicua fetta del nuovo mercato brasiliano puntando con i nuovi brevetti al mercato giapponese, che prevede già ora la miscelazione al 5% della benzina con alcol, a quello indiano e a quello cinese. Questo in particolare dichiara di tendere, in un prossimo futuro, ad utilizzare l’alcol per tutti i veicoli circolanti.
In questo gigantesco mercato, concorrente a quello dei petrolieri e di chi sta attualmente occupando militarmente il Medioriente, il Brasile nel 2002 ha già esportato 600 milioni di litri di alcol e la previsione per il 2003 è il raddoppio per giungere nel giro di pochi anni a quota 70 miliardi (dati tratti da “Volontari per lo sviluppo”, dicembre 2002).

(Continua al n.56)








Dall’Archivio della Sinistra

Chi legga oggi i tre interventi che Carlo Liebknecht pronunciò al Reichstag, il parlamento tedesco, il 18, 19 e 26 aprile del 1913, novanta anni fa, non può non restare impressionato dall’attualità della spietata critica al militarismo borghese.
In quell’anno lo Stato tedesco aveva deciso di aumentare ulteriormente le spese militari. L’ala sinistra del Partito Socialdemocratico Tedesco, di cui Liebknecht era uno degli esponenti più attivi, era arrivata ad elaborare, in collaborazione con le frazioni di sinistra degli altri partiti socialisti d’Europa, delle posizioni ben precise sull’opposizione alla guerra. Si era convinti che solo il proletariato, guidato dal suo Partito, avrebbe potuto impedire la guerra facendo pesare sui governi borghesi la minaccia della sua opposizione organizzata.
Liebknecht parla di fronte ai rappresentanti delle classi dominanti, per affermare dalla tribuna del loro Parlamento la capacità e il diritto del partito della classe operaia ad intervenire nel dibattito politico e per denegare e svergognare, sul piano della denuncia e della elaborazione di dottrina, le menzogne e le truffe borghesi. Liebknecht dimostra così, davanti a tutte le classi, la fallacia del patriottismo borghese, la corruzione che regna tra i maggiori esponenti della borghesia, la bramosia di profitto dei capitalisti che non conosce frontiere e porta le industrie tedesche a rifornire di armi il tradizionale nemico francese e la Russia dello Zar. Dimostra all’evidenza che non è solo il proletariato classe di “senza patria”, ma lo è pure il capitale, che usa la demagogia patriottica solanto per ingannare i diseredati, con tutto il corteggio di xenofobia, razzismo ecc. Come non pensare oggi all’Iraq di Saddam Hussein, foraggiato e armato dagli Stati Uniti, poi, dagli stessi Stati Uniti combattuto e “liberato” e, domani, probabilmente, di nuovo armato...
La guerra in regime capitalistico fa parte del processo produttivo, è necessaria come mezzo di distruzione di merci, compresa la merce forza lavoro. Al di là di ogni valutazione di vantaggio militare-strategico l’economia capitalistica ricerca la guerra per poter superare i periodi di crisi del processo di accumulazione: per far soldi subito.
Nel decennio che precedette e negli anni della Prima Guerra mondiale il comunismo rivoluzionario di sinistra affinò la sua critica della guerra imperialista fino a giungere alla chiarezza cristallina delle prospettive e della azione raggiunta dai Bolscevichi e dalla Sinistra Comunista d’Italia. Già nel 1912, al Congresso di Chemnitz, Carlo Liebknecht aveva dichiarato, parlando dinanzi ai suoi compagni: «Se vogliamo la pace dei popoli, dobbiamo preparare la guerra, la lotta di classe, condurla ed alimentarla sempre più sul piano internazionale».
Elementi programmatici che segnano il decadere delle illusioni della Seconda Internazionale e sui quali si fonderà la Terza, nel 1919, dopo l’esperienza tragica della Grande Guerra, sono i seguenti. Il militarismo non è che un aspetto, fra i tanti, della crisi senile del capitalismo imperialista. Il grande capitale, che fomenta il militarismo, non può non informare di sé tutta la società borghese e piegare ai suoi interessi le istituzioni e i governi borghesi. Il militarismo imperialista non può quindi esser trattenuto nei sui nefasti svolgimenti se non con la distruzione rivoluzionaria del capitalismo. I grandi mezzi a disposizione dei Konzerne facilmente volgeranno a loro vantaggio qualsiasi maggioranza parlamentare. Sarà sempre lo Stato borghese ad ubbidire al capitale, al grande capitale, e mai il contrario. La statizzazione della industria degli armamenti, quindi, non modificherebbe in nulla delle catastrofiche concause, proprie ed ineliminabili, del vigente sistema di produzione, delle quali la diffusa corruzione e la cosiddetta disonestà sono effetto e non causa.
Ribadire questa aspra dialettica, originaria del marxismo autentico, e trarne tutte le conclusioni è il compito che ci attende nei prossimi anni.

Carlo Liebknecht
Tre interventi al Reichstag
18, 19, 26 aprile 1913.

I

[...] Signori, passo all’argomento vero e proprio del mio intervento.
In un’epoca in cui sulla “Kreuz-Zeitung” un consigliere di governo ha potuto scrivere «Signore, dacci di nuovo la guerra!», in cui la “Konservative Korrespondenz” ha potuto scrivere «Una guerra ci andrebbe proprio bene!», in cui il signor von der Goltz ha potuto dire «Se finalmente scoppiasse!», in un’epoca che con l’incessante incremento degli armamenti invita all’idea pericolosa della guerra preventiva, in un’epoca in cui il generale von der Goltz ha dichiarato a Potsdam, in una delle celebrazioni per Yorck, «Non abbiamo bisogno di moralisti!», Signori, in una simile epoca è straordinariamente interessante illuminare un settore che sinora non è quasi mai stato illuminato, mettendo così a nudo una delle radici del pericolo di guerra che minacciano i popoli europei e in modo specifico anche il popolo tedesco. Mi voglio occupare dei maneggi e delle vie occulte dei nostri fornitori bellici.
Certo, abbiamo già avuto ripetutamente a che fare con i fornitori di materiale bellico. È noto come il Reich tedesco sia stato sistematicamente gabbato da una delle principali ditte fornitrici di materiale bellico in merito alle piastre corazzate; è noto come sia stata alla fine composta una violenta battaglia che infuriò un tempo fra due grandi ditte renane, con la spartizione del bottino.
Lo scorso lunedì il “Vorwärts” è stato in grado di pubblicare – ad illustrazione di questa attività comune degli interessi bellici a beneficio del popolo tedesco (naturalmente, si considerano essi soli il popolo tedesco) – alcuni documenti dai quali risulta come in Germania esista un accordo di cartello tra i diversi fornitori di materiale per la marina, che si tengono a vicenda sotto stretto controllo e che in certo qual modo si garantiscono l’un l’altro il profitto. Nel “Vorwärts” sono stati pubblicati dei formulari, le schede di comunicazione impiegate nel movimento d’affari di questa sana società. È prodotta nel “Vorwärts” la prova documentaria che un vampiro vive in grembo al popolo tedesco.
Signori, questo è un lato della questione. Ed ora passiamo al patriottismo. Per la socialdemocrazia è un fatto arcinoto che il capitale non ha patria. Non abbiamo mai dubitato che il capitale fosse senza patria, e tanto più senza patria quanto più affetta patriottismo. Non c’è bisogno di prove. È un fatto in genere connaturato alla stessa unione personale del capitale sul piano internazionale. Connaturato inoltre all’assoluta mancanza di scrupoli che deriva dal bisogno di profitti del capitale, che trae i profitti là dove può ottenerli.
