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COMUNISMO
n. 63 - dicembre 2007
– Dietro il catastrofismo “ecologico”.
IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA [RG98]: (4/19 - continua del numero scorso - Indice) Alla ricerca di un ruolo autonomo - Primi movimenti economici organizzati - Lotta politica - Il Working Men’s Party (continua).
L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA [RG97] (IX - continua dal numero scorso) Da Zimmerwald a Kienthal: L’importanza di Zimmerwald nella storia del movimento operaio - Contro il militarismo e contro il pacifismo (Continua).
LA QUESTIONE EBRAICA OGGI [RG96-97]:  (IV) Davar, Dire e Fare - Liberi dal Faraone-Capitale.
IL MARXISMO E LA QUESTIONE MILITARE: [RG97]  [Indice del lavoro] - (I) 1. “La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova” - 2. Nel comunismo primitivo e nel trapasso alle società di classe - 3. Sviluppo e crollo della società schiavista, La Grecia: Quadro storico-economico - La Falange oplitica: base della forza militare delle città-stato greche - La Falange macedone (continua).
Dall’Archivio della Sinistra:
    - Progetto di Risoluzione e di Manifesto presentato dalla Sinistra di Zimmerwald, novembre 1915.
    - La Rivoluzione in Russia, Manifesto della Commissione Socialista Internazionale di Berna, 20 marzo 1917.

 
 
 
 
 
 
 


Dietro il catastrofismo “ecologico”
 

Appare da tempo chiaro agli Stati che le implicazioni della cosiddetta “questione ecologica” sono troppo serie ed importanti per lasciarla trattare e pubblicizzare alla “pubblica opinione” da quella sgangherata e variopinta accozzaglia degli “ecologisti”.

Il dato ambientale si lega nell’economia capitalistica in modo inscindibile alle risorse energetiche, in primis quelle fossili, al loro possesso o controllo, ed al sistema stesso di produzione, che non tollera, pena la crisi, rallentamenti, contrazioni, aumenti di costi. Quello energetico è uno dei settori principali nei quali si sviluppano le dinamiche tra gli Stati imperialisti, ed i loro effetti formidabili spaziano non solo nel campo produttivo, ma anche in quello finanziario, politico e militare.

Su questo immane scontro a livello mondiale, tutto dentro e per il capitalismo, graverebbero le incognite del “rapidissimo cambiamento climatico” che sembrano aprire scenari inquietanti, o addirittura apocalittici, minaccianti il futuro prossimo della società. L’ideologia piccolo borghese nella versione “progressista” cavalca questo periglioso tema, e si affanna a cercare la soluzione geniale che consenta di mantenere sviluppo capitalistico e benessere ininterrotto per le mezze classi dei paesi “ricchi”.

Per noi comunisti i termini del problema sono chiari e semplici, rispetto alle complicazioni terribili, alle contraddizioni che vivono gli Stati borghesi, alla travolgente dinamica geopolitica che si sviluppa sotto i temi coloriti della conservazione delle risorse per il futuro, e di quale Mondo sarà lasciato alle generazioni future; dello sviluppo “sostenibile” e delle “risorse alternative”. Tutte considerazioni sacrosante, in via di principio, e degne di studi e convegni; ma nella sostanza assolutamente sterili e vuote, perché astraggono dall’elemento fondamentale, che tutto incardina: il sistema di produzione per il Profitto. Ove si dia per non considerato questo punto, e non si metta in discussione il sistema materiale di produzione dei beni, della loro distribuzione tramite il mercato per l’accumulazione del Profitto, da produrre in massa maggiore in un ciclo forsennato e sempre più rapido, ogni ipotesi di soluzione e qualunque ricetta è stupido e vano esercizio di tecnicismo.

Noi comunisti per principio non abbiamo mai misconosciuto il pericolo reale e drammatico che l’ininterrotto sviluppo del capitalismo – ove non sia possibile chiuderne definitivamente l’ormai disumano ciclo storico – e che la sua estensione inarrestabile possa anche portare al disastro della specie umana, ad una crisi per essa fatale. È una possibilità che la nostra teoria materialistica non esclude. Ma il nostro fine dichiarato è invece spezzare la forma politica che mantiene e difende il modo di produzione capitalistico, e distruggere quelle sue istituzioni per consentire un modo di produrre volto al bene dell’umanità e non del Profitto. Solo sulle rovine della società borghese sarà possibile affrontare e, lo diciamo con assoluta convinzione, risolvere, le drammatiche conseguenze causate dalla sopravvivenza di un modo di produzione così infame ben oltre le sue necessità storiche. Risolte per le future generazioni, verso le quali abbiamo l’obbligo di lasciare un Mondo migliore di come l’abbiamo trovato.

Ma oggi, in conformità all’imperante sistema della riduzione di tutto a spettacolo, la platea piccolo borghese assiste passiva ad una guerra di religione sulla tragica questione dell’inquinamento e del “riscaldamento climatico”, manovrando con disinvoltura, fra il saccente e il terrorizzato, dati scientifici di difficile inquadramento in una convincente teoria. L’opinione di una società, che sicuramente è immersa nella superstizione più di tutte quelle dei cosiddetti secoli bui, assiste impotente al confronto fra negazionisti e catastrofisti, sul terreno dell’imbonimento mediatico, accompagnati dalle grancasse dei politici di turno che propongono le mirabolanti ricette dello “sviluppo sostenibile”, del risparmio energetico, delle fonti alternative di energia. Tutte fandonie di iperbolica stupidità e falsità, alla luce della altrettanto, e letteralmente, iperbolica fame di risorse necessarie per rallentare il declinante tasso di incremento della produzione mondiale.

Si ripiega presto, infatti, prosaicamente sulle raccomandazioni di uno “stile di vita” più morigerato ed “attento agli sprechi”: naturalmente soltanto per i membri della classe lavoratrice. In parole semplici, la pretesa di porre un freno ai “consumi di massa”, che negli paesi industrializzati consentono di mantenere il livello produttivo, basato sui debiti che le classi non abbienti hanno accumulato fino ad impegnare i nipoti e bisnipoti, e generando una “montagna di carta” che mantiene il processo in un precario equilibrio. Come ricetta per contenere l’inflazione e ridurre la temperatura mondiale, non c’è male!

Nessun governo di alcuno Stato è così imbecille da non valutare la sostanza e le ferree necessità dell’economia capitalistica, e da credere davvero che sia possibile un uso “giudizioso” delle risorse; o a limitare, in nome di una “salute del pianeta”, il suo Pil annuale.

Ma per gli organi sovranazionali, vetrine della cattiva coscienza capitalistica, la questione è più semplice: il lusso delle raccomandazioni giudiziose non impegna nessuno. Naturalmente il massimo consesso internazionale, lo scenografico ma imbelle ed impotente ONU, ha fatte proprie le tesi che prevedono scenari da apocalisse nelle proiezioni più lontane, temperate sempre dal consolatorio e filisteo “però siamo ancora in tempo, possiamo rimediare”. Vanta addirittura un premio Nobel collettivo assegnato al suo organismo deputato alla bisogna, l’IPCC, insieme con un vecchio arnese della grande politica Usa, convertito all’ecologico.

Uguale sorte impotente per le conferenze internazionali, da quella di Montreal nel 1987, col suo “protocollo” per la riduzione dei gas responsabili del “buco” nell’ozono atmosferico, conclusasi con una messa al bando di una serie di gas industriali, rimpiazzati da altri di non mai conosciuta pericolosità, per arrivare a quello di Kyoto dieci anni più tardi, che ha preteso una ridicola e tartufesca regolamentazione dell’inquinamento da anidride carbonica nell’atmosfera mediante la costituzione di una sorta di mercato delle emissioni regolato da un truffaldino sistema di “cambiali”, col quale gli Stati maggiormente inquinatori “scaricavano” i loro “debiti” su quelli più deboli – pagandoli a suon di dollari; trattato per altro non ratificato dagli Stati Uniti d’America, allora il primo “inquinatore” del mondo.

Oggi che tale poco ammirabile record è raggiunto da altri giganti, il bluff del contenimento è stato rilanciato con la conferenza di Bali di fine anno, che ha la mirabolante pretesa di evitare il collasso del pianeta imponendo una sorta di “dichiarazione di onore” da parte degli Stati partecipanti con la quale ognuno si impegnerà a stabilire quale sia il suo livello massimo di emissioni di anidride carbonica. E di nuovo esperti e congressisti straparlano di tecnologie innovative, grandi impianti non inquinanti, protetti da gelosi ed impenetrabili copyright, che dovrebbero invece essere resi pubblici, per il bene del mondo.

Ovviamente le gigantesche economie “emergenti” se ne infischiano tanto dei rigidi limiti posti da Kyoto, che delle dichiarazioni di Bali.

I crudi numeri sono a mettere a nudo la grande bugia: lo 85% dell’energia globale è tratta dalla combustione di prodotti fossili; per mantenere almeno fissa la concentrazione di CO2 nell’atmosfera si dovrebbe ridurre dell’80% la produzione di energia di questa origine. Quindi è certo che il capitalismo non potrà fare a meno degli idrocarburi, del gas e del carbone, anche se la loro estrazione potrà superare i “costi accettabili”; per questo il combustibili fossili sono così ferocemente contesi. Ed è da tali premesse che dovrebbe discendere la “riduzione dei gas serra” favoleggiata nelle conferenze internazionali!

Per altro per il capitalismo il “riscaldamento globale” – vero o gigantesca bufala “globale” che sia – sicuramente offrirà nuove “opportunità” per il Capitale: sia l’industria del “risparmio energetico” sia l’aprirsi di nuovi territori di ricerca, giacenti fino ad ora sotto la banchisa artica (idrocarburi), nei bacini orientali della Groenlandia (gas naturale), nel mare di Barents. Nuovi rami produttivi capitalistici, che, seppure nel nome della “ecologia”, come saldo complessivo, peggioreranno ulteriormente il bilancio degli inquinanti emessi e dell’energia consumata.

Allo scopo di mettere primi le mani sui nuovi giacimenti gli Stati rivieraschi hanno iniziato le schermaglie legali e “muscolari” per la rivendicazione di piattaforme e dorsali continentali. Nell’Artico Usa, Russia, Canada, Norvegia, Danimarca andranno a cercare quegli idrocarburi, il cui uso vertiginoso e non controllato sarebbe, almeno così dicono, responsabile dello scioglimento dei ghiacci. Amaro paradosso per i paladini dello “sviluppo sostenibile” e formidabile riprova della nostra intransigente posizione anticapitalista.

La soluzione comunista è presto detta: sicuramente almeno lo 80% della produzione minerale ed industriale, e dei trasporti, è non solo inutile ma nociva per il soddisfacimento dei reali bisogni della specie umana; il primo provvedimento “ecologico” efficace lo prenderà il comunismo internazionale con la sospensione immediata dei quattro quinti del lavoro e del tempo di lavoro!
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America
Capitolo esposto a Parma nel maggio 2007.


(Continua del numero scorso)


(Indice)

 
Alla ricerca di un ruolo autonomo

Quando i soldati della rivoluzione fecero ritorno alle loro case le trovarono cariche di ipoteche, con le famiglie indebitate. Il potere locale si concentrava nelle mani dei ricchi mercanti e dei signorotti locali, che si stavano arricchendo speculando su terra, Buoni del tesoro, carta moneta. A parte le sollevazioni verificatesi nelle situazioni più estreme, come quella di Shay, tra gli appartenenti alle classi più basse della società si diffuse la convinzione che, dopo aver vinto la guerra, restava ancora da “vincere la pace”. L’azione politica di queste classi era ostacolata dalla loro quasi impossibilità di avere una rappresentanza parlamentare, visti i requisiti di proprietà richiesti per poter votare, inizialmente assenti solo in Pennsylvania.

L’azione delle classi lavoratrici si sviluppò quindi in due direzioni: da un lato la lotta per il suffragio, allo scopo di imporre una rappresentanza parlamentare che difendesse i loro interessi; dall’altro il sostegno a Thomas Jefferson, che propugnava l’approvazione della cosiddetta Dichiarazione dei Diritti (Bill of Rights), un’aggiunta di ben dieci Emendamenti alla Costituzione per garantire una serie di tutele al “cittadino”, quali la libertà di stampa, di riunione, di religione, di portare armi, e la protezione da una giustizia sommaria e arbitraria. Si pretendeva così di difendere le conquiste della Guerra d’Indipendenza dalle tendenze “autoritarie” dei Federalisti (Whigs) che, con Hamilton, erano addirittura accusati di voler introdurre la monarchia.

In realtà, i Federalisti già allora erano il partito più consono allo sviluppo economico in senso capitalista del Paese: auspicavano una razionalizzazione e centralizzazione dell’economia, la Banca centrale, misure atte a sviluppare la manifattura e il commercio. Ma nelle particolari condizioni dell’America post-rivoluzionaria le loro iniziative erano evidentemente premature.

La pressione delle classi inferiori fu il fattore determinante della vittoria finale dei Democratici Repubblicani (antenati degli odierni Democratici), con l’ascesa alla Presidenza di Jefferson nel 1800. Questo partito (è in questi anni che si vengono a formare i partiti negli Stati Uniti) si manterrà al potere quasi ininterrottamente fino allo scoppio della Guerra Civile. Il Bill of Rights fu approvato nel 1791, anche grazie alla Rivoluzione Francese, che infiammò gli animi di proletari, artigiani e radicali, e anche grazie alla sempre più palese corruzione serpeggiante tra i Federalisti. Anche se l’opposizione alla classe al potere fu in genere pacifica, non bisogna dimenticare che la massa del popolo arrabbiato proveniva da una guerra sanguinosa, dove aveva imparato ad usare le armi.

Negli anni successivi, grazie al potere economico di cui disponevano, gli ambienti Federalisti si opposero a tutte le iniziative dei Democratici, e questo confermò questi ultimi nella massa dei lavoratori come i suoi più adeguati difensori. I Democratici riuscirono quindi ad ottenere l’appoggio convinto di operai e artigiani, che si riunivano in nuove organizzazioni, interclassiste ma con una fortissima presenza proletaria, che si chiamavano Società Democratiche o Clubs Repubblicani. Fu da queste associazioni, che operarono nell’ultimo decennio del secolo, che sorse il sostegno alla Rivoluzione Francese. Ma si spinsero anche a propagandare il suffragio, e la cultura popolare con scolarizzazione per tutti. Anche se le Società svanirono presto, l’appoggio proletario ai Democratici continuò, fino a dare un sostegno convinto alla guerra contro l’Inghilterra del 1812, che vide gli operai impegnati nell’esercito e nella marina, e in corvée per la costruzione di difese davanti a New York.

Da un punto di vista sindacale invece, come abbiamo visto, le organizzazioni operaie erano in genere deboli e di vita breve. La situazione non mutò fino agli anni 1819-1822, quando una diffusa e profonda depressione economica determinò una forte disoccupazione nelle grandi città, che fece crollare quel poco di associazionismo sindacale che la classe era riuscita ad esprimere. Nel 1823 vi fu una ripresa, ma per tutti gli anni ‘20 la condizione operaia rimase durissima, tale da far rappresentare da commentatori dell’epoca la condizione dello schiavo di gran lunga migliore. Nel 1829 vi fu un’ulteriore crisi seguita da diffusa disoccupazione. La debolezza dei proletari era appalesata dal diffondersi dei contratti yellow dog (soprattutto con la manodopera femminile), nei quali il lavoratore firmava un documento con il quale si impegnava a non fare attività sindacale: ove non si attenesse al contratto sarebbe stato passibile di mancata corresponsione del salario dovuto; siccome spesso il salario era pagato anche due sole volte l’anno, la ritorsione era pesante. Inoltre erano già diffuse le black lists, gli elenchi dei lavoratori che non si erano comportati come i padroni volevano, e che non avrebbero più trovato lavoro, almeno nello stesso Stato o nello stesso settore industriale.
 

Primi movimenti economici organizzati

Già nel 1823 si erano avuti primi segni di un diffuso risveglio proletario. A marzo a New Orleans si era riunito un gruppo di tipografi, spinto da «le infime condizioni cui è stata ridotta la fratellanza dalla mancata regolarità dei salari pagati dai padroni», che si era organizzato in sindacato. Presto la stessa iniziativa fu presa da operai di diversi mestieri di New York, Philadelphia, Baltimora, Charleston e altre città; tutti intendevano organizzare i loro sforzi per ottenere dai padroni salari più alti e orari di lavoro meno lunghi, minacciando scioperi se le loro richieste non fossero accolte. Il processo di sindacalizzazione proseguì per tutto il decennio, estendendosi a tutte le città e a tutte le categorie. Il 1827 ne vide il coronamento con la fondazione della Mechanics’ Union of Trade Associations, a Philadelphia. Non era solo un nuovo sindacato, era un sindacato intercategoriale, che rappresentava un più alto livello di coscienza di classe: si riconosceva che i lavoratori manuali avevano problemi comuni, al di là dei mestieri, e che le lotte potevano essere condotte lottando tutti insieme, con uno sforzo unitario, di tutti i proletari, della classe, contro il nemico comune. Una struttura che riuniva i proletari sotto un unico tetto, prefigurando le Camere del Lavoro e le Federazioni sindacali del futuro; è infatti da questa data che si fa di solito iniziare il movimento sindacale moderno negli Stati Uniti.

La Mechanics’ Union di Philadelphia era sorta dal movimento per le dieci ore, esteso a macchia d’olio nel decennio 1825-1835 ed iniziato già prima che si formassero dei veri sindacati: infatti nel 1791 i carpentieri di Philadelphia erano scesi in sciopero per la giornata di dieci ore e per il pagamento delle ore straordinarie.

La rivendicazione più importante sollevata nel decennio fu quindi la limitazione della giornata lavorativa. L’orario di lavoro andava di regola dall’alba al tramonto ma, benché già disumano, rappresentava solo il minimo, e gli imprenditori non si facevano scrupolo di pretenderne il prolungamento. A Paterson, nel New Jersey, per esempio, un regolamento di fabbrica stabiliva che le donne e i fanciulli dovevano essere al lavoro alle quattro e mezzo del mattino; nelle fabbriche di Peterboro e di altre località del New Hampshire, era uso servirsi della luce artificiale per far iniziare il lavoro un’ora e più prima dell’alba; una pratica che gli operai chiamavano “la creazione di due sere in una sola giornata”.

Sempre a Paterson si ebbe nel 1828 il primo sciopero di fabbrica di cui si abbia notizia negli USA, anch’esso legato all’orario di lavoro: alla proposta di spostare l’ora del pranzo dalle 12 alle 13 le maestranze, prevalentemente fanciulli, scesero in sciopero. La loro paura, fondata, era che di quel passo la proprietà avrebbe cercato presto di vietare del tutto la pausa pranzo.

Intorno al 1825 per la riduzione dell’orario di lavoro iniziò l’agitazione, affrontata con passione, delle numerose organizzazioni dei marittimi e dei carpentieri, e dai sindacati degli edili, dal Maine a Baltimora.

Vi furono molte lotte isolate, sconfitte dall’assenza di stretti collegamenti tra le diverse organizzazioni locali. Si doveva lottare non solo contro gli influenti gentlemen, ma anche contro i pregiudizi diffusi nell’opinione pubblica. Agli operai si tentava artatamente di spiegare che la giornata di dieci ore si sarebbe risolta in un male per loro: avrebbe esercitato un effetto infelice sugli apprendisti, distraendoli dal perseguire la via dell’industriosità e dell’economia cui i padroni si sforzavano di educarli, mentre gli operai adulti sarebbero stati esposti a molte improvvide pratiche e tentazioni. I sindacati, dicevano i padroni, erano “non-americani” (un termine spesso ricorrente, variamente utilizzato anche nel secolo successivo): erano stati importati dagli stranieri, dall’Europa, e introducevano uno spirito di scontento e di insubordinazione, sconosciuto fino ad allora tra gli operai americani. Se lasciate svilupparsi indisturbate queste combinazioni di operai avrebbero danneggiato tutte le classi, in quanto avrebbero conferito al mondo del lavoro un aspetto artificiale e innaturale, volgendone i vari comparti in tanti monopoli.

Nella primavera del 1827 i lavoratori di Philadelphia furono stimolati dalla lettura di un opuscolo che li invitava a innalzare il livello delle loro lotte in campo politico e sindacale, anche organizzando biblioteche, organi di stampa periodica, locali per riunioni, ecc. L’opuscolo terminava invitando alla lotta per le dieci ore. I carpentieri seguirono a breve questo ultimo invito. «Noi riteniamodicevano i carpentieriche tutti gli uomini hanno un giusto diritto, derivato dal loro creatore, di avere abbastanza tempo in ogni giorno per coltivare la loro mente e per migliorarsi». Altri operai della città condivisero lo sciopero, nella convinzione che ne avrebbero raccolto i frutti «le migliaia che erano ancora da nascere». Lo sciopero fu sconfitto, ma insegnò agli operai che solo l’unità di tutte le categorie poteva dare la possibilità di battere i padroni. Fu così che nell’autunno del 1827 da quindici diversi sindacati categoriali nacque la Mechanics’ Union of Trade Associations, con lo scopo di «scongiurare le desolanti conseguenze che inevitabilmente discendono dal deprezzamento del valore intrinseco del lavoro umano».

