Partito Comunista Internazionale Indice - Numero precedente - Numero successivo

COMUNISMO
n. 66 - giugno 2009
Presentazione.
IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA [RG103]: (7/19 - continua del numero scorso - Indice) La classe operaia nordamericana e la guerra civile: Un’altra crisi - Volontari per il fronte - Operai e Copperheads - Scioperi di guerra - La National Labor Union (continua).
L’ANTIMILITARISMO NEL MOVIMENTO OPERAIO IN ITALIA [RG102] (XII - fine) La rivoluzione in Russia vista dall’Italia: La raddrizzata di Lenin - Militarismo e Democrazia - I giovani socialisti italiani e il comunismo in Russia - Ben interpretato il disfattismo in Russia - La guerra rivoluzionaria.
– Il sindacato in Italia dopo il 1945: IL MOVIMENTO SINDACALE ALLA FINE DELLA GUERRA [RG102, RG103] (continua dal numero scorso): Estratti dal nostro giornale “Battaglia Comunista”: Sulla natura pienamente borghese e definitivamente controrivoluzionaria dei partiti che controllano i sindacati - Il sindacalismo “post-fascista” - Cosa è finita per essere la “organizzazione in fabbrica”, natura e funzioni delle Commissioni Interne - Continua la sottomissione fascista-corporativa della classe operaia agli interessi nazionali - Il mito e il vero scopo delle nazionalizzazioni - La difesa del sindacato di classe - Valutazione e impianto del giusto atteggiamento e indirizzo operaio del partito di fronte al sindacalismo di regime e da allora mantenuto immutato e coerente fino ad oggi (continua).
IL MARXISMO E LA QUESTIONE MILITARE: [RG98] [Indice del lavoro] - Parte seconda (IV - continua dal numero scorso) B) Il Medioevo in Europa: 5. Crollo della società schiavista e formazione della società feudale - 6. I Germani - 7. Formazione e nascita del potere temporale e fondiario della Chiesa - 8. Il sorgere delle due massime potenze medioevali: Chiesa e Impero - 9. Sviluppo della società feudale. Sua espansione militare - 10. La cavalleria - 11. Il declino delle forze medievali (continua).
Dall’Archivio della Sinistra:
    Il potere dei Consigli e l’imperialismo internazionale, discorso di Trotski tenuto a Mosca il 21 aprile 1918: I compiti del comunismo e i doveri del proletariato russo - L’Assemblea Costituente e l’opera della Rivoluzione - Questa via noi seguiremo fino alla fine! - La guerra, la borghesia e la rivoluzione - Necessità di una forte organizzazione statale - L’organizzazione e la disciplina del lavoro - L’ordinamento militare - La rivoluzione mondiale ed i pericoli dell’imperialismo internazionale e della disgregazione interna.

 
 
 
 
 
 
 
 

Questa rivista conta ormai, con questa testata, un trentennio di pubblicazione, ma si vuole fedele continuatrice degli organi di partito che l’hanno preceduta. Il suo scopo è esporre i risultati dei nostri studi in corso, che opponiamo agli errori e alle falsità diffuse da tutto lo spettro borghese, il peggiore dei quali è quello “sinistro”.

Il marxismo è una scienza, e come tale, scriveva Engels, va studiato. E va studiato perché, aggiunge Lenin, senza una salda teoria rivoluzionaria la rivoluzione è impossibile. Il partito, unico, vede la realtà del mondo, e l’urto delle classi in lotta, attraverso la lente della teoria marxista, e solo con tanta ricchezza di scienza sarà in grado di dirigere il movimento sociale lanciato alla distruzione del modo di produzione capitalistico.

Con questo non ci riduciamo ad un salotto di filosofi o di professori, impegnati come siamo a dare continuità ad un partito, che non abbiamo fondato noi, e che vanta ormai – non a caso esempio unico nella storia moderna – più di sei decenni di totale coerenza di metodo, di impostazione marxista e di battaglia al fianco della classe operaia.

La modalità di lavoro del partito, che produce gli elaborati che si allineano in queste pagine, è parimenti sua esclusiva e particolare, svolgendosi ogni sua attività, nei diversi campi e compreso quello di studio, secondo un piano di lavoro unico ed unitario, che nelle nostre apposite e frequenti riunioni è periodicamente verificato, messo a punto, integrato, adattato alle sopravvenienti necessità di chiarimenti e della polemica esterna. Sono quindi assegnati i diversi compiti a gruppi di compagni. Questo metodo, intrinsecamente centralizzato in ogni sua fase, è tipico e possibile solo ad una compagine organica al suo interno, come sarà quella della società comunista, priva di essenziali conflitti e lacerazioni, e che oggi può e deve essere quella del partito.

Gli elaborati, contributo dei singoli e dei gruppi di lavoro, da intendersi non come testi imperfettibili e definitivi ma risultato di approfondimenti dei lavori precedenti e fondamento per i successivi, non aspettano d’essere giudicati, approvati o respinti, ma sono offerti e ricevuti per affiancarsi a quelli di ieri e a quelli di oggi, senza alcuna pretesa di innovare o stupire, bensì confermare e rafforzare il partito nei suoi antichi convincimenti, nella sua conoscenza dei dettagli della realtà sociale del presente e del passato, nel comunismo e nel suo modo di sentire.

È chiesto al lavoro dell’insieme dell’organizzazione, raccolta in particolare nelle riunioni generali, la fusione dei diversi contributi nella coscienza collettiva del movimento, che comprende la valutazione dei fatti contingenti, talvolta non facile e controversa, e nelle direttive immediate di azione.

I testi che qui seguono, quindi, non sono da considerare “documenti”, contributi offerti dalla “periferia” ad una qualsiasi “discussione”, non sono “opinabili” ma vanno interpretati e collocati nella continuità del lavoro del partito. Il partito comunista ha un centro ma non ha una periferia. Il quale lungo lavoro, davvero monumentale per estensione di argomenti affrontati, profondità di trattazione e sintonia interna occorre che i militanti imparino a conoscere e utilizzare per l’indirizzo dei proletari nelle lotte di oggi e in quella rivoluzionaria e vittoriosa di domani.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America
Capitolo 7, esposto a Firenze nel gennaio 2009.


(Continua del numero scorso)


(Indice)


La classe operaia nordamericana e la guerra civile
 

Un’altra crisi

Nel 1857 si verificò un’altra grave crisi economica. La crisi scatenò dimostrazioni di disoccupati; per la prima volta da parte del movimento sindacale fu in alcuni casi avanzata la richiesta di lavori pubblici. Il rientro della crisi fu accompagnato dalla costituzione, in un gran numero di categorie, di comitati di sciopero e di sindacati con carattere permanente, alcuni addirittura su scala nazionale.

La situazione di scontento e le lotte conseguenti misero in evidenza quale era il vero significato del “Free labor” per la classe operaia. Nessun apostolo borghese del “Free Labor” sostenne le richieste di lavori pubblici per aumentare l’occupazione, e nell’inverno di depressione del 1857 molto pochi furono quelli che appoggiarono iniziative private di aiuto ai disoccupati. I più eminenti repubblicani consideravano le due misure come interventi ingiustificati sui liberi mercati del lavoro, che avrebbero ridotto la “voglia di lavorare” dei proletari: come si vede, la retorica borghese è sempre la stessa e non brilla d’inventiva. Alcuni giornalisti ben addomesticati arrivarono a affermare che un breve periodo “di difficoltà ” era quello che ci voleva per rimettere in riga gli operai “dissoluti”, che dissipavano in bagordi i salari mantenendo le famiglie in povertà nei periodi buoni, e che quando le cose andavano male avevano il coraggio di chiedere assistenza pubblica. Gli stessi pennivendoli manifestarono disprezzo per gli operai quando, nel corso della ripresa del 1858, questi passarono dalle dimostrazioni di disoccupati alle assemblee sindacali. Uno di essi scriveva che «la classe operaia, nella grande maggioranza, è una classe libera, felice e indipendente».

Non si sarebbe detto, a giudicare dalle agitazioni che si stavano sviluppando nelle città calzaturiere del New England. Lo scontento derivava, oltre che da salari insufficienti, dall’aumento dei ritmi seguito alla parziale meccanizzazione del processo produttivo. Le macchine per la cucitura dovevano essere concentrate nella fabbrica, e questo eliminava dal processo i lavoratori a domicilio; inoltre tutte le operazioni a valle e a monte della cucitura dovevano essere accelerate per tenere il passo con le macchine. Gli operai di Lynn e dintorni reagirono facendo risorgere il sindacato, e chiedendo aumenti salariali; di fronte al rifiuto padronale, nel 1860 scesero in sciopero ben 10.000 operai del Massachusetts orientale. Come per incanto i contrasti etnici scomparvero, in una città che era stata una roccaforte dei nativisti, e gli operai irlandesi marciarono a fianco dei compagni protestanti per tutto l’inverno.

A causa della discriminazione sindacale nei confronti delle donne, al lavoro in fabbrica e fuori, e della separazione nei confronti dei lavoranti a domicilio, lo sciopero fu sconfitto e in aprile gli operai tornarono al lavoro. In realtà non si trattò di una sconfitta completa: quello a cui i padroni resistettero di più fu il riconoscimento del sindacato. Alcuni lo riconobbero, altri solo concessero gli aumenti, altri resistettero di più. Così qua e là le fabbriche cominciarono a riaprire, e alla fine lo sciopero fatalmente ebbe termine.

Ma lo sciopero aveva rivestito un significato che andava al di là del singolo evento, e costituiva un collegamento tra il passato e il futuro della classe: il credo radicale che aveva ispirato il movimento trenta anni prima era tornato negli slogan degli oratori, con tutta la sua veemenza contro “gli oppressori dei lavoratori” che “forgiavano le catene della schiavitù e le stringevano ai polsi dei proletari”. Ma era anche, per la prima volta, uno sciopero di operai di fabbrica, non di apprendisti o operai di botteghe artigiane, o di impiegati e lavoratori domestici, come nel passato: era il primo grande sciopero che segnava il passaggio tra la produzione artigiana e la produzione della grande industria. Gli scioperanti non dovettero solo affrontare i padroni, ma anche la milizia, che dopo una sola settimana era stata mobilitata per scortare i carri che portavano materie prime per il lavoro dei crumiri. Non fu sparato nemmeno un colpo, e non vi furono vittime, questa volta. Gli operai mostrarono estrema cura nel prevenire comportamenti intemperanti nei loro ranghi, al punto di proibire la vendita di alcoolici in certe zone e quartieri, cosa che fu riconosciuta anche dalla stampa borghese. Ma la presenza militare era una anticipazione di tempi ben più duri che si annunciavano per gli operai coinvolti in scioperi di massa nella cosiddetta Età dell’Oro.

Intanto le lotte economiche si andavano stemperando nella grande mobilitazione per la Guerra Civile, alla quale gli operai aderirono con entusiasmo, e spesso con la benedizione dei padroni. La motivazione principale non era la sete di giustizia per lo schiavo, ma più spesso il timore che lo schiavismo minacciasse il lavoro libero. Le motivazioni della guerra furono condivise dai nativi e dai tedeschi, meno tra gli irlandesi i quali, per la loro bassa posizione sociale, non vedevano come le cose potessero andare peggio per loro con la vittoria dei sudisti. In mancanza di un partito di classe, i proletari furono preda delle predicazioni degli Evangelici e degli attivisti “Free Labor”. Altri argomenti tesi a conquistare il sostegno dei proletari alla guerra furono la promessa di tempi brevi per ottenere la cittadinanza, e di terra per tutti all’Ovest. I proletari quindi si arruolarono e combatterono, nei primi tempi anche con abnegazione.

La guerra chiudeva un periodo d’infanzia del movimento operaio che lasciava aperti molti problemi. Le donne, i non specializzati e, almeno al Sud, i negri, erano ancora discriminati da un punto di vista sindacale. La classe inoltre non era riuscita a costituire un movimento politico che la rappresentasse al di fuori del sistema bipartitico. Però si era perlomeno superato il dubbio sulle cause dell’oppressione: non si vedeva solo una causa particolare, come il padrone di casa, il padrone di fabbrica, il banchiere, o addirittura l’alcool. Dopo il 1835 fu chiaro che l’oppressione veniva dal sistema di produzione, e che la sola difesa, se non la soluzione, era l’unione della classe.

Una unione che, quasi raggiunta, era stata sfasciata dalla crisi del 1837 e dalla penetrazione della propaganda borghese, sotto forma di predicazione evangelica protestante, utopismo, ideologia “Free Labor”, etnicità, questa a sua volta scatenata dalle forti immigrazioni seguite alla crisi. Molto restava da fare, ma adesso era la guerra a far sentire la sua voce sopra tutte le altre.
 

Volontari per il fronte

L’atteggiamento antischiavista del proletariato americano si confermò nelle prese di posizione sulla secessione, prima adombrata e poi realizzata, inizialmente dalla Carolina del Sud e poi dagli altri Stati meridionali. Gli operai che si riunivano in assemblee e convenzioni di varia estensione e importanza proclamavano la loro volontà di mantenere il Paese nella sua interezza, e il loro disprezzo per gli schiavisti del Sud, a volte esprimendo gli stessi sentimenti anche per gli affaristi del Nord. Anche le assemblee operaie cui partecipavano delegati degli Stati del Sud, come Virginia, Maryland, Tennessee, Kentucky, si pronunciavano contro la secessione e proclamavano la fedeltà del mondo del lavoro all’Unione.

Non sorprende quindi che i primi a rispondere all’appello di Lincoln per l’arruolamento di volontari fossero proprio gli operai di tutti i mestieri. Il primo corpo pronto per il fronte furono gli operai di Lowell, seguiti dai boscaioli del Wisconsin. Il reggimento De Kalb, composto interamente di impiegati tedeschi, partì per il fronte l’8 luglio 1861, seguito a poca distanza dal “Garibaldi Guard”, composto di operai italiani di New York, dalla “Legione Polacca” e da una compagnia irlandese, tutti di New York. Gli operai rappresentarono quasi la metà degli eserciti del Nord, mentre, come abbiamo visto, all’epoca erano una minoranza numerica della popolazione dei 34 Stati; il senato a posteriori calcolò che tra 500.000 e 750.000 operai avevano lasciato le fabbriche degli Stati del Nord per divenire soldati.

Siccome il numero totale di operai di fabbrica era inferiore al milione, si trattò di un drenaggio che mise in difficoltà diversi settori produttivi, tra i quali in particolare quello delle scarpe e stivali, con fabbriche che dovettero chiudere proprio quando le commesse aumentavano a dismisura. Quindi la partecipazione della classe operaia alla guerra fu fondamentale per la vittoria, e rimarchevole se rapportata al ridotto peso numerico della classe rispetto al totale della popolazione; si ripeteva un fenomeno che era avvenuto anche in occasione della Guerra di Indipendenza, nonostante la classe fosse allora numericamente insignificante.

Particolarmente attiva fu la parte più cosciente della classe, i sindacalisti (quelli di allora!) e i membri del Communist Club di New York; William Sylvis, che già si era distinto come dirigente del sindacato dei fonditori, organizzò il reggimento che per primo accorse alla difesa di Washington minacciata dalla controffensiva sudista. Eminenti socialisti come Willich, stretto amico di Marx, Rosa, Jacobi, e Weydemeyer raggiunsero alti gradi nella gerarchia dell’esercito unionista. Oltre al loro entusiasmo questi operai e socialisti, che pur essendo spesso nati all’estero erano pronti a dare la vita per gli ideali che il Nord difendeva, vantavano una notevole esperienza militare maturata nel ’48 o, come molti italiani, nelle file garibaldine; esperienza che invece mancava al resto della popolazione.

L’entusiasmo antischiavista non era limitato ai proletari americani: anche al di qua dell’Atlantico la sconfitta del Sud era vista come un obbiettivo per il progresso dei lavoratori. «Non è stata la saggezza delle classi dominanti” scrisse Marx nell’Indirizzo Inaugurale dell’Associazione Internazionale degli Operai (1864) “ma l’eroica resistenza alla loro follia criminale da parte delle classi lavoratrici d’Inghilterra a salvare l’Europa Occidentale dal gettarsi a capofitto in un’infame crociata per la perpetuazione e l’estensione della schiavitù sull’altro lato dell’Atlantico».