Forse non ho molto di nuovo da dire su questa mancanza di patria dell’industria degli armamenti, perché la cosa peggiore in questa mancanza di patria, in questo perfetto apatriottismo, è che questi fornitori di materiale bellico inviano le loro forniture con assoluta sistematicità all’estero, ovunque, indifferentemente dove siano meglio pagate, senza curarsi se poi le armi colà inviate verranno impiegate contro l’esercito tedesco.
Il mio amico Südekum ha illustrato qui recentemente un documento particolarmente interessante sotto il profilo della mancanza di patria di questo capitale “patriottico”. Egli ha riferito, dal testo del signor Martin, dei fatti sulla situazione alle Dillinger Werke che sinora, a quanto mi risulta, nessuno ha confutato. La Dillinger è di proprietà degli eredi Stumm, ciò significa innanzitutto del signor tenente generale von Schubert, un signore della camera dei deputati prussiana. Come ora è certo, questa fabbrica è alimentata in gran parte da capitale francese ed è inoltre fortemente francesizzata tanto che nelle riunioni generali della fabbrica è largamente usata la lingua francese. Ciò è straordinariamente istruttivo! Si pensi: “Il nemico ereditario”! Si pensi al “grande pericolo” che scoppi una guerra tra la Germania e la Francia: e intanto capitalisti francesi siedono in questa società tedesca, vengono iniziati a tutti i segreti degli armamenti tedeschi e, insieme a tutti i capitalisti di nazionalità tedesca, fanno in modo che al popolo tedesco ed al Reich tedesco venga spillato tantissimo danaro per gli armamenti. Signori, questo prova una commovente solidarietà internazionale del capitale. Questa solidarietà del capitale supera ogni barriera di nazionalità.
Ma andiamo avanti. Forse si riuscirà una buona volta a consegnare al ministro della guerra i documenti contro un certo signor Schöpp. Gli posso fornire il numero della pratica: Landgericht III, Berlino, B 5, J. 675/10. In questi documenti egli troverà un’infinità di materiale interessante su una delle maggiori fabbriche di armi tedesche, precisamente sulla Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik. Tra l’altro nei documenti si trova copia di una lettera inviata ad un agente di questa società a Parigi, a Parigi!, con l’indicazione segreta 8236. La lettera contiene quanto segue: «Vi abbiamo appena telegrafato: “Preghiamo attendere a Parigi nostra lettera odierna”. Motivo del dispaccio era che desidereremmo che comparisse in uno dei giornali francesi più letti, possibilmente nel “Figaro”, un articolo che dica quanto segue: “L’amministrazione francese dell’esercito è decisa ad accelerare in modo rilevante l’ammodernamento dell’esercito con mitragliatrici e ad ordinarne una quantità doppia di quella in un prima tempo prevista».
Questo è il tenore dell’articolo destinato a comparire nel “Figaro,” in uno dei giornali francesi più letti, dell’articolo ispirato dalla Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik. La lettera conclude: «La preghiamo di fare il possibile perché simile articolo venga accolto». La lettera è firmata: “Deutsche Munitions- und Waffenfabrik, von Gontard, Kosengarten”. Questa lettera dimostra che gli interessati agli armamenti in Germania, che le nostre grandi fabbriche tedesche di armi, per lo meno questa fabbrica – essa è forse, in questa faccenda, non posso dire una mosca bianca, dirò una colomba nera – che per lo meno questa fabbrica non ha timore a diffondere su giornali francesi notizie false, che dovrebbero annunziare un programma francese di incremento dell’esercito. A quale scopo? Per salvare la patria? Signori, a quale scopo? Per riuscire così a creare in Germania la condizione di spirito per ottenere commesse e guadagnare bel danaro, perché il danaro risuoni nelle casse. Ciò è oltremodo significativo! Credo che mai si sia avuta una simile prova del patriottismo del capitale tedesco degli armamenti.
Ma possiamo sperare che la Waffen- und Munitionsfabrik rappresenti una pecora nera? Signori, chi di speranza vive di speranza muore. Mi vedo purtroppo costretto a distruggere in voi queste speranze, prestandovi univoche prove sul fatto che la maggiore fabbrica tedesca di armi funziona grazie a mene che sono inconciliabili persino con quel tipo di morale che, forse, come pensavo di dover dedurre dalle interruzioni di poc’anzi, potrebbe ancora incontrare l’approvazione di certi partiti di questa camera. Signori, sono curioso di vedere se approverete quanto sto per dirvi.
La presidenza dell’acciaieria Friedrich Krupp, di Essen sulla Ruhr, manteneva a Berlino – ora lo posso dire – sino a poche settimane or sono un agente di nome Brandt, ex artificiere, il quale aveva il compito di avvicinare i funzionari di segreteria delle autorità dell’esercito e della marina e di corromperli, per ottenere per loro mezzo notizie di documenti segreti il cui contenuto interessasse la ditta. Ciò che loro interessa sono, in modo particolare, le intenzioni delle autorità in materia di armamenti, dati sui programmi delle autorità nonché dei concorrenti, risultati di esperimenti; soprattutto, però, i prezzi che le altre fabbriche chiedono e che sono loro concessi. All’uopo sono stati posti a disposizione del signor Brandt ingenti mezzi.
La nota ditta sfrutta sistematicamente il suo potere finanziario per indurre funzionari prussiani piccoli e grossi a rivelare segreti militari. Questa situazione dura da anni. I resoconti segreti stanno – o stavano – coscienziosamente accatastati nei segreti scrigni di un certo signor von Dewitz, a Essen.
Quanto vi ho appena detto non si basa su una semplice comunicazione pervenutami da una qualche parte. Vi dirò, naturalmente, che ho dato notizia al ministro della guerra di tutto quanto mi è stato comunicato. Mi è stato fatto presente in modo particolare che la ditta, grazie al suo immenso potere finanziario, avrebbe potuto essere in grado, qualora si fosse resa nota la notizia prematuramente, di far scomparire tutti i documenti di prova ed anche delle persone scomode.
In questa occasione il ministro della guerra ha fatto tutto il suo dovere. Il ministro della guerra è intervenuto e non soltanto contro dei militari ma anche contro civili. Contro sei o sette persone – al momento non posso e non voglio per ora farne i nomi: è in corso l’istruttoria preliminare, a meno che non sia già stata conclusa. Si è intervenuto con notevole energia. Gli interessati sono stati rinchiusi nel carcere preventivo. Gente altolocata! Nessun rimprovero quindi si deve muovere all’amministrazione militare. L’inchiesta è sostanzialmente conclusa ed ha confermato punto per punto quanto vi ho qui esposto.
Lo scopo dell’istruttoria non può più essere pregiudicato: conseguentemente ritengo mio dovere e compito esporvi qui questi fatti nell’interesse del popolo tedesco e nell’interesse della pace europea. Perché le cose stanno così: vedendo come una Waffen- und Munitionsfabrik compia manovre del genere della lettera inviata in Francia che vi ho letta, le si può sicuramente dar credito che avrebbe il coraggio di fare quello che fa la ditta Krupp. E se la ditta Krupp fa quello che noi qui possiamo dare per provato, possiamo essere certi che non si sentirà imbarazzata a fare le stesse cose che fa la Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik. Questo è evidente. Tutto bisogna aspettarsi da imprese la cui morale e il cui scrupolo sono scesi al livello sotto zero – non si può dire a zero – come è stato qui dimostrato, vuoi nel caso della Waffen- und Munitionsfabrik, vuoi nel caso di Krupp.