Questa federazione di sindacati visse fino al 1831; dedicò gran parte delle sue energie all’azione politica e alla solidarietà intercategoriale. Il suo esempio fu seguito nel 1831 dalla New England Association of Farmers, Mechanics and Other Workingmen. Anch’essa era il prodotto della lotta per la riduzione della giornata lavorativa, evidentemente un aspetto della condizione operaia sul quale non era difficile concordare. Anche se all’epoca la giornata di dieci ore era già stata ottenuta a New York e in parte a Philadelphia, nel New England si lavorava ancora dall’alba al tramonto.

La New England Association si riunì per la prima volta a Boston nel febbraio 1832 per redigere uno statuto. Uno degli articoli recitava che tutti i membri, a parte gli agricoltori, dovevano impegnarsi a lavorare solo dieci ore al giorno senza riduzioni di salario. Siccome si vide subito che si trattava di un impegno impossibile da realizzare fu creato un fondo di sostegno per i membri espulsi dal lavoro per rispettarlo. Ma si trattava di una goccia nel mare se confrontato con i 20.000 dollari raccolti dai padroni per spezzare lo sciopero dei carpentieri navali di Boston per lo stesso scopo. Anche questa organizzazione spostò presto le sue attività sul fronte politico. Il suo contributo più importante al movimento operaio del Paese fu che si trattò del primo tentativo di includere tutti i gruppi di lavoratori in una singola organizzazione: operai di fabbrica, manovali, specializzati. Il vero sindacato, scrivevano «dovrebbe comprendere ogni cittadino, dal grande artista all’infimo manovale, i cui sforzi quotidiani sono l’unico mezzo di sussistenza».

Mentre le rivendicazioni economiche rivestivano per i proletari un interesse che dipendeva molto dalla situazione contingente, la lotta per le dieci ore non conosceva crisi nella popolarità che godeva tra gli operai, ed ebbe un ruolo centrale nel favorire la loro associazione. Come abbiamo visto Boston fu lo scenario di due scioperi degli edili a tale scopo, nel 1825 e nel 1830. Nel 1833 fu la volta di Baltimora, e dopo due anni gli operai di Boston ripresero le ostilità. Nella primavera del 1835 questi ultimi tornarono quindi alla lotta, stavolta con il sostegno di sedici associazioni di diversi mestieri all’interno della General Trades’ Union (GTU). Ma la resistenza questa volta venne anche dall’interno, dai maestri artigiani, piccoli padroni che erano stati ammessi alla GTU. Questi misero insieme un comitato incaricato di studiare quali possibilità avesse uno sciopero generale, e il comitato produsse una relazione nella quale si raccomandava che le azioni di lotta fossero intraprese dalle singole categorie di mestiere!

Nonostante il consiglio “amichevole” gli operai persistettero nei progetti per una fermata generale di tutte le categorie, e ai primi di maggio vi fu una grande riunione in un edificio di Boston, la Julien Hall, quando qualche categoria aveva già iniziato la lotta. Risoluzioni che proclamavano il diritto naturale dei lavoratori a «disporre del nostro tempo nel modo che riteniamo più adatto alla nostra felicità» fecero da introduzione all’oratore principale, Seth Luther, il quale, in un discorso appassionato, affermò che non fosse ammissibile che «qualsiasi uomo o gruppo di uomini possa pretendere (...) che dobbiamo sgobbare come abbiamo sinora fatto sotto il vecchio sistema di rapporti di lavoro». Il nuovo sistema di lavoro “repubblicano”, che prometteva sollievo morale e culturale per l’operaio, egli assicurò a un pubblico rapito, era a portata di mano. Ristampate e diffuse in tutto il Nord-Est come la “Circolare delle Dieci Ore”, le parole di Luther scatenarono un’esplosione di scioperi che non avrebbe conosciuto l’eguale fino ai disordini ferroviari del 1877. Le lotte si estesero a Sud, verso Filadelfia e oltre, e a Ovest, fino a Cincinnati. Alla fine di giugno molti scioperi locali erano terminati perché l’obbiettivo era stato raggiunto; un po’ ovunque il 4 di luglio fu quindi celebrato dagli operai con una ragione in più. Meno che a Boston: proprio nella città nella quale tutto era iniziato padroni e grandi mercanti ebbero la meglio sul movimento per la terza volta in dieci anni.

Nell’inverno 1836-1837 i carpentieri navali ottennero le dieci ore per i lavori di riparazione, mentre nella costruzione di nuove navi le dieci ore furono conquistate nel 1840. A New York, come nel New England, il movimento per la riduzione dell’orario di lavoro mostrava una vivace combattività, riuscendo a conquistare risultati maggiori. In alcuni posti di lavoro la giornata lavorativa di dieci ore era stata ottenuta nel 1832 e nel 1836 da tutto il settore delle costruzioni navali. A Filadelfia, dopo alcuni limitati successi nel 1833, vi fu nel 1835 uno sciopero generale con buona riuscita. Così a Baltimora dove, all’inizio del 1836, la General Trades’ Union inviò al Congresso degli Stati Uniti il primo memorandum per richiedere la giornata lavorativa di dieci ore in tutti i lavori pubblici, ma senza risultati. Fu poi la volta degli scalpellini a entrare in sciopero per le dieci ore. Altri importanti successi sarebbero seguiti se la crisi del 1837 non avesse duramente colpito le organizzazioni dei lavoratori, facendole arretrare per diversi anni. Ad ogni modo il movimento rimase in piedi e ciò fu importante per il morale degli operai in quei tempi difficili.

Nel 1832 i mercanti e gli armatori decisero in una riunione a Boston di «scoraggiare e tenere a freno le illegali associazioni di mestiere, costituite per limitare la libertà degli individui riguardo gli orari di lavoro», ponendo l’accento sulla «nociva e corruttrice tendenza di queste associazioni, oltre che sull’insensatezza delle loro richieste, soprattutto dove i lavoratori specializzati sono stimati e ben retribuiti». Essi decisero infine di non assumere operai qualificati iscritti alle associazioni e di boicottare ogni mastro artigiano che impiegasse questi lavoratori. I mercanti di New Yorkin quel periodo gli armatori erano quasi tutti mercantiapprovarono analoghe risoluzioni lamentando il fatto che gli operai «sono inoperosi durante le due o tre ore più preziose del giorno». Un giornale di Boston scrisse che «rimanere oziosi la mattina e la sera per diverse ore, quelle più fruttuose, conduce sicuramente all’intemperanza e alla rovina». Il padronato non si limitò alle riunioni e al boicottaggio delle risoluzioni operaie, ma ricorse anche ad armi ben più taglienti, sollecitando l’intervento della magistratura, della polizia e della milizia.

Nel 1829 erano stati arrestati per sciopero gli operai che costruivano il canale Chesapeake-Ohio, ma rilasciati poco dopo. Nel 1833 a Geneva (nello Stato di New York) alcuni calzolai furono condannati per cospirazione e gettati in prigione. Nel 1836, a New York, ventuno sarti che erano scesi in sciopero furono processati e condannati a multe da cento a centocinquanta dollari; l’onorevole giudice affermò che «questo non è un semplice conflitto tra operai e imprenditori, ma una lotta da cui dipende l’armonia nell’intera Unione». Ancora più “pratico” si dimostrò il sindaco della città che nello stesso anno mobilitò la milizia contro i portuali in sciopero per l’aumento del salario e la riduzione dell’orario, costringendoli a riprendere il lavoro sotto la minaccia dei fucili. Analoghi fatti accadevano a Filadelfia.

Intanto, però, il movimento aveva preso un’ampiezza tale da richiamare l’attenzione degli uomini politici. Gli operai si riunivano quasi ogni settimana in affollate assemblee nelle grandi città e nei distretti industriali degli Stati di New York, Pennsylvania, Maryland, New Jersey, Massachusetts, Connecticut, Rhode Island, New Hampshire, Maine. Gli scioperi erano all’ordine del giorno quando il presidente Martin Van Buren promulgò il famoso decreto sulle dieci ore, che il Cantiere navale di Washington così applicò il 10 aprile 1840: «Per disposizione del Presidente degli Stati Uniti è istituita da oggi la giornata lavorativa di dieci ore in tutti gli stabilimenti pubblici». Il decreto del presidente Van Buren fu il primo provvedimento legale a favore degli operai degli Stati Uniti e il primo riconoscimento ufficiale di una loro rivendicazione.
 

Lotta politica

Verso la fine degli anni ‘20 il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e lo sfaldamento del mondo artigiano, che abbiamo descritto, diede vita a un diffuso movimento operaio negli Stati del Centro-Nord. Scontenti della ideologia del free labor, gli operai cominciarono a cercare spiegazioni alternative, e i modi possibili per difendersi da un vero e proprio attacco che si stava consumando a spese delle condizioni di vita e di lavoro delle famiglie proletarie. Nacquero così sia associazioni politiche sia sindacati, in questo anelito a capire cosa si poteva fare per non soccombere all’ingordigia e all’egoismo padronale. Gli storici borghesi chiamano questo ampio e sfaccettato movimento “radicalismo”, ma in realtà era un agitarsi convulso di azioni, teorizzazioni, esperienze, tradimenti, parziali intuizioni, che costituivano una specie di grembo nel quale l’embrione della classe operaia americana, e della sua coscienza, si stavano sviluppando.

I problemi immediati da affrontare erano chiari a tutti: salari insufficienti e in continuo calo, e orari di lavoro insopportabili e debilitanti. Sulle risposte da dare si avvicendò un numero di intellettuali, alcuni provenienti dalla classe borghese, molti sorti direttamente dal proletariato, in genere lavoratori specializzati dotati di letture e di comunicativa. Tra questi ultimi si possono nominare Seth Luther, John Commerford, William Gilmore e John Ferral; tutti dirigenti operai che combinavano idee illuministe con le più recenti novità in tema di scienza, tecnologia e economia politica. Un altro, Thomas Skidmore, vedeva come soluzione dei problemi sociali la distribuzione delle terre.

Più interessanti sono le posizioni di un calzolaio nato in Inghilterra, William Heighton: egli formulava una elementare teoria del valore, che “proviene dal lavoro della classe operaia”. Nella quale classe includeva anche i lavoratori non specializzati, fatto non banale perché questo non era sempre il caso; forse anche grazie a lui, Filadelfia, la città in cui operava, si caratterizzò allora e in seguito per le sue organizzazioni sindacali che accettavano anche questi paria della classe operaia, che saranno invece a lungo discriminati altrove, insieme a donne, bambini, negri. Secondo Heighton i mali della società americana derivavano dall’ingordigia di accaparratori di terra, dopo la guerra d’Indipendenza, che prendendo in mano le leve del potere avevano creato una legislazione a favore dello sfruttamento del lavoro salariato. Quello che mancava ai lavoratori, e ne costituiva il punto debole, era la conoscenza, la cultura. Per Heighton il processo produttivo capitalistico, che lui chiama “sistema di interesse individuale e competizione”, e che secondo Adam Smith alla fine si risolve in opulenza e benessere per tutti, porta solo miseria e non prosperità all’operaio.

Nessuno di questi radicali può essere considerato socialista. Nessuno di loro si spinge ad attentare alla proprietà privata, né di prevedere una società senza classi. Anche i padroni non sono in blocco accomunati nella esecrazione, ma solo quelli più potenti o avidi. Inoltre, a parte Heighton, nessuno di loro prende in considerazione gli strati più deboli, come i lavoratori non specializzati, le donne, i bambini, i negri, liberi o schiavi che fossero. Questi pensatori radicali, nella gran parte espressi dal mondo del lavoro, si fermano al livello della discussione, del tentativo di spiegare i nuovi rapporti sociali; affrontati con strumenti non scientifici, tentando di comprendere il mondo nuovo che si stava delineando con il bagaglio culturale dell’Illuminismo e della nuova scienza economica. Non sono né rivoluzionari né agitatori sindacali, ma ebbero un qualche ruolo, a volte involontario, nel sorgere delle associazioni operaie nei primi decenni del secolo.
 

Il Working Men’s Party

La nascita del movimento operaio nordamericano, con i contenuti che abbiamo appena tratteggiato, si manifestò quindi inizialmente con la formazione del Working Men’s Party (Partito dei Lavoratori) a Filadelfia nel 1828. A questo e ad altre organizzazioni politiche, velleitarie ma povere di contenuti e poco seguite dalla classe, fece seguito la stagione del sindacalismo, che si sviluppò a partire dal 1833, quando fu fondata il General Trades’ Union of New York. In pochi anni il movimento crebbe e si diffuse su tutta la costa atlantica e nel Midwest, per arrestarsi, come visto, a causa della crisi del 1837. Il vuoto lasciato dal sindacalismo fu riempito, in un triste periodo di sette anni, dall’influenza di politicanti piccolo borghesi e di predicatori evangelici. La lotta di classe su vasta scala riprese solo verso la fine degli anni ‘40, quando la ripresa economica e l’afflusso di immigrati diede nuova linfa al movimento operaio; una ripresa che continuò fino alla guerra. Si trattava però di lotte che raramente riuscivano ad uscire dall’ambito in cui erano nate, né lasciavano dietro di sé eredità organizzative durature. In una classe che sostituiva i suoi componenti con ritmi molto rapidi raramente l’esperienza di classe si cristallizzava a costituire una coscienza da trasmettere nel tempo e nello spazio. I proletari erano quindi facile preda dell’ideologia borghese, in primis del free laborism, della rinuncia al sindacato organizzato, dell’influenza delle Chiese, dell’indifferenza di fronte al problema della schiavitù.

La schiavitù al Sud ben rappresentava le divisioni di classe anche tra i dominatori bianchi, ma gli operai erano piuttosto tiepidi al riguardo. Per molti la schiavitù era una difesa nei confronti del lavoro sgradito, e un sistema che tenendo i neri segregati e soggiogati faceva sentire i bianchi poveri più vicini ai ricchi, li illudeva di essere su un piano di uguaglianza con i padroni. Ma la schiavitù in realtà creava problemi ben più concreti al proletariato bianco. Gli schiavi utilizzati nell’industria mantenevano i salari bassi, e inoltre potevano essere usati in chiave antisciopero, come avvenne nel 1847 nelle acciaierie Tredegar di Richmond, quando i bianchi in sciopero furono licenziati e sostituiti da schiavi. Il movimento operaio nel Sud rimase sempre molto debole, e troppo spesso indirizzato soltanto all’esclusione dei negri dalle attività manifatturiere.

Anche in campo politico la classe operaia subiva forti condizionamenti dall’esterno. Mentre in Europa il diritto al voto fu ottenuto a prezzo di lunghe lotte che attraversarono l’800, negli Stati Uniti il movimento per il suffragio universale fece aumentare l’elettorato, tra il 1815 e il 1840, fino all’80% dei cittadini maschi adulti. Non vi fu quindi quella politicizzazione che interessò e affasciò i lavoratori europei, né la nascita di partiti operai di un qualche peso; alla vigilia della rivoluzione industriale quindi l’appartenenza politica non rifletteva l’appartenenza di classe, o la rifletteva solo in misura trascurabile. Per la stessa ragione la coscienza di classe del proletariato rimase sempre a livelli molto più bassi rispetto ai fratelli di oltre Atlantico.

Il movimento che per primo si diede obbiettivi comuni a tutta la classe, e che quindi sfuggì al dominio dei partiti e dell’ideologia borghese, fu l’agitazione per la giornata di dieci ore, che ebbe i suoi inizi verso la fine degli anni ‘20. Nell’estate del 1827 gli operai specializzati di Filadelfia, subito dopo la sconfitta di uno sciopero dei lavoratori delle costruzioni per la riduzione dell’orario di lavoro, affollarono un assembramento convocato da William Heighton. Fu su suo invito che costituirono la Mechanics’ Union of Trade Associations, che per prima collegava tutti i sindacati della città. Anche se nata sotto un segno sindacale, ad una riunione del gennaio 1828 la Associazione sostenne una proposta di Heighton per la formazione del Working Men’s Party. Un esempio che fu seguito ad un anno di distanza dai radicali di New York, anche perché si temeva un tentativo dei padroni di estendere la durata della giornata lavorativa. Fu creato un comitato, guidato da Thomas Skidmore, che continuò a riunirsi anche dopo che il pericolo era cessato. Il comitato presto prese la decisione di partecipare alle elezioni municipali del 1829, sotto il vessillo del Working Men’s Party.

Nel New England la lunga durata della giornata di lavoro era stata per gli operai un’ossessione sin dalla metà degli anni ‘20; per due volte in cinque anni, nel 1825 e nel 1830, gli edili di Boston erano stati sconfitti in scioperi per le dieci ore. Cercarono una soluzione nel partito politico. Questo, come d’altronde a New York e in Pennsylvania, dopo una prima effimera diffusione nello Stato, non sopravvisse per un anno. Non così fu per la questione dell’orario di lavoro: in una riunione a Providence dell’autunno 1831 fu rifiutato «il diritto assoluto e incondizionato» del capitale di stabilire le condizioni di lavoro, e fu fissata una successiva riunione a Boston per il febbraio seguente, che generò la New England Association of Farmers, Mechanics, and other Working Men.

Non bisogna però immaginare queste organizzazioni col metro di oggi. Soprattutto nelle campagne e nei piccoli centri erano “partiti operai” solo nel nome, mentre nella realtà si trattava di piccoli gruppi messi insieme in tutta fretta alla vigilia delle elezioni, e che si disperdevano subito dopo. Molti erano guidati da politicanti di professione, trombati e in cerca di rilancio, imprenditori interessati a lanciarsi in politica, giovani avvocati ambiziosi e simili. Nelle città più grandi, invece, l’influenza degli strati artigiani di solito era consistente. Negli organi direttivi stavano spesso operai specializzati, che includevano nelle piattaforme programmatiche, insieme a richieste moderate e fantasiose, rivendicazioni radicali e autenticamente proletarie. Tra le richieste più comuni erano l’abolizione della prigione per debiti, degli obblighi di partecipazione alla milizia territoriale, dei lavori forzati; un sistema legale meno costoso, tasse più eque; diritti di prelazione per il pagamento dei salari in caso di fallimenti. A volte erano avanzate richieste per il miglioramento della vita in città, affinché la qualità della rete idrica e fognaria di cui godevano i quartieri dei ricchi fossero estesa anche a quelli operai. Una costante era anche la difesa della piccola azienda artigiana e della piccola fattoria diretto-coltivatrice dall’ingordigia dei grandi industriali e speculatori, e la richiesta per i figli di una “educazione repubblicana”.

Il Working Men’s Party fu però una meteora nel cielo della politica. A Filadelfia ebbero buoni risultati elettorali nel 1828, e andarono ancora meglio nel 1829, arrivando a superare il 30%. Ma nel 1831 il movimento era completamente spento. Un risultato simile fu ottenuto a New York nel 1829, ma anche in questo caso entro due-tre anni le spaccature interne portarono il partito ad una fine precoce. Dilettantismo, isolamento, arrivismo di molti dirigenti furono gli ingredienti che determinarono la disgregazione di queste proto-organizzazioni.

Anche se i partiti della borghesia e dei fondiari erano in qualche modo anch’essi delle novità per il Paese, non mancavano certo di talento politico, disponevano di risorse ben maggiori, e godevano di superiore risonanza e seguito.

I giornalisti nazional-repubblicani fecero causa comune con i pastori evangelici nel definire gli appartenenti al Working Men’s Party “infedeli” e “giacobini”. I democratici furono più cauti perché ne cercavano di raccogliere l’eredità: non tardarono ad assumere un linguaggio più radicale, mettendo nei loro programmi interventi a favore dei debitori, la riforma della milizia, e altre iniziative che effettivamente riuscirono a far transitare voti operai verso il loro partito.

Una delle ragioni del fallimento del Working Men fu l’immobilismo in cui contemporaneamente caddero altre organizzazioni operaie, quali sindacati e cooperative, che si squalificavano per il coinvolgimento dei loro dirigenti nell’agone del politicantismo. Una conseguenza duratura di questo fu una certa diffidenza dei lavoratori verso le organizzazioni politiche alternative ai due principali partiti di massa.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


L’Antimilitarismo nel movimento operaio in Italia
Capitolo esposto alla riunione di Genova, il 21 settembre 2007.

(Continua dal numero scorso)

Da Zimmerwald a Kienthal
 

La Conferenza di Zimmerwald ebbe una vastissima risonanza in tutto il mondo.

Non potendo ignorare Zimmerwald, occultarlo sotto una coltre di silenzio, la libera stampa di regime, indistintamente, in tutti quanti in paesi belligeranti, denunciò la conferenza come il prodotto di una subdola manovra organizzata dal nemico. Ma la conferenza antibellicista la sua maggiore risonanza la ebbe, come era naturale, all’interno del movimento operaio internazionale. Tutti gli appartenenti al socialismo internazionale, partiti, frazioni, sindacati, gruppi parlamentari, etc, furono così costretti, volenti o nolenti, a prendere posizione: chi per associarvisi e chi per condannare e combattere il movimento zimmerwaldiano. Nessuno poté ignorare l’avvenimento, fare finta che non fosse esistito. E questo fatto da solo avrebbe costituito, di per sé, una grande vittoria.