Eppure il blocco imposto dalla marina unionista ai porti del Sud nel 1862 cominciò ad essere efficace, e sempre meno cotone raggiungeva le filande inglesi. Ciò determinò una crisi del settore e una conseguente alta disoccupazione (oltre il 30% nei grandi centri manifatturieri); ma contrariamente a quanto si attendevano gli schiavisti, non una voce si levò dai rappresentanti dei lavoratori per un intervento a favore della Confederazione. Al contrario, anche se molti operai in Inghilterra non potevano votare, le loro assemblee e raduni si esprimevano con tale chiarezza contro l’intervento che il governo non osò interferire nel conflitto.

Molti storici sono d’accordo nel ritenere questo non intervento inglese la causa prima del cambiamento di rotta di Lincoln nei confronti della schiavitù: infatti nel corso del primo anno di guerra non aveva osato prendere alcuna misura nei confronti delle “proprietà ” degli schiavisti nelle zone occupate dall’esercito unionista; al contrario, aveva sconfessato quei generali che avevano liberato gli schiavi. Nel 1862 invece approvò una serie di misure a favore degli schiavi, che culminarono nel Proclama di Emancipazione del 1ð gennaio 1863; per una analisi più approfondita di questi aspetti, come di tutti quelli riferibili alla Guerra Civile, rimandiamo di nuovo al lavoro precedentemente pubblicato su queste pagine (Lo sviluppo capitalista e la Guerra Civile negli Stati Uniti d’America, n. 56, luglio 2004).
 

Operai e Copperheads

Gli operai, quindi, non erano contro la Guerra, soprattutto agli inizi, e nemmeno erano contro la coscrizione, ma piuttosto contro il suo carattere di classe, che faceva sì che fossero i poveri ad arruolarsi, mentre i ricchi potevano starsene nelle retrovie ad arricchirsi. La Legge sulla Coscrizione, adottata nel 1863, era discriminatoria: si poteva evitare l’arruolamento trovando un sostituto, o pagando una tassa di $ 300. Una somma che rappresentava più di un anno di lavoro per un proletario, ma accettabile per un borghese: e sicuramente di proletari disoccupati che accettavano lo scambio per garantire la sopravvivenza alla famiglia se ne trovavano in abbondanza.

Lo scontento si diffuse in larghi strati del proletariato, ma la rivolta contro la coscrizione del 13 luglio 1863 a New York, a pochi giorni di distanza dall’inizio del reclutamento obbligato, non sembra sia stata un movimento puramente operaio, anche se in certi casi i confini sociali si assottigliano. Sicuramente fu il risultato della propaganda “Copperhead”, come erano chiamati i “Peace Democrats”, parte degli appartenenti al Partito Democratico del Nord, che erano contro la guerra, e che agirono spesso come una quinta colonna del Sud. I tumulti determinarono grandi distruzioni di beni in città, e la morte di oltre 400 persone, molti dei quali erano negri. Ma l’Associazione Operaia Democratico-Repubblicana di New York, che comprendeva tipografi, carpentieri, cappellai e falegnami, dopo una attenta indagine, rigettò la ricostruzione che attribuiva agli operai la responsabilità dei tumulti. Dopo aver accusato una parte della borghesia come istigatrice, un documento concludeva: «Gli operai di New York non sono rivoltosi. Pochi uomini spietati e dissoluti, che oscillano tra il penitenziario e l’oscuro mondo del crimine, non sono i rappresentanti dei lavoratori della metropoli».

Ma la propaganda dei Copperhead non mancò in realtà di far presa su una pur piccola parte della classe, che era a ragione scontenta della guerra. Infatti tutto mostrava che i poveri divenivano sempre più poveri, e i ricchi sempre più ricchi. Dopo un breve periodo di crisi dovuto alla perdita dei mercati del Sud, e di ben 300 milioni di dollari di crediti ormai inesigibili, la situazione per la borghesia cambiò quando il governo iniziò a emettere ordinazioni per le forniture belliche. Nacque una nuova classe di milionari, le cui fortune furono in gran parte il frutto della peggiore corruzione di tutta la storia americana. Abbiamo parlato della stoffa “shoddy”, che si disfaceva sotto la pioggia; ma anche fucili che esplodevano nelle mani dei soldati, sabbia al posto di zucchero, segale invece di caffè, scarpe con suole di cartone, sono gli esempi più clamorosi, e raramente perseguiti, dell’amor di patria di una borghesia che accumulava denaro mentre mandava cinicamente al massacro il proletariato. Non è qui il caso di entrare nei dettagli di quella epopea di arricchimento sfrenato, che si avvalse anche della legge sugli Homestead, sulle terre che finirono quasi sempre in mano agli speculatori e alle ferrovie, e della speculazione sulla cartamoneta che si svalutava rapidamente.

Allo stesso tempo le condizioni di vita del proletariato peggioravano velocemente e drasticamente. Speculazione e inflazione facevano crescere a ritmi incalzanti i prezzi alimentari, dell’abbigliamento e degli affitti, mentre i salari restavano uguali o aumentavano in modo impercettibile. I prezzi dei manufatti aumentarono negli anni di guerra in media del 100% l’anno; ma se si guarda ai generi di prima necessità gli aumenti furono ancora più impressionanti: il litro di latte, che costava 1,5 centesimi nel 1861, ne costava 10 nel 1864, e lo stesso accadeva a burro, carne, carbone, ecc.

L’offensiva padronale passò anche per l’approvazione nel 1864 della Contract Labor Law, che legalizzava contratti stipulati all’estero per importare manodopera; in virtù di questa legge gli operai importati non potevano essere reclutati nell’esercito, e si trovavano, una volta arrivati, nella condizione dei servi a contratto di coloniale memoria. Questi lavoratori furono spesso utilizzati, prima che la legge fosse abrogata nel 1868, come crumiri per stroncare gli scioperi.
 

Scioperi di guerra

Come sempre, la classe operaia non si impegna nelle lotte per spirito ribelle, ma vi è costretta per difendere le sue condizioni di vita e di lavoro. A maggior ragione in un Paese in guerra ove, mentre abbiamo visto con quanta spregiudicatezza la borghesia non perdeva occasione di fare profitti, in modo lecito o illecito, i proletari avevano assunto la causa della guerra come loro propria, e non erano sicuramente contenti di interrompere la produzione. Ma nemmeno potevano accettare di essere ridotti letteralmente alla fame da una classe, la borghesia, che non dava certo un esempio di patriottismo (salvo poi naturalmente essere patriottici a parole quando si dovevano convincere le centinaia di migliaia ad andare a farsi scannare, tra l’altro pagando un soldo svalutato). Così, via via che i prezzi aumentavano senza che i salari li seguissero, e senza che il governo facesse niente per rimediare, il ricorso alle lotte economiche divenne inevitabile.

In occasione degli scioperi i padroni naturalmente non esitavano a rispolverare ipocritamente la retorica patriottica, soprattutto in quei settori direttamente legati alle attività militari, che erano numerosi soprattutto in prossimità del fronte. Come possiamo produrre scarpe, o carbone, o proiettili, o cappelli, se gli operai scioperano? A questi accorati richiami i generali dell’Unione non mancarono di rispondere, negli Stati in cui operavano le loro truppe, proibendo l’organizzarsi degli operai, vietando i picchetti, proteggendo i crumiri, stilando liste nere. E a chi non si adeguava e osava scioperare non si negavano arresti senza processo, deportazioni di intere famiglie, oppure ritorno forzato al lavoro in punta di baionetta.

I Copperheads non mancavano di soffiare sul fuoco del malcontento, ma non è chiaro quanto abbia pesato la loro influenza su atteggiamenti di gruppi di operai, che noi potremmo condividere in pieno ancora oggi, di aperto disfattismo di classe. I Copperheads avrebbero forse avuto maggior successo se non fosse stato per lo stesso Lincoln, che sembra sia intervenuto per scongiurare le ingiustizie più gravi. Così Lincoln ebbe di nuovo il sostegno degli operai per la rielezione avvenuta nel 1864 sconfiggendo il Democratico McClellan.

La guerra terminò nella primavera dell’anno seguente con la disfatta degli eserciti del Sud. Forti della coscienza di avere dato un contributo determinante per la vittoria, i lavoratori del Nord non mancarono di ricordare alla classe dominante che cosa si aspettavano per il futuro. Tra le risoluzioni adottate in occasione di una raduno di massa a Boston il 2 novembre 1865, una recitava: «Noi ci rallegriamo perché la ribelle aristocrazia del Sud è stata schiacciata, e perché... alla gloriosa ombra della nostra bandiera vittoriosa uomini di ogni clima, razza e colore sono riconosciuti liberi. Ma mentre sopporteremo pazientemente il peso del debito pubblico, vogliamo che si sappia che i lavoratori d’America chiederanno in futuro una quota più giusta della ricchezza che la loro operosità crea... e una più giusta partecipazione ai privilegi e vantaggi di quelle libere istituzioni che il loro fisico sacrificio ha difeso su tanti sanguinosi campi di battaglia».

Gli anni peggiori furono il 1861 e 1862; già nel 1863 cominciò ad apparire chiaro che gli operai avevano una forza contrattuale che poteva essere sfruttata per riprendere ai padroni almeno parte di quanto sottratto con l’emergenza bellica: la produzione era a pieno regime, e trovare operai non era facile. Gli scioperi cominciarono a moltiplicarsi, con tassi di successo molto alti; inoltre dopo lo sciopero vittorioso era normale che restasse una struttura sindacale, e questo fu particolarmente vero per i settori ad alta presenza femminile, come quelli della fabbricazione dei sigari e dell’abbigliamento. Si calcola che nel 1864 circa 200.000 lavoratori fossero iscritti a sindacati, poco meno del 20% di tutta la forza lavoro dell’industria. Analogamente vi fu una spinta notevole alla creazione di sindacati nazionali, anche se con caratteristiche molto diverse: accanto alla Fratellanza dei Macchinisti Ferrovieri, che rifiutava l’arma dello sciopero, vi erano sindacati molto combattivi, come quello dei fonditori, guidato da William H. Sylvis.

Sylvis fu un grande organizzatore sindacale. Il primo problema che ebbe ad affrontare fu il finanziamento, da garantire con le quote annuali dietro emissione di tessere personali. Questo per poter gestire i fondi per gli scioperi, strategici nelle lunghe lotte sindacali. Costituì uno schedario degli iscritti, e centralizzò l’organizzazione; tra i principi che lo guidavano era l’alleanza con i negri, la parità salariale tra uomini e donne (da ammettere nei sindacati), l’autonomia politica del sindacato, la solidarietà internazionale dei lavoratori. Si batté contro gli scioperi spontanei e non preparati, che disperdevano le energie e erano quasi sempre sconfitti. Sylvis, praticamente sempre in bolletta, percorse in lungo e in largo il Paese per creare l’organizzazione (diecimila miglia, con i mezzi dell’epoca), e fu il fondatore e primo presidente della National Labor Union. Il suo lavoro ispirò molti sindacati nazionali del tempo, che seguirono il suo esempio per crescere organizzativamente. Morì poverissimo nel 1869 (la famiglia non aveva nemmeno i soldi per il funerale), all’età di 41 anni, dopo essere divenuto il referente dell’Internazionale in America. Rimane una delle grandi figure del movimento operaio americano.

La controffensiva padronale non tardò ad arrivare. Abbiamo già parlato delle “liste nere”, delle serrate, dei contratti “yellow dog”, dell’importazione di manodopera europea a contratto per crumiraggio; abbiamo anche ricordato l’uso dell’esercito, localmente, per costringere i lavoratori a tornare al lavoro. Un’altra risorsa dei padroni fu il lavoro dei galeotti, che pagavano al 10-15% della paga sindacale. A New York un imprenditore mise una fonderia a Sing Sing; fu sconfitto grazie alle lotte guidate da Sylvis, ma in molti altri casi i sindacati non riuscirono a bloccare la manovra. Molti Stati approvarono leggi che limitavano il diritto di sciopero e di sindacalizzazione, e che arrivavano a 6 mesi di carcere per chi partecipava a picchetti. Altre leggi conferivano alle compagnie ferroviarie, e successivamente anche a quelle minerarie e siderurgiche, la possibilità di creare corpi di polizia privata; si determinarono così legalmente territori al di fuori delle leggi dello Stato, staterelli di dispotismo all’interno della più grande democrazia del mondo. Vi furono anche Stati che produssero leggi più progressive, ma la differenza era che in questo caso le leggi erano del tutto disattese.

Mentre i sindacati nazionali, con poche eccezioni, erano negli anni della guerra poco efficienti, la classe operaia trovò il suo punto di raccordo e di organizzazione delle lotte nelle Trades’ Assemblies, né più né meno che le nostre Camere del Lavoro. Esse non avevano fondi propri, ma svolgevano diverse attività di raccordo, politiche, di propaganda, di boicottaggio, di formazione. Un esempio è l’azione svolta nel 1864 nel corso dello sciopero dei fonditori di S. Francisco. Saputo che i padroni avevano assoldato dei crumiri dall’Est, i rappresentanti della Trades’ Assembly della città andarono loro incontro a Panama, per spiegare le ragioni dello sciopero; al loro successivo arrivo a S. Francisco i crumiri rifiutarono di lavorare in quelle condizioni e si iscrissero al sindacato. I padroni ammisero la sconfitta e concessero gli aumenti salariali.

La vitalità delle Trades’ Assemblies è dimostrata anche dal tentativo partito da esse stesse di creare una organizzazione nazionale: la loro posizione, che consentiva di abbracciare un ambito più ampio di quello angusto del singolo mestiere, mostrava chiaramente quale fosse la strada da seguire per dare forza al movimento operaio. Il tentativo si concluse con la fondazione della Industrial Assembly of North America (1864), che ebbe però brevissima vita per la debolezza e scarsa penetrazione dei sindacati nazionali all’interno della classe.
 

La National Labor Union

Il fallimento della Industrial Assembly non cancellò dalla classe la coscienza che i soli sforzi condotti localmente non potevano in alcun modo risolvere i grandi problemi che affliggevano il proletariato americano. Cominciò quindi a farsi strada tra i più illuminati rappresentanti del proletariato l’idea di costituire una struttura, uno strumento organizzativo, capace di condurre le lotte in difesa degli interessi della classe operaia anche al di fuori dell’ambito prettamente rivendicativo: un Partito del Lavoro, o del Labor come si diceva, e si dice, in U.S.A. Abbiamo visto come associazioni con scopi politici fossero nate negli anni ’30 del secolo (Working Men’s Party) e ’40 (National Reform Association), determinate però nei loro fini più dall’immaginazione, spesso utopica, dei personaggi che le avevano sostenute che non da una analisi della situazione generale della classe operaia, che adesso aveva anche una storia pluridecennale e esperienze con cui confrontarsi.

In Europa l’esperienza partitica era già avanzata, e sicuramente allo sviluppo in America dell’idea di partito moderno contribuirono i numerosi immigrati tedeschi che erano assai attivi nelle organizzazioni proletarie del Paese. Inoltre l’Associazione Internazionale degli Operai, o Prima Internazionale, era sorta nel 1864, e cominciava a farsi conoscere anche al di fuori dell’Europa.

Nel 1866 alcuni dirigenti di grandi sindacati, tra i quali Sylvis, si accordarono per convocare una Convenzione nazionale da tenersi il 20 agosto di quell’anno a Baltimora. Quel giorno i 60 delegati, che rappresentavano Sindacati locali, nazionali e internazionali, Trades’ Assemblies e Leghe per le 8 ore, furono ricevuti da un grande striscione che recitava: “Benvenuto ai figli del lavoro che vengono dal Nord, dal Sud, dall’Est e dall’Ovest”. Circa 60.000 lavoratori erano rappresentati, per la maggior parte dell’Est, ma anche di Chicago, St. Louis, Detroit.