Vorrei ora ritornare alla Dillinger. Ecco quanto vi è da aggiungere. Dillinger significa von Schubert. Il signor von Schubert uguale a Stumm. Stumm uguale a “Post”, questo è importante da sapere. Il giornale “Post”! il giornale “Post” è ben noto. Tutti conoscono i “Postesel” [asini del Post, cosiddetti i suoi lettori]. Dunque: Dillinger uguale a “Post,” questo è importante. Non fu “Die Post” a riprodurre nel 1911 quell’articolo, in occasione dell’affare del Marocco, per indurre il governo tedesco ad una “politica più attiva”? Non fu “Die Post” a scrivere l’articolo “Guillaume le timide, le valeureux poltron”? Fu “Die Post”, vi prego di osservare! E fu “Die Post”, per tacere per il momento di altre cose, a far da portavoce – come posso dire – alla cricca dello stato maggiore ai cui piedi sta oggi il ministro della guerra. E non fu sempre “Die Post” a scoprire improvvisamente, allorché la pace “minacciava” – per usare il linguaggio degli interessati agli armamenti – di insediarsi nei Balcani, si era alla fine di febbraio, in un articolo molto allusivo, che nel momento in cui ad est si avvicinava la pace, ad ovest si sviluppava un nuovo e più pericoloso focolaio? E non è “Die Post” che ha sfruttato particolarmente bene gli avvenimenti di Nancy, battendo la sua spada patriottica sul suo scudo patriottico, alla maniera degli antichi germani! [a Nancy (e a Besançon) il 14 aprile 1913 studenti nazionalisti francesi avevano inscenato una manifestazione di ostilità contro una comitiva di turisti tedeschi, episodi che la stampa tedesca ingigantì al di là della loro obiettiva portata]. “Die Post” ha pubblicato gli articoli provocatori sul “nuovo e pericoloso focolaio”, gli avvenimenti di Nancy e – come ho appena detto – ha agitato violentemente lo scudo con tanto fracasso come accade solo in una scena teatrale. In verità però – quale delusione! – batteva soltanto sul portamonete e questo risuonò come se fosse entrato in scena il patriottismo.
Chi intende contestare il nesso tra questo strepito sulla stampa a proposito degli avvenimenti di Nancy e gli interessi al profitto del capitale degli armamenti, questo strepito su avvenimenti, verificatisi talvolta anche in passato, avvenimenti che naturalmente sono stati deplorati dappertutto, anche in Francia? Questi fatti vengono sistematicamente sfruttati da una certa stampa per inasprire sempre più il contrasto tra Germania e Francia, per creare artificiosamente un’atmosfera favorevole, che minaccia di estinguersi, per i grandiosi progetti di bilancio militare e gli immensi guadagni che gli industriali degli armamenti – gli interessati agli armamenti – vogliono ottenere in occasione dell’attuale progetto di bilancio militare. Signori, queste sono cose evidentissime. Il caso di Nancy e di Besançon, con tutti i suoi contorni, è giunto al momento giusto per questa stampa, allorché si profilava ancora una volta la minaccia di uno sviluppo pacifico, si profilava, cioè, una minaccia per il portamonete dei signori interessati agli armamenti.
Quanto ho detto riguarda “Die Post”. Conosciamo però anche la stretta connessione tra altri settori del capitale degli armamenti ed altri giornali in Germania che da tempo immemorabile sono quelli che più gridano a favore di una soluzione bellica e contro una soluzione pacifica delle difficoltà europee. Mi basta ricordare la “Rheinisch-Westfälische Zeitung”, organo che porta sulla fronte il marchio della volontà di profitto degli interessati agli armamenti. E che cosa questo significhi ve l’ho spiegato con alcuni esempi.
Signori, si possono trarre sì delle conclusioni. Tutti sanno come viene fatta, ad esempio, la politica coloniale. Uno dei metodi più noti consiste nel creare provocazioni di carattere politico-coloniale per mezzo di agenti segreti e di spie di ogni specie nel paese che si vuole conquistare in chiave di politica coloniale. Non voglio spingermi a tanto. Non intendo assolutamente formulare il sospetto di una diretta partecipazione anche di agenti tedeschi a certi spiacevoli avvenimenti in Francia, non giungo a tanto; vi dico soltanto questo: non si deve escludere alcun sospetto, la mancanza di scrupoli nello sfruttare questi avvenimenti ce ne dà diritto. Noi riteniamo questi superpatrioti, questi superpatriottardi – si può ben dire – capaci di tutto, anche di questo.
Signori, riflettete soltanto su questo: si tratta degli stessi circoli che tramutano in oro la discordia tra i popoli. Che siano in Germania o in Francia hanno gli stessi interessi. L’aumento degli armamenti in Francia non influisce sui concorrenti tedeschi nella misura in cui è solita influire l’aumento di un’altra industria concorrente; questi “concorrenti” lavorano mano nella mano. I nostri Krupp, Stumm e compagni, Waffen- und Munitionsfabrik, non possono augurarsi niente di meglio che un vasto riarmo in Francia, in quanto anch’essi otterranno poi abbondante lavoro e guadagneranno tanto denaro.
Si tratta della stessa gente per la quale seminare e aizzare la discordia tra i popoli, indifferentemente per quale motivo, significa guadagnare denaro. È la stessa gente sui cui profitti non influisce affatto un conflitto tra popoli e il suo esito, per la quale l’ammontare del profitto è semplicemente proporzionale al grado di discordia, di odio tra i diversi popoli.
Signori, questo è l’essenziale per capire la psicologia di questo tipo di capitale e questo è ciò che serve per capire come questo capitale possa operare provocatoriamente in Francia e in Germania, indipendentemente dal fatto che trovi impiego in Francia o in Germania. I loro interessi comuni ne saranno sempre alimentati, si ottengono profitti in qualsiasi circostanza.
Sono certo che le ditte francesi, poniamo la Schneider-Creusot, non sono più ammodo delle ditte tedesche, ed è estremamente probabile che la stampa provocatoria francese, che di fatto non è meno perniciosa della nostra, dipenda da questi interessi degli armamenti al pari della nostra peggiore stampa provocatoria in Germania. Signori, bisognerà attenersi a tutti questi fatti, a queste considerazioni ai fini degli ulteriori importanti dibattiti che dovremo tenere in questa camera. Sino ad oggi il governo del Reich mantiene rapporti con queste imprese. D’altro canto sino ad oggi non era al corrente di queste cose: sicuramente – posso ben dirlo – non ne era al corrente. Ma il ministro della guerra ci ha detto che al ministero della guerra si leggono attentamente i giornali. Se questo è vero, la lettera della Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik non poteva sfuggire al ministro della guerra, se questi avesse fatto il suo dovere: infatti era già stata pubblicata sul “Vorwärts” e inspiegabilmente ignorata, allora. Attendo chiarimenti al riguardo.