Alle deliberazioni di Zimmerwald aderirono immediatamente: 1. Il Partito Socialista Italiano; 2. Il Partito Socialista della Svizzera; 3. Il British Socialist Party; 4. L’Independent Labour Party; 5. Il Partito Socialista di Romania; 6. Il Partito Socialdemocratico Russo (Comitato centrale), bolscevico; 7. Il Partito Socialdemocratico Russo (Comitato organizzativo), menscevico; 8. Il Partito dei Socialisti Rivoluzionari della Russia; 9. L’Unione generale degli operai israeliti della Lituania, della Polonia e della Russia; 10. I tre Partiti Socialisti polacchi (Comitato generale, Comitato nazionale e Comitato centrale del Partito socialista polacco); 11. Il Partito Socialdemocratico della Bulgaria; 12. Il Partito Socialdemocratico del Portogallo; 13. La Federazione Socialista di Salonicco; 14. La Gioventù Socialista della Svezia e della Norvegia; 15. Il Socialist Labor Party dell’America; 16. Il Socialist Party dell’America.

Tra gli accaniti avversari, troviamo invece, in prima fila, i partiti socialisti di Francia e Germania, nemici sul fronte della guerra imperialista, ma concordi e solidali nel combattere ogni forma di residuo di classe che potesse riemergere dalle ceneri del grande tradimento. Infatti il loro atteggiamento verso la guerra e nei confronti della cosiddetta difesa della Patria non differiva minimamente: era identico.

In un comunicato ufficiale del 2 ottobre 1915, il Partito Socialista Tedesco tentava di nascondere il proprio sciovinismo e l’adesione alla guerra imperialista camuffandolo sotto paludamenti “pacifisti”. Vi si possono leggere passaggi di questo tenore: «Ricordiamo ancora una volta espressamente che: Tutto il Partito Socialista Tedesco è animato dallo stesso desiderio di pace. Gli organi direttivi del Partito Socialista Tedesco hanno fatto tutto quanto era in loro potere e continueranno a farlo per accelerare la conclusione della pace. Gli organi competenti hanno più volte manifestato pubblicamente a nome dell’intero partito il desiderio di pace e la propria ostilità a qualsiasi progetto annessionistico». Ma... «Gli sforzi degli organi direttivi del P.S. Tedesco non hanno purtroppo incontrato nessuna reazione favorevole all’estero».

Molto più apertamente parlava il Partito Socialista Francese che, senza nessuno scrupolo, affermava: «Una pace duratura può essere conseguita solo con la vittoria degli Alleati e la rovina dell’imperialismo militarista tedesco, e che qualsiasi altra pace, qualsiasi pace prematura, sarebbe soltanto una tregua o una capitolazione (...) La lotta imposta agli Alleati dai dirigenti tedeschi deve essere portata sino alla sua logica conclusione, vale a dire sino alla disfatta del militarismo tedesco, tale che sia data al mondo la grande e necessaria lezione di un’impresa egemonica sventata dalla resistenza dei popoli liberi!». Pochi decenni dopo le stesse argomentazioni furono fatte proprie dallo stalinismo e dai partiti della Terza Internazionale. Il Partito Socialista Francese invitava dunque «tutte le Federazioni e le loro sezioni ad evitare persino la parvenza di una partecipazione qualsiasi ad una propaganda contraria agli interessi della difesa nazionale».

Di tutt’altro tenore era stata la presa di posizione del P.S.I.: «Il Comitato direttivo del P.S.I. esprime il suo vivo compiacimento per la rinascita del movimento internazionale, dimostrata in modo mirabile dal risultato dei lavori di Zimmerwald, perché a questa Conferenza sono stati riannodati i legami di fratellanza e di solidarietà che uniscono gli operai di tutti i paesi contro le azioni della borghesia capitalista e imperialista, al di sopra di qualsiasi risentimento sciovinista.

«Il Comitato direttivo approva pienamente il Manifesto rivolto dai rappresentanti delle diverse nazionalità riuniti alla Conferenza e si impegna ad uniformare il proprio atteggiamento e quello di tutto il partito alle decisioni della Conferenza di Zimmerwald.

«Per questo, prendendo conoscenza dei lavori della C.S.I. fedele alle tradizioni del socialismo internazionale e della lotta di classe del proletariato, il Comitato direttivo s’impegna ad appoggiare detta Commissione con la collaborazione dei membri del partito e con i mezzi finanziari di cui il Comitato direttivo potrà disporre, e decide, al tempo stesso, di diffondere con ogni mezzo ed ovunque, anche contro l’ostilità del governo, il Manifesto di Zimmerwald che incita gli operai di tutti i paesi alla lotta contro la guerra.

«Il Comitato direttivo invita tutte le sezioni, la stampa del Partito, il gruppo parlamentare, i rappresentanti del partito nei consigli comunali, nelle assemblee provinciali, le organizzazioni operaie socialiste e i compagni socialisti in generale, ad uniformarsi alle decisioni della Conferenza internazionale e li incoraggia a svolgere un’attività energica, animata di spirito internazionalista, così che il movimento a favore di una pace, che elimini l’odio far le nazioni e stabilisca relazioni cordiali fra i popoli, divenga forte al punto da imporre a tutti i governi la fine del macello umano».

II Partito Socialista Rumeno sottopose i risultati della Conferenza di Zimmerwald al Congresso, il quale deliberò: «Il quarto Congresso del Partito Socialista della Romania si associa alle decisioni della Conferenza di Zimmerwald contro la guerra e per il trionfo del socialismo internazionale e promette alla C.S.I. di Berna il proprio appoggio morale e materiale».

II Partito Socialista Svizzero, che sino al maggio 1915 aveva collaborato ufficialmente con il Partito Socialista Italiano all’organizzazione di una conferenza dei neutrali e che abbandonò la lotta nel momento stesso in cui si pose il problema di riunire i gruppi di opposizione, non era stato invitato ufficialmente alla Conferenza di Zimmerwald. La maggioranza del Comitato direttivo disapprovò l’iniziativa presa dal suo segretario Platten assieme a Robert Grimm e Charles Naine. Ma il Congresso del partito, riunitosi ad Aarau, il 20-21 novembre 1915, discusse la questione e sconfessò la maggioranza del Comitato direttivo e del Comitato centrale con 330 voti favorevoli e 51 contrari, votando la seguente risoluzione: «Il Congresso del partito saluta la Conferenza di Zimmerwald, approva le sue decisioni e decide di appoggiare il più possibile, moralmente e finanziariamente, l’azione inaugurata dalla Conferenza. II P.S.S. invia a tutti i compagni che, nei paesi belligeranti sono rimasti fedeli ai principi dell’Internazionale e della lotta di classe, l’espressione della sua simpatia. Esso chiede una pace fondata sui principi della risoluzione di Zimmerwald, ma ritiene che questa pace non debba essere conseguita con la continuazione della guerra, ma soltanto con un’azione rivoluzionaria della classe operaia».

Nella Confederazione, già il 3 ottobre 1915, convocate dal Partito Socialista, dall’Unione Sindacale, dal Sindacato degli Operai, dall’Organizzazione dei Giovani Socialisti, e dal Partito Socialista Italiano in Svizzera, avevano avuto luogo delle assemblee nelle maggiori località. Nel corso di queste assemblee venne votata la seguente risoluzione: «La guerra nella quale le nazioni dell’Europa sono impegnate da quattordici mesi è una guerra puramente imperialista. I governi capitalisti nascondono il vero carattere di questo spaventoso conflitto dando a credere ai popoli che essi si battono per la loro indipendenza nazionale. Le cause primordiali della guerra attuale sono ben diverse; bisogna vederle anzitutto nella sete di profitto del grande capitale e nell’ambizione sempre più grande dei governi imperialisti (...) La carneficina e la folle distruzione sono possibili solo perché il popolo ignora il vero carattere della guerra ed obbedisce alla parola menzognera dei grandi di questo mondo. Taluni socialisti ottenebrati parlano ancora di “resistere sino in fondo, o sino alla vittoria completa”. L’ideale del proletariato non ha alcun rapporto con i fini della guerra; quest’ultima non può portare ai proletari che un più intenso sfruttamento, oneri fiscali ancora più gravosi ed una più accentuata reazione. Protestando contro la continuazione della guerra, noi impegniamo i partiti socialisti dei paesi belligeranti a chiedere la pace! Ai coraggiosi combattenti che, dall’inizio della guerra, hanno osato opporsi ai loro governi va la nostra ammirazione e simpatia per aver essi salvaguardato l’onore dell’Internazionale proletaria. Protestiamo contro l’istigazione sciovinista e dichiariamo che gli interessi dei lavoratori non coincidono affatto con i cosiddetti interessi e l’onore della Nazione. Il compito fondamentale del proletariato è di lottare contro il nemico all’interno di ogni paese (...) Compagni socialisti, uomini o donne! Noi non dobbiamo lasciarci dividere né dalle diversità di mestiere o di sesso, né dai pregiudizi di razza o nazionalità. Uniti con i militanti di tutti i paesi, noi gridiamo: Viva l’unione fraterna dei proletari di tutti i paesi! Lottiamo insieme per la liberazione politica e sociale! Viva la nuova Internazionale del Proletariato!»

Il primo effetto della Conferenza di Zimmerwald fu quello di rianimare i gruppi di opposizione alla guerra all’interno del movimento operaio internazionale, dei partiti e dei sindacati. Tutti questi in Zimmerwald avevano trovato un comun denominatore: la forza e la fiducia ispirate dalla certezza di non essere soli nella lotta contro corrente nel soffocante conformismo del tempo di guerra. Ovunque gli “zimmerwaldiani” svolsero un’attivissima propaganda per far conoscere il Manifesto e i principi della Conferenza. Nella maggior parte dei paesi in guerra questi testi dovettero essere pubblicati o diffusi clandestinamente. Ma il carattere clandestino stimolò l’interesse e ne favorì la diffusione e la lettura.

Un secondo effetto della Conferenza fu di incoraggiare e accelerare l’organizzazione dell’opposizione. In Francia, i lettori di Vie Ouvrière e di Nache Slovo formarono, il 7 novembre 1915, il “Comitato per la ripresa delle relazioni internazionali”. In Germania, i socialisti partigiani di Liebknecht, raccolti attorno alla rivista Internationale si riunirono in una Conferenza nazionale il l0 gennaio 1916, e il 27 gennaio ebbe inizio la pubblicazione regolare dello Spartakusbriefe. Da allora questo gruppo si denominò Spartakus-Gruppe e successivamente Spartakusbund.

La Conferenza di Zimmerwald non mancò di esercitare la sua influenza financo all’interno dei gruppi parlamentari: nella seduta del gruppo socialista del Reichstag, del 13 dicembre 1915, 44 deputati votarono contro i crediti di guerra e 66 a favore. Alla seduta del 23 dicembre 1915, 20 deputati socialisti votarono contro i crediti e 22 si astennero. Questo è da interpretare come una ulteriore manovra difensiva borghese e non un cambiamento di linea politica, né da parte del partito né di alcuni suoi rappresentanti: non è da pensare che dei deputati socialsciovinisti si fossero convertiti alla rivoluzione. Questi cambiamenti erano la reazione contro la evoluzione in senso rivoluzionario che maturava all’interno della classe operaia e della quale i reggicoda dell’imperialismo dovevano tenere conto per deviarla. Mostravano di rivedere i loro atteggiamenti nei confronti della patria e della guerra imperialista esclusivamente a scopo opportunistico.

In Francia, nazione di piena democrazia e quindi di consolidato sciovinismo, per registrare il primo voto contro i crediti di guerra si dovette aspettare 25 giugno 1916, quindi dopo la Conferenza di Kienthal. I convertiti furono i deputati socialisti Blanc, Brizon e Raffin-Dugens, i tre pellegrini di Kienthal.

Quello che però, in conclusione, per noi fu il risultato maggiore della conferenza di Zimmerwald è rappresentato dal fatto che venne immediatamente a delinearsi al suo interno una sempre più netta differenziazione: da una parte i fautori di quell’antimilitarismo tipico della Seconda Internazionale, dal punto di vista della enunciazione teorica coerente con i principi classisti propri del marxismo, ma ancorati al falso mito dell’unità del partito; dall’altra una sinistra fautrice della separazione netta e definitiva dal socialsciovinismo e della costituzione di una nuova Internazionale capace di guidare il proletariato alla conquista rivoluzionaria del potere. È in questa ottica che i bolscevichi intesero il risultato della Conferenza, ossia come la posa della prima pietra della Terza Internazionale.

Lenin scriveva 1’11 ottobre 1915: «È un fatto che questo Manifesto costituisce un passo in avanti verso la lotta effettiva contro l’opportunismo, verso la rottura e la scissione (...) È possibile, oggettivamente, la pace fra le correnti del socialsciovinismo, del kautskismo, e del marxismo rivoluzionario internazionale che divergono sempre più profondamente? Pensiamo di no».

Nella stessa data, Zinoviev affermava: «L’evoluzione obiettiva degli avvenimenti agirà da sola. I signori socialsciovinisti e centristi dimostreranno con il loro atteggiamento agli internazionalisti esitanti la giustezza della tattica intransigente che noi abbiamo proposta. Prendiamo ad esempio soltanto la questione della Terza Internazionale. Gli organizzatori della conferenza, i rappresentanti della sua maggioranza hanno dichiarato e dichiarano ancora di non voler creare una Terza Internazionale. L’Avanti! (organo degli italiani) e la Berner Tagwacht (l’organo di Grimm) cercano di dimostrare che la Commissione Socialista Internazionale nominata dalla Conferenza non intende assolutamente sostituirsi al vecchio Bureau Socialista Internazionale e deve anzi contribuire alla sua rinascita. Ma gli avvenimenti hanno una loro logica, vedremo come i partiti socialsciovinisti si comporteranno con la Commissione socialista internazionale.

«L’evoluzione obiettiva degli avvenimenti e lo sviluppo della lotta fra le diverse correnti hanno già raggiunto uno scopo, cioè che malgrado il desiderio degli organizzatori, la loro alleanza con i centristi non è avvenuta. Questa stessa evoluzione dimostrerà che, contro il desiderio dei rappresentanti della maggioranza della Conferenza, quest’ultima diverrà la pietra angolare della Terza Internazionale. È in tale direzione che i marxisti continueranno pazientemente a lavorare, senza far concessioni di principio, ma anche senza isolarsi dal movimento reale. Verrà il momento in cui tutti i veri socialisti proclameranno con noi: La Seconda Internazionale è morta, contaminata dall’opportunismo. Viva la Terza Internazionale liberata dall’opportunismo».

Questa posizione era pienamente condivisa dallo Spartakus-Gruppe tedesco. Al punto 9 delle sue Tesi sui compiti della socialdemocrazia internazionale Rosa Luxemburg affermava: «Il fine socialista sarà realizzato dal proletariato internazionale solo facendo fronte su tutta la linea all’imperialismo e innalzando, con tutte le proprie forze e il massimo spirito di sacrificio, a modello della propria politica pratica la parola d’ordine: “Guerra alla guerra”. A questo scopo il compito fondamentale del socialismo è oggi di raccogliere il proletariato di tutti i paesi in una viva forza rivoluzionaria, di farne quel decisivo fattore della vita politica, a cui è chiamato dalla storia, mediante una forte organizzazione internazionale, che possieda una comprensione unitaria dei suoi interessi e dei compiti, una tattica ed una capacità di azione unitarie sia in pace sia in guerra. La Seconda Internazionale è saltata con la guerra. La sua insufficienza è stata dimostrata dall’incapacità di erigere una diga efficace allo sbriciolamento nazionalistico della guerra e di perseguire una tattica ed una prassi proletarie comuni in tutti i paesi. In considerazione del tradimento dei fini e degli interessi della classe operaia da parte delle rappresentanze ufficiali dei partiti socialisti dei paesi-guida, in considerazione del loro passaggio dal terreno dell’Internazionale proletaria a quello della politica imperialistico-borghese, è necessità vitale per il socialismo creare una nuova Internazionale operaia che, in tutti i paesi, assuma la direzione e raccolga le file della lotta di classe contro l’imperialismo».

Nella presentazione del primo numero della rivista della sinistra zimmerwaldiana, Vorbote (“Annuncio”), si afferma: «Fra coloro i quali hanno fatto del socialismo uno strumento dell’imperialismo e coloro i quali vogliono farne uno strumento della rivoluzione non sarà più possibile alcuna unità organica (...) La creazione della Terza Internazionale non sarà possibile se non attraverso la rottura con il socialpatriottismo (...) La nostra rivista vuole, con un lavoro teorico, sostenere l’obiettivo che questo gruppo di socialisti internazionali ha dato alla propria azione politica pratica, e, con la lotta più vigorosa contro il socialpatriottismo e l’inesorabile dimostrazione delle insufficienze del vecchio socialismo revisionista e radicale, preparare la nuova Internazionale. Il proletariato riacquisterà fiducia nella nuova lotta e nel nuovo socialismo, scoprendo la debolezza e la falsità delle concezioni teoriche di cui egli sperimenta amaramente il fallimento».
 
 

L’importanza di Zimmerwald nella storia del movimento operaio

Trotski, non senza una punta di umorismo, così descrive la partenza da Berna dei partecipanti alla conferenza di Zimmerwald: «I delegati presero posto, pigiandosi, in quattro vetture e salirono verso la montagna. I passanti osservavano con curiosità lo strano convoglio. Gli stessi delegati scherzavano dicendo che mezzo secolo dopo la fondazione della Prima Internazionale era possibile trasportare tutti gli internazionalisti in quattro vetture. Ma in quelle battute non c’era nessuno scetticismo. Il filo della storia spesso si interrompe. Bisogna riannodarlo. È quello che ci accingevamo a fare a Zimmerwald».

Leggendo queste righe non vengono forse spontanei paragoni con l’attualità? E dire, come Trotski, che tutta l’Internazionale poteva prendere posto in quattro vetture era certo una esagerazione, sia perché in molti casi i “delegati” rappresentavano solo se stessi, sia perché la loro maggioranza era composta da centristi e riformisti di sinistra. Forse, per trasportare gli internazionalisti conseguenti, di vetture ne sarebbero bastate due. Ma questa piccola eterogenea comitiva bastò a disturbare i piani di tutti i partiti dell’Union Sacrée che, in un attimo, al di sopra dei fronti di guerra nei quali militavano, ritrovarono la loro solidarietà, il loro internazionalismo (perché sono internazionalisti anche i rinnegati) e mobilitarono tutte le loro forze per combattere Zimmerwald. Malgrado gli attacchi e la censura, la dottrina di Zimmerwald si aprì la strada sopra le trincee e le frontiere che opponevano gli Stati, belligeranti e non, e, durante il periodo che separa la conferenza di Zimmerwald da quella di Kienthal, raccolse l’entusiastico sostegno della classe lavoratrice.

L’esperienza del 1914 dimostra come i problemi della guerra e dell’antimilitarismo costituiscano il banco di prova dei partiti operai. Le ripercussioni internazionali degli avvenimenti di allora, della Seconda Guerra Mondiale e, purtroppo, anche quelli di oggi, dimostrano con crudele verità che in mancanza dell’armamento ideologico del partito sarà impossibile contrapporsi validamente all’atmosfera di mobilitazione guerresca. Il caso più eclatante fu costituito dalla guerra di Spagna dove perfino molti sinceri rivoluzionari scambiarono quella che era una competizione interimperialista per lotta rivoluzionaria di classe.

Dal momento in cui la Seconda Internazionale, corrotta dalla pratica legalitaria, passava da quello che era stato il riformismo operaio alla sottomissione piena alla classe nemica, si rese inevitabile che nessuna risoluzione ufficiale, nessun proclama di congressi mondiali avrebbe potuto salvare il proletariato dalla guerra. Gli appelli al proletariato e le minacce contro la borghesia in caso di guerra sarebbero strati traditi ed utilizzati solo per mascherare l’opera di corruzione in seno alla classe proletaria, destinata a divenire preda del capitalismo. Come non ricordare, tra gli altri, il proclama di Stoccarda del 1907: «Nel caso in cui tuttavia la guerra scoppiasse essi [i socialisti, ndr] hanno il dovere di intervenire e farla prontamente cessare e utilizzare con tutte le loro forze la crisi economica e politica creata dalla guerra per agitare gli strati popolari più profondi e far precipitare la caduta del dominio capitalista».

Con acutezza Rosmer ha scritto: «Quando scoppia la guerra significa che i governi hanno accettato la sfida della classe operaia (...) E quando il governo accetta la sfida se ne infischia di queste minacce, perché ha maturato la convinzione di poterlo fare impunemente; sente che la preparazione della guerra ha cominciato a sgretolare le organizzazioni socialiste e rivoluzionarie e l’Union Sacrée si realizza quasi istantaneamente dal momento che è già sottintesa» ("Dalla Union Sacrée a Zimmerwald").