La gran parte del lavoro fu svolto da Comitati sulle varie questioni. Importante fu il rapporto del Comitato sui Sindacati e gli Scioperi: mentre si definivano gli scioperi come dannosi per gli operai, e da adottare solo quando tutti gli altri mezzi si dimostrano insufficienti, si invitava alla più diffusa sindacalizzazione possibile, tanto di specializzati quanto di manovali, e alla creazione di sindacati e sezioni sindacali ovunque possibile e in tutti i settori, oltre alla più ampia internazionalizzazione dei sindacati esistenti. Siccome allo stato i non specializzati avrebbero avuto difficoltà ad aderire a molti sindacati esistenti, si proponeva la creazione di una Associazione Operaia (Workingmen’s Association), cui potessero iscriversi, che sarebbe stata rappresentata nei congressi nazionali.

L’attività politica fu trattata dalla Commissione sulle 8 ore e l’Azione Politica: questa lasciava alla decisione locale la possibilità di partecipare alle attività dei partiti politici. La proposta fu criticata dai convenuti perché la sua accettazione avrebbe reso il congresso una organizzazione politica. A questo punto intervenne il rappresentante degli operai tedeschi di Chicago, che mentre negava che i partiti esistenti potessero fare gli interessi degli operai, affermava che un nuovo partito dei lavoratori doveva essere costituito. In mezzo agli applausi dell’uditorio la proposta fu inclusa nel rapporto della Commissione.

Altre risoluzioni furono prese, anche se quelle delle due Commissioni ricevettero più attenzione; in realtà la Convenzione sollevò tutti i punti sensibili del movimento operaio americano che sarebbero rimasti tali per molti decenni.

Fu proclamato il boicottaggio dei prodotti del lavoro dei detenuti finché questi non ricevessero normali salari. Fu richiesto il miglioramento delle condizioni abitative degli operai e la distruzione degli slums. Fu auspicata la creazione di scuole tecniche, biblioteche, licei; il conferimento della terra ai soli coloni; il sostegno alla stampa operaia; la creazione di cooperative; il sostegno alle donne operaie.

A tale riguardo esiste una lettera di Marx a Kugelmann, del 9 ottobre 1866, nella quale si legge: «Grande gioia mi ha procurato il contemporaneo congresso operaio di Baltimora. La parola d’ordine era qui la organizzazione per la lotta contro il capitale ed è interessante il fatto che la maggior parte delle rivendicazioni da me poste per Ginevra furono pure là poste dal giusto istinto degli operai». In effetti fu proprio grazie alla presa di posizione sulle 8 ore della Convenzione che il Congresso di Ginevra dell’Internazionale, tenutosi solo due settimane più tardi, trasformò la richiesta nella “piattaforma generale dei lavoratori di tutto il mondo”.

Vi furono però carenze nelle risoluzioni della Convenzione che avrebbero contribuito ad abbreviarne la vita. Il primo errore fu proprio la scarsa considerazione dell’arma dello sciopero: anche se la classe era reduce da una serie di sconfitte, queste avevano rafforzato quella solidarietà che alla fine aveva prodotto la Convenzione stessa; mentre la classe aveva poca dimestichezza con l’arbitrato, che doveva sostituire la sciopero, la risoluzione impedì che ci si accordasse su misure di mutuo sostegno finanziario in caso di lotte prolungate. Un’altra grave carenza fu l’aver accuratamente evitato la questione del proletariato negro, dopo aver affrontato, anche se timidamente, la questione femminile. Inoltre dall’incontro non uscì una organizzazione in grado di funzionare. Su questi ultimi punti Sylvis, che non aveva potuto partecipare per ragioni di salute, fu molto critico.

Gli aspetti organizzativi furono migliorati ad una successiva Convenzione, a Chicago nel 1867, ma la vera e propria National Labor Union vide la luce solo nel 1868, quando Sylvis ne fu eletto presidente. In pochi mesi, grazie a un giro propagandistico del presidente, gli iscritti accorsero a centinaia di migliaia.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


L’Antimilitarismo nel movimento operaio in Italia
Capitolo 12, riunione di Cortona, settembre 2008.

(Continua dal numero scorso)
 

La rivoluzione in Russia vista dall’Italia
 

La raddrizzata di Lenin

A conclusione di questo rapporto riteniamo sia doveroso inserire una pagina dalla Storia della Rivoluzione Russa di Trotski.

«Nell’organizzazione di questo inconsueto viaggio attraverso un paese nemico in tempo di guerra si precisano le caratteristiche principali di Lenin come uomo politico: l’audacia del disegno e la meticolosa circospezione nell’esecuzione. In questo grande rivoluzionario c’era un notaio pedante che tuttavia conosceva la sua parte e cominciava a redigere il suo atto nel momento in cui ciò poteva servire a distruggere tutti gli atti notarili. Le condizioni di passaggio attraverso la Germania, elaborate con estrema cura, costituirono la base di un originale trattato internazionale tra la redazione di un giornale di emigrati e l’impero degli Hohenzollern. Lenin esigeva per il transito un assoluto diritto di extraterritorialità: nessun controllo ai viaggiatori, ai passaporti e ai bagagli, nessuno ha il diritto di entrare nel vagone lungo la strada (di qui la leggenda del “vagone piombato”). Per parte sua, il gruppo degli emigrati si impegnava a esigere in Russia il rilascio di un numero equivalente di prigionieri civili, tedeschi e austro-ungarici.

«In collaborazione con alcuni rivoluzionari stranieri, fu elaborata una dichiarazione: “Gli internazionalisti russi (...) che si recano ora in Russia per servire la rivoluzione, ci aiuteranno a fare insorgere i proletari degli altri paesi, in modo particolare i proletari della Germania e dell’Austria, contro i loro governi”. Così diceva il verbale firmato da Loriot e Guilbeaux per la Francia, da Paul Levy per la Germania, da Platten per la Svizzera, da deputati svedesi di sinistra ecc. In queste condizioni e con queste precauzioni trenta emigrati russi partirono dalla Svizzera, alla fine di marzo, tra vagoni di munizioni, e anch’essi erano un carico esplosivo di una potenza straordinaria.

«Nella sua lettera di addio agli operai svizzeri, Lenin ricordava la dichiarazione fatta dall’organo centrale dei bolscevichi nell’autunno 1915: se la rivoluzione porta al potere in Russia un governo repubblicano che voglia continuare la guerra imperialista, i bolscevichi si opporranno alla difesa della patria repubblicana. Ora, si è creata una situazione di questo genere: “La nostra parola d’ordine: nessun appoggio al governo Guckov-Miljukov”. Parlando così, Lenin poneva ormai piede sul terreno della rivoluzione.

«I membri del governo provvisorio non credevano tuttavia di avere motivo di allarmarsi (...) I ministri non ritenevano di doversi preoccupare: “Il fatto stesso che Lenin si sia rivolto alla Germania indebolirà a tal punto la sua autorità che non ci sarà più da temerlo”. Com’era nel loro stile, i ministri erano molto perspicaci.

«Gli amici e i discepoli andarono incontro a Lenin in Finlandia. “Appena entrato nello scompartimento e appena seduto sul banco – racconta Raskolnikov, giovane ufficiale di marina bolscevico – Vladimir Ilic aggredisce subito Kamenev. Cosa scrivete sulla Pravda? Ne abbiamo visto qualche numero e ve ne abbiamo dette di tutti i colori...” Questo l’incontro dopo molti anni di separazione. Ma, ciò nonostante, fu un incontro cordiale.

«Il Comitato di Pietrogrado, con il concorso dell’organizzazione militare, aveva mobilitato parecchie migliaia di operai e di soldati per fare a Lenin solenni accoglienze. Una divisione di sentimenti amichevoli, quella delle autoblinde, aveva inviato per l’occasione tutte le sue macchine. Il Comitato decise di recarsi alla stazione con quegli strumenti di guerra: la rivoluzione aveva già destato una passione per quei mostri ottusi che è così comodo avere dalla propria parte nelle vie di una città.

«La descrizione dell’incontro ufficiale svoltosi nella sala cosiddetta imperiale della stazione di Finlandia, costituisce una pagina molto viva nelle memorie di Sukhanov (...) “Nella sala imperiale entrò o, per dir meglio, si precipitò Lenin, con un cappello a bombetta, con il viso intirizzito, e con un magnifico mazzo di fiori in mano. Arrestando la sua corsa al centro della sala, si piantò di fronte a Tcheize come se si fosse imbattuto in un ostacolo del tutto inatteso. E qui Tcheize, sempre con la sua aria pigra, pronunciò il seguente indirizzo di saluto adottando non solo lo spirito, non solo le espressioni, ma anche il tono di una lezione di morale: Compagno Lenin, a nome del Soviet di Pietrogrado e di tutta la rivoluzione, salutiamo il vostro arrivo in Russia (...) Ma noi riteniamo che il compito principale della democrazia rivoluzionaria sia per il momento quello di difendere la nostra rivoluzione da tutti gli attentati che potrebbero essere compiuti contro di essa sia dall’interno sia dall’esterno (...) Speriamo che perseguirete con noi questi scopi. Tcheize tacque. Di fronte a questa uscita inattesa rimasi interdetto (...) Ma Lenin, evidentemente, sapeva assai bene come comportarsi. Il suo era l’atteggiamento di un uomo che non era minimamente toccato da quanto accadeva attorno a lui: guardava da una parte e dall’altra, scrutava i volti, levava anche gli occhi al soffitto della sala imperiale, mettendo a posto il suo mazzo di fiori (che non si adattava affatto alla sua persona) e poi, lasciando completamente da parte la delegazione del Comitato esecutivo, rispose: Cari compagni, soldati, marinai e operai, sono felice di salutare in voi la rivoluzione russa vittoriosa, di salutarvi come avanguardia dell’esercito rivoluzionario mondiale (...) Non è lontana l’ora, in cui, all’appello del compagno Karl Liebknecht, i popoli rivolgeranno le armi contro i capitalisti sfruttatori. La rivoluzione russa da voi compiuta ha inaugurato una nuova epoca. Viva la rivoluzione socialista mondiale”».

Militarismo e Democrazia

Abbiamo avuto modo di vedere come la rivoluzione russa di febbraio e l’intervento americano nella guerra contribuirono a far perdere definitivamente al Partito Socialista Italiano quel debole orientamento di classe che aveva mantenuto durante il corso del conflitto. La destra del partito, rappresentata dal gruppo parlamentare, aveva immediatamente abbracciato la tesi secondo cui la nuova situazione aveva “purgato” l’Intesa dalle sue scorie nazionalistiche ed imperialiste; ora le finalità di guerra della coalizione democratica avrebbero potuto coincidere con quelle del proletariato. Di conseguenza il partito poteva e doveva dare la sua piena adesione alla guerra, non più imperialista, ma democratica, di liberazione e perfino rivoluzionaria.

Lo scandalo non era rappresentato tanto dalle dichiarazioni della destra ultra-riformista che, con il passar del tempo, divenivano sempre più esplicite. Lo scandalo era rappresentato dal fatto che perfino la Direzione del partito sembrava abbracciare questo orientamento quando pubblicamente dichiarava che «sotto il velame di una contraddizione formale apparente, il significato dell’intervento degli Stati Uniti d’America (...) pur essendo determinato da necessità di difesa della grande Repubblica e degli interessi borghesi ivi dominanti, si risolve tuttavia sostanzialmente in un intervento per la costrizione della guerra e per l’imposizione di una più sicura e più prossima pace». E concludeva: «Al posto di due raggruppamenti imperialistici in contrasto, il britannico-russo e il tedesco, noi troviamo una alleanza di Stati dominati dallo spirito rinnovatore e democratico russo-americano, contro una autocrazia indebolita e svuotata, cui dovrebbe bastare un urto interiore deciso per mandarla in frantumi» (Avanti!, 12 aprile 1917).

Erano queste dichiarazioni, per giunta ufficiali, che facevano seriamente temere in un definitivo abbandono, da parte del partito, di ogni suo connotato classista. C’era insomma il pericolo che il Partito Socialista abbracciasse la posizione dell’unione sacra nazionale, proprio quando la guerra volgeva al termine e quando avvenimenti di portata internazionale (innanzi tutto la rivoluzione russa, ma non solo) avevano chiaramente dimostrato la permanenza ed il riacutizzarsi della lotta di classe anche nel periodo della guerra fra Stati. E soprattutto lo sbocco rivoluzionario che questa lotta di classe inevitabilmente prendeva.

Nel corso del rapporto precedente vedemmo come immediata e puntuale fosse stata la risposta della gioventù socialista a questa palese deviazione. Di fronte alla ubriacatura democratica era necessario ristabilire i veri termini della questione: la guerra non vedeva contrapposti schieramenti democratici a schieramenti totalitari, residui di un presunto feudalesimo; la guerra era imperialista da entrambe le parti. Ma, soprattutto, veniva dimostrata falsa la tesi che i regimi democratici fossero antimilitaristi, mentre, al contrario, è proprio in democrazia che il militarismo moderno si esprime al massimo del suo potenziale.

Erano vecchi concetti, già formulati in modo compiuto nel 1914, all’inizio della guerra, ma, come si vede, era necessario continuare a ribadirli con forza. Il militarismo, affermava la gioventù socialista, è il prodotto modernissimo del regime borghese capitalistico, che si concilia in maniera perfetta con le più progredite democrazie e con la più sviluppata struttura economica industriale. È falso quindi che il militarismo sia frutto di istituti economici, sociali e politici antecedenti lo stadio capitalistico.

Solo una società borghese altamente sviluppata può fornire tutte quelle condizioni necessarie al tipo di militarismo che si è manifestato nel corso della guerra:
- Nel campo tecnico: occorre un immenso sviluppo dei mezzi di produzione industriali e dei processi e cicli di trasformazione delle materie prime.
- Nel campo economico: condizione primaria della guerra moderna è una grande potenza finanziaria dello Stato ed una vasta rete di proventi tributari che solo i moderni Stati possono permettersi.
- Nel campo amministrativo è indispensabile una organizzazione burocratica efficiente per reclutare e mobilitare l’esercito, per disciplinare gli approvvigionamenti, i consumi e portare a un massimo di attività la macchina statale.
- Nel campo politico: occorre un regime di democrazia, ossia di illusoria libertà delle masse, perché esse possano accettare il peso enorme della guerra reputandola imposta da interessi collettivi della nazione. Non a caso in tutti i paesi d’Europa, l’intensificazione delle spese per gli armamenti era stata accompagnata dalla concessione di riforme democratiche atte a rendere accettabili alle masse i nuovi pesi.

Il militarismo, dovremmo rammentarlo ai pacifisti di oggi che invocano maggiore democrazia, non è il residuo dei tempi passati, ma il prodotto dei tempi moderni, del capitalismo e della sua caratteristica forma politica: la democrazia.

Queste sono le ragioni per le quali la Sinistra Comunista ha sempre respinto la tesi dello scontro (oggi si direbbe, di civiltà) tra paesi democratici e dittatoriali ed ha sempre rifiutato di esprimere la propria preferenza per i primi.

Aveva questa tesi subìto una qualche smentita dagli avvenimenti? Tutt’altro! Infatti il paese che si era rivelato il meno adatto alla guerra, quello che per primo si era spezzato, era stata la Russia zarista e feudale, alla quale mancavano del tutto o difettavano le condizioni che abbiamo elencate. Al contrario gli Stati Uniti, lo Stato democratico più moderno, più evoluto, era stato quello che con maggiore freddezza aveva calcolate le proprie convenienze capitalistiche, prima nella neutralità, poi nella guerra.

Da questa chiarissima premessa derivava quali dovessero essere i compiti del partito. Innanzi tutto porsi all’avanguardia del proletariato, sul terreno della lotta di classe, contro il capitalismo ed il militarismo borghese; consacrare tutta la propria attività alla cessazione della guerra facendo diretto appello al proletariato per la sua trasformazione da guerra tra Stati a guerra fra classi.

Le masse lavoratrici avevano manifestato tutta la loro insofferenza nei confronti della guerra e delle sue conseguenze e, riconoscendo nel Partito Socialista, unico oppositore alla guerra, la loro guida naturale, attendevano indicazioni e direttive. Intanto, mentre il partito tergiversava, altri partiti e correnti si preparavano a sfruttare questo stato d’animo popolare per le loro particolari finalità.