Signori, l’amministrazione militare non si è limitata sinora a dare a questi industriali privati pingui commesse che consentono i giganteschi profitti di queste istituzioni, nate per fabbricare milioni, ma, come ha potuto stabilire lo scorso anno, è arrivata al punto di limitare l’attività degli stabilimenti statali, delle fabbriche statali dì armi, per poter dare determinate commesse all’industria privata, in quanto la conservazione di questa è considerata indispensabile nell’interesse dell’amministrazione bellica. Questa è una vera e propria sovvenzione statale, sulla quale il Reichstag non è stato consultato. Ebbi a parlarne una volta, ma senza fare diretti rimproveri, al ministro della guerra in quanto, nella misura in cui questa industria è in gran parte privata, di fatto esiste, in un certo grado, uno stato di necessità. Non insisterò, in questa sede, sulla questione; una cosa è tuttavia evidente: bisogna smetterla con questo sistema! È assolutamente necessario che le mani del Reich tedesco – se mi è consentita questa metafora – restino pulite. È necessario che il governo non abbia più rapporti di nessun genere con ditte che, come è stato provato, praticano questo genere di intrighi.
Due giorni or sono, se non sbaglio, nella commissione del bilancio, il ministro della guerra, avendolo io interpellato, a causa di due poveri diavoli, sulla disonestà dei fornitori di materiale bellico, disonestà che egli naturalmente ha riconosciuto – in questo senso non posso rivolgergli il minimo rimprovero – ha dichiarato che da tempo è prassi strettamente osservata dell’amministrazione militare di rifiutare ogni contatto con ditte delle quali cui si fosse provato il ricorso anche una sola volta a questi intrighi. Signori, se ne deduce per lo meno che la ditta Krupp e la Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik – e chissà quante altre? – non dovranno più ottenere commesse sui futuri bilanci militari. È dovere del Reichstag tedesco, se tiene all’onestà, provvedere in questo senso, ed è un dovere per l’amministrazione militare tedesca se tiene all’onestà.
Signori, noi non facciamo pressioni per una radicale trasformazione del sistema soltanto per motivi di correttezza pecuniaria e di onestà. Costi quel che costi dev’essere attuata al più presto la statizzazione dell’intera industria degli armamenti, anche per il suo bene, perché soltanto in tal modo sarà possibile eliminare una classe di interessati la cui esistenza rappresenta per l’intero mondo un costante pericolo di guerra e per estirpare così una delle radici della follia degli armamenti ed una delle radici delle discordie tra i popoli.



II

Signori, il ministro della guerra ieri mi ha risposto dapprima con vuote chiacchiere di economia politica, sulle quali non ho motivo di addentrarmi più dettagliatamente. Poi ha lasciato intendere che nel caso Krupp, che stiamo discutendo, non erano stati svelati segreti di alcun tipo.
Signori, sono stati svelati dei segreti. Ciò dovrebbe essere noto al ministro della guerra. Egli dovrebbe anche sapere e distinguere se si tratta della rivelazione di segreti militari ad uno Stato straniero o della rivelazione di segreti militari ad un privato.
Rivelazioni di quest’ultimo tipo si sono indubbiamente avute, su istigazione e corruzione di impiegati della Krupp. Questo è già stato provato. La ditta Krupp ha nei suoi schedari segreti a Essen una gran copia di rapporti segreti su cose di ogni genere, che in parte riguardano soltanto la concorrenza, in parte, tuttavia, anche i programmi, nuovi programmi che l’amministrazione militare e i concorrenti vogliono introdurre. Questi rapporti segreti in gran parte sono stati sequestrati.
Signori, ho in mia mano un gran numero di copie di questi rapporti segreti. Non intendo metterli a disposizione della camera in questa fase. Ho dimostrato al ministro della guerra la massima lealtà rimettendogli alcune delle carte pervenutemi, nella forma in cui mi erano arrivate.
Il ministro della guerra dice che non sono stati svelati segreti. La ditta Krupp, tuttavia, ha trattato l’intera faccenda con la massima segretezza, con la massima riservatezza. La ditta Krupp ha consegnato questi rapporti segreti ad una persona del tutto particolare, che aveva il compito particolare di conservarli segretamente come segreti.
Il ministro della guerra dice che non è provato che funzionari superiori della Krupp abbiano avuto a che fare nella faccenda. Signori, siamo abituati a vedere usato il metodo di esporre i pesci piccoli, di impiccare i ladri piccoli e di lasciar scappare i grossi: metodo molto cavalleresco! Ma il signor von Dewitz di Essen appartiene ai pesci piccoli della ditta Krupp? Egli è stato il custode dell’intera faccenda; nel suo armadio il giudice istruttore di Berlino ha sequestrato i rapporti segreti. Ma è sui pesci piccoli che si vorrebbe scaricare tutto, perché la ditta Krupp rimanga pulita, perché il Reich possa continuare a darle commesse, perché venga salvato l’onore del Reich tedesco che sembra singolarmente imparentato con l’onore della ditta Krupp.
Signori, naturalmente non mi aspettavo che il ministro della guerra mi ringraziasse. Ma trovo un po’ strana che nelle sue dichiarazioni il ministro della guerra ritenga di dover ringraziare ancora la ditta Krupp per le sue grandi realizzazioni patriottiche. Forse il ministro della guerra, che attualmente deve partecipare con una certa frequenza ai festeggiamenti patriottici per il centenario, vi è stato indotto per abitudine. Senza Krupp non si possono certo cantare tutti gli inni patriottici in gloria della Germania, quali vengono cantati in tutte le associazioni combattentistiche, nella Lega della giovane Germania, in tutti i circoli militari ecc. Se crolla la fama di Krupp, il nostro patentato patriottismo subisce un fiero colpo.
Basta solo osservare come prende posizione la stampa di oggi. La “Deutsche Tageszeitung” registra gli avvenimenti di ieri con la nota: “Una grave offesa – non so, forse addirittura diffamazione – per la ditta Krupp”. Questo è il modo in cui... (Il deputato Oertel si alza dal suo posto. Grande insistente ilarità). Se lo lasci dire almeno una volta! (Deputato Oertel: “Non è vero!”). Glielo dimostrerò subito.
Vicepresidente dottor Paasche: La prego, onorevole, niente discussioni private!
Liebknecht: Signori, la “Tägliche Rundschau” reagisce, ad esempio, agli avvenimenti di ieri nel modo più riprovevole, schernendo in un trafiletto, alquanto insolentemente, quanto ieri ho qui esposto, riportando invece ampiamente e vistosamente le dichiarazioni giustificative della Krupp. Si tratta anche qui di un organo che non sa accontentarsi di schiamazzi patriottici, un organo manovrato – è certo come due più due fa quattro – anche senza che gli interessati forse lo sappiano, attraverso i canali segreti degli interessi degli armamenti.
Signori, il ministro della guerra ha sollevato il problema di quanto noi in Germania dobbiamo alla ditta Krupp. Io rovescio la domanda: “che cosa deve la ditta Krupp al popolo tedesco?” Il ministro della guerra si sarebbe dovuto domandare, una volta tanto, se le prestazioni della ditta Krupp non siano state pagate proprio bene, e se le centinaia di milioni, che si trovano ora nelle mani di questa ditta, non siano state prelevate dalle tasche dei più poveri tra i poveri del popolo tedesco. La ditta Krupp dovrebbe ringraziare il popolo tedesco per aver lasciato fiorire, crescere e prosperare tanto questa ditta, anche se per lo più contro voglia.