Gli Stati capitalisti francese e tedesco avevano lasciato mano libera alle rispettive socialdemocrazie, cosa che evitò loro di mettere in opera le misure repressive previste in caso di mobilitazione. Il capitalismo, nella sua coscienza di classe, aveva compreso che i proletari non possono esprimere compiutamente la loro reazione anche se intraprendono azioni, anche di massa, anche radicali, ma senza prospettive dal momento che le organizzazioni operaie sono arrese a disposizione dello Stato borghese e manovrano abilmente per gettare i proletari nella fornace della guerra. Prima ancora che le ostilità comincino esiste già uno sconfitto: il proletariato.

Molti episodi di lotta di classe del 1914 sono, da questo punto di vista, significativi poiché provano che la dissoluzione dei partiti socialisti non impedisce al proletariato di rispondere con imponenti manifestazioni di classe, ma che non possono far sorgere dal loro seno organismi politici in grado di guidarlo sulla sola via capace di impedire la guerra: la rivoluzione. Solo quando alla rovina generale si contrappone una avanguardia rivoluzionaria, salda in dottrina e nel programma, anche frazioni minoritarie del proletariato possono rendersi immuni dalla pestilenza sciovinista, mantenere alta e ferma la bandiera della lotta di classe e, attraverso questa, influenzare la totalità del proletariato.

Sotto questo profilo esemplare sarà l’esperienza dei bolscevichi, formatisi nel corso di 17 anni di lotte in difesa dell’ortodossia rivoluzionaria in seno alla Seconda Internazionale. Ed è proprio per merito di questa lunga battaglia teorica che alle confuse manifestazioni contro la guerra Lenin fin dal 1914 aveva potuto opporre un programma netto ed intransigente. La diserzione e la rivolta dei coscritti proletari e contadini russi contro gli effetti tremendi della guerra potrà essere spinta alle sue estreme conseguenze, perché saranno i soli a disporre di un partito che aveva formulato un programma compiuto della rivoluzione proletaria, unica base e sbocco possibile al movimento proletario.

Durante il corso della guerra i bolscevichi si erano attestati su posizioni nettamente internazionaliste mirando a far sì che il risveglio del proletariato in tutti i paesi rappresentasse il segnale di una guerra civile orientata verso la rivoluzione comunista. In poche parole: disfattismo rivoluzionario e trasformazione della guerra tra Stati in guerra di classe.

È una illusione credere che, allo scoppio della guerra o nel suo corso, per il solo effetto dello strazio, dei patimenti e del massacro dei proletari, si possa verificare una radicalizzazione fra i soldati e fra i civili tale da sfociare nel riconoscimento sociale della rivoluzione comunista come unico mezzo di salvezza. Ciò può accadere a singoli individui, ma non ai partiti e movimenti politici i quali non fanno che procedere nella traiettoria determinata dalla loro evoluzione. Così, malgrado la loro partecipazione a Zimmerwald gli indipendenti di Ledebour, i socialisti del tipo Grimm, il partito socialista italiano, e la lista potrebbe essere lunga, resteranno egualmente profondamente opportunisti.

Il giudizio di Lenin sul “passo in avanti” pronunciato dopo avere apposto la propria firma in calce al manifesto di Zimmerwald, non si riferiva ad una presunta evoluzione in senso “rivoluzionario” dei co-firmatari, ma alla realizzazione in sé della manifestazione internazionale e agli effetti che questa avrebbe determinato sul proletariato a scala mondiale.

Dal momento che la sconfitta del proletariato costituisce la conditio sine qua non per lo scatenamento della guerra imperialista, è altrettanto vero che il suo contrattacco è la condizione della sua fine. E qui l’esperienza della rivoluzione russa sarà decisiva. Secondo le tesi di Lenin, e nostre, spetta al partito approntare le armi per quando il proletariato sarà pronto a schierarsi sul terreno della guerra di classe, sul quale unico, opposto a quello del pacifismo, si potrà bloccare il macello proletario e farla finita con il capitalismo ed il suo bestiale dominio.

La parola d’ordine della pace, infatti, anche se mantenuta in tempo di guerra, può assumere un significato nettamente reazionario. La rivendicazione della pace può divenire una rivendicazione di classe solo nell’uso che ne fecero i bolscevichi nel 1917. Questi, infatti, facendosi promotori della cessazione immediata della guerra non vennero a patti con il capitalismo per ottenere la pace, ma gli sferrarono l’attacco mortale. Alla politica di Kerensky che sosteneva la continuazione della guerra ad oltranza, opposero lo scatenarsi di possenti movimenti sociali a favore della cessazione della guerra imperialista attraverso la guerra civile.

Alla conferenza di Zimmerwald possiamo affermare che, in primo luogo, è evidente come non sia la partecipazione di una serie di gruppi e di personalità opportuniste ad avergli attribuito l’importanza che incontestabilmente ebbe. Ciò dipese dalle circostanze stesse dell’epoca, e cioè dal fatto di essere una riunione di militanti di differenti paesi, aderenti alla ex Internazionale operaia e socialista, che, in pieno massacro imperialista, si incontravano al fine di costituire la prima diga alla guerra all’interno del movimento del proletariato mondiale. Ma non bisogna perdere di vista il fatto che alla conferenza fu la sinistra raggruppata intorno a Lenin a rappresentare questa diga e che, in seguito, gli opportunisti italiani e tedeschi si servirono della loro partecipazione a Zimmerwald per ostacolare l’evoluzione dei lavoratori verso le posizioni comuniste. Non si tratta quindi di idealizzare Zimmerwald, con le sue contraddizioni e profonde lacune, ma di comprendere che lo sviluppo e l’evoluzione conseguiti nel primo dopoguerra dal proletariato ci impone di considerare Zimmerwald un esempio unico ed assolutamente non ripetibile.

Zimmerwald segnò una tappa importante dello sviluppo del movimento proletario in quei tragici anni poiché venne alla luce, sul fronte della lotta contro la guerra, la linea di demarcazione fondamentale che esiste tra il comunismo e gli avamposti dell’ideologia socialdemocratica. La Seconda Internazionale era morta: non ve ne poteva essere una parte buona da salvare. Doveva sorgere una Terza Internazionale che avrebbe definitivamente rotto con il vecchio metodo socialdemocratico. Questa demarcazione, questa rottura, venne poi definitivamente sanzionata dalla rivoluzione russa.

Oggi, quindi, qualsiasi tipo di alleanza con gruppi politici eterogenei, come fu il caso di Zimmerwald, costituirebbe un gravissimo imperdonabile errore, che porterebbe soltanto a facilitare il lavoro deleterio di questi gruppi in seno al proletariato.
 
 

Contro il militarismo e contro il pacifismo

All’interno del movimento zimmerwaldiano le divergenze di opinione che abbiamo accennate, circa la via da seguire nell’azione antimilitarista, non solo permanevano, ma anzi, in seguito all’evoluzione delle operazioni belliche, si accrescevano sempre di più.

La maggiore spaccatura tra le due posizioni si registrava all’interno della delegazione russa. I bolscevichi, con Lenin in testa, avevano dato vita al gruppo della “Sinistra zimmerwaldiana”. A Zurigo Lenin aveva fondato un circolo di discussione, con lo scopo di organizzare scambi di vedute fra i compagni di quella città. Questo tentativo non ebbe molta fortuna, anzi tutt’altro. La Krupskaja, nelle sue memorie, la ricorda con queste parole: «Ci si riuniva nel piccolo caffè Zum Adler, poco distante dal nostro appartamento. La prima volta vennero una quarantina di persone. Lenin parlò della situazione esprimendosi in termini molto duri. Benché tutti i partecipanti fossero internazionalisti, gli svizzeri si infastidirono per il suo modo brusco di affrontare i problemi. Mi ricordo dell’intervento di un rappresentante della Gioventù svizzera che consigliò di non battere la testa contro il muro. La frequenza alle nostre assemblee diminuì progressivamente. La quarta volta vi furono soltanto russi e polacchi, che, dopo qualche battuta di spirito, se ne tornarono a casa». L’esperimento fallì, ma la “testardaggine” rivoluzionaria di Lenin e dei bolscevichi portò, di lì ad un anno, alla vittoria proletaria in Russia.

Il risultato negativo del circolo di Zurigo non fiaccò la determinazione della sinistra zimmerwaldiana. Essa tempestava la C.S.I. (Commissione Socialista Internazionale) di tesi e risoluzioni di modo che si giungesse alla necessaria chiarificazione.

Fu così che la Commissione, praticamente, si trovò costretta a convocare una Seconda “Conferenza di Zimmerwald”, che poi si tenne a Kienthal dal 24 aprile al 30 aprile 1916

Per preparare questa seconda Conferenza internazionale e per accordarsi su alcune altre questioni di particolare rilevanza, agli inizi di febbraio 1916 ebbe luogo a Berna una riunione tra i rappresentanti di partiti, organizzazioni e gruppi socialisti di diversi paesi ed i membri della Commissione Internazionale, istituita dalla Conferenza di Zimmerwald. Ogni organizzazione aderente aveva delegato i propri rappresentanti che però, in buona parte, non poterono arrivare a Berna. Non riuscirono a raggiungere la Svizzera circa dieci delegati tedeschi, un austriaco, due inglesi, un lettone, due balcanici, buona parte dei francesi, degli scandinavi etc. Ciò determinò un indebolimento numerico della Sinistra zimmerwaldiana.

Naturalmente, l’organizzazione ed il coordinamento tra i partiti e gruppi aderenti procedeva in modo molto lento o non procedeva affatto per una serie di motivi, dei quali il principale era determinato, indubbiamente, dallo stato di guerra che impediva collegamenti e contatti. Ma un fattore determinante era dovuto al fatto che i maggiori partiti socialisti avevano dato la loro incondizionata adesione alla politica di guerra dei rispettivi governi. Gli zimmerwaldiani si trovavano quindi costretti a condurre una battaglia su due fronti: contro lo Stato capitalista e contro i partiti social-sciovinisti.

Dopo che i rapporti presentati dai delegati dei diversi paesi dimostrarono quale entusiastica accoglienza fra le masse operaie il Manifesto avesse trovato, la riunione di Berna si occupò innanzi tutto della preparazione di questa seconda Conferenza internazionale ed internazionalista i cui punti cardini dei dibattiti sarebbero stati:la lotta contro la guerra;l’atteggiamento della classe operaia di fronte alle questioni della guerra e della pace;la propaganda e l’agitazione per i principi approvati dalla Conferenza di Zimmerwald, sia dal punto di vista dell’azione parlamentare, sia da quello dell’azione di massa; e infinela posizione da assumere nei confronti del Bureau della Seconda Internazionale. I dibattiti su questi punti avrebbero dovuto chiarire e precisare le varie posizioni esistenti all’interno dell’eterogeneo movimento, cosa che si rendeva assolutamente indispensabile per poter coordinare l’opposizione di classe alla guerra imperialista, ed i metodi di lotta per farla trionfare. Il fatto che i delegati dei vari paesi non affrontassero allo stesso modo e con la stessa determinazioni le questioni poste all’ordine del giorno, compresa la tattica di azione proletaria, era la chiara dimostrazione di quanto fosse necessario trovare una comune base teorica e di azione. E, allo stesso tempo, quanto fosse difficile trovarla.

Infatti, immediatamente si accertò l’esistere di una profonda divergenza di opinioni, e non soltanto sulla questione della pace. I bolscevichi formularono il loro punto di vista in una lunga dichiarazione. La pace che avrebbe posto fine alla guerra non avrebbe potuto non tener conto dello spostamento delle forze dovuto alla guerra stessa. Da una guerra imperialista non sarebbe mai potuta scaturire una pace “veramente democratica”. Una pace del genere avrebbe potuto essere garantita solo se frutto di una serie di rivoluzioni.

La parola d’ordine di Zimmerwald “pace senza annessioni” svia le masse, dicevano i bolscevichi. Ed aggiungevano che nemmeno si può affermare che qualsiasi incorporazione di un nuovo territorio costituisca un’aggressione: «L’incorporazione di un paese con la forza delle armi non costituisce necessariamente un’annessione, perché il socialismo non può condannare in linea di massima le guerre fatte nell’interesse della maggioranza della popolazione».

Per altro, «Ogni programma di pace è un’ipocrisia se non viene sostenuto fra il popolo da una propaganda che mostri la necessità della rivoluzione e incoraggi l’attività rivoluzionaria (proteste, fratellanza nelle trincee, scioperi, manifestazioni, lettere dei combattenti alle loro famiglie invitandole a non sottoscrivere i prestiti di guerra)». Queste parole d’ordine ed altre ancora rivelavano quali fossero gli obiettivi ed i precisi orientamenti della sezione bolscevica. Essa si proponeva di intensificare la propaganda e l’azione di classe in vista della rivoluzione mondiale, punto focale sul quale dovevano convergere tutte le energie.

Il 10 febbraio venne diramata la Circolare di convocazione, nella quale, tra l’altro si legge: «Cari compagni, nel settembre 1915, a Zimmerwald, alcuni delegati di organizzazioni e gruppi socialisti hanno compiuto il primo passo concreto per il ristabilimento dei legami del proletariato internazionale, sulla base della solidarietà di classe, di una solidarietà senza frontiere che unisce i lavoratori nella lotta per il socialismo, tanto in tempo di pace quanto in tempo di guerra.

«Il Manifesto di Zimmerwald ha trovato una profonda eco nei cuori e nelle menti dei proletari del mondo. (...) Nei paesi belligeranti, come in quelli neutrali, si produce un movimento più o meno accentuato di protesta contro la guerra. Centinaia e centinaia di riunioni operaie hanno avuto luogo, in Germania, in Francia, in Inghilterra, in Italia, in Russia, nei Paesi balcanici, ecc. Congressi e conferenze, partiti ufficiali e, in Italia, persino alcune amministrazioni pubbliche hanno approvato la linea di condotta del Manifesto di Zimmerwald. Così il nostro appello è servito da segnale di raccolta, di rinascita spirituale per il proletariato internazionale e socialista.

«Dopo la Conferenza di Zimmerwald, la situazione internazionale si è però ulteriormente aggravata (...) La guerra continua ad estendersi mentre il cumulo degli oneri e dei sacrifici che il proletariato deve sopportare aumenta ogni giorno di più.

«La Bulgaria è stata trascinata nella cerchia dei paesi belligeranti. La neutralità della Grecia è stata violata come quella del Belgio e del Lussemburgo. La falsità del cosiddetto diritto dei popoli è stata smascherata, questo diritto è stato calpestato da tutti i governi. E già scorgiamo aprirsi nuove prospettive di guerra. L’antagonismo degli interessi capitalisti e imperialisti minaccia di coinvolgere nella catastrofe la Svezia e la Romania, mentre il capitalismo americano, pur contribuendo a prolungare la guerra con le sue sfrontate speculazioni, spiega un’attività febbrile spingendo gli Stati Uniti verso quegli stessi armamenti che hanno aperto la voragine che ora inghiotte tanti cadaveri umani (...)

«Questa situazione dimostra ancora una volta e con la massima chiarezza che il capitalismo moderno è inconciliabile non solo con gli interessi della classe operaia, e con le esigenze dello sviluppo storico, ma anche con le necessità elementari di qualsiasi comunità umana. In effetti, gli avvenimenti hanno dimostrato che nessuna Nazione oppressa può ottenere la propria libertà e indipendenza dalle mani dei governi capitalisti e attraverso guerre di conquista imperialista (...) In queste condizioni, nella guerra attuale, qualsiasi sconfitta e qualsiasi vittoria significano una sconfitta del socialismo e della democrazia. Salvo nel caso di un movimento rivoluzionario del proletariato internazionale, la guerra, quale che ne sia l’esitosconfitta o vittoriaavrà come risultato solo la rinascita del militarismo, l’aumento della sete di conquista imperialista, il rafforzamento degli antagonismi internazionali e delle rivalità nazionali che con essa si pretendeva di eliminare.

«La guerra ha provocato, all’interno di ogni Stato una reazione inaudita. I parlamenti di tutti i paesi sono così divenuti docili strumenti del militarismo (...) Qualsiasi tentativo di risuscitare l’Internazionale con una reciproca amnistia dei capi socialisti compromessi, che persistono in un atteggiamento solidale con i governi e le classi capitaliste, è in realtà diretto soltanto contro il socialismo e avrà l’effetto di stroncare il risveglio rivoluzionario della classe operaia (...) Il compito principale del socialismo deve essere oggi quello di riunire il proletariato internazionale in una forza rivoluzionaria operante, unita in tempo di pace come in tempo di guerra dalla comunanza di principi, di interessi e di doveri. La classe operaia deve divenire un fattore decisivo della vita politica. Quella è la sua missione storica.

«Di conseguenza, noi invitiamo tutti i partiti, organizzazioni e gruppi che aderiscono alla C.S.I. ad agire senza tregua né sosta (...) D’accordo con i rappresentanti delle organizzazioni affiliate, la C.S.I. preparerà a Berna una seconda conferenza socialista internazionale che continui l’opera di Zimmerwald. Chiediamo che l’ordine del giorno di questa seconda Conferenza venga già discusso nelle organizzazioni e nelle assemblee, così da garantirne il successo e diffondere fra le masse il movimento iniziatosi nel settembre 1915.

«Vi inviamo i nostri saluti socialisti. Berna, febbraio 1916 A nome della Conferenza di Zimmerwald, la C.S.I. di Berna”.

Alla conferenza di Kienthal presero parte 44 delegati provenienti da varie nazioni. Se consideriamo i molteplici ostacoli e le difficoltà che dovettero affrontare per potervisi recare, il numero degli intervenuti a Kienthal può ritenersi senz’altro più che soddisfacente; se tutti i compagni inviati avessero potuto giungervi il loro numero e quello dei paesi rappresentati sarebbe stato superiore di almeno un terzo e, come abbiamo detto, la sinistra sarebbe stata maggiormente rappresentata. Ai delegati di Inghilterra, Austria, Romania, Bulgaria, Svezia, Norvegia e Olanda furono negati passaporti, visti e permessi di transito, e le delegazioni tedesca e francese furono quasi dimezzate.

In fine furono rappresentati i seguenti paesi:
- Germania: I gruppi “l’Internationale”, “Opposizione nell’organizzazione” e l’organizzazione locale di una città del Nord. Sette delegati in tutto.
- Francia: Nell’impossibilità di procurarsi i passaporti le minoranze del partito e dei sindacati aderenti a Zimmerwald, rappresentate dal “Comitato per la ripresa delle relazioni internazionali”, dovettero limitarsi a dichiarare per iscritto la loro adesione alla seconda Conferenza e ad ogni sua decisione. La Federazione nazionale dei sindacati degli insegnanti francesi si trovò nella stessa situazione. Però quattro socialisti francesi, fra cui tre deputati, poterono assistere alla Conferenza a titolo personale.
- Inghilterra: Il governo inglese rifiutò, come per la prima Conferenza, di rilasciare i documenti ai delegati prescelti dall’Independent Labour Party e dal British Socialist Party. I due i partiti inviarono telegrammi di adesione. Un membro dell’I.L.P. assistette alla seduta in qualità di ospite.
- Italia: Delegazione ufficiale del partito e del gruppo socialista alla Camera, otto delegati in tutto.
- Russia: Delegazione ufficiale del Partito dei Socialisti Rivoluzionari, del Comitato centrale e del Comitato organizzativo del Partito Operaio Socialdemocratico Russo e della Socialdemocrazia Lituana. Otto delegati in tutto.
- Olanda: Radek.
- Polonia: Delegazione ufficiale del Comitato nazionale e del Comitato centrale della Socialdemocrazia della Polonia russa e della Lituania, nonché del Partito Socialista Polacco (Lewitza); cinque delegati.
- Serbia: Il Partito Socialdemocratico Operaio di Serbia fu rappresentato da un membro della Skuptchina.
- Portogallo: Un delegato del Partito Socialista Portoghese.
- Svizzera: Rappresentanza ufficiale del Partito Socialista con cinque delegati.

Inoltre il Segretariato della Gioventù socialista internazionale fu rappresentato da un delegato; erano presenti anche i membri della C.S.I.

I delegati del Partito Operaio Socialdemocratico Bulgaro, che non avevano potuto passare la frontiera austriaca, espressero la loro adesione alle risoluzioni adottate.

L’Unione degli operai ebraici di Lituania, Polonia e Russia si trovò anch’essa nell’impossibilità di inviare un proprio rappresentante, ma fece pervenire una lettera in cui salutava vivamente la seconda Conferenza Socialista Internazionale.

A Zimmerwald la maggioranza dei delegati non aveva voluto sentir parlare della creazione formale di una organizzazione permanente di socialisti internazionalisti. La maggioranza aveva concepito Zimmerwald come un fenomeno temporaneo, passeggero, una alleanza episodica di persone, od organizzazioni, che si erano trovati d’accordo per condurre una agitazione comune a favore della pace. Questo però non avrebbe dovuto portare a nessuna scissione con i partiti ufficiali. Il movimento e l’azione degli internazionalisti avrebbe dovuto servire anche ad indurre riflettere la maggioranza social-patriottica sugli errori commessi e quindi a tornare sul vecchio terreno del socialismo di classe. L’organizzazione zimmerwaldiana, raggiunto tale scopo, avrebbero dovuto scomparire, dissolversi. La Commissione Socialista Internazionale di Berna arrivò perfino ad emanare un comunicato ufficiale in tal senso. Tale posizione fu aspramente criticata dalla sinistra che, già allora, dichiarava inevitabile la scissione con i social-patrioti e apertamente proponeva la formazione di una Terza Internazionale.