La massima insoddisfazione veniva quindi espressa nei confronti della Direzione del Partito, che deviando dalle intransigenti direttive di classe ricevute dagli ultimi congressi, subordinava i propri atteggiamenti programmatici e l’indirizzo del Partito al consenso del Gruppo parlamentare e della Confederazione del Lavoro.

Il rapporto fra il Partito e il Gruppo Parlamentare avrebbe dovuto essere addirittura rovesciato, spettando al secondo il solo compito di eseguire con disciplina i deliberati del Partito, del quale non era che un organo di azione. Veniva poi ribadito che l’unica forma di azione parlamentare compatibile con l’indirizzo del partito, specialmente in quel momento, era l’opposizione incondizionata e totale allo svolgimento della politica borghese.

Nei confronti dei sindacati si precisava che, se è vero che con questi era necessario mantenere relazioni ed intense, non per questo si doveva chiamarli ad esprimere pareri sull’azione del partito e ad influenzarne le direttive politiche.

Si rendeva ormai necessario uscire dalle ambiguità e trarre con coraggio un bilancio storico nei confronti dei partiti socialisti di vecchia data. Ne L’Avanguardia del 3 giugno 1917 si legge: «C’è una gamma troppo estesa di opinioni nel seno degli organismi tenuti insieme da questo semplice aggettivo “socialista”, perché si possa soltanto tacere la crescente necessità di una revisione teorica e tattica dei programmi e dei metodi, seguita da immutabili e definitive separazioni. E questo sarà, anzi è, fino da ora il compito poderoso della nuova generazione socialista, meno inceppata dalla pesante eredità degli errori passati. È in questo senso che la gioventù socialista è chiamata ad assolvere una parte decisiva nei prossimi avvenimenti che determineranno le vie per le quali il socialismo andrà verso la sua grande prova storica, nella quale è in gioco il domani del mondo».

La contrapposizione tra quello che era stato il socialismo della Seconda Internazionale e quello delle giovani generazioni, che si riallacciavano alla genuina tradizione marxista, veniva espressa con queste suggestive parole: «Tra il vecchio socialismo di Vittorio Adler, vuotatosi a poco a poco del suo contenuto per ripiegare nell’ideologia e nella politica borghese, e il nuovo socialismo che ricalca le orme dei precursori vi è l’abisso, immenso semplicemente pel fatto che il padre riconosce giusto il potere eccezionale di un governo borghese che manda il figlio al capestro».

Il movimento socialista giovanile rivendicava per sé stesso il ruolo di forza di riscatto del partito dalla vergogna delle adesioni al nazionalismo capitalistico e proclamava il dovere dei proletari di disfarsi dei capi che avevano tradito, o anche solo esitato. E non si tratteneva dal dire che la situazione esigeva dalle energie più giovani e più fresche del movimento socialista un contributo di pensiero e d’azione.

Qual’era la obiezione che veniva mossa dai vecchi del partito, vecchi soprattutto di mentalità, oltre che di anni? L’obiezione era che si stava vivendo un periodo terribile e tragico, in cui tutte le ideologie erano costrette a confrontarsi e scontrarsi con la realtà; era quindi impossibile, a quel momento, fissare direttive teoriche, poiché fatti imprevedibili le avrebbero potute sconvolgere. La conclusione era che occorreva adattare l’azione del Partito non ai principi, ma alle situazioni.

Da parte sua il riformismo non aveva certo atteso la guerra per proclamare la rinuncia ai principi e al programma del socialismo. Il metodo dell’opportunità, che inevitabilmente si trasforma in opportunismo, aveva però riservato amare delusioni al proletariato in tempo di pace ed ancor di più amare in tempo di guerra, e più gravi ancora sarebbero divenute qualora il partito avesse continuato a servirsene.

«Il socialismo – rivendicavano i giovani – deve sempre seguire la guida dei suoi principi. Questi non sono dogmi aprioristici, ma risultati di uno speciale metodo di indagine, divenuti ormai per noi materia assodata. Né ciò vuol dire che il socialismo non abbia più nulla da apprendere dai fatti, e dai fatti di guerra in ispecie, ché anzi essi costituiscono un controllo continuo della sua giustezza e valgono alla ininterrotta elaborazione dei suoi corollari. Un partito d’avanguardia deve “sorvegliare i fatti”, ma non può dire: attendo dagli eventi il mio programma. Gli avvenimenti possono soltanto suggerirgli la possibilità di agire più o meno intensamente alla realizzazione del programma, che è la sua stessa ragion d’essere» (Avanti!, 13 ottobre 1917).

In altra occasione, riferendosi al futuro congresso del partito era stato affermato: «Un Congresso deve dare delle direttive di massima, nel senso che deve stabilire se il Partito ammette certe forme di azione, o le ripudia, indipendentemente dalla loro attuabilità immediata. Girare la questione dicendo: è inutile discutere se è o meno teoricamente ammissibile un metodo tattico a cui oggi per ragioni pratiche – rammentiamolo pure in via d’ipotesi – non conviene ricorrere, sembra un ragionamento sensato, ma è in realtà un mezzuccio polemico i cui moventi intimi sono poco simpatici. Anzi è proprio qui il nocciolo delle critiche che possono muoversi all’azione degli organi del Partito in tre anni e più di guerra, ed è proprio qui la causa di quella sensazione d’incertezza, dovuta forse più alle cose che agli uomini, che è in tutti noi e che il Congresso deve far cessare. Nominare una Direzione unitaria perché si regoli secondo le circostanze, ecco una proposta davvero adatta a peggiorare l’andazzo attuale! (...) La frazione massimalista provvederà ad ogni modo a separare le sue responsabilità affermandosi nettamente sul suo ordine di idee, e si vedrà se predomina o meno nel seno del nostro Partito» (Avanti!, Ed. romana, 1 novembre 1917).

Il partito che si era lasciato trovare “impreparato” dallo scoppio della guerra, doveva, per lo meno, prepararsi ad affrontare le battaglie del dopoguerra e per fare questo doveva riappropriarsi della teoria e del metodo di azione rivoluzionari di classe epurando il proprio programma dal riformismo e le proprie file dai riformisti.

In fondo tutto poteva condensarsi in alcuni chiari concetti di massima: il Partito esercita la sua azione esclusivamente sulla piattaforma della lotta di classe e misura i risultati della sua azione dall’incremento delle energie del proletariato che preparano il momento della realizzazione della presa rivoluzionaria del potere, e non dalle ripercussioni indirette che si hanno sui rapporti della vita borghese.

Il male che la guerra aveva arrecato, oltre agli innumerevoli lutti, stava nell’avere in gran parte annichilita, a livello internazionale, la posizione di classe del proletariato.

Alla borghesia sarebbe certamente convenuto lo sfruttamento a proprio favore del ritorno alla pace allo scopo di continuare l’opera di indebolimento della lotta di classe. I socialisti, al contrario, dovevano essere pronti a volgere le loro armi contro l’insidia della pace come contro quella della guerra. Occorreva inchiodare i pretesi pacifisti al loro posto di nemici e sfruttatori del proletariato; occorreva energicamente combattere e smascherare coloro che aspettavano nell’ombra il momento di saltar fuori come salvatori della situazione, coloro che ipocritamente venivano tenuti come riserva a sostegno delle istituzioni monarchiche e borghesi, soprattutto coloro che si atteggiavano a liberali, repubblicani o, addirittura, socialisti.

Le posizioni fin’allora illustrate vennero sintetizzate nel testo della Mozione approvata unanimemente alla riunione clandestina di Firenze del 18 novembre 1917: «I rappresentanti della frazione rivoluzionaria del PSI in unione alla rappresentanza della Direzione e dell’“Avanti!”, convenuti a Firenze malgrado il divieto dell’autorità, per deliberare sull’atteggiamento del Partito nella situazione presente; riaffermano le immutate direttive classiste internazionaliste di intransigente avversione alla guerra, conformi ai principi socialisti ed agli impegni delle riunioni internazionali di Zimmerwald e di Kienthal; e, ritenuto che l’atteggiamento politico del Partito socialista non possa farsi dipendere dalle alterne vicende delle operazioni militari, deplorano e condannano le manifestazioni di quei compagni e di quelle rappresentanze del Partito che dai recenti avvenimenti hanno tratto motivo per aderire alla guerra, o concedere tregua alla classe borghese, o comunque modificare l’indirizzo dell’azione proletaria; le considerano una prova, oltre che di manifesta incoerenza politica, anche di grave indisciplina contro il pensiero e la volontà della maggioranza del Partito, la cui espressione è riserbata agli organi responsabili; ritengono che tali manifestazioni costituiscano un poco coraggioso rifiuto di prevedibili responsabilità derivanti dalla opera passata di tutto il Partito, che il Partito stesso deve risolutamente assumere; e fanno infine vivo appello alla massa del Partito, perché sappia in questa contingenza, che esige la maggior energia e fermezza, respingere da sé ogni adescamento di ideologie borghesi e vegliare a che da parte di tutti i compagni, e in modo speciale di quelli che coprono cariche rappresentative, sia tenuta fede ai principi socialisti nella irriducibile opposizione alla guerra».

Nel testo della Mozione manca l’ingiunzione ai vacillanti di lasciar le file del partito, ma la riunione segnò un punto importante e raggiunse lo scopo, che allora sembrò preminente, di frenare le mosse equivoche dei destri e togliere alla canaglia patriottica la soddisfazione della concordia nazionale.

Da quel momento, il gruppo dei più decisi, strettosi in quella riunione, si organizzò sempre meglio e si delineò la piattaforma propria della “Sinistra Italiana”, che non era la stessa cosa della vecchia Frazione Intransigente, ma molto di più.
 

I giovani socialisti italiani e il comunismo in Russia

Grandiosi avvenimenti si verificavano ad oriente perché i giovani socialisti italiani potessero rimanere chiusi all’interno delle proprie beghe nazionali. Bisognava spiegarsi e spiegare, alla luce della critica marxista, la portata della rivoluzione russa. Questo compito venne assolto attraverso una serie di articoli pubblicati sul settimanale L’Avanguardia. La trattazione interessò particolarmente la regia censura che non mancò di imbiancare abbondantemente le colonne del giornale rivoluzionario.

«Intendere la rivoluzione russa! Quale difficoltà maggiore, se in ogni tempo fu coronato da scarso successo il tentativo di comprendere i caratteri e le cause di avvenimenti contemporanei? Quale più arduo compito, se si pensa che oggi ogni informazione lascia nelle maglie successive di diverse censure tutto quanto contiene di verità ? Eppure è in questo cimento che la concezione socialista consegue una riprova trionfale, sebbene tanto si sia gridato al suo fallimento. Naturalmente l’impudenza dei nostri avversari, ignorando ogni limite, non ha esitato anche in questo caso ad esporre e spiegare i fatti secondo le conveniva. Tutto si può sostenere, quando la menzogna e il sofisma divengono consuetudine anzi professione» (L’Avanguardia, 21 ottobre 1917)

La trattazione inizia ricordando la struttura arretrata della economia russa, prevalentemente agraria, in cui la classe lavoratrice era quasi a livello di schiavitù; con una un’industria allo stato embrionale, e limitata alle poche zone più progredite, una rete di scambi primordiale e tarda, un regime amministrativo imperfetto, ed infine il sistema politico ferocemente dispotico, basato sull’autocrazia dello zar, capo al tempo stesso dello Stato e della Chiesa. Tutto questo poneva la Russia in inconciliabile antitesi con il resto dei paesi Europei. Questo, a grandi linee, il ritratto di come la Russia si presentava allo scoppio della guerra.

Ciò nonostante l’esercito russo era stato presentato come una forza di prim’ordine dando ad intendere che il “compressore russo” avrebbe lentamente ma inesorabilmente avanzato verso occidente, schiacciando la resistenza tedesca. La delusione fu clamorosa. Il meccanismo di guerra russo non era all’altezza di una guerra moderna e, con intermezzi di qualche effimero successo, subiva disfatta dopo disfatta. Questo anche riprova la nostra tesi secondo cui il militarismo è figlio degli Stati moderni e democratici e non un sopravvivere di forme politiche arretrate.

Negli altri paesi belligeranti, dove tutti i partiti (borghesi e socialdemocratici) consideravano il potere statale coincidente con la difesa di un comune interesse nazionale, riassunto nell’astrazione “patria”, si era realizzata la famosa “unione sacra”. Questo non era potuto accadere in Russia. Là i partiti di opposizione erano separati dal governo da ben altro abisso: “Lo knut, la Siberia, il carnefice stavano fra loro! Non c’era l’illusione di una eguaglianza politica dei cittadini, non la parvenza di una libertà, non la ostentazione di una fraternità che, nei paesi capitalistici, distraggono le masse dal sentire troppo il peso del giogo economico». Non esisteva nemmeno la parvenza di una minima “libertà ”. Era stato quindi impossibile presentare la guerra, condotta dal tirannico Stato zarista, come una lotta nell’interesse di tutta la popolazione russa, minacciata dall’oppressione straniera.

I rivoluzionari non accordarono tregue durante la guerra. Anzi, l’ala più estremista di questi non esitò ad augurare la disfatta del proprio paese come coefficiente di un possibile abbattimento rivoluzionario del regime. E l’esperienza del 1905 stava a provare che in una Russia sconfitta il moto rivoluzionario avrebbe avuto probabilità di divampare e di vincere. Così fu. La guerra produsse la rivoluzione, perché la guerra fu la sconfitta del regime che la intraprese, e perché la guerra non poteva essere né fu accettata dal movimento rivoluzionario.

A questo punto non poteva mancare una stoccata a Mussolini che aveva fatto proprio il famoso motto napoleonico: «I falsificatori del socialismo si provino a dire: “la Rivoluzione è un’idea che ha trovato delle baionette!” – e si provino poi a negare la conseguenza che la rivoluzione russa ha trovato... le baionette del Kaiser».

Abbiamo visto come lo Stato borghese possieda una struttura tale da resistere alle prove derivanti da una crisi acuta e prolungata conseguenti allo stato di guerra. Lo Stato pre-borghese russo non resse alla prova: troppo poco moderno, troppo poco “civile”, era inadatto alla guerra. Le forze che lo minavano, anziché attenuarsi, come era avvenuto negli Stati capitalistici, furono dalla guerra agevolate e la rivoluzione vinse. Furono sufficienti pochi giorni di scontri nelle vie della capitale per far crollare tutta l’impalcatura zarista.

Tre principali gruppi di forze sociali e politiche erano in gioco nel periodo precedente la rivoluzione:
- l’assolutismo sostenuto dall’alta burocrazia, dalla casta militare, dal clero, dalla nobiltà terriera;
- la borghesia, costituita dall’industria nascente e dai ceti del mondo degli affari e della cultura che convergevano attorno ad essa;
- il socialismo, seguito dal proletariato industriale – dove esisteva – e dalle masse agrarie secondo un processo sui generis, e capeggiato da molti intellettuali idealisti.

Qual’era il gioco di queste tre forze nella politica interna del paese e l’atteggiamento di ciascuna di esse nella politica estera e dinanzi alla guerra?

Lo zarismo - Poggiava su un conglomerato di istituti tradizionali non suscettibili di adattamento alle nuove esigenze dei tempi; non ammetteva transazioni all’esercizio illimitato del suo potere. Sono soltanto i governi borghesi, che riescono a concepire ed esercitare la politica a doppia faccia, della libertà apparente e dell’intensificato sfruttamento delle classi dominate. Lo zarismo non poteva intendere questa dinamica di governo, ed era un assurdo storico pretendere che la adottasse

Perfino la concessione di un regime pseudorappresentativo dopo i disastri ed i moti del 1905 ebbe un valore episodico, perché fu seguita da un rapido ritorno al dispotismo autentico con le sue successive modifiche ai metodi di suffragio, mentre la reazione più feroce imperversava moltiplicando fatalmente tanto le vittime quanto gli avversari.