La ditta Krupp ditta patriottica! Lei si rammenta forse, signor ministro della guerra, come il 29 aprile 1868 il signor Friedrich Krupp, fabbricante d’acciaio di Essen nel circondario di Duisburg, avesse inviato ad un certo Napoleone III di Francia una lettera, pubblicata nel noto volume Lettere di patrioti-accattoni tedeschi, nella quale si diceva: «Incoraggiato dall’interesse che la Vostra sublime Maestà ha voluto dimostrare per un semplice industriale e per i felici risultati dei suoi sforzi e del suo incessante sacrificio, ardisco presentarmi nuovamente a Vostra Altezza con la preghiera di volersi degnare di accettare l’allegato album. Esso contiene una raccolta di disegni di oggetti diversi introdotti nelle mie fabbriche. Confido che particolarmente le ultime quattro pagine, che raffigurano i cannoni d’acciaio da me allestiti per diversi illustri governi d’Europa, possano richiamare per un attimo l’attenzione di Vostra Maestà e giustificare il mio ardimento. Con il più profondo rispetto, con la massima ammirazione – si potrebbe aggiungere: e con la speranza di ricevere numerose ordinazioni – sono l’umilissimo devotissimo servo di Vostra Maestà».
E perché sappiate inoltre, Signori, sotto quali auspici la ditta Krupp ha avuto così brillanti sviluppi, voglio leggervi anche la risposta di Napoleone III. Essa dice: «L’imperatore ha accolto l’album con grande interesse, e Sua Maestà ha dato ordine di ringraziarvi per questa comunicazione e di farvi sapere che Sua Maestà auspica il successo e lo sviluppo di un’industria destinata a rendere all’umanità considerevoli servigi». Non manca ora che inserire nello stemma della Krupp un’aureola nella quale inscrivere il nome di Napoleone III.
Signori, il ministro non solo si è sentito in dovere di esprimere il particolare patriottico ringraziamento alla ditta Krupp, ma si è spinto sino a muovermi un rabbuffo, per aver io riportato la faccenda; dice che non serve ai fini dell’istruttoria.
Signori, se qualcosa ha dimostrato che era necessario tirar fuori la questione, è il modo in cui il ministro della guerra mi ha risposto ieri e il fatto che il ministro della guerra ha ammesso ieri che quell’inaudita lettera della Deutsche Munitions- und Waffenfabrik gli era nota già da due anni e che nondimeno non ha intrapreso nulla contro questa ditta, pur rappresentando la lettera, di fatto, perlomeno un duro colpo anche per i nervi più solidi dei più forti patrioti degli affari.
Quanto fosse necessario presentare qui questo materiale lo dimostra tuttavia anche un altro fatto: l’inchiesta, conclusa per il fatto principale, è stata ora rivolta contro chi viene sospettato di avermi passato le informazioni. Signori, è questo un metodo da lungo tempo sperimentato in Prussia: quando viene svelato un abuso, si procede anche contro quello che lo ha scoperto.
Dal momento che sono stato sentito quale testimone in un procedimento che deve servire ad accertare, stabilire se si possa imputare qualcuno di aver trasmesso questo materiale, mi vedo costretto a procedere anche a mia volta senza riguardo alcuno. Devo del resto sottolineare come l’obiettivo dell’istruttoria non possa più essere pregiudicato, perché tutto il materiale è ormai nelle mani dei giudici, tutto è stato sequestrato; ora si tratta solo di trovare la definizione giuridica delle azioni commesse; gli elementi di fatto sono già agli atti, al sicuro. Ma naturalmente non poteva essere mio dovere aspettare, per dare queste informazioni, che il progetto di bilancio militare fosse arrivato a buon fine, tanto più che io e tutti i miei amici e qualsiasi persona avveduta dopo queste rivelazioni sappiamo, forse più di prima, come in realtà non esista attualmente pericolo maggiore per la pace europea – devo continuare a ripeterlo – dei progetti di bilancio militare francese e tedesco. Ed il progetto militare tedesco, proprio come quello francese, è indubbiamente, in parte assai considerevole, il prodotto dell’opera di sobillazione “patriottica” di quella spregevole specie di patrioti degli affari di cui ho parlato.
Signori, è il pubblico interesse che ha dettato la mia condotta, che mi ha imposto il dovere di svelare le manovre degli interessi degli armamenti che rappresentano un pericolo pubblico.
Ieri ho parlato della Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik, delle Dillinger Werke, di Krupp. Il ministro della guerra ha preso sotto la sua protezione, al cinquanta per cento o per tre quarti, e per di più glorificato Krupp; per quanto riguarda la Waffen- und Munitionsfabrik ha ammesso di non aver fatto nulla ed inoltre non ha detto di avere l’intenzione di fare qualcosa, e sulla Dillinger ha completamente taciuto.

Non sono certo sulla falsa strada se ne traggo la conclusione che manca ancora al ministro della guerra l’energia necessaria ad intervenire, che sino ad oggi egli non ha ancora assunto con la sicurezza auspicabile l’atteggiamento che, a parer mio, non andrebbe neppure discusso né in un’amministrazione né in un parlamento che tenessero alla propria pulizia. D’altro canto la questione è di importanza assai maggiore di quanto non indichi il nome Krupp o non indichino i nomi Krupp, Waffen- und Munitionsfabrik, Dillinger.
Ieri all’inizio delle mie considerazioni ho fatto riferimento al cartello per le piastre corazzate. Vi è noto – lo sanno anche i muri; siedono qui molti signori che sono al corrente di queste cose assai più di noi – che gli interessati agli armamenti sono generalmente uniti in cartello. È noto inoltre che Krupp rappresenta il nome di primo piano, la potenza di primo piano nell’industria degli armamenti. Se alla ditta Krupp, la più autorevole di tutte queste fabbriche, avviene quanto ho qui esposto, quale luce si getta sull’intera industria tedesca degli armamenti? Si impone la massima cautela, la diffidenza più illimitata. Perché se ciò è avvenuto alla Krupp o alla Waffen- und Munitionsfabrik, nessuno ci garantisce, anzi, direi quasi, esiste una certa probabilità che le altre ditte non si comportino in modo sostanzialmente diverso nelle loro operazioni, non siano più corrette delle due grandi ditte.
Non mi risulta che il ministro della guerra abbia tratto questa conclusione generale. Già il caso Dillinger mostra come il cartello degli interessi degli armamenti non sia un cartello soltanto tedesco, ma internazionale. Debbo anche richiamare l’attenzione sul fatto che la Krupp, con tutta la sua ditta, fa parte, alla luce del sole, di un importante cartello in Austria-Ungheria, quindi oltre i confini della Germania. Non dovrebbe esservi dubbio che si tratta di una questione della massima importanza per il bene della patria.
Che cosa ho dimostrato? Ho provato che la Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik diffonde sulla stampa estera false notizie per creare così in Germania la condizione di spirito favorevole ad un nuovo progetto di bilancio militare. Ho dimostrato che la ditta Krupp opera a Essen con la corruzione, con la rivelazione di segreti militari, che opera così già da anni, e questo consapevoli per lo meno altissimi funzionari della ditta e su loro istigazione. Queste sono cose della massima importanza che possono indurre il Reichstag a modificare sostanzialmente l’atteggiamento tenuto in passato nella questione dei nostri armamenti e del modo di procacciare i materiali necessari.