Passarono sei mesi ed alla conferenza di Berna fu registrato un timido accostamento alle posizioni di sinistra, ed un ulteriore avanzamento su tale tendenza si registrò alla successiva conferenza di Kienthal. Ma senza risolvere in modo definitivo la questione, e cioè: Zimmerwald e Kienthal avrebbero costituito soltanto episodi contingenti, interni alla Seconda Internazionale o, al contrario, una tappa nel cammino della creazione di una nuova associazione internazionale dei lavoratori libera dai social-sciovinisti ed in aperta lotta contro di essi?

In effetti, la questione principale tra quelle dibattute a Kienthal fu quella dei rapporti che si sarebbero dovuti tenere con il Bureau socialista. Secondo la sinistra la separazione dalla Seconda Internazionale era inevitabile e necessaria; anzi, la maggioranza titubante non si rendeva conto che la scissione era già stata consumata. Solo rivolgendosi apertamente ai proletari di tutti i paesi a rompere ogni rapporto con i traditori del socialismo ed a creare una nuova organizzazione mondiale, solo in questo modo, si sarebbe potuto salvare l’onore del socialismo. Si badi che i bolscevichi, ed i sinistri in genere, non erano dei temerai imprudenti, sapevano bene, e lo affermavano, che la Terza Internazionale non sarebbe potuta nascere “a freddo”, ma sarebbe scaturita dal fuoco di movimenti rivoluzionari di massa. Quindi non sarebbe stato il frutto di una conferenza clandestina svoltasi tra i monti svizzeri, ma la conferenza avrebbe dovuto dare il via alla preparazione ideologica e politica della Terza Internazionale. Tale era la direzione che la conferenza avrebbe dovuto prendere in maniera definitiva.

Nei confronti di questa impostazione rivoluzionaria le obiezioni furono di due tipi: di principio e di tattica. Ma entrambe, in fin dei conti, riportavano al medesimo argomento: la difesa dell’unità dei partiti e dell’Internazionale, cioè della necessaria unità organizzativa con i social-patrioti. Certo, tutti quanti riconoscevano che la Seconda Internazionale non era stata all’altezza della situazione, ma ritenevano che non si sarebbero dovuti allontanare quei compagni che avevano sbagliato, bensì ricondurli sul terreno tipico del socialismo classista ed internazionalista. Nei loro riguardi gli internazionalisti si sarebbero dovuti comportare allo stesso modo del medico scrupoloso che, prima di intervenire con il bisturi, ricorrere ad ogni tipo di trattamento per recuperare l’organo malato.

Il secondo tipo di obiezioni, quelle basate sulla opportunità, era capeggiato dai socialisti italiani i quali proponevano di organizzare e sviluppare una agitazione di massa allo scopo di imporre al Bureau la convocazione di una conferenza internazionale. A questa conferenza, affermavano gli italiani, gli zimmerwaldiani avrebbero dovuto partecipare per strappare la maschera dal viso degli sciovinisti ed ottenere così la maggioranza. Il raddrizzamento della Seconda Internazionale si sarebbe, quindi, potuto effettuare grazie ad una semplice alzata di mano. Sarebbe stato un vero peccato perdere un’occasione così favorevole!

I bolscevichi intanto ribattevano che, cifre alla mano, questa leggenda italiana della maggioranza era del tutto campata in aria. Ma il problema non stava sul fatto se la maggioranza di una ipotetica conferenza internazionale si sarebbe espressa a favore del Bureau o di Zimmerwald. Il problema stava in tutt’altra direzione: «la questione era se, stante il nostro punto di vista, noi formiamo un solo ed unico partito, un solo campo, una sola internazionale, oppure noi abbiamo due programmi i quali sono inconciliabili» (Zinoviev, “Zimmerwald e Kienthal”). Se non era da escludere a priori la partecipazione di Zimmerwald ad una conferenza indetta dal Bureau, portare battaglia al suo interno e tentare perfino di ottenere la maggioranza, era un dato di fatto che nessuna conferenza internazionale era stata convocata dagli organi dirigenti della Seconda Internazionale. Gli internazionalisti avrebbero dovuto impiegare quindi le loro energie per agitare fra le masse operaie la richiesta di una tale conferenza internazionale, o, piuttosto, non avrebbero dovuto stigmatizzare la politica del Bureau e dimostrare le necessità di una rottura definitiva con i social-sciovinisti e la formazione della Terza Internazionale?

Alle due opinioni corrispondevano, era inevitabile, due tattiche. Da una parte veniva valutato che la Seconda Internazionale avesse fatto naufragio e che, al fuoco della Guerra Mondiale, si stessero forgiando i primi elementi della Terza Internazionale, finalmente liberata da ogni forma di opportunismo e nazionalismo. Gli altri non riuscivano a comprendere fino in fondo, si rifiutavano nel loro intimo di ammetterlo, né il vero carattere della guerra né il carattere della crisi che i partiti socialisti delle varie nazioni stavano vivendo. Secondo loro altro non si trattava che di un episodio, che sarebbe trascorso e finito, allo stesso modo della guerra. A quel punto la vecchia organizzazione si sarebbe ricostituita e di nuovo avrebbe posto il Bureau Internazionale alla sua testa, i compagni fuorviati sarebbero tornati alla ragione, i malintesi chiariti, e, come ebbe adire Axelrod, reciprocamente tutti si sarebbero amnistiati.

Quale delle due posizioni ebbe la maggioranza non è facile dirlo. Cercheremo di spiegarci meglio.

La conferenza nominò una commissione composta di sette membri per elaborare una risoluzione. Immediatamente questa commissione si divise in due gruppi a seconda della loro impostazione politica: da una parte coloro che parteggiavano per l’agitazione a favore della convocazione del Bureau, dall’altra gli avversari, la sinistra. Del primo gruppo facevano parte Lazzari, l’elvetico Naine, il delegato tedesco del gruppo moderato di Hoffmann, ed il menscevico Axelrod. Il secondo gruppo era composto da Lenin, il polacco Warski ed un delegato tedesco del gruppo dell’Internationale.

Il progetto elaborato dalla maggioranza, così come era nella dichiarata intenzione, si faceva promotore della richiesta di convocazione del Bureau. Contemporaneamente venivano formulate condizioni rigorose e critiche così dirette nei confronti dei social-sciovinisti che il menscevico Axelrod si rifiuterà di sottoscriverle. Si richiedeva la sostituzione del Comitato Esecutivo, cioè l’espulsione di Huysmans e Cie. In più veniva esplicitamente pretesa l’espulsione dal partito dei ministri “socialisti” i quali altri non erano che i dirigenti della Seconda Internazionale. La risoluzione appariva molto radicale, ma di un radicalismo senza logica: i ministri “socialisti” erano entrati a far parte dei governi di unione sacra su mandato dei loro rispettivi partiti; la illogicità risultava evidente dal fatto che non si possono espellere i “mandati” senza avere prima espulso i “mandanti”. Ma in questo caso si sarebbe dovuto, conseguentemente, ammettere la scissione, in poche parole aderire alle posizioni di Lenin.

Commentava Zinoviev: «La logica dei fatti ha voluto che tutti, ad eccezione de Axelrod, coerente kautskiano, abbiano proposto delle risoluzioni pratiche che inevitabilmente conducono alla scissione, alla separazione dai social-sciovinisti. In tutto ciò vi è un segno dei tempi!»

La risoluzione poi votata fu il frutto di una progressione di emendamenti proposti da una serie di partecipanti, ma, ciò malgrado, imprime il marchio del tradimento ai socialsciovinisti di tutti i paesi e, al di là di coloro che ne furono i materiale estensori, poté rappresentare un ulteriore passo nel cammino che avrebbe condotto alla creazione della Terza Internazionale.

Tra le questioni poste sul tappeto alla conferenza di Kienthal, quella che, per ordine di importanza, venne subito dopo fu l’atteggiamento dei socialisti nei confronti della pace.

A Zimmerwald era stato affermato che la parola d’ordine della “difesa della patria” era servita alla borghesia ed ai socialsciovinisti di tutti i paesi al solo scopo di mobilitare le masse popolari per la difesa degli interessi dell’imperialismo e questa parola d’ordine aveva rappresentato la più grande menzogna del tempo. Il successivo passo da fare sarebbe stato quello di portare battaglia nei confronti del pacifismo. Le masse popolari dimostravano una sempre maggiore avversione nei confronti della guerra e sempre più spesso e più forte si innalzavano le voci reclamanti la sua fine immediata, la pace. Nel tentativo di imbrigliare ancora il proletariato e di mantenerlo nell’ambito della tolleranza borghese, i social-sciovinisti cominciavano essi stessi a parlare di pace. Lo stesso Scheidemann, il boia della rivoluzione, aveva pubblicato un testo dal titolo: “Viva la Pace!”.

L’impegno dei rivoluzionari sarebbe consistito nel chiarire al proletariato che non sarebbe stato possibile abbreviare, nemmeno di un minuto, il corso della carneficina imperialista se non attraverso la lotta rivoluzionaria. Parafrasando l’antico motto latino si sarebbe dovuto dire “se vuoi la pace prepara la guerra rivoluzionaria” contro tutti quanti gli schieramenti imperialistici e, innanzi tutto, contro il tuo Stato nazionale, la tua propria “patria”. Il social-pacifismo non è che uno degli aspetti della menzogna su cui si basa lo sciovinismo e che serve a trarre in inganno le masse proletarie. Le iniziative a favore delle “corti di arbitraggio”, del “disarmo progressivo”, della “pace democratica”, fanno parte del corredo utopistico della piccola borghesia che diffondendo l’illusione di un capitalismo pacifico e pacifista non può avere altro effetto che quello di fuorviare il proletariato dalla lotta rivoluzionaria.

A Kienthal non pochi erano i social-pacifisti: lo erano la maggioranza (o la totalità?) degli italiani, ve n’erano fra i tedeschi, i francesi, i russi, etc.. Tuttavia, per quanto numerosi fossero, non furono in grado di stilare, o almeno proporre, un loro progetto di risoluzione; né furono in grado di opporsi in modo efficace alle posizioni espresse dalla sinistra. Essenzialmente si limitarono a presentare degli emendamenti alle tesi di quest’ultima.

Alla risoluzione presentata dalla sinistra zimmerwaldiana, in questa occasione, aderirono anche Giacinto Menotti Serrati, il serbo Katzlerowitch e la maggioranza elvetica. Come base della risoluzione erano state prese le tesi di Grimm che, malgrado le numerose inesattezze, tendenzialmente procedevano nella direzione di sinistra. Le tesi si riproponevano lo scopo di portare un attacco frontale alle velleità social-pacifiste. Bisogna però aggiungere, ed i bolscevichi lo misero immediatamente in evidenza, che ciò non significava che a Kienthal ci si fosse sbarazzati una volta per tutte della utopia social-pacifista e rigurgiti in tal senso non solo erano considerati possibili, ma inevitabili. A tale proposito basti dire che la maggioranza della commissione italiana, quantunque avesse votato a favore, aveva espresso delle riserve su tutti quanti i punti più importanti.

La maggioranza della Conferenza di Kienthal pur accogliendo non poche enunciazioni teoriche e di principio sul carattere imperialista della guerra, espresse dubbi circa la possibilità di misure pratiche immediate. Finché il socialismo non avesse stabilito libertà ed eguaglianza fra i popoli, bisognava pronunciarsi contro qualsiasi violazione dell’integrità delle Nazioni e in particolare delle piccole Nazioni. Essa reclamava la protezione delle minoranze nazionali e l’autonomia dei popoli sulla base della democrazia integrale. Secondo la maggioranza del convegno bisognava condannare, allo stesso titolo delle annessioni, le indennità di guerra a profitto delle potenze imperialiste. Il fardello delle indennità avrebbe finito per pesare, in ciascun paese, esclusivamente sulla classe operaia. Quindi si doveva cercare di non far ricadere le conseguenze economiche della guerra da un popolo sull’altro, bensì di addossare ai possidenti l’onere del debito pubblico. Insomma, tutta una serie di belle utopie che, se non imposte dal proletariato con la violenza rivoluzionaria, restano solo delle idee campate in aria. Come si poteva minimamente pensare che quegli stessi governi borghesi che avevano scatenato una tale ecatombe in nome degli interessi capitalistici potessero attuare un programma social-democratico, anche minimo?

Nel suo insieme la risoluzione sulla pace adottata a Kienthal segnò però un progresso rispetto a quella di Zimmerwald, di cui rappresentava, allo stesso tempo, la continuazione logica ed il superamento. D’altra parte questa risoluzione sulla pace fu considerata dai bolscevichi come il documento più debole tra quelli prodotti a Kienthal, senza né chiarezza né precisione, e ciò soprattutto perché fu il risultato di un compromesso con i rappresentanti francesi. I passaggi migliori, come abbiamo detto, furono quelli in cui veniva condannato in modo categorico il social-sciovinismo, messo sullo stesso piano della stampa venduta e dei lacchè dei vari governi.

I bolscevichi si rendevano ben conto che una sistematica agitazione contro il social-pacifismo sarebbe stata svolta solo dalla sinistra. Ma la risoluzione adottata all’unanimità a Kienthal rendeva un grande servizio ai fini della propaganda che si sarebbe dovuta intraprendere e questo costituiva di per sé un altro risultato sul cammino della rivoluzione.

Se la conferenza di Kienthal indubbiamente segnò un progresso, un passo avanti e l’influenza che vi ebbe la sinistra fu molto maggiore di quanto ne avesse avuta a Zimmerwald, tuttavia nemmeno il più ottimista dei sinistri avrebbe potuto affermare con certezza che gli zimmerwaldiani avrebbero portato a compimento la rottura con il social-sciovinismo e che potessero essere considerati, nel loro insieme, come l’embrione della futura Internazionale.

I partiti socialisti, in ogni paese, erano ormai nettamente spaccati in due: due programmi, due campi, due tattiche. Era necessità che vi fossero pure due Internazionali. I bolscevichi si interrogavano su quali sarebbero stati i compiti del dopo Kienthal e la risposta non poteva che essere una: continuare la lotta senza quartiere contro il social-sciovinismo, per dei partiti veramente socialisti rivoluzionari, per la costituzione della Terza Internazionale.

Più rapidamente di quanto fosse stato possibile sperare le parole d’ordine generali lanciate a Zimmerwald e a Kienthal ebbero una risonanza straordinaria in ogni angolo del mondo. Pace senza annessioni, pace senza indennità di guerra, diritto dei popoli all’autodecisione divennero le parole d’ordine e le richieste ripetute da milioni di proletari di tutti i paesi, e non più di una minoranza di combattenti socialisti, come era stato nel 1915. La formula zimmerwaldiana si trovò ad assumere nei pubblici dibattiti un posto sempre più importante, quale che fosse l’interpretazione che se ne desse. Una formula, una parola d’ordine, può anche essere inesatta ed ugualmente divenire rivoluzionaria non appena le masse proletarie la sentono come propria e per essa si mettono in movimento.

La realtà non poteva più essere mistificata. Mano a mano che la guerra proseguiva, assumeva sempre più la fisionomia di guerra di posizione rendendo ancor più chiara l’immagine di quell’enorme mattatoio di schiavi umani destinati alla morte senza nessun apparente senso logico. Le speranze e le promesse fatte da parte dei governi ai popoli non si avveravano. In tutti gli Stati belligeranti non vi erano che distruzioni e devastazioni. Come dimostrarono poi gli avvenimenti, la riconciliazione dei popoli era destinata a rimanere una chimera.

La risoluzione di Kienthal non conteneva soltanto un appello alla pace e alla lotta contro la guerra; essa si riferiva anche al periodo post-bellico. «La guerradicevaè frutto degli antagonismi capitalisti; essa non elimina le cause dei conflitti futuri. Essa rafforza il capitalismo e suscita nuovi antagonismi. Ne consegue un’accresciuta reazione economica e politica, nuovi armamenti e il pericolo di nuove conflagrazioni mondiali». Ed infatti, questa previsione non tarderà ad avverarsi; già al cessare degli scontri armati gli accordi di armistizio recavano già in sé i germi di nuovi e più spaventosi conflitti.

I numeri del Bollettino Ufficiale pubblicati successivamente alla Conferenza di Zimmerwald contengono una quantità di rapporti, informazioni e documenti sull’attività svolta dopo la Conferenza dai diversi gruppi aderenti alla Commissione. Questo materiale di documentazione testimonia il risveglio delle masse operaie, ma anche la crescente repressione contro l’opposizione sia dei governi sia dei partiti socialisti ufficiali. I socialisti rivoluzionari non solo venivano imprigionati nella Russia zarista, nella Germania del Kaiser, come pure nelle democratiche Francia ed Inghilterra, ma perfino in paesi neutrali quali la Svezia si condannavano ad anni di lavori forzati, per tradimento, quei socialisti che si battevano contro il militarismo e la guerra.

Nel Bollettino n. 5 venne pubblicato il rapporto ufficiale della Conferenza di Kienthal che affermava: «I rappresentanti delle organizzazioni e dei gruppi aderenti alla Commissione si sono riuniti in una seconda Conferenza internazionale socialista (...) per stabilire un comune atteggiamento nei confronti degli avvenimenti verificatisi dopo la prima Conferenza. Il compito principale del socialismo deve essere oggi quello di riunire il proletariato internazionale in una forza rivoluzionaria operante, unita in tempo di pace come in tempo di guerra dalla comunanza di idee, di interessi e di doveri!»

Dopo il primo sforzo inteso a riunire le forze più sane dell’Internazionale, dopo Zimmerwald che ne era divenuto un simbolo, occorreva ulteriormente precisare, da due distinti punti di vista, quale dovesse essere l’azione del proletariato internazionale: dal punto di vista positivo si rendeva necessario tracciare un programma d’azione, da quello negativo era stato necessario ribadire con forza i motivi della profonda ostilità del proletariato verso le “soluzioni” che pacifisti e pseudo socialisti proponevano per la soluzione a problemi di portata mondiale e storica.

Nel dicembre 1916, la Commissione socialista internazionale pubblicava un nuovo e più pressante appello, in cui senza esitazione dichiarava che «Per costringere i governi alla pace, non vi è che una potenza: la forza ridestata del proletariato internazionale, la sua ferma volontà di rivolgere le armi non contro i suoi fratelli, ma, in ciascun paese, contro il nemico interno».
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 


La questione ebraica oggi

Capitoli esposti a Torino nel settembre 2006 e a Sarzana nel gennaio 2007.

[Qui raccolta e riordinata]
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il Marxismo e la Questione Militare

[Indice del lavoro]
Rapporto esposto il 21 gennaio 2007 alla riunione di Sarzana.
 

1. “La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova”

II proletariato è oggi più che mai stretto nelle braccia di una stessa tenaglia: fra il terrorismo degli Stati borghesi e il pacifismo dei partiti opportunisti. Scopo supremo di questa intesa fra le forze imperialiste, di oriente e di occidente, del Nord come del Sud del Mondo, è di tenere disarmati i proletari in modo che possano subire passivamente sia nuove e catastrofiche guerre interstatali, sia l’attuale pace capitalistica che, con tutte le sue forme di oppressione, non è meno odiosa e lesiva degli interessi di classe del proletariato.

L’esperienza storica di brucianti sconfitte o anche solo il terrore suscitato dalle insurrezioni armate proletarie ha aperto gli occhi alla borghesia la quale, benché dominando e dettando legge incontrastata su tutti i continenti, è costretta a difendersi preventivamente con l’uso di ogni mezzo.

Contro la propaganda pacifista, combinata a quella del terrore, delle infernali macchine belliche moderne, il partito che è l’organo chiamato a dirigere l’assalto alla cittadella borghese deve prendere la posizione che gli è propria e che gli deriva dalla sua dottrina. Suo compito non è solo quello di essere preparato in sede teorica, ma sarà anche quello di organizzarsi sul terreno della lotta armata e della violenza di classe. Solo così potrà assolvere al fondamentale comandamento della dottrina rivoluzionaria di Marx, di sostituire, quando possibile, “all’arma della critica” la “critica delle armi”.

“La violenza è la levatrice della storia” così ripeteva George Sorel, padre del sindacalismo rivoluzionario poi sfociato nell’anarco-sindacalismo, tagliando corto contro tutti gli evoluzionisti controrivoluzionari, rifacendosi ad un passo del “Capitale” dove Marx meglio aveva spiegato che «la violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. Ed è essa stessa un agente economico» (Libro I, cap.24/6). L’uso della forza appartiene intrinsecamente alla sfera dei modi di produzione, all’economia e non al libero arbitrio delle persone, di capi più o meno spietati, perché, in una società divisa in classi, in cui gli uomini sono totalmente dominati dalle forze produttive, nessuna libera scelta di mezzi è ad essi lasciata.