Per quanto retrogrado e pre-capitalista, lo Stato russo, in politica estera era orientato verso un folle imperialismo. Le ambizioni espansionistiche della Russia nell’Asia Minore e in Persia avevano trascinato l’Europa sull’orlo del conflitto per la rivalità fra lo Stato moscovita e l’Inghilterra; e le mire sull’Estremo Oriente scatenarono la guerra con il Giappone, il cui esito rovinoso costrinse l’impero dello zar a un periodo di raccoglimento. Ma dopo il 1905 la Russia intensificò la politica panslavista nella penisola balcanica, le ragioni etniche e nazionali della quale erano un trasparente pretesto, perché sotto lo scettro dello zar gemevano in una identica oppressione, non certo preferibile a quella austriaca od ottomana, cento diverse nazionalità. La politica estera russa contribuì notevolmente allo scatenamento delle guerre balcaniche, creando all’Austria ed alla Germania quella situazione che alimentò il germe non soffocabile della guerra mondiale.

L’opposizione borghese - La nascente borghesia russa nel campo della politica interna militava alla opposizione contro i governi autocratici, perché oppressa da troppi ostacoli al proprio sviluppo economico e sociale. Il mondo degli affari aveva bisogno di muoversi in un ambiente di libertà, soprattutto per la borghesia, così come avveniva negli altri paesi europei. Inoltre la borghesia russa, per la sua cultura ed i frequenti rapporti con il capitalismo europeo, prevedeva quale sarebbe stato il risultato della politica di repressione che, esasperando le masse, le avrebbe spinte tra le braccia del socialismo, negatore della proprietà privata e dello sfruttamento capitalistico. E prevedeva altresì che la sua vita storica, di classe, sarebbe stata troppo aspra e breve, ristretta com’era tra i soffocanti lacci del vecchio regime e il precoce formarsi di vigorose energie rivoluzionarie nelle classi lavoratrici.

La borghesia, anche se non arrivava a prospettare la repubblica, tuttavia spingeva lo zarismo sulla via delle riforme politiche. Al contrario, nel campo dei rapporti internazionali, la borghesia russa non poteva che essere solidale con lo zarismo nella politica panslavista, poiché tale politica combaciava perfettamente con i suoi interessi.

Il movimento proletario - Di ben altro calibro era l’opposizione socialista. Mentre potrebbe sembrare che nella loro applicazione più rigorosa le linee del sistema marxistico male potessero applicarsi ad un paese ove ancora il capitalismo non aveva compiuto la sua rivoluzione politica, quantunque fosse già iniziato quel rivolgimento economico che accompagna l’apparire della grande industria, tuttavia un forte Partito socialista marxista – forse il più ortodosso del mondo – si era formato in Russia. Vi militavano gli operai dei grandi centri urbani ostacolati nella formazione di associazioni sindacali, e numerosissimi intellettuali e studenti insofferenti del regime antiliberale e particolarmente entusiasti delle nuove idee sovversive.

Poiché il problema più scottante per le condizioni delle masse era quello agrario, si formò un Partito socialista rivoluzionario, con un proprio audace programma di rivoluzione agraria culminante nella socializzazione della terra. Le divergenze fra questo partito e l’altro (Partito socialista democratico) erano allora soprattutto di indole teorica e riguardavano la dinamica avvenire della rivoluzione sociale, mentre entrambi erano uniti nella stessa profonda avversione al regime dominante e nel tenace proposito di rovesciarlo con l’azione insurrezionale delle masse. Per l’attuazione del moto rivoluzionario i socialisti russi si proponevano di accettare l’alleanza con la borghesia anti-dispotica, ma nello stesso tempo di porre sul tappeto, insieme con la questione politica, anche quella economica e sociale, attuando così la tattica delineata nel Manifesto dei Comunisti.

Però i socialisti non cessavano un istante di sferzare l’ignavia delle correnti borghesi e di preparare il proletariato alla coscienza e all’esercizio della lotta di classe contro il dispotismo e lo sfruttamento padronale.

Nel campo della politica estera i socialisti russi furono sempre tenaci oppositori dell’imperialismo e della corsa agli armamenti, affermando il principio della solidarietà internazionale nelle classi operaie. Tale loro atteggiamento li differenziò nettamente dalla opposizione borghese, specialmente negli ultimi anni, successivi alla guerra con il Giappone.

Quindi, mentre i borghesi accettavano la concordia nazionale rimandando a tempi migliori le sue aspirazioni democratiche, i proletari negavano questa solidarietà, e la sua ala più estrema si preparava ad agire rivoluzionariamente, e ad adottare la tattica disfattista per assicurarsi il successo, approfittando delle conseguenze rovinose della guerra.

Lo Stato zarista non riuscì né ad evitare la sconfitta sul campo di battaglia, né, all’interno, le più aspre ripercussioni economiche della guerra. I moti generati dal malcontento e dalla carestia trovavano nel programma dei socialisti il naturale sbocco politico e si indirizzarono al rovesciamento del potere governativo.

L’opposizione costituzionale, resasi conto del precipitare degli eventi, cercò di scongiurarne una rivoluzione sociale, andandole incontro con larghissime concessioni nel campo politico, e la borghesia fece ogni sforzo perché il vecchio regime comprendesse questa necessità. I partiti della sinistra borghese obbligarono l’imperatore ad abdicare per conservare la monarchia nella persona di uno dei granduchi, e infine si sbarazzarono anche a questo, accettando l’assemblea costituente, purché due capisaldi restassero intatti: la continuazione della guerra e l’organizzazione della proprietà.

Le correnti borghesi, che si appoggiano ai governi alleati, si impegnarono alla continuazione della guerra contro i tedeschi in nome dell’onore nazionale e della fedeltà agli impegni diplomatici; tentarono di trasferire il potere alla Duma, nella quale i socialisti erano in minoranza, di formare un governo col predominio dei loro partiti, e di rinviare sine die le questioni sociali. Parallelamente il proletariato invece costituiva i Consigli dei delegati operai, soldati e contadini, in cui erano diversamente rappresentate le varie correnti socialiste. La bolscevica, che fra queste era la più estrema e genuina, si batteva per la pace, rifiutava la collaborazione anche transitoria di classe, e invocava la presa del potere per attuare il programma comunista.

Il principio della coalizione riuscì ad affermarsi nel governo presieduto dal socialista riformista Kerensky. Fu ripresa la guerra contro i tedeschi, che erano rimasti fino allora spettatori inattivi, dinanzi alle trincee russe dove ferveva la crisi delle discussioni e del rivolgimento disciplinare. Il generale Brusiloff, riorganizzate alcune divisioni, iniziò l’avanzata in Galizia e riportò, dapprima, un successo. Fu dopo questo momento che in tutta Europa fu diffusa la colossale menzogna della “rivoluzione guerraiola”, contornata di tutte le romantiche informazioni sulla pace separata già stabilita fra lo zar e la Germania! Il popolo russo, si affermava, ha rovesciato lo zar perché tedescofilo, e muove, stretto in nuove falangi di sanculotti, verso strepitose vittorie.

Ma ciò che era prevedibile non tardò ad avvenire: la Germania, che non aveva alcun interesse ad inoltrarsi in un paese in rivoluzione, che si era dichiarato estraneo alle competizioni fra gli imperialismi dei grandi Stati borghesi, rispose all’offensiva di Brusiloff sbaragliandone le forze e riportando il fronte sulla linea di confine austro-russa, in Galizia e in Bucovina. Qualche mese dopo i tedeschi occupano altresì Riga e le isole baltiche.

Il proletariato russo aveva intanto compreso quali pericoli contenesse la politica borghese e riformistica di Kerensky. Il bolscevismo guadagnava vistosamente terreno mentre il governo provvisorio si trovava in continua crisi fra i tentativi controrivoluzionari di Korniloff e la propaganda “leninista” per la presa del potere.

Finalmente il governo venne rovesciato, ed il Soviet in cui i bolscevichi erano divenuti l’enorme maggioranza assunse il potere.

Come nella Comune di Parigi, anche in quella di Pietrogrado, la rivoluzione vinse marciando in direzione opposta al fronte di guerra, non sparando sul nemico straniero nella lotta militare e nazionale, ma volgendo gli stessi uomini e le stesse armi contro il nemico interno, contro il governo della capitale, contro il potere di classe della borghesia, trasformando la guerra nazionale in guerra civile.
 

Ben interpretato il disfattismo in Russia

Le notizie sulla rivoluzione russa che giungevano in Italia erano, per lo più, tendenziose e contraddittorie; ma chi sapeva leggere fra le righe della menzogna borghese, intuiva che il bolscevismo, preso il potere, lavorava senza posa per all’attuazione di un programma allo stesso tempo semplice e grandioso: la espropriazione dei privati detentori dei mezzi di produzione, e la liquidazione della guerra.

«È un grandioso esperimento che si svolge in Russia (...) La rivoluzione russa offre un insieme di fatti che, per il momento singolarmente critico in cui si presentano, assumono il valore di una “esperienza” capitale per la discussione tra le opposte dottrine interpretative della storia, e in ispecie della guerra attuale. I diversi aspetti ed i successivi episodi di questa rivoluzione rispondono con chiarezza suggestiva ad una serie di punti interrogativi, di problemi che nel campo teorico potevano seguitare ad essere indefinitamente discussi, ma che la realtà di oggi e di domani va sistemando e chiudendo per sempre» (Avanti!, Ed. romana, 27 febbraio 1918).

Dall’esperienza russa i rivoluzionari italiani raccoglievano le prove della corretta interpretazione da loro già da tempo attribuita agli insegnamenti della dottrina marxista. Il movimento socialista aveva infatti urgente bisogno di arrivare a definire in modo più netto possibile la tattica dei futuri partiti epurati dalle incrostazioni riformiste. In poche parole, nuovi metodi di critica, di propaganda, e di azione, dando a essi contorni esatti e definitivi.

E questa necessità, da sempre sentita da parte della gioventù socialista italiana, di precisare ed in un certo senso di delimitare bene il campo della dottrina e della tattica socialista, di scartare ed eliminare le concezioni ed i metodi discordanti dalla genuina azione di classe, aveva avuto una prima riprova reale dalla rivoluzione russa. I bolscevichi, adottando la più rigida intransigenza rispetto non solo ai partiti borghesi, ma anche, e soprattutto, alle stesse frazioni socialiste, facendo proprio il motto: “chi non è con noi è contro di noi”, con rapidità e sicurezza meravigliose erano giunti a raccogliere l’entusiastico consenso della stragrande maggioranza delle masse russe. E la riprova della giustezza della loro tattica veniva ancor di più dal fatto che, quel metodo, era stato adottato e si era dimostrato vincente proprio nel paese in cui, per le speciali condizioni sociali, avrebbe potuto dar credito al sofisma tattico della “coalizione di tutte le forze contro il comune nemico”.

La concezione nazionalista della guerra aveva ricevuto il colpo di grazia dagli avvenimenti russi. Nel 1917 il partito bolscevico, sotto la direzione di Lenin, aveva impostato tutta la sua battaglia per la presa del potere sulle parole d’ordine: “via dal fronte”, “liquidiamo la guerra”, in contrapposizione a quelle dei borghesi e dei menscevichi: “guerra rivoluzionaria di difesa nazionale”, “guerra santa antitedesca”. Dopo la presa del potere il partito mantenne la sua promessa e liquidò la guerra.

«Già il 26 ottobre, nella storica seduta notturna, il Secondo Congresso Panrusso dei Soviet votò un decreto che stabiliva la conclusione della pace. Il 7 novembre il governo dei Commissari del Popolo, con il suo primo atto di politica estera, propone formalmente a tutti gli Stati belligeranti immediate trattative per la pace. I governi Alleati rispondono non solo col rifiuto, ma con la aperta minaccia che, se il governo russo farà la pace separata, attaccheranno militarmente la Russia! L’11 novembre il governo proletario risponde con un “Proclama agli Operai, Soldati e Contadini”. Che cosa dissero in quel proclama i bolscevichi? Annunciarono la pace separata, la pubblicazione dei trattati diplomatici segreti, e conchiusero: “In nessun caso tollereremo che il nostro esercito versi il suo sangue sotto la frusta della borghesia straniera”. La portata di questo storico impegno è incalcolabile (...)

«Le trattative coi tedeschi cominciarono il 9 dicembre, ma solo il 25 i tedeschi formularono le loro proposte, comprendenti brigantesche richieste di annessione. La delegazione russa non poteva accettarle; la situazione era stata resa difficile dal fatto che l’Ucraina non era ancora passata coi bolscevichi, e la “Rada” di Kieff stipulava separatamente la pace coi tedeschi il 9 febbraio. Ma intanto a Vienna, a Berlino si hanno scioperi politici, moti operai. I russi non possono dichiarare la guerra, non possono accettare condizioni capestro, essi interrompono le trattative rifiutando di firmare la pace, ma annunciando al mondo che l’esercito russo non opporrà resistenza all’invasore, fanno appello al proletariato tedesco e di tutti i paesi perché si levi contro i governi imperialisti e la guerra (...)

«I tedeschi denunciarono l’armistizio e ripresero, con cinque giorni di anticipo sul termine, la marcia in avanti. La situazione era tremenda. I controrivoluzionari ucraini e finlandesi premuti dai bolscevichi inviavano appelli alle forze militari tedesche. I proletari rivoluzionari oscillavano tra la furente indignazione e l’abbattimento totale. Nelle stesse file dei bolscevichi si aprì il dissidio: chiedere ancora di trattare per la pace o capitolare del tutto, o cadere in una disperatissima resistenza? È noto che Lenin dovette lavorare assai, soprattutto contro Bucharin che era “per la guerra”. Lenin guardava, come sempre fece senza un attimo di interruzione, al cammino della rivoluzione mondiale. Non vi era che da prendere tempo utilizzando il contrasto tra gli imperialismi nemici, tutti egualmente pronti a tentare di strozzare la rivoluzione di Russia. Al congresso del partito come al IV Congresso dei Soviet vinse la tesi della pace. La delegazione dei Soviet tornò a Brest-Litowsk, vi trovò condizioni ancora più inesorabili. Le firmò “senza neppure leggerle”. La guerra era finita. Il 16 marzo il congresso ratificava con 724 voti favorevoli contro 276 contrari e 188 astenuti. Non aspettiamo un cambiamenti di queste condizioni da forza bellica, ma dalla rivoluzione mondiale» (Sul Filo del Tempo - Stato proletario e guerra).


E Brest-Litowsk rappresentò la conclusione magnifica di tutta l’impostazione teorica bolscevica sulla guerra. Il modo borghese di concepire la guerra è quello che vede in ogni paese belligerante una unità omogenea, Francia, Germania, Russia rappresentano entità che si muovono come un sol uomo, e ignora o finge di ignorare i contrasti interni delle classi in lotta e le loro opposte tendenze e finalità. Tutt’al più, pervenendo ad una formulazione meno banale, arriva a pretendere che allo scoppiare della guerra i dissidi si congelino in un armistizio di classe.

In Russia questo teorema non riuscì a funzionare e si dimostrò che la lotta di classe continua anche durante la guerra e, caso mai, si intensifica..

A Brest-Litowsk i delegati del governo rivoluzionario esposero con la massima chiarezza le loro posizioni senza lasciarsi minimamente impressionare dalle minacce dei nemici.

Dal un punto di vista della logica borghese quello tenuto dai bolscevichi fu un comportamento di pura pazzia. Questa era la situazione: la Russia era stata decisamente battuta dal punto di vista militare; andava smobilitando i resti del suo esercito, e non contenti di ciò, i bolscevichi dichiaravano che, se non avessero fatto la pace, non avrebbero comunque neppure ripresa la guerra. Evidentemente non si trattava di pazzia, ma di una logica del tutto nuova: la logica della rivoluzione proletaria. La forza effettiva e formidabile nella quale Lenin, Trotski e compagni contavano era la forza di classe del proletariato tedesco, che – secondo quanto aveva affermato Kark Liebknecht – era il vero nemico del militarismo tedesco, così come il proletariato russo era stato il nemico, ed il trionfatore, del militarismo russo.

Haase al Reichstag, aveva affermato che dopo l’atteggiamento tenuto dai negoziatori tedeschi il proletariato in Germania non credeva più alla guerra di difesa. Ciò era vero, ma non era tutto; Brest-Litowsk aveva dimostrato qualche cosa di più, aveva dimostrato la menzogna che si cela dietro il concetto di guerra di difesa in generale, e la sua incompatibilità con l’internazionalismo proletario. Quel concetto, inconciliabile con l’interpretazione socialista della storia, era tuttavia entrato in modo truffaldino all’interno dell’Internazionale e l’aveva condotta alla rovina ed al dissolvimento.