Favorire la corruttela – desidero sottolineare – di funzionari inferiori e superiori dell’amministrazione militare, come ha fatto la ditta Krupp, non è in realtà un’inezia. Significa corrompere questi funzionari, significa rendere questi funzionari doppiamente più esposti ad eventuali corruzioni anche dall’estero. Questa non e una “magnanima dimostrazione di sentimenti patriottici,” tale da meritare un ringraziamento quale quello reso ieri dal ministro della guerra.
Questa gente, quella che alla ditta Krupp, alla Waffen -und Munitionsfabrik, alle Dillinger Werke, comanda e gestisce simili pratiche d’affari, è la stessa cui deve essere pagata la massima parte dei nuovi miliardi, richiesti alle tasche del popolo, è la stessa nelle cui tasche sono affluiti ogni anno innumerevoli milioni, è la stessa che nel contempo trae il maggior profitto dal nostro attuale sistema militare, dell’attuale situazione capitalistica e che brutalmente tiene soggette, come i peggiori forcaioli, le masse della popolazione; è la gente che istiga all’oppressione della popolazione, che più reclama leggi sull’ergastolo e leggi eccezionali. È la stessa gente che ha l’impudenza di muovere alla socialdemocrazia il rimprovero di essere senza patria. Questi patrioti-modello dovrebbero essere giudicati in base al loro comportamento, che confina quanto meno con il tradimento della patria.
Signori, portando qui il mio materiale ho fatto il mio dovere: il ministro della guerra dovrà fare ancora gran parte del suo. Nulla deve essere nascosto, né messo a tacere. Si tratta qui di un “Panama” peggio del “Panama.” Intendiamo stare a vedere se il governo troverà l’energia necessaria per intervenire con l’efficacia indispensabile anche nei confronti dell’onnipotente ditta Krupp e di tutta questa onnipotente cricca del capitale, e intendiamo stare a vedere se anche la maggioranza di questo Reichstag trarrà le conclusioni indispensabili, che devono essere tratte nell’interesse del popolo tedesco, nell’interesse della pace europea.

Signori, il dottor Oertel ha richiamato l’attenzione sui fatto che il contenuto della nota sulla “Deutsche Tageszeitung” rappresenta, per così dire, un’aspra condanna della ditta Krupp, ovvero degli avvenimenti così come sono stati presentati. Ciò è vero: me ne sono convinto.
Su questo punto posso ritirare i miei rimproveri. Ma sottolineo che l’intitolazione dell’articolo, che tanto salta agli occhi, sembra indubbiamente fatta apposta per sviare. Oggi ci si vede facilissimamente costretti a non leggere un articolo per esteso, ma spesso l’attenzione è attirata da parole d’ordine e se queste parole d’ordine sono fuorvianti, il giornale, in definitiva, è responsabile degli equivoci che ne nascono.
Il deputato Braband e anche un altro signore mi hanno rimproverato di non essermi accontentato di riportare circostanze specifiche ma di averne anche tratto delle conclusioni. Signori, era questo il mio maledetto dovere e compito. Questi avvenimenti sono sintomatici, ecco il loro aspetto sostanziale; ed essendo sintomatici sono terribilmente pericolosi e per questo è così straordinariamente importante adoperare una scopa di ferro. Restiamo in attesa che ciò avvenga.



III

[...] Signori, il ministero degli esteri ha disposto un’inchiesta per accertare in quale misura il capitale straniero abbia partecipazioni in imprese industriali esercite in Germania. È facile che questa inchiesta risulti pressoché infruttuosa; perché prima di tutto è oltremodo difficile stabilire in quali mani si trovano, di volta in volta, le quote, anonime, di capitale, e poi non dovremmo dimenticare una cosa, sulla quale, appunto, la futura commissione di inchiesta dovrà rivolgere la massima attenzione: ossia, se anche la proprietà di singole imprese, considerata sotto il profilo giuridico, dovesse trovarsi in determinate mani, quali che siano, per il fatto che le imprese con grandi capitali sono unite in Konzerne, in cartelli, e che pertanto tra le imprese capitalistiche tedesche e le imprese straniere si stabiliscono stretti, strettissimi rapporti, viene un momento in cui l’accertamento è reso straordinariamente difficile, tanto più proprio in una inchiesta sul capitale degli armamenti.
La cartellizzazione del capitale all’interno e quella tra il capitale nazionale e quello estero non esclude naturalmente, al caso, la reciproca truffa tra le singole imprese capitalistiche. Non bisogna quindi pensare che più imprenditori dell’industria degli armamenti, i quali si abbindolano l’un l’altro, non possano per questo essere in uno stesso cartello: sarebbe una conclusione errata.
Signori, desidero accontentarmi di queste osservazioni generali. In occasione dell’imminente inchiesta il ministro della guerra subirà pesanti attacchi, al cospetto dei quali, forse, le tentazioni di sant’Antonio saranno un gioco da bambini, e, quale Ercole al bivio, il ministro della guerra dovrà decidere se vorrà giocarsi le simpatie dei più potenti gruppi capitalistici e barattarle con la simpatia della grande massa della popolazione. Gli si presenterà forse questa alternativa.
Signori, particolari difficoltà per l’inchiesta derivano anche dai fatto che certi posti nel pubblico impiego, soprattutto nell’amministrazione militare, vengono senz’altro considerati, sistematicamente, posti di passaggio per buone prebende nell’industria privata. L’imparentamento personale tra la burocrazia militare e gli impiegati superiori del capitale degli armamenti è particolarmente stretto; si presenterà l’occasione di provarlo nei particolari. Voglio fare adesso soltanto un paio dì nomi: gli ex ispettori, eccellenze Fromm e Köhne; gli ex direttori Hirschberg, Kummer, Etscheid, eccellenza Brandt, Passauer e altri, che precedentemente lavoravano nell’amministrazione militare, svolgono oggi un’importante funzione nell’industria privata degli armamenti e ancor oggi – vi ho già accennato lo scorso anno – entrano ed escono dalle fabbriche di Stato come se fossero a casa loro.
Ritengo di aver illustrato con sufficiente chiarezza come le manovre anzidette non abbiano luogo soltanto in Germania, ma siano internazionali e come di conseguenza i miei attacchi fossero rivolti al capitale internazionale degli armamenti. Per quei signori che hanno bisogno di istruirsi ulteriormente al riguardo, voglio accennare brevemente allo scritto di Delais, La Démocratie et les Financiers, al breve scritto istruttivo di de Souza Dantas, La Paix et les Armements, dove si descrive specificamente la situazione francese; quindi allo scritto di Eugène Turpin, La spoliation, persécution et haute trahison pour la patrie, inoltre agli opuscoli della Lega della Pace sui cartelli degli armamenti, ed infine agli scritti di Ludwig Pfeiffer, che in realtà non sempre contengono soltanto nudi fatti, ma le cui congetture spesso non possono non incontrare approvazione.
Si è già detto come, soprattutto per quanto riguarda il capitale inglese degli armamenti, siano state più volte scoperte cose del genere. Si tratta, in modo particolare, della Vickers Limited, della John Brown and Company Limited, della Armstrong, Withworth and Company Limited, della Maxim, ecc. che hanno fondato un Konzern, estremamente pericoloso anche politicamente, che si è provato con ogni chiarezza essere il sostanziale promotore della guerra del Transwaal, del “Jameson Raid”. Al nome Jameson si collegano a questo riguardo i ricordi più gravidi di sospetto.