Diciamo perciò che “la violenza” non esiste “in sé”, né è insita nella “natura umana”, come pretendono gli idealisti, ma è una manifestazione necessaria dello sviluppo sociale dell’umanità durante tutta la storia vissuta fino ad oggi. Discende dallo sviluppo reale della società ed ha un ruolo, una funzione ben determinata che in date condizioni storiche la rendono inevitabile, che tale funzione sia favorevole allo sviluppo storico o ad esso contraria. Fino a che l’agente, il potere politico che adopera la violenza, svolge una funzione sociale positiva, esso si mantiene in vita. Quando non svolge più questa funzione è destinato a cadere sotto i colpi di una violenza ancora più forte prodotta dalle ragioni economiche e sociali nuove che si vogliono aprire la strada. E con ciò è implicitamente detto, in modo generale, quale sia la “causa” della violenza. La chiave del mistero è tutta qui.

Secondo il marxismo, quindi, anche il fatto guerra nasce da determinazioni economiche e sociali e svolge un ruolo che trascende la volontà degli uomini al potere che l’hanno dichiarata

Se quella frase di Marx è stata occultata e censurata per la sua veritiera potenza, l’uso della violenza è parte essenziale del nostro programma ed il marxismo è la sola dottrina che la spieghi e la teorizzi e ne preveda coscientemente l’inevitabile utilizzo da parte delle classi rivoluzionarie. Ciò spiega l’importanza data dal partito alla questione della violenza o questione militare, come l’abbiamo chiamata per sottolinearne un determinato aspetto: quello del suo uso aperto, sia nelle guerre fra gli Stati, sia fra le diverse classi e strati sottomesse allo stesso Stato. Non è da oggi che tutti i marxisti hanno condiviso l’importanza della questione. Mehring, per esempio, membro dell’ala sinistra del Partito Socialdemocratico tedesco, denunciava già l’opportunismo e il pacifismo della Seconda Internazionale proprio perché tendeva a spegnere l’interesse dei proletari per la questione militare. La storia del partito bolscevico ci mostra la grande cura sempre dedicata da Lenin al lavoro legale ed illegale ed alle organizzazioni che dovevano svolgere tale lavoro. Basti citare il suo motto: “La scienza militare è indispensabile ai proletari”.

Questo lavoro di Partito intende studiare l’evolversi della questione secondo la successione dei modi di produzione, cioè la dialettica fra lo sviluppo crescente delle forze produttive e la corrispondente ed adeguata organizzazione militare. Vedremo che ogni forma superiore di produzione conferisce alla classe rivoluzionaria che ne è l’agente una sicura superiorità militare contro la forma precedente e inferiore, giungendo infine alla descrizione di quanto apportato in merito dal Capitalismo, che verrà sconfitto dalla nuova organizzazione del proletariato rivoluzionario.

Partiremo dalla forma primaria del Comunismo primitivo, per passare alla secondaria nella variante Antico classica e Germanica, un breve cenno a quella Asiatica (Egitto antico, Imperi Mediorientali); seguirà la terziaria del Feudalesimo ed infine la quaternaria del Capitalismo.

Da questa analisi trarremo inoltre la conclusione che il proletariato, lungi dall’appellarsi ai superiori “valori” di una astratta giustizia e di una falsa morale, utilizzerà tutti i suoi mezzi di lotta armata per raggiungere l’obiettivo del superamento del modo di produzione capitalistico. Questa previsione, che ogni classe rivoluzionaria nella storia ha fatto e farà uso per i suoi fini di tutti i mezzi di lotta a sua disposizione, non è applicata dal marxismo solo sul terreno dei grandi svolti epocali, come le guerre fra Stati e le guerre civili rivoluzionarie, ma considera che fondati sulla violenza, dispiegata o potenziale, a livello di minaccia, siano sempre anche i quotidiani, e apparentemente “pacifici”, rapporti fra le classi. Sia la borghesia quando scrive le sue leggi sia la classe operaia, per esempio quando si organizza in sindacato, instaura un rapporto basato non sul consenso ma sulla forza. La violenza, da una parte come dall’altra, latente, è sempre pronta a rendersi inevitabile e a manifestarsi in atto.
 
 

2. Nel comunismo primitivo e nel trapasso alle società di classe

La guerra è stata necessaria per l’umanità anche nella fase che ha preceduto la società divisa in classi: quella del comunismo primitivo e della sua dissoluzione.

La formula del Manifesto che la storia è stata fin qui lotta di classi è completata dalla nota (degli stessi autori) che spiega essere questa la storia scritta. Infatti, durante la preistoria, non scritta, cioè prima delle società divise in classi, le comunità primitive hanno conosciuto urti violenti fino alla loro dissoluzione. Marx scrive che «la guerra è stata una forza produttiva essenziale delle comunità primitive» (Grundrisse) e che «la guerra è pertanto il grande compito collettivo, il grande lavoro collettivo che si richiede sia per conquistare le condizioni obiettive di esistenza, sia per proteggere o perpetuare questa conquista» (Forme che precedono la produzione capitalistica).

L’economia, al solito, spiega perché la guerra è stata un loro dato permanente. Se non esistevano contraddizioni nel loro interno né una disuguaglianza di posizione sociale, salvo quelle richieste dall’organizzazione delle comunità, che per consenso spontaneo e per consuetudine si delegavano a singoli per la salvaguardia di certi interessi comuni (vedi Antidühring), esistevano però necessità di vita delle varie comunità che ne invocavano lo scontro. A volte l’esiguità stessa di questi gruppi umani li spingevano a fondersi fra loro e questo processo di fusione non sempre avveniva consensualmente. Talvolta bastava la forza unificatrice delle comunità più potenti, ma più spesso l’imposizione con l’atto di guerra. Così le comunità primitive poterono difendere e conquistare nuove condizioni di esistenza e nuove forze produttive. Le forze di lavoro del vinto e la sua tecnica venivano assimilate dal vincitore, che così si irrobustiva e si assicurava migliori condizioni di sopravvivenza e di sviluppo. Attraverso questo processo di fusione dai clan si formarono le tribù e da queste i popoli.

Primordiali ragioni di carattere materiale produssero anche le migrazioni dei popoli da una regione all’altra della Terra. Molto peso ebbero in queste vicende anche le condizioni climatiche: le tribù ed i popoli più forti ricacciarono nelle zone meno ospitali, le più fredde o le più calde, le genti militarmente più deboli (Eschimesi, Pigmei) che vi rimasero ad abitare. Ma razze intere soccombettero e furono sterminate in queste lotte violente delle epoche preistoriche in cui la coscienza dell’umanità era ancora nella sua fase aurorale, del tutto ignara sia delle sue forze sia di quelle della natura da cui era terribilmente dominata.

Concludendo: la guerra e in genere l’impiego della violenza non era liberamente “decisa” ma imposta da necessità economico-sociali, la guerra, dicevamo, «è antica quanto l’esistenza simultanea di più gruppi di comunità» (Antidühring) e rappresenta un mezzo importante, anzi il mezzo più importante nella difesa delle condizioni di esistenza del comunismo primitivo e dello sviluppo delle sue forze produttive, permettendo la fusione dei piccoli gruppi che per la loro stessa esiguità erano condannati ad una vita precaria e sempre minacciata.

Ma il compito positivo della guerra non si esaurisce in questo: la guerra permetterà anche un avvenimento di eccezionale importanza, la dissoluzione del comunismo primitivo e la costituzione della società divisa in classi, che tutt’oggi dura. Ma la violenza, anche in questo suo compito, non va vista come “la causa” determinante, ma solo come concausa e complementare, prodotta da quella materiale ed economica. Meglio che in ogni altro momento della storia dell’umanità, proprio in questo trapasso si vede come «la forza, anziché dominare l’ordine economico fu costretta a servirlo».

Continuiamo a citare Engels per mostrare come dalle società senza classi sorgono e si sviluppano le classi. «La divisione naturale del lavoro in seno alla famiglia agricola permetteva, ad un certo livello di benessere, di introdurre una o più forze di lavoro estranee. Questo fatto avveniva particolarmente in paesi in cui l’antico possesso comune del suolo era già scomparso o almeno l’antica coltivazione in comune aveva ceduto il posto alla coltivazione separata di appezzamenti parcellari ad opera delle rispettive famiglie. La produzione si era tanto sviluppata che ora la forza lavoro dell’uomo poteva produrre di più di quanto era necessario per il suo semplice mantenimento: i mezzi per mantenere più forze di lavoro c’erano e del pari quelli per impiegarle. La forza lavoro acquistò un valore. Ma la comunità in sé e l’aggregato di cui essa faceva parte non fornivano forze di lavoro eccedenti disponibili. Le forniva invece la guerra e la guerra era antica quanto la coesistenza simultanea di gruppi di comunità. Finora non si sapeva che fare dei prigionieri di guerra e quindi venivano semplicemente uccisi e, in un periodo ancora anteriore, mangiati. Ma al livello raggiunto ora dall’ordine economico essi acquistarono un valore, furono quindi lasciati vivere e si utilizzò il loro lavoro (...) La schiavitù era stata scoperta (...) e dobbiamo dire, per quanto ciò possa suonare contraddittorio ed eretico, che l’introduzione della schiavitù nelle circostanze di allora fu di grande progresso (...) E questo fu un progresso anche per gli schiavi». Come si vede, una visione meno unilaterale di quella che descrive la guerra quale apportatrice di dolore e regresso.

A questo punto urge una precisazione: «Prima che la schiavitù diventi possibile, bisogna che sia raggiunto un certo livello nella produzione e che sia comparso un certo grado di disuguaglianza nella distribuzione». E ancora: come e per quale via poteva avvenire ed avvenne questa disuguaglianza nella distribuzione? Avvenne in genere per via economica: con la specializzazione della produzione (per esempio con l’allevamento del bestiame) favorita dal difforme sviluppo delle varie comunità per effetto delle diverse forze ambientali e naturali, sorgeva la necessità dello scambio e, con lo scambio, la disuguaglianza delle ricchezze, la proprietà privata, il diritto, ecc. Ma alla via puramente economica, che poteva essere sufficiente oltre che necessaria, si accompagna certo l’uso della violenza a scopo di rapina. Parlando appunto del possesso di patrimonio da parte di singoli, Engels scrive: «È certo chiaro in ogni caso che è possibile che esso sia frutto di rapina e che quindi poggi sulla forza, ma ciò non è affatto necessario».
 
 

3. Sviluppo e crollo della società schiavista: La Grecia

Quadro storico-economico

La funzione progressiva della guerra continua nelle prime comunità dei popoli civili e non si limita solo all’utilizzo diretto delle forze di lavoro vinte, fatte prigioniere e rese schiave. Il processo della formazione delle classicome Engels dimostraoltre che per la via economica diretta “pura”, si svolge nel migliore dei modi man mano che la produttività del lavoro aumenta e permette il distacco di alcuni elementi dal lavoro direttamente produttivo. Le comunità possono utilizzare questi uomini in altre funzioni, pure molto necessarie, che sono quelle di direzione e di controllo per la salvaguardia degli interessi generali crescenti sia della comunità nell’insieme sia dei singoli (qui il Diritto è già nato). E questi elementi «sono ovviamente dotati di una certa autonomia di potere e costituiscono i primi rudimenti della forza dello Stato».

Non staremo qui ad analizzare «come questo rendersi indipendente della funzione sociale di fronte alla società abbia potuto accrescersi col tempo ed arrivare al dominio sulla società». Quello che è importante mettere in rilievo è il fatto che allora più che mai una classe dirigente era necessaria ed utile mentre «oggi la classe dominante e sfruttatrice è diventata superflua, anzi è diventata un ostacolo allo sviluppo della società e solo ora sarà inesorabilmente eliminata, per quanto possa essere in possesso della forza immediata».

Esempio di importante funzione sociale quella svolta appunto dalle classi dirigenti di Cina, Egitto e Mesopotamia, quando si impegnarono nei grandi lavori di irrigazione mediante il governo delle acque dei fiumi. Altra non meno importante funzione sociale che favorì il distacco di singoli e di famiglie dalla restante parte degli uomini liberi e schiavi fu quella svolta dai guerrieri, i quali, come è noto, costituivano una delle classi dominanti dell’antica Grecia.

La società schiavista, si sa, conobbe un ritmo assai lento, poiché lento era il ritmo della produttività data l’ancor primitiva tecnica del lavoro.

A dare impulso e dinamicità a questo modo di produzione fu spesso la guerra. Basti ricordare che la protezione delle forze armate necessarie ai popoli mercantili, a causa dell’alto valore delle merci da essi trasportate, favorì vieppiù la specializzazione dei trasporti e del commercio e fu quindi un fattore di sviluppo nelle relazioni fra i popoli. Così infatti poterono essere assicurati i traffici tra i popoli asiatici ed i popoli mediterranei esercitati da Assiro-Babilonesi, Persiani e Fenici. Questi ultimi poi si incaricarono di far giungere i prodotti dell’Orientepiù progredito di ogni altra regione del mondofino alle coste del Mediterraneo occidentale. II naviglio militare che essi approntarono tra i primi per la difesa e la scorta delle flotte mercantili permise la diffusione di molte piante utili all’uomo ed animali domestici insieme alla scrittura alfabetica, con enormi vantaggi per tutti. Per tale bisogno essi si servirono di colonie, che da semplici empori dovevano divenire nuovi centri del commercio marittimo: famosa fra esse Cartagine. Per il semplice ed elementare principio che la vittoria in guerra è il risultato di una superiorità di tutte le forze condizionate a loro volta dalla produzione materiale, è possibile affermare in linea generale che l’avvicendarsi dei vari popoli e Stati nel dominio politico e territoriale segna quasi sempre un passo avanti nella storia dell’umanità.

Non sempre le imprese guerresche dei popoli antichi portarono a conquiste durature, e la formazione e decomposizione degli imperi stanno a testimoniarlo. Complesso e non continuo è il rapporto fra impiego della forza, rapporti sociali che la controllano, sviluppo delle economiche forze produttive, a loro fondamento. Ma è incontestabile che la guerra abbia spesso segnato il tramonto di un periodo e l’aurora di un nuovo sviluppo sociale e storico di una stirpe e del mondo antico in cui primeggiava. Citiamo Engels: «La Grecia già nell’età eroica fa il suo ingresso nella storia con un’organizzazione in ceti che è il prodotto evidente di una preistoria piuttosto lunga e conosciuta; ma anche qui il suolo viene economicamente sfruttato in prevalenza da contadini indipendenti; le più vaste proprietà dei singoli e dei capi-tribù, costituiscono l’eccezione e del resto scompaiono subito dopo».

La guerra di Troia e la lunga serie di guerre successive caratterizzano l’infanzia e l’adolescenza dello sviluppo delle forze produttive greche. La Grecia, conquistata l’egemonia sull’Egitto, si assicurava i traffici marittimi vicini, dai quali accaparrava nuove ricchezze. Nuovi ceti sociali, armatori e commercianti, si aggiungevano ai vecchi ceti dominanti formati da proprietari di terre, di bestiame e di schiavi, e davano maggiore dinamicità all’indirizzo economico dello Stato. L’accesso al potere politico di questi nuovi ceti sarà da essi raggiunto a prezzo di lotte armate in cui essi spesso si servirono dell’aiuto delle classi meno abbienti.

Tale il senso ed il significato della democrazia greca, e di tutte le future: non quello che la mitologia borghese vuole attribuirle, la realizzazione di un ideale e perfetto ordinamento politico, cui l’umanità faticosamente da millennii aspirerebbe come definitiva soluzione dei suoi problemi. Tanto la democrazia di Atene, in cui solo 40.000 cittadini erano ammessi alla vita pubblica su 400.000 abitanti, quanto quella degli Stati moderni borghesi, in cui vige il suffragio universale, hanno avuto a proprio fondamento il lavoro della classe soggetta, alla quale la minoranza dominante deve tutta la sua ricchezza materiale e “spirituale”.

La vita politica della democrazia greca, quando non fu lotta di classe fra schiavi e padroni (celebre la terribile rivolta degli Iloti) fu conflitto permanente fra aristocrazia agraria e arricchiti del commercio e dell’industria navale.

Queste lotte interne si trasferivano spesso all’esterno delle città divenendo causa di guerre esterne. La mancata unità politica della Grecia antica trova origine nella struttura della sua economia. Né il comune elemento etnico delle tribù greche, né il legame culturale e religioso, né gli intensi traffici commerciali saranno mai in grado di realizzarla.

Il cemento della guerra si rese allora necessario per la comune ragione di vita economica: quella della difesa dei commerci e della via di rifornimento del grano minacciati dall’impero persiano, il quale, assicuratosi del dominio sull’Oriente, tendeva ad espandersi verso Occidente. Si realizzava così, sia pure temporaneamente, l’unificazione delle giovanili energie delle città greche nelle vittorie strepitose di Maratona, l’epica resistenza al passo delle Termopili, la vittoria navale di Salamina e quella terrestre di Platea, che decidevano della definitiva rinuncia della Persia all’Occidente. Vinte queste prove militari, e quelle dello stesso periodo contro i Cartaginesi ad opera della colonia di Siracusa, il popolo greco ha potuto compiere quella immensa opera di colonizzazione del Mediterraneo occidentale, in ispecie nel meridione di Italia. Con la penetrazione commerciale i Greci diffondono anche la loro cultura e tutti i prodotti del pensiero e dell’arte, che da quei traffici ebbero alimento.

Dopo la fase di espansione dell’economia greca in cui la guerra ha svolto un ruolo di primaria importanza, segue quella di un assestamento e di un più o meno pacifico sviluppo, che culmina nella cosiddetta età di Pericle, in cui pare che un terzo delle entrate pubbliche fossero spese dallo Stato ateniese per favorire la cultura. Engels, volendo dimostrare a Dühring, che a base della schiavitù c’è ben altro che la “forza immediata”, cioè l’innata, o volontaria violenza pura della classe dominante, così esordisce: «Se al tempo delle guerre persiane il numero degli schiavi salì a Corinto a 460.000, a Egina a 470.000 e su ogni membro della popolazione libera c’erano dieci schiavi, ciò implicava qualcosa più ancora della “forza”; implicava un’industria artistica ed artigiana altamente sviluppata ed un commercio estero».

A questo periodo d’oro segue la fase di vecchiaia e di declino di un organismo economico che ha esaurito la spinta propulsiva: in esso da tempo erano presenti i limiti ed i freni che le lotte di classe dovevano vieppiù ingrandire.

La fioritura intellettuale della società greca non significa che anch’essa non fosse una società di classe, e la sua ferocia e brutalità hanno conosciuto frequenti eccessi spietati e sanguinari. Al suo declino, ciò che aveva creato di buono, sia nel campo della produzione materiale sia della scienza, rimase acquisito per l’umanità e non andò perduto. Prima la spada di Alessandro poi le legioni romane si incaricheranno di diffondere questa eredità al mondo di oriente e di occidente. Come non giudicare positivo il ruolo delle leggendarie imprese guerresche di Alessandro? Il cosiddetto ellenismo, cioè la fusione dell’elemento orientale e greco, che poi sarà ereditato da Roma, va debitore a tutte le guerre che il giovane e rozzo popolo macedone sarà in grado di sostenere e vincere dopo aver assoggettato prima di tutto la Grecia.

Ma non è con la Grecia che la società schiavista raggiunse il suo più alto sviluppo. L’ultimo e più forte balzo avanti delle forze produttive sarà compiuto da Roma; non per volere del Fato o per doti speciali degli antichi romani, ma per determinate e ben precise ragioni di ordine economico, per la posizione geografica della città e per il momento storico in cui Roma si trovò ad inserire la sua azione.

I limiti alla potenza delle Polis greche erano posti dalla loro stessa economia basata su una limitata agricoltura (olio e vino piuttosto che il grano, che veniva importato), razzie, traffici marittimi, e una raffinata produzione artigiana (è noto che le sorti di Atene furono intimamente legate alle miniere di piombo argentifero del Laurion, a 50 Km dalla città, che, sfruttate col lavoro degli schiavi, costituivano, finché non si esaurirono, il suo tesoro).

Roma invece poggiava sull’attività primaria dell’economia del tempo: l’agricoltura; questo popolo di rozzi contadini e pastori avrà a disposizione quella ricchezza veramente salda, e quindi una compatta forza armata da essa alimentata, e di cui esso si servirà prima di tutto per assicurarsi la sopravvivenza nelle lotte contro le bellicose tribù vicine, per poi consolidare ed espandere la propria ricchezza agraria con la conquista delle altre regioni della penisola, come avvenne con le guerre contro i Sanniti e contro le colonie greche in Italia.
 

La Falange oplitica: base della forza militare delle città-stato greche

Qui ci limitiamo alle battaglie terrestri e non esaminiamo gli scontri navali, importanti sia per gli esiti delle guerre sia per il necessario elevato grado di sviluppo delle forze produttive necessarie per allestire flotte imponenti con efficientissimi e complessi vascelli da combattimento. Storicamente famose furono le flotte greche che sconfissero quelle persiane, quelle fenice per i grandi commerci, quelle cartaginesi realizzate con tecniche costruttive innovative basate su sezioni di scafo indipendenti, ed infine quelle romane, dalle cartaginesi copiate, che per qualità e quantità domineranno tutto il Mediterraneo. A ciò si potrà dedicare un capitolo specifico.

Dalla mitologia omerica non si ricavano particolari informazioni sul tipo di combattimento e di strategia militare praticata in quel periodo se non quello che la lancia veniva scagliata come arma da getto accompagnata da imboscate, scaramucce, scontri rituali e coraggiosi duelli tra singoli guerrieri-eroi che spesso dovevano da soli risolvere la controversia militare fra le parti.