La teoria della guerra di difesa è un concetto troppo semplicistico e metafisico per potere esser contenuto nella dialettica della storia. Se uno assale, l’altro si difende: il primo è colpevole ed ha torto, il secondo è innocente quindi ha ragione.

Nella guerra imperialista la realtà è diversa: è vero che si fronteggiano due forze opposte, ma quelle due forze sono necessarie l’una all’altra appunto perché sono in contrasto. Ognuna di esse rappresenta la potenza di uno Stato, che spinge all’azione violenta il popolo con la minaccia derivante dal proprio potere, ma soprattutto servendosi dello spauracchio di un pericolo che viene dall’altro Stato e dall’altro popolo, denunziati come aggressori o come complici dell’aggressione. I due popoli muovono l’un contro l’altro per effetto di questo terribile inganno. Ma se uno dei due riesce a spezzare questo inganno e, malgrado tutto, insorge e rovescia il potere dello Stato, anche l’altro è spinto irresistibilmente verso la stessa soluzione. Questo si verificò non appena la rivoluzione russa, liberata dall’equivoco borghese e patriottico, assunse una precisa connotazione antimilitarista, proletaria, socialista.

«Sabotare dunque uno solo dei due militarismi non vuol dire aiutare l’altro, ma sabotarli entrambi, sabotare il loro comune principio storico, il loro comune mezzo di conservazione e di dominio. Il militarismo tedesco aveva stretto bisogno del militarismo russo e dello spettro czarista per conservare la sua difficile posizione nella politica interna (...) I proletari russi hanno giustamente cominciato col distruggere il militarismo che li opprimeva all’interno; e appunto per questo possono ora dire tranquillamente ai tedeschi: abbandonate le regioni invase se volete che noi firmiamo la pace. In caso opposto, ordinate pure al vostro esercito di restare o di avanzare; vedremo se esso vi obbedirà quando noi gli avremo provato, smobilitando il nostro, che non ha di contro alcun nemico, mentre uno ne ha alle spalle, e siete voi, classi capitaliste e militariste! In conclusione la nuova Russia proletaria se non farà la pace non farà nemmeno la guerra, ma se anche concludesse la pace non desisterebbe dal suo fondamentale obiettivo di fomentare la guerra interna di classe negli Imperi Centrali... e in tutto il mondo» (Avanti!, Ed. romana, 28 febbraio 1918)

Quanto la politica dei rivoluzionari russi nuocesse alla guerra degli Imperi Centrali può essere dedotto anche da un comunicato ufficiale dello Stato Maggiore americano in Francia dal quale si apprende che i soldati richiamati dal fronte russo e riutilizzati sul fronte occidentale erano suddivisi il più possibile nei diversi corpi perché troppo imbevuti di idee rivoluzionarie.
 

La guerra rivoluzionaria

La rivoluzione borghese condusse guerre ad altri Stati per evitare che dall’estero fosse restaurato il regime feudale, e poi per attaccarlo in casa sua. La rivoluzione proletaria presenterà un processo analogo?

In Russia un primo tentativo di applicazione di tale ipotesi fu addirittura fatto dai partiti borghesi democratici dopo la caduta dello zar nel febbraio e la prima rivoluzione che li aveva portati al potere, pretendendo che cessasse la opposizione proletaria alla guerra antitedesca. Toccò a Lenin liquidare tale insidia che aveva perfino contagiato parte dei bolscevichi.

Ma il problema si ripresentò non appena questi presero il potere e l’esercito tedesco avanzava con il proposito di abbattere la rivoluzione. Anche in tale occasione fu Lenin a dissentire dalla tesi di Bucharin, che riteneva inevitabile la guerra rivoluzionaria. Lenin spiegò che la dittatura proletaria in Russia non poteva far sua una guerra borghese e reazionaria e che la si doveva liquidare, facendo leva sul disfattismo proletario tedesco. La Russia sovietica apparentemente si inginocchiava con la pace di Brest-Litowsk, ma perché il militarismo tedesco non tardasse a crollare. I generali tedeschi ammisero che era per motivi di politica interna che, dopo notevoli successi strategici, videro sfaldarsi davanti a loro il fronte il occidentale, nel novembre 1918, e dovettero capitolare senza che il nemico avessero vinta una grande battaglia, né violato il confine tedesco.

Lenin però non ha mai negato, per principio, la possibilità del ricorso alla guerra rivoluzionaria: tra il 1918 ed il 1920 la Russia condusse autentiche guerre rivoluzionarie, sia difensive, contro gli attacchi di spedizioni alimentate da francesi, inglesi, eccetera, sia offensive, contro la Polonia. Scrive Trotski: «Per quanto una tale guerra fosse imposta all’armata rossa, lo scopo del governo sovietico non era solo di parare l’attacco, ma di portare la rivoluzione in Polonia e in tal modo aprire con la forza la porta per il comunismo in Europa».

Ma la teoria leninista della guerra rivoluzionaria comporta queste condizioni: che sia condotta dall’esercito di uno Stato effettivamente comunista e che, come Lenin pretese al Secondo Congresso di Mosca, i comunisti di tutti i paesi tendano alla formazione di un solo ed internazionale esercito rosso che si ponga il fine ultimo dell’abbattimento del potere borghese in tutto il mondo. Date queste condizioni la guerra rivoluzionaria non è solo possibile, ma anche legittima, in quanto coincide con la guerra civile mondiale, e può sorgere tanto come resistenza ad una invasione capitalistica nel paese proletario, quanto come guerra di attacco contro il capitalismo mondiale.

In effetti la Russia sovietica si trovò a guerreggiare contro un fronte che arruolava da anarchici agli zaristi, dai kaiseristi tedeschi ai democratici francesi ed inglesi, dagli americani ai giapponesi, uniti per un unico scopo: scongiurare il dilagare della rivoluzione in Europa e nel Mondo. I due gruppi di Stati nemici nella tremenda guerra, ancora guerreggiata, si resero solidali nella battaglia contro il comunismo. Ciò era del tutto naturale perché la internazionale guerra civile fra le classi travalica le gabbie nazionali e in quella allora il comunismo si batteva non in difesa di una patria russa, ma per arrivare a liberare una sola ed accomunata società mondiale.
 

(Fine del rapporto)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il sindacato in Italia dopo il 1945
IL MOVIMENTO SINDACALE ALLA FINE DELLA GUERRA

Capitoli esposti a Cortona nel settembre 2008 e a Firenze nel gennaio 2009.

(Continua dal numero 65)
 

Estratti dal nostro giornale “Battaglia Comunista”
 

Vedere cosa affermavano in Italia nell’immediato secondo dopoguerra i sindacati patriottici, a cominciare dalla CGIL, è sicuramente interessante. Ancora di più è riscontrare oggi, a distanza di ben 60 anni, cosa già diagnosticava in merito il nostro Partito. Qui ne presentiamo un insieme di brevi estratti, ordinati per argomento. La compiuta degenerazione del sindacalismo post-fascista ivi descritta è ricca di insegnamenti al fine di valutare la natura attuale delle confederazioni che chiamiamo “di regime”, e di orientamento nell’indirizzo contingente che il partito deve dare ai lavoratori, questione spesso di soluzione non facile né risolutiva, data la presente debolezza e il disorientamento delle forze operaie.

Risulta evidente il netto taglio di classe e l’esattezza della diagnosi che il nostro partito, fin dal suo ricostituirsi organizzativo e solo contro tutti, seppe dare della complessa questione, e lo sforzo per porgere ai lavoratori la sua parola di spiegazione e di lotta.
 

Sulla natura pienamente borghese e definitivamente controrivoluzionaria dei partiti che controllano i sindacati

Il centrismo partito di conciliazione, BC, n. 2, 6 luglio 1945.

    «Quando le plebi di Puglia si sollevano, colpiscono, distruggono e bruciano gli istituti dello Stato perché in essi individuano la forza tradizionale posta lì a difendere gli interessi del latifondista. Non diversamente è avvenuto in questi giorni; soltanto che a presidiare questi odiati istituti, sono questa volta e gli uomini e i partiti e le armi del CLN. I sovversivi di ieri e i conservatori di oggi non meno intelligenti in verità e non meno feroci dei conservatori di ieri in camicia nera. Sicuro, le agitazioni, quando non sono controllate dai partiti del CLN e non rientrano nel quadro della solita manovretta ricattatoria condotta nell’interesse esclusivo della loro politica di parte, rompono l’equilibrio a quella pace sociale così cara ai cuori di questa nuova, numerosa e ben nutrita classe di funzionari della democrazia progressiva. Esemplare non trascurabile di questa nuova classe è apparso il compagno ministro Scoccimarro, il pacificatore delle Murge (...)
    «Il ministro Scoccimarro si vale del suo ascendente politico quale esponente del partito comunista per mettere in esecuzione la volontà del suo governo borghese il quale esige che il possesso della terra così com’è sia ancora considerato sacro e inviolabile per i superiori interessi della concordia nazionale (...) Ecco il ministro Scoccimarro arrivare nelle Murge in piena rivolta con gli obiettivi prefissi di: 1) far cessare ogni esistenza di squadre armate; 2) porre il problema del disarmo; 3) stabilire l’ordine e il prestigio delle autorità governative, quelle del CLN. E per dar senso di convalida e di concretezza alla sua opera, il ministro del comunismo centrista, accompagnato dal dirigente la sezione comunista e dai membri del CLN., si recava alla tenenza dei carabinieri reali, dove elogiava la funzione svolta, nel pubblico interesse, dagli organi di polizia. Già, erano gli stessi carabinieri che avevano poco prima sparato sulla folla (...) È proprio una grande e geniale istituzione la democrazia progressiva del centrismo!».
Quadrante, Solidarietà nazionale e fascismo, BC, n. 16, 7 novembre 1945.
    «Uno dei frutti, da noi più volte previsti, della tregua nazionale e della collaborazione tra le classi, è che il “governo di popolo” assiste impotente al risorgere dello squadrismo nero e che, in Puglia, ricominciano ad ardere i roghi delle Camere del Lavoro e dei circoli operai. In nome di un’alleanza mantenuta a tutti i costi ad onta della sua palese inconsistenza, i “partiti operai” hanno permesso che si esaurisse lo slancio delle agitazioni sociali, che si disarmassero le autentiche forze proletarie, e che riprendessero vigore gli inquadramenti tradizionali dei mazzieri capitalistici. Così, mentre le energie proletarie si smussano nel continuo richiamo all’ordine e alla legalità, la borghesia porta a termine l’addestramento delle forze dell’illegalità e del disordine, quelle che avranno il compito di manipolare le elezioni per questa famosa, taumaturgica Costituente, alla quale i suddetti partiti rimandano di giorno in giorno la soluzione dei più gravi problemi, proclamando in anticipo che s’inchineranno al suo supremo (!) verdetto».


Il sindacalismo “post-fascista”

- Sottomissione alle istituzioni e ai partiti borghesi

Per la libertà sindacale, BC, n. 10, 18 settembre 1945.

    «Era nelle nostre previsioni, e l’abbiamo più volte segnalato, che, nella nuova fase di dominio borghese iniziatasi col crollo del fascismo, gli organismi di massa sarebbero stati vincolati (come già sotto il fascismo, per quanto in forma diversa) allo Stato ed agli organi politici della nuova dittatura capitalistica. Ogni giorno che passa dimostra la verità della nostra critica. I sindacati sono prigionieri dello Stato, da una parte, e del trinomio dei “partiti di massa” dall’altra, che, accaparratisi i posti di direzione, manipolando a loro gradimento le elezioni, impongono le direttive politiche dell’oligarchia dominante; nelle fabbriche le Commissioni Interne sono esautorate dai CLN aziendali (organi di collaborazione interclassista) alla cui approvazione devono sottoporre ogni loro deliberato; dappertutto regna il metodo delle pastette elettorali, mentre le Camere del Lavoro sono vincolate nel loro funzionamento dalla sudditanza verso i partiti di governo».
- Cariche direttive aperte ai borghesi

Sindacati di classe, BC, n. 11, 27 settembre 1945.

    «A Genova i liberali hanno chiesto – e i rappresentanti socialisti e comunisti hanno loro concesso – di partecipare alla direzione della Camera del Lavoro. La conclusione è logica: ma ve l’immaginate, operai, un organismo di classe alla cui codirezione partecipano i rappresentanti politici degli interessi padronali?»
Nella categoria edili, BC, n. 8, 16-23 marzo 1946.
    «Il 30 gennaio (a Genzano laziale) è stata indetta una riunione generale dei sindacati edili per formare il nuovo comitato direttivo. Di fronte all’assemblea numerosissima il comp. Lolletti sostenne la necessità che il CD fosse composto di veri operai e non di datori di lavoro. Intervenuto nella discussione, il rappresentante della C.d.L di Genzano, Ducci Tiberio (del PCI) ribatté che del CD potevano far parte anche i datori di lavoro “purché onesti”, disse che le paghe non si potevano aumentare e protestò perché, secondo lui, per indire quella riunione era necessario il benestare preventivo della C.d.L.».
- Ed esclusione dei comunisti

La faccenda della FIOM e le minoranze sindacali, BC, n. 18, 28 novembre 1945.

    «Com’è noto, l’”Unità ” del 16 u.s. annunciava che il nuovo Consiglio Direttivo della FIOM per la provincia di Milano, contrariamente a quanto annunciato il giorno prima, non si era insediato con la presenza di un delegato dei Comunisti Internazionalisti in seguito alla netta opposizione dei Comunisti Italiani, e che a quest’opposizione si erano uniti i rappresentanti di tutti gli altri partiti, salvo qualche riserva mossa dai democristiani. Le “profonde” ragioni di quest’esclusione erano le seguenti: legati alla “provocazione trotskista internazionale” noi avremmo dimostrato in più circostanze, e particolarmente durante la guerra imperialista di essere degli “antinazionali”, e, oggi, dei perturbatori della ricostruzione con tanto zelo intrapresa dal blocco dei partiti borghesi (...)
«La farsa si chiudeva con una lunga discussione fra un membro del nostro Comitato Sindacale e la Segreteria della FIOM, dalla quale sorgeva in modo esplicito la perfetta intesa raggiunta dai partiti della collaborazione nazionale nel considerarci... indegni di appartenere ad organi sindacali direttivi. Le invenzioni e le calunnie furono in quell’occasione tali e tante, che il nostro compagno fu indotto a chiedere se, dopo tutto questo, ai comunisti internazionalisti si sarebbe riconosciuto almeno il diritto di adire all’organizzazione sindacale e n’ebbe la stupefacente risposta che potevano bensì farne parte, ma giammai pretendere di delegare propri rappresentanti agli organi direttivi (democrazia ultimo modello).
«La nostra esclusione dagli organismi direttivi questo significa: che il sindacato deve rimanere monopolio dei partiti del compromesso e della collaborazione; che si accede alla sua direzione solo se si fa abiura della lotta di classe»
Vita di partito nella fabbriche, BC, n. 5, 6 agosto 1945.
    «Alla Ercole Marelli II di Sesto, circa un mese fa, nelle elezioni per la commissione interna erano riusciti il compagno Osti, del Partito Comunista Internazionalista, e il socialista compagno Sacchi. Con un procedimento di cui vorremmo conoscere la giuridicità il nostro compagno è stato estromesso dalla commissione perché iscritto ad un partito non rappresentato nella trinità sindacale dei cosiddetti partiti di massa».
- Ingabbiamento della combattività operaia

Verso l’addomesticamento degli scioperi, BC, n. 5, 6 agosto 1945.