In Francia abbiamo la stessa cosa. Nello stesso momento in cui noi in Germania ci sforziamo, nell’interesse della pace internazionale, di svelare le manovre degli interessi tedeschi degli armamenti, in Francia i nostri amici fanno lo stesso, in modo particolare contro la ditta Schneider-Creusot. Gli articoli pubblicati sull’”Humanité” sono convincenti. Dimostrano nel modo più chiaro come questi interessati agli armamenti abbiano svolto, in collegamento con le banche, una politica internazionale soprattutto nei Balcani, in riferimento alla Bulgaria ed alla Serbia, come queste ditte agiscano in modo assolutamente ricattatorio e come abbiano manifestato un interesse immediato alla guerra nei Balcani.
Recentemente il ministro della guerra si è chiesto se io volessi allora sostenere che la guerra nei Balcani è stata provocata dagli interessi degli armamenti. Anche allo scoppio della guerra nei Balcani hanno sicuramente partecipato mani poco pulite. Sulla base di quanto pubblicato dall’”Humanité” è fuori dubbio che proprio il capitale francese degli armamenti vi ha svolto una funzione rilevante, dimostrabile.
Ma desidero occuparmi della Germania e premettere una breve osservazione prima di arrivare all’essenziale di quanto ho da dire. (Risa a destra ed in centro). Se vi è parso già tanto importante quanto ho detto adesso... (Grida a destra ed in centro: “No!”), potrete giudicare quanto sarà importante quello che ho ancora da dire. (Grande ilarità). Vi prego, dunque!
Trovo straordinariamente interessante leggere su un organo oltre-modo beneducato, ossia la “Deutsche Tageszeitung,” che all’industria d’armi di Solingen hanno fatto estremo piacere le grosse commesse procurate dall’estero, soprattutto commesse dalla Russia.
Se vi è uno Stato con il quale sussiste forse pericolo di guerra, mi pare sia la Russia, prima di qualsiasi altro. E la nostra patriottica fabbrica d’armi di Solingen doveva proprio avere il piacere di fornire armi tedesche ai russi, così che l’esercito russo, se si verificherà il caso che tanti pessimisti paventano e che tanti fornitori d’armi auspicano con ottimismo, potrà massacrare i soldati tedeschi con armi tedesche.
Signori, nelle rivelazioni intorno all’internazionale del capitale degli armamenti la Dillinger ha svolto una funzione importante; quindi ancora una parola su questa fabbrica. Recentemente il ministro della guerra ha trovato giusto togliersi dai piedi la Dillinger contestando di essere in rapporti d’affari con essa. Non voglio fare ulteriori indagini, per quanto mi sia stato detto che la Dillinger fornisca piastre corazzate per alcune piazzeforti tedesche. Ma la risposta era alquanto fredda. Se il ministro della guerra non ha nulla a che fare con la ditta, è comunque il suo amico e collega del ministero della marina del Reich ad avere straordinariamente molto a che fare con la Dillinger, amico che peraltro non si è fatto vedere qui nei dibattiti della settimana scorsa, che sino ad oggi non si è neppure ufficialmente pronunciato, che non ha rotto i rapporti con la Dillinger, allo stesso modo in cui il cancelliere del Reich non ha colto sinora l’occasione per pronunciarsi, come che sia, su questa faccenda di vitale interesse per il bene del Reich.
Ora, signori, il consigliere di governo Martin ha subito attaccato acerbamente il tentativo di discolparsi delle Dillinger Werke. Ciò si deve probabilmente al fatto che nel consiglio d’amministrazione delle Dillinger Werke siede un ufficiale francese della riserva. Non intendo dilungarmi neppure sul caso Dillinger, ma aspetto di sapere dal ministro della guerra se anche il suo amico e collega del ministero della marina del Reich abbandonerà completamente, come ha fatto lui, le Dillinger Werke.
Passiamo ora alla Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik. Il ministro della guerra ha giustificato la lettera da me citata. Il ministro della guerra è l’unico uomo del sacro romano impero di nazione tedesca a prendere per moneta sonante l’incredibile, infondato pretesto addotto dalla Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik, secondo il quale questa lettera sarebbe stata soltanto un sondaggio per stabilire se la Francia volesse acquistare mitragliatrici, quando la Munitions- und Waffenfabrik aveva naturalmente interesse a ricevere ordinazioni di mitragliatrici.
A quanto so, invece, il significato di questa lettera è stato afferrato da tutti. Peraltro, oltre al ministro della guerra, esiste purtroppo un altro ufficio che sinora ha mancato di cogliere questo significato. La lettera è stata scritta nel 1907, è stata da me pubblicata per la prima volta sul “Vorwärts” nel dicembre 1910, senza trovare, sorprendentemente, attenzione alcuna. È stata poi portata al Reichstag. Uno dei firmatari è il signor von Gontard, tuttora mente dirigente alla Munitions- und Waffenfabrik. Un anno tondo dopo la pubblicazione di questa lettera il signor von Gontard è stato chiamato alla camera dei signori prussiana dalla particolare fiducia del sovrano. Signori, un meritato riconoscimento!...
Vi voglio ora presentare la stessa Munitions- und Waffenfabrik in un nuovo ruolo, forse non privo di interesse per voi. Voglio vedere se poi ricomincerete a ridere.
Fino ad ora non ho portato la prova documentaria, alla lettera, del fatto che il capitale degli armamenti è imparentato e legato in Konzerne su piano internazionale. Sono ora in grado di darvene una prova documentaria. Vi sono interessate le seguenti ditte: la Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik, Berlino; la fabbrica d’armi Mauser, società per azioni, Oberndorf sul Neckar; quindi la Österreichische Waffenfabrikationsgesellschaft, Vienna e – adesso, vi prego, ascoltate bene – la Fabrique Nationale d’Armes de Guerre de Herstal, nel Belgio, nella quale sostanzialmente è investito capitale francese. Tra queste ditte, nel 1905, è stato concluso – dapprima per dieci anni – un contratto a cartello, integrato neI 1907. Il primo contratto del 1905 riguarda esclusivamente la Russia, il Giappone, la Cina e l’Abissinia, mentre il secondo contratto riguarda, come vi si legge, «tutti i restanti paesi con le eccezioni sottoindicate». Queste eccezioni consistono nel fatto che a singole fabbriche del cartello vengono riservati singoli paesi. Si, signori, ad esempio la fabbrica austriaca ha l’esclusiva per l’Austria, la belga per il Belgio ed il Congo, la Deutsche Waffen- und Munitionsfabrik per la Germania, ecc.
Ma, signori, mi sembra che non abbiate ancora afferrato l’importanza della questione. Mi sembra che il vostro atteggiamento nei confronti delle mie comunicazioni, a mio parere straordinariamente decisive, sia condizionato dalla vostra vivace sensibilità per gli interessi che voi rappresentate qui. Signori, volete allora dimostrare con il vostro atteggiamento che, se sino ad oggi si poteva supporre che tutto il Reichstag disapprovava le cose che sono state scoperte, volete allora, signori (rivolgendosi verso la destra), dimostrare con il vostro odierno comportamento che d’ora in poi intendete essere corresponsabili di fronte al mondo intero di queste cose? Con il vostro comportamento odierno voi vi assumete queste responsabilità. (Tumulti continuati. Grida da destra: “che sfacciataggine!” Acclamazioni tra i socialdemocratici).