Gli storici ammettono che l’era dei soldati a cavallo dell’età arcaica greca, che scendevano a terra per lanciare l’asta e combattere a corpo a corpo, va grossomodo dal 1200 all’800 a.C., mentre la battaglia tra opliti, coincidente con l’ascesa delle città-stato, va dal 650 al 338 a.C., quando la sconfitta dei greci nella battaglia di Cheronea è opera della innovativa e più efficiente falange macedone.

Ad un certo punto, tra la fine del VIII secolo a.C: e l’inizio del VII, l’organizzazione militare si evolse e i fanti greci presero gradualmente ad armarsi con una pesante corazza, un grande scudo rotondo di legno (hoplon, da cui oplite) una lancia e una corta spada, potendo in tal modo avvicinarsi frontalmente al nemico per colpirlo invece di lanciare frecce e aste da lontano, avanzando e ritirandosi come le maree dei guerrieri indigeni che gli europei incontrarono ancora in Africa e in sud America fino al secolo scorso. La guerra, non più duello personale tra ricchi cavalieri, diventa uno scontro collettivo di intere comunità organizzate nelle città-stato. In quanto liberi cittadini e proprietari terrieri, anche se e molto spesso di piccoli appezzamenti, si è automaticamente guerrieri: dai 18 ai 60 anni, senza alcuna esclusione tutti sono arruolati, compresi mancini, zoppi e perfino ciechi, in quanto la nuova organizzazione militare necessita fondamentalmente di una massa di spinta compatta la maggiore possibile, come un gigantesco ariete umano, piuttosto che guerrieri particolarmente addestrati.

Per passare a questa fase di organizzazione della battaglia si rese necessario un ulteriore sviluppo delle forze produttive, in particolar modo nella fusione dei metalli, tanto nella qualità quanto nella quantità di metallo lavorato. Si trattava di armare di piastre di bronzo corazze, elmi e gambali, e forgiare spade e lance (panoplia, l’insieme dell’attrezzatura per il combattimento), e non più solo per alcune centinaia di re guerrieri con una ridotta schiera di nobili, bensì un numero ben maggiore di combattenti dell’ordine di diverse decine di migliaia di unità. Si afferma così, in questa parte del pianeta, la battaglia campale organizzata nella falange oplitica. Calcoli recenti stimano il peso dell’intera panoplia tra i venticinque e trentacinque chili per un fante, che normalmente non ne pesava più di settanta. Esaminando sia il singolo suo componente sia il dispiegamento sul campo di battaglia delle falangi oplite scopriamo una organizzata macchina bellica da cui, attraverso continue evoluzioni, si giunge infine alla moderna fanteria.

Scudo e lancia sono gli elementi principali: il primo di legno, ricoperto al più di leggere piastre metalliche a mo’ di simbolo identificativo; è rotondo con un diametro di circa un metro, e leggermente concavo per potersi poggiare sul bordo superiore della spalla sinistra su cui scaricarne parte del peso, dai 3 ai 5 chili, e al tempo stesso accostarsi al busto. Copre più della metà del corpo ma lascia scoperte cosce, ginocchia e parte del fianco destro: l’oplita per proteggersi deve quindi accostarsi il più possibile allo scudo del suo compagno a destra, compattando così la formazione, che per questo avanza derivando leggermente verso destra. Inoltre peso e dimensioni impediscono di volgerlo sulle spalle in caso di fuga, cosa possibile con i precedenti scudi più piccoli e leggeri, lasciando il fante completamente indifeso dagli inseguitori.

La lancia è di legno duro, corniolo o frassino, lunga due metri, al massimo due metri e mezzo, con un diametro che non supera i tre centimetri, pesa al più due chili; ha una punta a goccia e un puntale all’opposta estremità, anch’esso metallico, che serve sia come contrappeso sia come impugnatura per resistere alle spinte degli avversari e per finire i nemici colpiti e travolti nell’avanzata. Tenuta saldamente sottobraccio, nel primo attacco veniva diretta utilizzando la spinta di tutto il corpo dal basso verso l’alto contro gli scudi nella zona tra le cosce e l’inguine, entrambi scoperti, dove provocava grosse lacerazioni con copiosi dissanguamenti e la caduta dell’avversario. In una seconda fase, tenuta soprabraccio, veniva diretta dall’alto verso il basso sul collo dell’avversario, altro punto poco protetto. Normalmente le lance delle prime file si infrangevano al primo urto e si passava alla spada corta, il cui uso però risultava difficoltoso a causa dell’enorme ressa prodotta da formazioni così compatte; non infrequenti sono le descrizioni di combattimenti a pugni nudi, morsi e calci.

La corazza è realizzata con spesse piastre di bronzo, copre busto e schiena del corpo su cui si modella dovendo però consentire la corsa e ampi movimenti delle spalle per il combattimento; si allarga sui fianchi assumendo una caratteristica forma a campana con un spesso bordo. Il suo peso varia di molto sia per il costo sia per i suoi molti inconvenienti dovuti a scarsa protezione. Poiché i combattimenti avvenivano solitamente d’estate e nelle ore centrali della giornata, la corazza metallica presto si scaldava e veniva indossata solo al momento precedente lo scontro. Con il loro brillare sotto i raggi del sole, lucidate costituivano tutte insieme un grande specchio abbagliante. Al contrario in inverno o durante le piogge portavano il corpo in ipotermia. Per questi inconveniente numerosi sono i riferimenti letterari di fanti che preferiscono non indossarla pur esponendosi a gravi rischi.

L’elmo corinzio era di bronzo, copriva la testa e buona parte del collo, scendeva sotto la nuca fino alla clavicola; spesso le piastre laterali a protezione di guance e naso sporgevano in avanti fino quasi a sfiorarsi in corrispondenza del centro del viso, offrendo una difesa agli occhi, al naso e anche alla bocca. Offriva una valida protezione ma il suo difetto più evidente era che gravava direttamente sul capo salvo una leggera imbottitura per ammortizzare i colpi. La sua forma inoltre ostacolava la parlata l’ascolto e la vista laterale, isolando troppo il combattente ed impedendo cambiamenti di strategia durante lo scontro, per altro quasi mai previsti.

I gambali erano sottili lamine di bronzo che partivano dalla rotula fino alla caviglia modellati sulla conformazione del guerriero ed erano fondamentali soprattutto per gli opliti delle prime file ma per il loro peso ponevano non pochi problemi nella corsa.

La falange oplitica era una formazione normalmente costituita da otto file serrate di guerrieri, con gli scudi accostati per reciproca protezione. La disposizione dei ranghi teneva in massima considerazione i vincoli familiari e le relazioni claniche allo scopo di aumentare la coesione delle formazioni attraverso la reciproca protezione dovuta ai legami affettivi. Le prime tre file della falange avanzavano con le lance in posizione orizzontale mentre quelle delle file successive erano rivolte verso l’alto per non ostacolare l’avanzata delle prime e in attesa di rimpiazzare i caduti.

Su un terreno perfettamente pianeggiante, senza fossi o avvallamenti che rompevano gli allineamenti, concordato da entrambi i fronti, i due schieramenti in formazione serrata avanzavano al passo veloce cadenzato al suono dei flauti percorrendo le ultime centinaia di metri di corsa per imprimere la maggior potenza d’urto alla collisione iniziale. La vittoria avveniva quando si sbaragliava la linea nemica facendola arretrare vistosamente. Rotta la formazione avversaria i singoli opliti isolati erano facilmente vulnerabili e quasi mai valeva la pena di inseguirli e ucciderli.

Dopo il primo urto dove le lance si spezzavano quasi tutte seguiva la spinta delle file retrostanti su quelle anteriori per mezzo degli scudi che premevano sulle corazze dei compagni della fila antistante. Lo scopo era di avanzare sempre o almeno di non retrocedere: gli ultimi spingevano sui primi senza vedere o capire che cosa stesse succedendo nelle prime file in una confusione incredibile in mezzo alla polvere nel caldo del primo pomeriggio.

Seguiva un corpo a corpo furibondo senza alcuna tecnica di combattimento precisa in uno spazio sempre più ristretto e man mano ingombro di morti e feriti, molti dei quali rimanevano in piedi per la forte pressione esercitata sulle file compatte da quelle arretrate. Infine un fronte cedeva in modo vistoso e chiaro per tutti, dopo di che si riteneva che la carneficina potesse terminare e si innalzava sul campo di battaglia il simbolo o il trofeo dei vincitori.

In questo modo si risolveva con un unico scontro la guerra tra falangi oplite, che si valuta, sia per lo sforzo richiesto per sostenere tutta l’armatura sia per la furia impegnata, dovesse durare mezz’ora o non più di un’ora. Anche le perdite, nonostante tutto, si è calcolato fossero contenute: dal 5 al 7% dei vincitori e dal 10 al 15% dei vinti. A questi combattenti è risparmiato, in origine almeno, l’orrore dei massacri che seguiranno nei periodi successivi le disfatte degli eserciti in rotta.

Anche nel caso di grandi formazioni lo schema era lo stesso, il fronte si poteva estendere anche per qualche chilometro ma nulla cambiava nell’impostazione dello scontro. Combattendo in questo modo non erano tanto importanti brillanti prove di valore individuale ma contavano più la disciplina, la solidarietà, lo spirito di sacrificio, obbedire ai pochi comandi, agire tutti insieme, non rompere lo schieramento ma soprattutto non gettare via lo scudo tradendo così i compagni. Questo schema fisso di combattimento non richiedeva inoltre grandi doti strategiche dei generali i quali occupavano il lato destro della prima fila, dove erano anche i migliori opliti, incitando e combattendo con maggiore determinazione: la maggior parte di loro periva nel combattimento.

(Per maggiori dettagli si può attingere a V.C. Hanson “L’arte occidentale della guerra”).
 

La Falange macedone

La falange oplitica si impose all’intero mondo mediterraneo ma si sviluppò in modo differente in Occidente rispetto che in Oriente. I primi mutamenti comparvero all’interno del mondo greco stesso per la frequenza degli scontri che vi avvennero.

Inizialmente si pensò di trovare un rimedio alla deriva verso destra del movimento in formazione descritto. Durante la battaglia la spinta sulle ali destre, opposte alle più deboli sinistre avversarie, obbligava a far ruotare le due formazioni per evitare accerchiamenti e contrapporre i reparti migliori. Questa deriva-rotazione giungeva talvolta persino a rompere lo schema e influenzare l’esito dello scontro. La soluzione più efficace fu messa in atto dal tebano Epaminonda contro l’esercito spartano di Cleombroto nella battaglia di Leuttra nel 371 a.C. Schierò sulla propria destra, di fronte al settore nemico più debole, forze numericamente e qualitativamente inferiori, assottigliando progressivamente i ranghi a partire dall’ala sinistra e mantenendo arretrata obliquamente la propria linea, con il proposito di sottrarre per quanto possibile la parte più vulnerabile al contatto col nemico. All’ala sinistra, viceversa, di fronte alle truppe spartane più forti, concentrò in uno schieramento massiccio profondo forse di 50 file gli uomini migliori e reparti di cavalleria. Mentre l’esercito spartano tentava ancora di modificare il suo assetto esso fu travolto grazie all’efficace impiego determinante delle cavallerie. Dei 700 spartani schierati, 400 furono uccisi o gravemente feriti.

Altrettanto innovativa fu la modifica di parte dell’equipaggiamento: con uno schieramento così pesante, basato sulla forza d’urto sugli scudi avversari, sarebbe stato più efficace una lancia più robusta e più lunga, da imbracciare con entrambi le mani, per tenere più lontani gli avversari. Di conseguenza lo scudo si riduce notevolmente, diventa di 60 centimetri di diametro, solitamente appeso al collo con una cinghia di cuoio, e si introduce una corazzatura più leggera e più pratica.

Determinazioni materiali introducono velocemente alla falange macedone, che sarà introdotta da Filippo e perfezionata da Alessandro. Questa era solitamente composta da 8.000 uomini schierati su 16 file, armati meno pesantemente degli opliti e dotati di una lancia lunga dai 4 metri e mezzo ai 6 (sarissa); le prime 5 file avanzano con le sarisse ad altezza d’uomo mentre le altre sono rette obliquamente o verticalmente formando un muro contro frecce e giavellotti. I fianchi estremamente vulnerabili della falange sono ora protetti da un corpo specializzato di armati come gli opliti. Compito della falange non era tanto quello di portare un attacco ma quanto quello di assorbire e neutralizzare l’urto nemico: più una incudine che un martello. Ai lati della falange ora la cavalleria pesante, guidata dal sovrano, avanza velocemente sui fianchi per realizzare una manovra avvolgente con il compito di risolvere la battaglia distruggendo il centro della formazione avversaria immobilizzata dal blocco monolitico della falange. La cavalleria leggera e truppe appiedate leggere dotate di armi da getto hanno lo scopo di evitare accerchiamenti e creare azioni di disturbo.

Assai meno formalizzate di un tempo, le operazioni militari cercano ormai le pianure solo per gli scontri maggiori, per quelle battaglie che, anche se restano di solito decisive, sono divenute meno frequenti. Gli eserciti più deboli cercano di sfruttare sempre più la natura del terreno, cercando di mettere in difficoltà le massicce formazioni di fanteria pesante impacciate soprattutto se costrette a muoversi nelle zone montagnose. Nasce così una nuova forma di conduzione della battaglia divenuta più complessa con l’uso di diversi tipi di reparti aventi ruoli e armamenti differenziati che eseguono un articolato e predisposto piano di battaglia, ma soprattutto con più uomini schierati, segno di un generale accresciuto sviluppo delle forze produttive.

(Su questo argomento si trovano ulteriori notizie in G.Brizzi “Il guerriero, l’oplita, il legionario”)
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra

I documenti scaturiti dalla conferenza di Zimmerwald non avrebbero potuto che rappresentare un compromesso tra le sue varie componenti, anche se è evidente l’impostazione che la sinistra poté imprimervi. I rivoluzionari avevano dovuto fare larghe concessioni perché un Manifesto potesse innalzarsi di fronte al tradimento dei social-sciovinisti di tutti i paesi. Però Lenin, Zinoviev, Radek, Nerman, Höglung e Winter tennero a fare questa dichiarazione: «Il Manifesto accettato dalla Conferenza non ci soddisfa completamente. In esso non vi è nulla di specifico sull’opportunismo dichiarato o su quello che si cela dietro frasi radicali – di quell’opportunismo che non solo porta la principale responsabilità del crollo dell’Internazionale, ma che anzi vuole perpetuarlo. Il Manifesto non specifica chiaramente i mezzi per opporsi alla guerra. Noi continueremo, nella stampa socialista e nelle riunioni dell’Internazionale, a sostenere un atteggiamento marxista risoluto di fronte ai problemi che l’epoca dell’imperialismo pone al proletariato. Accettiamo il Manifesto perché lo concepiamo come un appello alla lotta e perché, in questa lotta, noi vogliamo marciare, fianco a fianco, con gli altri gruppi dell’Internazionale. Preghiamo di accludere questa dichiarazione al rapporto ufficiale».

Quelli che qui seguono, il testo del progetto di risoluzione e di appello, presentati dalla sinistra, vennero a maggioranza respinti. Essi erano stati proposti dal Comitato Centrale del Partito Socialdemocratico Operaio di Russia, dal Comitato Nazionale della Socialdemocrazia Russo-polacca e Lituana, dal Comitato Centrale della Socialdemocrazia Lettone, dalla Federazione dei Giovani Socialisti di Svezia e Norvegia, da un rappresentante dei socialdemocratici rivoluzionari tedeschi e dallo svizzero Platten.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

PROGETTO DI RISOLUZIONE
(Presentato dalla Sinistra di Zimmerwald)

La guerra che da più di un anno devasta l’Europa è una guerra imperialista per lo sfruttamento economico di nuovi mercati, per la conquista delle fonti di materie prime, per lo stanziamento di capitali. La guerra è un prodotto dello sviluppo economico che vincola economicamente tutto il mondo e lascia al tempo stesso sussistere i gruppi capitalisti costituitisi in unità nazionali, e divisi dall’antagonismo dei loro interessi.

Col tentativo di dissimulare il vero carattere della guerra, la borghesia ed i governi, i quali pretendono che si tratti di una guerra per l’indipendenza, di una guerra che è stata loro imposta, non fanno che trarre in inganno il proletariato, perché in realtà lo scopo della guerra è proprio l’oppressione dei popoli e di paesi stranieri. Lo stesso è delle leggende che attribuiscono ad essa il ruolo di difesa della democrazia, mentre invece l’imperialismo significa dominio più brutale del grande capitalismo e della reazione politica. Solo con l’organizzazione socialista della produzione, che a sua volta risolverà le contraddizioni ingenerate dalla fase attuale del capitalismo, l’imperialismo potrà essere superato, essendo già mature le condizioni obiettive per tale trasformazione.

Quando la guerra scoppiò la maggioranza dei dirigenti del movimento operaio non oppose all’imperialismo l’unica soluzione, quella socialista. Trascinati dal nazionalismo, minati dall’opportunismo, al momento della guerra essi lasciarono il proletariato in balìa dell’imperialismo, rinnegando così il principio del socialismo, vale a dire la vera lotta per gli interessi del proletariato.

Il social-patriottismoaccettato in Germania tanto dalla maggioranza, sinceramente patriottica, di coloro che prima della guerra erano i dirigenti socialisti del movimento, quanto dal centro del partito di tendenza oppositrice riunito attorno a Kautsky; che in Francia e in Austria viene professato dalla maggioranza; in Inghilterra e in Russia da una parte dei dirigenti (Hyndman, i Fabiani, i dirigenti e membri della Trade-Unions, Plechanov, Rubanovic e il gruppo Nacha Saria in Russia)è più pericoloso per il proletariato degli apostoli borghesi dell’imperialismo perché, sfruttando la bandiera socialista, il social-imperialismo può indurre in errore la classe operaia. La lotta più intransigente contro il social-imperialismo è condizione prima della mobilitazione rivoluzionaria del proletariato e della ricostituzione dell’Internazionale.

I partiti socialisti e le minoranze di opposizione in seno ai partiti divenuti social-patrioti hanno il dovere di chiamare le masse operaie alla lotta rivoluzionaria contro i governi imperialisti, per la presa del potere politico, in vista dell’organizzazione socialista della società. Senza rinunciare alla lotta per le rivendicazioni immediate del proletariato, riforme da cui il proletariato potrebbe uscire rafforzato, senza rinunciare ad alcuno dei mezzi di organizzazione e di agitazione delle masse, la socialdemocrazia rivoluzionaria ha anzi il dovere di approfittare di tutte queste lotte, di tutte le riforme rivendicate dal nostro programma base per inasprire la crisi sociale e politica del capitalismo e trasformarla in un attacco diretto contro le stesse basi del capitalismo. Questa lotta, essendo condotta nel nome del socialismo, opporrà le masse operaie a qualsiasi tentativo volto all’oppressione di un popolo da parte di un altrola quale consiste nel mantenimento del dominio di una Nazione sulle altre e nelle aspirazioni annessionistiche; questa stessa lotta per il socialismo renderà le masse inaccessibili alla propaganda della solidarietà nazionale mediante la quale i proletari sono stati trascinati sui campi del massacro.

È combattendo contro la guerra mondiale, e per accelerare la fine del massacro dei popoli che questa lotta deve essere intrapresa. Essa chiede che i socialisti escano dai ministeri, che i rappresentanti della classe operaia denuncino il carattere capitalista-antisocialista della guerra dalle tribune dei parlamenti, nei giornali, e ove non sia possibile farlo con la stampa legale, nella stampa clandestina, che combattano energicamente il social-patriottismo, che approfittino di qualsiasi manifestazione di massa provocata dalla guerra (miseria, grandi sconfitte), per organizzare dimostrazioni di piazza contro i governi, che facciano propaganda di solidarietà internazionale nelle trincee, promuovano scioperi economici trasformandoli, se le condizioni lo consentono, in scioperi politici. Il nostro motto è: guerra civile, non unione sacra. Opponendosi all’illusione che si crea quando si lascia intendere che sia possibile gettare le basi di una pace duratura e avviare il disarmo attraverso le decisioni dei governi o della diplomazia, i socialdemocratici hanno il dovere di ripetere continuamente alle masse che soltanto la rivoluzione sociale potrà realizzare la pace duratura e liberare l’umanità.
 

(da: Bulletin de la Commission Socialiste Internationale de Berne, n. 2, 27 dicembre 1915, p. 13).

 
 
 
 
 
 
 
 
 

PROGETTO DI MANIFESTO
(Presentato dalla Sinistra di Zimmerwald)

La guerra dura da più di un anno. Milioni di cadaveri ricoprono i campi di battaglia, milioni di mutilati saranno, sino alla loro morte, un peso per se stessi e per la società. Orribili sono le devastazioni provocate dalla guerra e il peso delle imposte che essa lascerà dietro di sé.

I capitalisti di tutti i paesi, che col sangue versato dai proletari conseguono immensi profitti di guerra, esigono che le masse popolari tengano duro. Essi affermano che la guerra è necessaria alla difesa della patria e della democrazia di tutti i paesi. Essi mentono!