    «La Commissione esecutiva della Camera del lavoro di Milano, avendo constatato che in diverse località della provincia scoppiano periodicamente scioperi, determinati spesso da futili motivi e, qualche volta, promossi da agenti provocatori e da pescatori nel torbido, ha diffidato tutti i lavoratori dal fare agitazioni e scioperi che non siano autorizzati dalla stessa.
«Noi non apparteniamo alla categoria degli “scioperanti”, o “scioperomani” e abbiamo più volte messo in guardia gli operai contro una pratica dell’agitazione a vuoto cara proprio a quegli organizzatori sindacali e a quei partiti che ora se la prendono con gli “agenti provocatori” per le conseguenze naturali della loro incauta demagogia. Ma non possiamo non protestare contro una disposizione che tende a vincolare le agitazioni operaie al beneplacito di organismi sindacali, trasformati in tutori dell’ordine, pronti a proclamare lo sciopero per gli interessi politici dei partiti che ne monopolizzano la direzione, e a vietarlo quando minaccia di ledere questi interessi o di creare fastidi al governo. O dovremo tornare al sistema fascista del divieto di sciopero?»
- Riscossione delle quote per delega

Contributi sindacali, BC, n. 1, 10-17 gennaio 1946, dove un operaio scrive:

    «Chiedevo fra l’altro precisazioni sul sistema della delega escogitato dalle Camere Confederali per la trattenuta del contributo sindacale tramite il datore di lavoro. Avendo fatto osservare al Segretariato di categoria che tale sistema ricordava troppo da vicino sistemi d’infausta memoria e che, per principio, il Sindacato è un organo libero escludente l’obbligatorietà dei contributi, mi sentivo rispondere che il fatto che il sistema fosse nell’impostazione fascista non significava che non dovesse essere adottato... in fondo (parole testuali) questo sistema di versamenti è stato una delle iniziative più indovinate...»
- Compromissione con la repressione statale

I nuovi tutori dell’ordine, BC, n. 9, 24-31 marzo 1946.

    «Leggiamo sull’”Unità ” del 13 u.s. che la Camera del Lavoro d’Andria ha comunicato alla CGIL a Roma che gli agrari locali si rifiutano di assumere lavoratori disoccupati (...) I lavoratori sono esasperati e minacciano di provvedere personalmente ai casi loro: la CGIL preoccupatissima ha dato immediata comunicazione del telegramma inviato al ministro dell’Interno per i provvedimenti del caso e per interessarne il Governo».


Cosa è finita per essere la “organizzazione in fabbrica”
Natura e funzioni delle Commissioni Interne

Libertà sindacale e commissioni interne, BC, n. 2, 6 luglio 1945.

    «La realtà della situazione politica presente si riflette nel modo più tangibile nella vita degli organismi di massa. È avvenuto così che il predominio di fatto dei cinque (o sei, non si capisce mai bene) partiti della coalizione democratica invadesse i sindacati, s’insinuasse nelle commissioni interne e creasse a sua immagine e somiglianza i CLN aziendali. Si parla di unitarietà dei sindacati, di democrazia interna, di “apartiticità ” degli organismi di massa, mentre è in atto una dittatura funzionalistica che fa capo a tre partiti, sostenuti dalla tradizionale gerarchia dei mandarini. Questo fenomeno (...) assume un aspetto particolare nel caso delle Commissioni Interne, che le norme procedurali della Confederazione del Lavoro hanno trasformato, prima ancora che nascessero in clima di libertà e di post-fascismo, anziché in organismi liberamente eletti dalla base, in organismi creati dall’alto secondo criteri di rappresentanza proporzionale delle correnti sindacali esistenti di fatto nella fabbrica, costituiti cioè in base a puri rapporti numerici e formali fra partiti e non in base alla loro reale influenza sul posto di lavoro. Così, mentre da una parte si insisteva sul criterio democratico del libero accesso di tutte le correnti sindacali, se ne precludeva di fatto il funzionamento su un piano di effettiva parità, e si creava, nello stesso ambiente di lavoro, una dittatura di tre partiti pomposamente autodichiaratisi “di massa”.
    «Per noi la questione è ancora più complessa che per altre correnti sindacali. Come se non bastasse il monopolio di questa trinità di partiti, ci si trova di fronte alle manovrette dei centristi, che la timidezza socialdemocratica si guarda bene dall’arginare. Avviene così che, al di fuori dei rappresentanti dei tre partiti, non esistono come candidati che dei “senza-partito” e guai a chi si presenta alle candidature come “internazionalista”».
Lo sblocco dei licenziamenti e le raffinatezze della politica confederale, BC, n. 3, 18 febbraio 1946.
    «C’è nella politica confederale, bisogna riconoscerlo, una grande raffinatezza. L’industriale è stato convinto a licenziare per gradi: i licenziamenti in massa sono pericolosi; i licenziamenti col contagocce hanno il doppio vantaggio di non colpire immediatamente la totalità dei lavoratori e si spezzarne l’unità come classe, di mettere in concorrenza fra di loro, anzi in lotta, beneficiati e colpiti. L’industriale è stato convinto a “selezionare” i licenziamenti, a creare in seno alla massa operaia categorie antitetiche, ad affidare alle commissioni interne il compito schiettamente poliziesco di controfirmare questa “selezione.”


Continua la sottomissione fascista-corporativa della classe operaia agli interessi nazionali

La ripresa economica e la classe operaia, BC, n. 2, 6 luglio 1945.

    «I partiti sedicenti proletari che fanno parte del governo e degli illustri CLN (...) anziché smascherare gli interessi borghesi che continuano la loro opera di sanguisughe del proletariato, essi si fanno in quattro per chiamare le masse alla collaborazione nazionale e sbandierano provvedimenti demagogici che il proletariato ha già irriso e denunciato sotto la dominazione fascista. La socializzazione di mussoliniana memoria si ripresenta nella veste dei consigli di gestione operaia fatti a mezzo col capitale. Se la socializzazione era una turlupinatura e un inganno sotto il governo repubblicano, non sarà certamente cambiata perché all’etichetta fascista è stata sostituita un’etichetta socialista o comunista. Il cancro rappresentato dal regime borghese non è costituito principalmente dall’organizzazione aziendale, ma da tutta la struttura sociale, distributiva e organizzativa. Far sperare agli operai che un aumento di salario ottenuto attraverso la cosiddetta partecipazione agli utili sarebbe per loro lo scopo fondamentale della lotta, vuole perciò dire alterare completamente la realtà. Gli operai ai quali si consiglia di sedersi al tavolo coi capitalisti per partecipare ai loro più o meno loschi affari, non fanno che convalidare la speculazione capitalistica, mentre il loro interesse effettivo sarebbe di tagliarle le unghie».
Parole chiare sui consigli di gestione, BC, n. 3, 16 luglio 1945.
    «La classe operaia si trova investita da una ventata collaborazionista che cerca di irreggimentarla in organismi, comitati, commissioni, consigli, ecc., che non potranno mai essere gli organi della sua battaglia di classe.
«Per i rivoluzionari è sempre stato un dato acquisito che, quando il capitalismo ed i suoi organi di governo si accingono a riconoscere e a prendere sotto la loro protezione gli organismi che la classe operaia si è data quali strumenti di lotta per la difesa dei propri interessi, lo scopo ch’essi si prefiggono è sempre di assorbirli nel meccanismo della loro lotta politica. Voler far credere che gli organi sorti dopo il 25 aprile siano o possano divenire organi autonomi di lotta in difesa delle rivendicazioni operaie, è dunque andar oltre il limite non solo di una sana politica di classe, ma della comune demagogia riformista.
    «Dopo il sindacato, già trasformatosi, malgrado ogni apparenza, in organo di Stato; dopo le commissioni interne, emanazione del CLN e perciò sul piano di una politica di Stato, si è giunti ora ai Consigli Operai di Gestione indice massimo di capovolgimento di ogni nozione di classe, quando si pensi che questi organismi non possono avere vita propria e reale funzione nell’ambito della produzione se non come organi di una rivoluzione proletaria vittoriosa. Chi si mette fuori e contro questo schema, fornitoci dalla dottrina marxista, e dalla prassi della rivoluzione russa, cade nel più smaccato opportunismo e tradisce le speranze e le aspirazioni che animano le grandi masse operaie. Le quali non tarderanno a capire che, fra la socializzazione, con relativi organi di gestione, della defunta repubblica fascista, proclamata ai fini della continuazione di una guerra impopolare ed antiproletaria, e certi atteggiamenti socializzatori attuali suggeriti dalle necessità della ricostruzione borghese (che perciò non è la loro), non esiste alcuna sostanziale differenza.
    «Tutte le altre esperienze che hanno dato vita ai Consigli di Gestione mentre ancora permaneva lo Stato borghese, hanno dimostrato che questi organi, in quelle condizioni di fatto, servono da strumenti di conservazione, non solo perché danno agli operai l’illusione di una rivoluzione compiuta e di una conquista del potere che non ha avuto luogo (illusione che si va accuratamente creando nella classe operaia), ma perché tendono ad inserire quest’ultima nel meccanismo della ricostruzione, ad interessarla direttamente alle sorti di un’azienda generatrice di profitti capitalistici, a chiudere l’orizzonte politico delle maestranze nella cerchia ristretta di problemi tecnici locali: sono insomma le peggiori scuole di quella mentalità corporativa, da aristocrazia operaia, da “campanilismo di fabbrica”, che offre lo spunto più efficace alle manovre corruttrici del datore di lavoro.
    «Nella situazione attuale, la “cointeressenza” dell’operaio nell’azienda attraverso il veicolo del Consiglio di Gestione si risolve perciò in questo: che l’operaio si impegna ad accollarsi una parte della passività dell’azienda, è interessato al massimo funzionamento, aiuta l’industriale a “modernizzarlo” e, soprattutto, consuma in seno ad un organo di conciliazione la propria volontà di lotta. Da cui il paradosso per il quale gli operai di certe aziende si sottopongono a volontari sacrifici per il bene dell’azienda stessa, e i capoccia opportunisti esercitano sui compagni di lavoro una funzione di controllori e di aguzzini, ch’era fino a poco tempo fa triste appannaggio dei più odiati capireparto.
    «Di ben altro ha oggi bisogno la classe operaia. In primo luogo, del partito di classe, ideologicamente, politicamente, tatticamente preparato ad assolvere il suo compito di guida dell’intera classe lavoratrice; secondariamente di organismi di massa suscettibili di inquadrare sul posto di lavoro e sul piano di classe tutti gli operai per la lotta contro tutto l’apparato della dominazione capitalistica, allorché sarà un dato acquisito per ognuno che i sindacati non rispondono più alle esigenze di questa lotta. Gli organi di cui parliamo non possono essere che i Consigli di fabbrica».
L’inganno della partecipazione, BC, n. 9, 10 settembre 1945.
«La partecipazione agli utili, il controllo dell’azienda, sono altrettanti mezzi pirateschi per far credere all’operaio che il suo problema si possa risolvere nell’ambito della fabbrica in cui lavora, anziché sul terreno politico della lotta della sua classe contro l’apparato di dominio della classe avversa. E sono anche un modo di farlo partecipare allo sfruttamento di posizioni monopolistiche a danno di altri operai».
Azione diretta, BC, n. 11, 27 settembre 1945.
    «Contro lo spettro della disoccupazione incombente, il segreto dell’interesse operaio, dicono i socialcentristi, non risiede, come tutti pensano, nella concessione di adeguati sussidi ai disoccupati, ma nell’incremento nella produzione e quindi del lavoro. In una parola, mentre da un lato lo Stato è costretto a concedere ai capitalisti lo sblocco dei licenziamenti, dall’altra i valletti del capitalismo che monopolizzano i sindacati e i CLN teorizzano la politica del reimpiego dalla mano d’opera licenziata. Assurdo? No, semplicemente demagogico. Stando così le cose, queste le prospettive della situazione operaia. I licenziamenti ci saranno e su scala non ridotta; i sussidi di disoccupazione, poiché verranno ad incidere nelle magre possibilità finanziarie dello Stato democratico, saranno ritenuti una cattiva politica economica e il reimpiego dei disoccupati è una prospettiva che solo in minima parte può tradursi su di un piano di concreta realizzazione...
    «Esiste dall’altra parte una linea di ripiegamento strategico voluto dall’insipienza socialcentrista con l’obiettivo apparente di difendere gli interessi degli operai, ma in realtà per guadagnare alla propria causa politica i loro voti. In una parola, mentre la disoccupazione porterà disperazione, fame e malattie nelle case dei lavoratori, i socialisti di Nenni e i comunisti di Togliatti si servono di questa situazione per convogliare il malcontento sul piano della lotta per... la Costituente. Mai menzogna e fradicio opportunismo avevano toccato un fondo così melmoso e torbido nella vita del proletariato italiano».
Un esempio pratico di controllo operaio, BC, n. 11, 27 settembre 1945.
«Il Convegno ha anche affermato esplicitamente che i consigli di gestione “devono agire soprattutto secondo i principi di solidarietà nazionale nell’interesse della ricostruzione e della produzione, e non vogliono essere organi classisti”, ha ribadito cioè le finalità essenzialmente produttivistiche del controllo operaio, inteso come “partecipazione a fianco del capitale dei rappresentanti di lavoratori” (è noto d’altra parte che, nello schema legislativo sui Consigli di Gestione, la maggioranza è assicurata nei consigli stessi ai rappresentanti della direzione). Tutto questo significa addossare ai lavoratori della Montecatini il più grave onere della ricostruzione in collaborazione coi capitalisti e a tutto vantaggio di questi ultimi in quanto resteranno ancora una volta padroni degli impianti industriali rimodernati ed efficienti, mentre agli operai saranno riservate le briciole e l’onere di pagare le tasse perché il governo possa risarcire a questi signori i danni di guerra. Inoltre, saranno loro riservati i licenziamenti in periodo di crisi».
Buon fiuto borghese, BC, n. 6, 24 febbraio - 3 marzo 1946.
    «”Quest’immissione d’elementi operai nella direzione delle aziende – scriveva il Popolo del 14-2-46 – ha almeno un vantaggio: quello di convincere gli operai sulle autentiche difficoltà delle imprese. Se il rendimento delle maestranze è leggermente migliorato e se la massa si rende conto che lo sblocco dei licenziamenti è inevitabile, si deve in gran parte all’opera di persuasione che le stesse organizzazioni dei lavoratori svolgono da quando hanno i loro rappresentanti al centro delle aziende”.
    «Proprio così: i consigli di gestione abituano l’operaio a guardare tutti i problemi dall’angolo visuale corporativo della sua azienda, a dimenticare che il suo problema va oltre il perimetro della fabbrica e che la sua lotta non è contro il capitalista singolo o l’azienda singola, ma contro la totalità della classe avversaria. E lo impegnano perciò a sacrificarsi per la fabbrica in cui lavora».


Il mito e il vero scopo delle nazionalizzazioni

Che cosa significa per il proletariato la nazionalizzazione?, BC, n. 6, 14 agosto 1945.