Signori, quando gridate “Che sfacciataggine,” io non dò alcun peso ai suoni inarticolati che per abitudine vengono lanciati dal settore di destra della camera. Ho già dichiarato poc’anzi quanto mi tocchi questo modo di fare. (Volgendosi a destra) La vostra creanza, signori, è proverbiale ed esemplare. Voi rappresentate qui una piccola parte della camera dei deputati prussiana.
Signori, il contratto tra le sullodate fabbriche prevede l’eliminazione nei rispettivi paesi della concorrenza straniera per agevolare lo sfruttamento “patriottico,” ed inoltre la reciproca garanzia del profitto, proprio come per lo spettabile Konzern della marina; dividono tra loro il guadagno proveniente dalle forniture e si controllano reciprocamente. Per decidere delle eventuali divergenze, viene convocato un tribunale arbitrale. Tra loro naturalmente non esistono segreti. In conformità al contratto devono fornirsi reciprocamente disegni e programmi. Essi intraprendono in comune, in impresa, lo sfruttamento dei popoli dell’Europa e del mondo restante ai fini degli armamenti.
Nel patto integrativo si dice, in modo caratteristico, che le forniture alla Bulgaria ed alla Romania restano affidate alle fabbriche austriache. Signori, ritengo necessario sottolineare in modo particolare questo fatto, a titolo di informazione per tutti gli austriaci che amano la pace. Dopo di che, per lo meno in gran parte, le armi bulgare dovrebbero essere fornite, con gli auspici di questo Konzern internazionale del capitale degli armamenti, da una fabbrica austriaca. Lo stesso vale per la Serbia. Signori, si tratta degli Stati con i quali soprattutto l’Austria deve prevedere la possibilità di un conflitto.
I due contratti, dei quali si disporrà la pubblicazione, in modo che sarete in grado di afferrare tutti i particolari di questa enormità, dimostrano nel modo più evidente quale straordinario pericolo per la pace dei popoli rappresenti il capitale degli armamenti. Dimostrano la perfetta mancanza di scrupoli ed in particolare l’assenza di patria del capitale degli armamenti, con una evidenza sinora difficilmente dimostrabile con documenti. Ecco i grandi patrioti che ardiscono rimproverarci di essere individui senza patria!
La stessa Munitions- und Waffenfabrik che scrisse a Parigi quella lettera, che voi stessi (rivolto a destra) recentemente avete disapprovata, ma che oggi sembrate approvare, questa stessa Munitions- und Waffenfabrik il cui capo successivamente è stato chiamato alla camera dei signori prussiana, partecipa ad un Konzern internazionale che si è posto in modo particolare il compito di procurare armi alla Russia, di procurare armi alla Russia! Questo prova il contratto. La Russia è il nome che già nel contratto del 1905 figura al primo posto.
Ora, noi non sottovalutiamo certo il pericolo rappresentato per la pace dai provocatori bonapartisti dello stampo delle eminenze grige della “Post” ed anche della “Kreuz-Zeitung”; gli anni 1909 e 1910 ci hanno fornito drastici ammaestramenti. Né sottovalutiamo certo il grosso pericolo per la pace insito nell’opera di sobillazione di quella camarilla di ufficiali in rappresentanza dei quali si è esibito in questa camera contro il cancelliere del Reich lo stesso principe ereditario tedesco (campanello del presidente).
Presidente: Signor deputato, ho sentito che lei ha fatto il nome dd principe ereditario quale capo della camarilla tedesca degli ufficiali. Ritengo la cosa inammissibile e pertanto la richiamo all’ordine!
Liebknecht: Signori, “vi resta una dolce consolazione!”
Ma ora, come per il passato, il maggior pericolo è rappresentato dagli interessati agli armamenti con i loro pertinaci, infaticabili sforzi, che non badano a nessun mezzo, per aumentare la materia infiammabile e, quando è possibile, per mettete la miccia al barile di polvere. Proprio dopo i recenti dibattiti al Reichstag, che tanta polvere hanno sollevato, “Die Post,” questo foglio mantenuto dal capitale degli armamenti, si è abbandonato ancora una volta a rozzi attacchi contro la Francia, attacchi tanto inauditi che persino il cancelliere del Reich ha dovuto opporvisi.
Signori, non dovete meravigliarvi se di fronte a tutti questi avvenimenti noi si riesca, in misura sempre maggiore e con sempre maggiore facilità ad abituare la grande massa della popolazione in Germania e anche negli altri Stati militari a vedere dietro lo sfarzo splendente dello sfoggio patriottico quella auri sacra fames, quella maledetta furiosa brama d’oro, in particolare del capitale degli armamenti. Potrei invocare anche come teste principale il signor Gans Edler zu Pulitz, il quale lo scorso anno ammonì il nostro governo a stare all’erta per non essere coinvolto in una “guerra capitalistica.”
Dopo tutto questo, dobbiamo consigliare ai signori del Ballhausplatz di Vienna di guardarsi anche dagli interessati agli armamenti austriaci, che non sono certamente di pasta diversa di quelli tedeschi. Da quanto è stato rivelato il governo austriaco può avere la certezza che in caso di guerra i cannoni ed i fucili russi gli porteranno i saluti degli interessi degli armamenti austriaci e dei loro soci di profitto francesi. Quando giaceranno dilaniati e insanguinati sui campi di battaglia, i soldati austriaci potranno consolarsi con il patriottico pensiero che gli strumenti di morte russi hanno portato a loro morte e annientamento, ma al capitale austriaco un profitto dal grato suono. E, signori, se poi la fedeltà nibelungica austro-tedesca manterrà le sue promesse al punto che nel caso di una guerra comune della Germania e dell’Austria contro la Russia, i soldati austro-tedeschi potranno morire confortati dal pensiero che i proiettili del nemico sono fabbricati da un Konzern finanziario nel quale operano insieme – in una nuova triplice – il capitale tedesco, quello austriaco e quello francese, questo contribuirà, ne sono fermamente convinto, a rafforzare il patriottismo, l’entusiasmo per la guerra, l’eroismo dei figli dell’Austria e della Germania!
Signori, attualmente è in gioco – bisogna dirlo – il leggendario prestigio dell’Austria, che, a quanto si dice, sarebbe messo in pericolo dalla contingente situazione internazionale. Ma non è vero che questo prestigio sia il prestigio del popolo austriaco; è soltanto il prestigio della diplomazia austriaca e questo prestigio della diplomazia austriaca non ha, a parer mio, importanza sufficiente ad offrire in qualche modo il pretesto per un conflitto internazionale. Non è lecito, oggi, apportando una variante al detto di Orazio dire: quidquid delirant diplomati, plectuntur Achivi. I popoli non hanno alcun motivo di lasciarsi aizzare alla guerra, di lasciarsi dissanguare per gli errori ed i peccati dei diplomatici.
Nell’interesse del mantenimento della pace, nell’interesse della promozione degli sforzi che debbono impedire che per una simile folle politica di prestigio l’Europa sia trascinata in una guerra, è necessario ancora una volta additare a tutto il mondo quelle cricche capitalistiche il cui interesse ed il cui nutrimento sono la discordia tra i popoli, i conflitti tra i popoli, la guerra; è necessario gridare ai popoli: la patria è in pericolo! Ma non è in pericolo per via del nemico esterno, ma per via di quel minaccioso nemico interno, soprattutto per via dell’industria internazionale degli armamenti.

(In: K.L., Scritti politici, Feltrinelli, 1971).