Nessun capitalista è entrato in guerra perché il suo paese si trovava minacciato nella sua indipendenza o perché voleva liberare un popolo. I capitalisti hanno condotto le masse al macello perché volevano assoggettare dei popoli allo sfruttamento e alla oppressione. Essi non sono riusciti a mettersi d’accordo sulla spartizione dei popoli d’Asia e d’Africa ancora indipendenti e diffidavano gli uni degli altri di volersi sottrarre le prede già conquistate. Le masse popolari non si sono dissanguate nel vasto macello che è diventato l’Europa in difesa della propria libertà o per la liberazione di altri popoli. Questa guerra porterà nuovi oneri e nuove catene al proletariato d’Europa e ai popoli d’Asia e d’Africa.

Perciò non bisogna continuare questa guerra criminosa, ma anzi riunire tutte le forze per porvi fine. L’ora è già suonata. Il primo passo in questa lotta è di esigere che i deputati socialisti, da voi mandati come vostri rappresentanti in parlamento per combattere il capitalismo, il militarismo e lo sfruttamento dei popoli, facciano il loro dovere. Che coloro i qualiad eccezione dei deputati russi, serbi e italiani e dei deputati Liebknecht e Rühlehanno mancato al proprio dovere aiutando la borghesia nella sua guerra di rapina, depongano il loro mandato o si servano della tribuna parlamentare per svelare al popolo il vero carattere della guerra, ed aiutino la classe operaia, fuori dell’assise parlamentare, ad intraprendere la lotta: rifiuto dei crediti di guerra, uscita dal governo in Francia, Belgio, Inghilterra. Questa è la prima rivendicazione.

Ma ciò non basta. I deputati non possono salvarvi dalla furia della bestia scatenata, dalla guerra mondiale che si pasce del vostro sangue. Voi stessi dovete intervenire, dovete servirvi di tutte le vostre organizzazioni, di tutti i vostri giornali per risvegliare le più vaste masse popolari che gemono sotto il peso della guerra e per sollevarle contro la guerra. Dovete scendere nella strada e gridare ai governanti: basta crimini! Se i governi restano sordi al vostro appello, le masse scontente e frustrate lo ascolteranno e si uniranno a voi nella lotta.

Bisogna chiedere energicamente la fine della guerra.

Bisogna levare la voce contro l’oppressione di un popolo da parte di un altro; contro la spartizione di nazioni che ogni governo capitalista eseguirà se sarà vittorioso e se potrà dettare agli altri le condizioni di pace. Perché se noi lasciamo ai capitalisti la libertà di dettare la pace così come essi hanno deciso la guerra senza consultare le masse, le nuove conquiste non solo rafforzeranno, nei paesi vincitori, la morsa della polizia e la reazione, ma semineranno i germi di nuove guerre ancora più terribili.

L’obiettivo che la classe operaia di tutti i paesi in guerra deve perseguire è il rovesciamento del governo borghese, perché non si porrà fine all’oppressione di un popolo da parte di un altro e alla guerra, se non quando il potere di decidere la vita e la morte dei popoli viene strappato al capitale. Solo i popoli liberati dall’indigenza e dalla miseria, dal dominio del capitale, saranno in grado di risolvere le loro reciproche relazioni senza guerra, in modo amichevole, con l’intesa.

L’obiettivo che noi fissiamo è grande, e grandi saranno anche i vostri sforzi e i vostri sacrifici per conseguirlo. Lunga è la via che vi conduce alla vittoria. I mezzi pacifici di pressione non basteranno a far capitolare il nemico. Soltanto se voi siete decisi a consacrare alla vostra stessa liberazione, lottando contro il capitale, una parte degli immani sacrifici che sostenete a profitto del capitale, sui campi di battaglia, soltanto così riuscirete a porre fine alla guerra, e a gettare le basi reali di una pace duratura, trasformandovi da schiavi del capitale in uomini liberi. Non lasciate che a distogliervi dalla strenua lotta siano i discorsi ingannevoli della borghesia e dei partiti socialisti che la sostengono; non accontentatevi di sospirare la pace. Senza la volontà di lottare per e contro tutto, di impegnarvi nella causa, anima e corpo, il capitale farà spreco del vostro sangue e dei vostri beni a suo piacere. In tutti i paesi il numero degli operai che la pensano come noi aumenta di giorno in giorno. È a loro nome che noi, rappresentanti di diversi paesi, ci siamo riuniti per rivolgervi questo appello alla lotta. Noi vogliamo condurla sostenendoci reciprocamente, perché nessun conflitto ci divide. Gli operai rivoluzionari di ogni paese considerano un onore essere portati in questa lotta, ad esempio di energia, di sacrificio per gli altri. Non bisogna attendere ansiosamente di vedere quello che fanno gli altri, bensì dare l’esempio per trascinarli; questa è la via che porta alla creazione di un’Internazionale la quale porrà fine alla guerra e al capitalismo».
 

(da: Die Zimmerwälder Linke über die Aufgabe der Arbeiterklasse, in “Internationale Flugblätter“, n. 1 novembre 1915, p.7).

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

LA C.S.I. DAVANTI ALLA RIVOLUZIONE IN RUSSIA DEL FEBBRAIO 1917

Nel febbraio 1917 le tesi della sinistra di Zimmerwald e le previsioni rivoluzionarie dei bolscevichi, considerate dai più un folle sogno, si realizzarono. La sollevazione popolare di Pietrogrado rovesciava il regime zarista e al tempo stesso toglieva ai socialdemocratici tedeschi il pretesto del pericolo zarista per votare i crediti di guerra. A sostegno del militarismo tedesco non poteva più essere invocata la difesa della democrazia contro la tirannide autocratica russa.

Ciononostante la guerra continuava: i governi provvisori borghesi che si succedevano a Pietrogrado, il principe Lvov, il democratico Miljukov, il socialista-rivoluzionario Kerensky, non realizzavano il più ardente voto degli operai, dei contadini e dei soldati russi: la pace, il pane, la libertà. Anzi, Kerensky andava preparando una nuova offensiva.

Lenin e i bolscevichi capirono che era giunto il momento di abbandonare i loro rifugi svizzeri e, fin dal febbraio, prepararono il terreno per il loro rientro in Russia dove avrebbero continuato la lotta contro la guerra e portato a compimento la rivoluzione socialista.

Il 20 marzo 1917, la Commissione Socialista Internazionale da Berna pubblicò l’appello che segue.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

LA RIVOLUZIONE IN RUSSIA
(Manifesto della Commissione Socialista Internazionale)

La rivoluzione vive! La rivoluzione che si credeva morta, che si considerava impossibile fra i popoli armati sino ai denti, emerge dalle tenebre come una realtà vivente. La rivolta dei popoli contro la forza dello Stato ieri ancora potente ha trionfato. Nel pieno infuriare della guerra contro il nemico esterno scatenato, nel momento in cui la rivoluzione appariva, dal punto di vista borghese e social-patriota, come una follia ed un crimine, la classe operaia insorge per una lotta all’ultimo sangue contro lo zarismo.

La guerra mondiale, destinata a soffocare la rivoluzione proletaria, ha provocato la rivoluzione. Prima ancora che i diplomatici siano in grado di porre fine ai combattimenti da essi stessi scatenati, entrano in gioco le conseguenze rivoluzionarie della guerra; i vendicatori appaiono decisi e audaci.

Nell’impero degli zar ha avuto luogo la prima rivoluzione provocata dalla guerra. Al di sopra del palazzo di Tauride, alla testa dei reggimenti che passarono dalla parte del popolo, sventola la bandiera rossa del socialismo rivoluzionario che molti avevano vergognosamente abbandonato sin dall’inizio della guerra e che sembrava persa per sempre. Basta questo fatto a suscitare panico fra le classi dirigenti di tutti i paesi. Esse seguono con terrore gli sviluppi della situazione interna della Russia, e ne attendono le ripercussioni in altri paesi. E le notizie che si ricevono quotidianamente aumentano il loro disorientamento. Il movimento, che all’inizio sembrava un semplice colpo di Stato della cricca liberale, acquista sempre più il carattere di una lotta che, iniziata con un’azione parlamentare e poi sviluppatasi in un’azione del proletariato e dell’esercito, è divenuta una grande rivoluzione popolare. E questa rivoluzione, benché uscita dalle condizioni peculiari della Russia, porta in sé tutte le caratteristiche di quelle rivoluzioni europee legate alla storia particolare di ogni popolo del continente.

La borghesia russa, dopo essere stata costretta ad adottare i metodi rivoluzionari, cerca di strappare alla classe operaia la sua vittoria. Un’accanita lotta di classe si è già accesa in seno al movimento di liberazione russo. I liberali, rappresentanti della borghesia, si appoggiano ai capi dell’esercito cercando di sfruttare a loro profitto la rivoluzione. L’azione liberatrice del popolo l’avrebbe dunque liberato dal gioco sanguinoso dello zar per metterlo sotto quello della borghesia.

La stampa borghese dei paesi alleati incita gli uomini del nuovo governo russo a scatenare le forze controrivoluzionarie borghesi. Energica resistenza alle rivendicazioni del proletariato, questa è la parola d’ordine che la Francia e l’Inghilterra “democratiche” cercano di imporre con formidabili pressioni ai detentori del potere nella nuova Russia. La borghesia russa, da parte sua, non ha bisogno di farsi pregare molto. Essa cerca di ostacolare con ogni mezzo lo sviluppo della rivoluzione, di imporre la propria moderazione politica e di limitare le conseguenze sociali di questo evento. Soltanto grazie alla massima pressione della classe operaia e di una parte dell’esercito ad essa alleata i capi della borghesia hanno proceduto alle misure necessarie per impastoiare la reazione zarista. Ed è altresì sotto questa pressione che essi procedono ad una democratizzazione radicale dell’organizzazione sociale e dell’esercito.

È così che il proletariato trascina le masse popolari in una lotta decisamente socialista contro le forze controrivoluzionarie e contro le correnti moderate dei detentori del potere.

Questa lotta fra la borghesia ed il proletariato russi è al tempo stesso una lotta fra la pace e la guerra. La borghesia ha preso il posto del vecchio regime nel nome di quella pace che questo regime non poteva dare. La sua ascesa è avvenuta con l’appoggio dell’imperialismo francese ed inglese. La continuazione del conflitto “sino alla vittoria definitiva” rinvia la scadenza del debito che essa ha contratto con il popolo all’inizio della guerra e le impedisce di guadagnarsi le simpatie della casta militare.

È ovvio quindi che operai e soldati non sono scesi in piazza per favorire il conseguimento dei fini imperialistici della borghesia russa. Pane e libertàfu il grido degli operai, e siccome ne erano privati dalla guerra, non potevano certo entusiasmarsi per la continuazione del massacro. La guerra è, in questo momento, il principale ostacolo all’attuazione delle aspirazioni politiche e sociali dei popoli. Facendo appello all’unità nazionale per continuare la guerra, la borghesia reclama dal proletariato l’adesione incondizionata alla dittatura militare e la cieca sottomissione alle forze che, da domani, minacceranno la libertà nascente. Per tutti questi motivi l’avanguardia socialista russa del proletariato, che nella sua maggioranza si è opposta sin dal primo giorno alla guerra, continua l’energica lotta per la pace e per portare avanti la rivoluzione.

La pace e la Repubblica! oppure la guerra e la controrivoluzione. Queste sono le alternative che si pongono nella situazione attuale.

La rivoluzione ucciderà la guerra oppure sarà quest’ultima a uccidere la rivoluzione?

La risposta dipende dall’atteggiamento del proletariato europeo in questi giorni di generale sconvolgimento.

Nel mezzo della reazione universale e dell’interminabile guerra fratricida una rivoluzione nazionale corre il pericolo di essere soffocata dallo zarismo e da una borghesia lacerata dalle sue contraddizioni interne. Le classi dirigenti di tutti i paesi sono unanimi nel loro atteggiamento ostile verso il movimento rivoluzionario, che ha ottenuto in Russia la sua prima vittoria. Gli Stati centrali, al pari delle cosiddette democrazie dell’Intesa, non esiteranno, al momento opportuno, a dare il colpo di grazia alla rivoluzione russa. Gli Stati centrali cercheranno di sfruttare la guerra civile per perseguire in modo ancor più impudente i loro progetti di espansione verso l’Est. Essi favoriranno in Russia una nuova psicosi patriottarda intesa a distogliere il popolo russo dal suo compito rivoluzionari e ad assoggettarlo al militarismo internazionale. E i governi dei paesi alleati cercano di provocare, con ogni sorta di intrighi diplomatici, pressioni morali e corruzioni, il crollo della democrazia rivoluzionaria per fare del partito militarista liberale di Pietrogrado lo strumento delle loro mene imperialistiche.

Sin d’ora gli agenti delle due coalizioni preparano, ciascuno a suo modo, la controrivoluzione. Essi hanno come collaboratori i capi socialpatrioti, questi docili lacchè delle classi dirigenti, infeudati alla loro politica. I socialpatrioti inglesi, francesi ed italiani fanno tutto il possibile per guadagnare il proletariato russo alla prassi dell’unione sacra con la sua borghesia, al fine di assicurare la continuazione della guerra. I rappresentanti delle organizzazioni operaie inglesi, con un cinismo inaudito, chiedono agli operai russi di rinunciare alla lotta di classe e di mobilitare tutte le loro forze per schiacciare il militarismo prussiano.

In Germania, il partito socialpatriota ci offre lo stesso vergognoso spettacolo. Per paura che la rivoluzione infligga un colpo fatale alla loro unione sacra, i socialpatrioti sono impegnati in un’opera di denigrazione della rivoluzione russa. Essi fanno dell’insurrezione vittoriosa del popolo russo un colpo di mano premeditato ed eseguito allo scopo di prolungare e intensificare la guerra. Essi terrorizzano gli operai tedeschi dando loro ad intendere che la Rivoluzione ha portato al rafforzamento del militarismo russo, il che comporterebbe per i tedeschi la necessità di perseverare nel loro atteggiamento oltranzista. Essi mettono in guardia gli operai dal “lusso delle manifestazioni di piazza” e dal contagio dei metodi rivoluzionari; e implorano in pari tempo il loro Bethmann affinché prevenga l’infiltrazione in Germania dello spirito rivoluzionario con la concessione di riforme sul genere di quelle che Sir Buchmann aveva invano raccomandato allo zar.

Questi sono i fatti e le prodezze dei partiti socialisti ufficiali in un momento che rappresenta una svolta decisiva nella storia mondiale. Gli uni formano la guardia della monarchia prussiana, gli altri sono i sostenitori dell’imperialismo franco-inglese ed entrambi stanno all’avanguardia dei nemici accaniti della Rivoluzione russa.

Tradendo la Rivoluzione russa, i socialpatrioti tradiscono in pari tempo gli interessi dei loro stessi popoli. Gli inutili calcoli che davano per scontata la rapida fine della guerra in seguito ad una vittoria decisiva dell’una o dell’altra coalizione sono smentiti ormai da molto tempo, ed è fallita altresì la speculazione su una vittoria conseguita grazie all’annientamento del nemico, mentre le utopie pacifiste di una mediazione dei paesi neutrali si sono rivelate pure e semplici illusioni. Tutte le speranze che la guerra avrebbe posto fine a se stessa coi suoi stessi mezzi si sono rivelate fallaci. Ed è per la prima volta, dopo tante delusioni che ai popoli sanguinanti appare finalmente un raggio di luce: la rivoluzione che uccide la guerra ha rialzato il capo. Essa ridà alle vaste masse popolari quello che nessuna forza ha potuto dar loro: la fede e la speranza nell’avvenire. E cosa vediamo in questo momento? Nel momento in cui lo zarismo è crollato, in cui il popolo tedesco dovrebbe a sua volta abbattere e distruggere la forza dell’assolutismo prussiano, i socialpatrioti vorrebbero far schiacciare la rivoluzione russa dagli eserciti tedeschi. Sembra ripetersi il gioco del 1870-71. Come allora l’instaurazione della Repubblica fornì l’occasione per annettere territori strappati al nemico, così oggi, la democrazia russa dovrebbe servire da pretesto per realizzare conquiste territoriali che minacciano di distruggere quello che il popolo russo ha ottenuto con la sua eroica insurrezione. Il rafforzamento delle sue catene, l’attentato alle conquiste rivoluzionarie degli altri popoli, ecco il vero senso della politica socialpatriota.

E contro chi sono dirette queste mene vergognose? Dinnanzi alla classe operaia europea si erge un proletariato che in un’epoca di universale delirio sciovinista ha spezzato le proprie catene. Un proletariato che, in mezzo ai più folli massacri fratricidi, ha osato versare il suo sangue per la propria causa, che si è rifiutato di continuare a fabbricare ordigni destinati a colpire i propri fratelli di classe nelle trincee avversarie, un proletariato che toglie ai capi degli eserciti le armi più forti e che, animato da un odio sacro contro gli oppressori del proprio paese, prende d’assalto le bastiglie erette contro il popolo.

La rivoluzione russa è nata dalla miseria e dalla servitù che opprimono i popoli lavoratori nei paesi belligeranti e neutrali. Il proletariato russo è insorto per il pane e la libertà, quel pane e quella libertà che la guerra ha tolto ai popoli di tutti i paesi. Né la guerra, né l’unione sacra glieli daranno e potranno salvarli dal pericolo imminente. Così è venuto il momento storico in cui il proletariato internazionale viene posto dinanzi al dilemma: o guerra o rivoluzione!!.

Oggi meno che mai il proletariato europeo può schierarsi dalla parte dei suoi oppressori, al fianco dei massacratori del popolo. Alla classe operaia internazionale non resta in quest’ora storica che una parola d’ordine, la difesa della rivoluzione russa, la lotta attiva dei proletari contro la guerra.

Questa lotta per la difesa della Rivoluzione russa è, in ciascun paese, la lotta nazionale della classe operaia contro i propri sfruttatori e la loro politica. È venuto il momento in cui, in tutti i paesi e innanzitutto nei paesi belligeranti, solo la decisa azione del proletariato, tesa verso il suo ultimo fine, deve ispirare la lotta proletaria trascurando le questioni marginali. È venuto il momento in cui l’azione proletaria per l’emancipazione sociale e politica in tutti i paesi deve fondersi in una potente lotta internazionale contro la guerra.

I rappresentanti della classe operaia rimasti fedeli all’Internazionale non devono cessare di proclamare dall’alto delle tribune parlamentari la necessità di un immediato armistizio e l’inizio, senza indugi, di trattative per la conclusione della pace. Ma queste manifestazioni parlamentari non avranno alcun valore per la nostra lotta se non vengono sostenute dalle masse, pronte in qualsiasi momento ad entrare in lizza, nei paesi belligeranti come in quelli neutrali, per esercitare con la loro volontà rivoluzionaria un’efficace pressione sulle classi dirigenti. Il proletariato dei paesi neutrali deve fare della Rivoluzione russa la propria causa; esso deve quindi, con incessanti manifestazioni per la pace, ispirate ai principi della lotta di classe, appoggiare la lotta del proletariato nei paesi belligeranti.

Il proletariato dei paesi belligeranti e neutrali, sostenendo la Rivoluzione russa e la sua avanguardia, ossia gli operai e i lavoratori, deve opporsi con la massima energia ad ogni tentativo della borghesia e dei suoi governi di soffocare la Rivoluzione e di sfruttarla a proprio vantaggio. È nello sviluppo della rivoluzione, nella sua estensione agli altri paesi belligeranti che sono riposte le speranze di tutta l’umanità martoriata e sfinita da tre anni di una guerra di sterminio senza precedenti. Se il proletariato mondiale non insorge, se, soprattutto, le classi operaie tedesca e austriaca lasciano che la lotta di emancipazione, germinata nel sangue fumante, sia soffocata dalla fanatica continuazione della guerra, e che la guerra, iniziata con il falso pretesto della lotta contro lo zarismo, finisca con la restaurazione di quello stesso regime abbattuto ora dalla rivoluzione, questo sarà il crimine più mostruoso perpetrato da un’intera classe a danno del suo stesso avvenire.

Nel momento attuale non sono consentite né esitazioni, né tergiversazioni, né atteggiamenti passivi o cedimenti nella lotta, o opportunismi di sorta. Tutta l’energia rivoluzionaria di cui dispone il proletariato, tutte le sue forze vive devono tradursi in azioni, in risposta agli appelli alla libertà che giungono dalla Russia. Non vi è solidarietà con la Rivoluzione russa al di fuori della lotta rivoluzionaria nel proprio paese!

In piedi, per la difesa dell’insurrezione del popolo russo! Tutti contro la reazione, l’imperialismo, la guerra, per l’armistizio immediato e la pace fra le nazioni! Popolazioni delle città e delle campagne, operai in tuta o in uniforme, in piedi per la lotta rivoluzionaria, il pane e la libertà, la pace!

Abbasso l’unione sacra Abbasso la guerra! Viva l’azione internazionale del proletariato! Viva la Rivoluzione russa!

Viva la Rivoluzione socialista internazionale!
 

Berna, 20 marzo 1917
Commissione Socialista Internazionale.