    «La storia dei nostri complessi industriali dal 1932 al secondo conflitto mondiale si può sintetizzare in un processo di creazione di giganteschi organismi gravanti con enormi passività sul bilancio del paese e fruttanti utili non meno enormi ai capitalisti. In questo senso la “nazionalizzazione” era già in atto prima che i geniali teorici della democrazia progressiva la riscoprissero tra i ferri vecchi del riformismo borghese: l’industria e gli istituti finanziari erano già della nazione, nel senso che era la nazione a pagarne le spese. L’economia di stato era già in atto con le caratteristiche tipiche di ogni economia di stato d’origine borghese.
    «Il guaio è che queste aziende non sono più destinate a rendere: sono industrie in parte fortemente danneggiate, in parte tragicamente passive... Allora nazionalizzare queste industrie vuol dire ricostruire industrie che meriterebbero di morire e liberare i capitalisti che ancora ne detengono le azioni dal grosso fastidio di farle funzionare in perdita (cioè senza profitti di un tempo)... Vuol dire acquistare coi soldi della comunità industrie parassitarie assicurando agli ex-proprietari un vitalizio sotto forma di indennità e accollare allo Stato, cioè ai cittadini, le passività che un regime di finanza allegra ha creato e che la ricostruzione aggraverà...
    «Al posto dell’industriale singolo o consorziato si avrà dunque uno Stato-padrone, e poiché questo Stato avrà ceduto le redini ai partiti della democrazia progressiva, sarà dovere dell’operaio e del contadino rispettarlo, non creargli fastidi, affidarsi a lui: non si sciopera contro lo Stato, specie se ha alla sua testa un “governo di popolo”. Si tirerà un po’ più la cinghia per risanare i bilanci non risanabili delle industrie-chiave; ma sarà per... il bene di tutti.
    «Quanto agli ex-industriali, dal momento che la nazionalizzazione interesserà un solo settore dell’attività economica e per il resto si farà sempre appello (lo dice perfino la mozione del PCI) all’iniziativa privata, essi investiranno i capitali liquidi frutto della “nazionalizzazione” in industrie redditizie...»
La via di mezzo, BC, n. 7, 27 agosto 1945.
    «Si sostiene ad esempio la possibilità di ricorrere ad una via di mezzo, cioè ad un sistema che, rispettando la cosiddetta iniziativa privata, disciplini in un piano organico generale l’interesse privato. Attraverso questo disciplinamento e ordinamento degli impulsi particolari si raggiungerebbe la conciliazione delle classi e otterrebbero i due grandi obiettivi dell’epoca nostra, l’ordine e il progresso.
    «Orbene la via di mezzo è il fascismo. Che cosa è infatti il fascismo, se non la manifestazione dell’assurdo storico rappresentato dal tentativo di conciliare le classi e di inquadrare nell’interesse generale il principio dell’iniziativa privata? Tutta la prassi e l’etica del fascismo si basano su questo principio, e il fatto che immediatamente dopo il crollo tanto ignominioso quanto rumoroso di un regime aborrito si vedano risorgere le stesse parole d’ordine e si sentano ripetere luoghi comuni ormai dimostratisi catastrofici, dimostra l’impossibilità per certi ceti di cambiar natura. Il fascismo ha costruito tutta una macchinosa teoria partendo dal concetto dello Stato superiore agli interessi di classe, capace di dirimere imparzialmente i conflitti interni e di indirizzare verso una maggiore produttività l’attività economica nazionale».
Breve trafiletto, BC, n. 2, 23-30 gennaio 1946.
    «I socialisti che vanno in visibilio per le nazionalizzazioni laburiste e le scambiano per socialismo non hanno ancora compreso che la società capitalista, nelle sue forme estreme ha bisogno per sopravvivere proprio di questa suprema forma d’accentramento totalitario della vita economica nello stato».


Difesa del sindacato di classe
Valutazione e impianto del giusto atteggiamento e indirizzo operaio del partito di fronte al sindacalismo di regime e da allora mantenuto immutato e coerente fino ad oggi.

Questa è la parola d’ordine del Comitato Centrale Sindacale del nostro Partito, BC, n. 13, 8 ottobre 1945.

«Operai!
    «Contro la disoccupazione, contro il caro vita contro lo sblocco dei fitti, contro lo spettro del freddo, della fame, voi dovete far leva sulla forza unitaria della vostra classe. Tutti gli operai sono colpiti allo stesso modo: chi non lo è oggi, lo sarà domani. Il capitalismo è solidale nel colpirvi; siate anche voi solidali nel difendervi.
«Operai!
    «Nella condotta della lotta valetevi di ognuna delle rivendicazioni parziali: sblocco dei licenziamenti, caro vita, sblocco dei fitti, ecc. come momenti di un’unica e vasta agitazione nazionale che potrà assumere significato e senso di concretezza solo se portata sul piano politico della lunga lotta che voi sosterrete per la conquista rivoluzionaria del potere.
«Operai!
    «La vostra forza è nell’unità, e l’unità esiste nei vostri sindacati. Anche se la loro direzione è opportunista e controrivoluzionaria, a voi non mancherà né la capacità né la forza per servirvi dei sindacati stessi e piegarli ai fini della vostra lotta. L’unità di classe realizzata nei sindacati, e mantenuta granitica contro l’opportunismo disgregatore della direzione socialcentrista, è condizione prima della lotta, è garanzia di vittoria.
    «Viva la lotta di classe del proletariato!
    «Viva l’unità sindacale!»
Lotte del lavoro (Commissioni interne e C.d.L.), BC, n. 13, 8 ottobre 1945.
    «La Camera del Lavoro (...) non è più un organismo di pura espressione proletaria, ma, essendo legata ai CLN e ai partiti in essi rappresentati, subisce le direttive politiche del governo (come, in altra forma, i vecchi sindacati fascisti) e non può quindi rispondere agli interessi operai. Ne viene che, a noi commissioni, capita di sentir dire da alcuni operai, che non vogliono più pagare la tessera (“perché dovremmo pagare – dicono – se la CdL fa più l’interesse dei padroni che il nostro?”). Ma, se questo è vero (almeno per il momento), se ne deve concludere che un’organizzazione gli operai la debbano pur avere e, poiché questa non può essere che la CdL, quel che si deve fare non è rinunciare alla lotta e uscire dagli organismi sindacali, ma lottare a fondo perché l’organizzazione operaia ridiventi operaia, eletta da noi e diretta da noi, non da opportunisti che non hanno imparato dalla lezione del passato.
    «E, se non riusciremo a rimettere su un piano di classe le nostre organizzazioni, ne costruiremo altre: l’importante e che non si diffonda questo stato d’animo di assenteismo e di demoralizzazione che pregiudica gli sviluppi della lotta di classe in Italia e nel mondo».
Vita di Partito, Cinisello, BC, n. 2, 16 ottobre 1945.
    «In questa situazione la nostra parola è chiara: la crisi che si aprirà coi licenziamenti e la riduzione delle ore di lavoro non può essere risolta con accorgimenti tecnici e con provvidenze di natura esclusivamente sindacale: occorre riportare la lotta proletaria su un terreno di classe ed innescare le agitazioni alla lotta politica: occorre difendere il contenuto classista degli organismi di massa e, se definitivamente lo perderanno, sostituirli con genuini organi proletari di difesa e di battaglia; occorre infine potenziare il partito di guida della massa lavoratrice».
Trafiletto, BC, n. 15, 27 ottobre 1945.
    «Le elezioni alle Commissioni Interne si stanno svolgendo non in base al criterio della libera scelta dei candidati da parte degli operai ma a quello della imposizione di liste di maggioranza riservate ai cosiddetti quattro partiti di massa, e fiancheggiate da liste di minoranza riservate ai partiti operai che non accettano la politica del CLN. Noi protestiamo contro questo criterio, che arenando il libero conflitto delle posizioni politiche in meschine combinazioni di partito, urta contro le più vitali tradizioni ed esigenze della lotta proletaria, e parteciperemo alle elezioni solo per rivendicare in seno a questi organismi deformati il diritto delle masse operaie a scegliere liberamente, al fuoco della loro esperienza di lotta, i propri rappresentanti, e la necessità di ricondurre gli organismi sindacali, centrali e periferici, ai principi e alla tattica della lotta di classe».
Tesi agrarie presentate per la discussione al Convegno Nazionale del Partito, BC, n. 2, 24-31 dicembre 1945.
    «Lotte rivendicative e inquadramento sindacale dei contadini.
    «Pur prendendo atto della trasformazione subita dagli organismi di massa e dal loro sempre più evidente infeudamento allo Stato, il Partito non si propone di creare o suggerire organismi nuovi in antitesi con quelli esistenti, e incoraggia i proletari e semi proletari delle campagne ad entrare nei rispettivi sindacati per difendere in essi, contro la classe padronale e contro lo Stato, i propri interessi di classe. D’altra parte, sarà compito costante del Partito portare le lotte rivendicative dei ceti contadini sul terreno politico e mostrare come quelle stesse lotte rimangono sterili fuori della lotta frontale del proletariato contro lo Stato capitalista.
    «È ovvio che l’intervento del Partito nelle agitazioni sociali e negli organismi sindacali dei contadini avrà per oggetto soprattutto il vasto strato dei salariati e degli avventizi. Per questa categoria (...) le lotte rivendicative devono avere essenzialmente per oggetto l’aumento dei salari, la diminuzione delle ore lavorative, il generale miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, e compito del Partito sarà di inquadrare l’insieme di queste rivendicazioni in un programma generale che eviti la dispersione e il frazionamento della lotta».
Le C.I. e i licenziamenti, BC, n. 4, 9-16 febbraio 1946.
    «Alla scadenza fissata dai supremi organi e dallo Stato, alla Borletti di Milano si è proceduto al licenziamento del primo scaglione d’operai e, come da noi previsto, la C.I. ha dovuto essere lo strumento esecutore di questo specifico interesse di classe capitalista. Ma il sig. Borletti, sicuro di trovare appoggio nelle gerarchie sindacali, non si è accontentato della lista del 30% presentatagli dalla C.I e ne pretendeva subito un’altra con la stessa percentuale per procedere ad un altro immediato licenziamento d’operai, vale a dire, complessivamente, del 60% degli operai presenti al lavoro. La C.I si è accorta del triste ruolo che si voleva affidarle e ha telefonato alla Camera del Lavoro per chiedere l’intervento di un “responsabile”, il quale (bontà sua) ridusse le esigenze della ditta alla richiesta di un supplemento del solo 20%. In seguito alcuni membri della C.I., sostenuti efficacemente dai nostri compagni si sono dimessi non volendo accettare il ruolo d’aguzzini (sono rimasti, naturalmente, i centristi e i democristiani)».
Per la libertà sindacale, BC, n. 10, 18 settembre 1945.
    «Di fronte a questa situazione [sindacati vincolati allo Stato e ai partiti borghesi] noi rivendichiamo una volta di più la piena e totale indipendenza dei sindacati e di tutti gli organismi di massa dallo Stato capitalistico e dalla coalizione politica democratica, denunciamo il tentativo (purtroppo in gran parte riuscito) di svuotare questi organismi del loro contenuto di classe, riaffermiamo il principio dell’unitarietà e della democrazia interna di tutti gli organi di difesa classista dei lavoratori, riaffermiamo che la vita sindacale potrà liberarsi dall’attuale soggezione allo stato e ai partiti borghesi solo con l’appoggio diretto e con la franca e continua collaborazione del partito di classe del proletariato».
(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il Marxismo e la Questione Militare

(Continua dal numero scorso)

[Indice del lavoro]
Capitolo esposto alla riunione di Parma nel maggio 2007.
 
 

Parte seconda

B) Il Medioevo in Europa

5. Crollo della società schiavista e formazione della società feudale

Per una più facile comprensione passeremo in rassegna, quasi cronologicamente, i fatti essenziali della storia della società feudale puntando il nostro sguardo soprattutto su quelli militari, rilevando la funzione a volte vitale della violenza nello sviluppo sociale dei soli paesi dell’occidente europeo.

In quanto lo Stato è essenzialmente organizzazione della violenza dobbiamo esaminare la trasformazione delle sue strutture e le fonti a cui attinge la sua linfa vitale. Ecco perché, per esempio, si dovrà parlare anche della Chiesa in quanto Stato Pontificio, cioè Stato nel senso più politico della parola col suo esercito e con un apparato di potere che va molto al di là del territorio direttamente controllato.

Prima di entrare in argomento è bene accennare subito ad una vecchia controversia fra marxisti e ideologi borghesi sulla valutazione del feudalesimo perché essa investe tutta la concezione del movimento della storia umana. I borghesi, in nome della superiorità e presunta eternità del capitalismo, descrivono il feudalesimo come un periodo di rinculo generale, di caduta nell’oscurantismo e nell’autoritarismo “antidemocratico”. Non c’è dubbio che nel trapasso dalla società schiavista a quella feudale si sia registrata una caduta della curva della produzione, ma si è trattato solo di un fatto transitorio, anche se certamente lungo. Ciò avviene ogniqualvolta da un modo di produzione si passa ad uno successivo e la durata della ripresa in cui si vanno formando le nuove strutture in questi trapassi non è sempre identica.

Non esiste un censimento preciso della popolazione nel periodo del tardo Impero romano ma da varie testimonianze sembra di poter dedurre una cifra di non più di 120 milioni di umani, distribuiti in un Oriente sovrappopolato ed un Occidente scarsamente abitato: in Italia si parla di soli 6 milioni, prevalentemente concentrati nelle città mentre le campagne sono quasi vuote. Questa condizione di penuria e dispersione della forza lavoro umana, assieme all’elevato grado di generale instabilità e insicurezza dovuta alle invasioni, aiutano, con quanto andiamo ad analizzare, a spiegare e capire il lento ripartire dello sviluppo delle forze produttive, che comunque avvenne.

Per i marxisti anche il modo di produzione feudale fu un progresso: senza di esso non si sarebbero avute né le nazionalità moderne, né il capitalismo, né l’attuale forma statale, che gli ideologi borghesi adorano. Grazie alla protezione delle strutture politiche e militari feudali e alla relativa organizzazione sociale, le forze produttive e la produttività del lavoro hanno raggiunto livelli mai toccati sotto lo schiavismo dell’antichità. È in questo periodo, specialmente presso le abbazie e i grandi monasteri, che nasce la prima forma di meccanizzazione dei processi produttivi grazie alle invenzioni di rudimentali ma efficienti macchine che dovevano sostituire il lavoro prima svolto dagli schiavi, come ad esempio il mulino e la sega azionati dall’energia idraulica. L’assenza dell’enorme massa del lavoro coatto, che rendeva superfluo se non inutile ogni progresso tecnico, si rivelò un grande stimolo per lo sviluppo delle forze produttive attraverso il risparmio ed un più attento utilizzo dell’energia della forza lavoro.

Come abbiamo descritto nell’ultimo periodo dell’impero romano, dopo la piccola produzione anche la grande, basata sul lavoro di grandi masse di schiavi, a causa del rincaro di questi, cessò di essere rimuneratrice: la schiavitù non conveniva più perché risultava troppo oneroso e pericoloso intraprendere altre guerre di conquista per procurarsi nuovi schiavi. Gli stessi grandi proprietari furono costretti a liberarne una parte per trasformarli in coloni, che divennero una specie di precursori dei servi del Medioevo, qualcosa di mezzo fra gli schiavi e gli uomini liberi; non potevano più essere uccisi, ma restavano legati alla terra su cui lavoravano e potevano essere venduti con essa. Si può dire però che questi lavoratori cominciavano a sentire già un proprio interesse alla produzione, da cui traevano parte del loro sostentamento e quindi il loro lavoro risultava già più produttivo di quello degli schiavi.

Ma il frazionamento dei latifondi in piccoli poderi affidati ai coloni, se pur segnò un primo passo verso la trasformazione del modo di produzione, costituiva sempre e solo una riforma intesa a perpetuare lo sfruttamento del lavoro da parte delle vecchie classi padronali e l’esercizio del loro potere politico.

Questo processo evolutivo era comunque il frutto di lotte sanguinose sia interne sia esterne all’Impero. Fu accelerato e portato a compimento attraverso l’impiego di una più intensa e massiccia violenza: quella dei barbari che da tutte le parti invasero il territorio dell’Impero e ne provocarono la definitiva caduta. Ma chi erano costoro, e perché vinsero?
 

6. I Germani

Furono soprattutto le tribù germaniche, allora dislocate grosso modo tra il Reno e l’Elba. Erano spinti a loro volta verso Sud dalle incursioni sulle loro terre di altri popoli migranti, di origine asiatica e mongola, in cerca di nuovi territori, chiamati Jong-Nu dai cinesi, ai quali non bastò la loro Grande Muraglia per fermarli. Successivamente gli stessi, chiamati Unni, diretti verso Occidente, non si preoccuparono minimamente del malandato limes eretto dai romani, ridotto in alcune parti ad una discontinua palizzata di legno. Muraglie e frontiere fortificate reggono finché c’è un valido esercito a presidiarle: da sole servono a poco.

La spiegazione del “potere magico” di queste genti va da noi, al solito, ricercata nella sfera dell’economia. È così infatti che Engels, in opposizione alla storiografia sciovinista, pose il problema dell’origine e della formazione della società feudale: «Ma qual è dunque il misterioso sortilegio grazie al quale i Germani iniettarono nell’Europa agonizzante una nuova forza vitale? Sarà una virtù miracolosa inerente al popolo germanico, come ci raccontano i nostri storici sciovinisti? Niente di tutto questo. I germani erano, soprattutto a quell’epoca, un ceppo ariano fortemente dotato e in piena evoluzione. Ma non sono le loro qualità nazionali specifiche che hanno ringiovanito l’Europa, ma semplicemente... la loro barbarie, la loro organizzazione gentilizia».

Ultimato il periodo delle grandi migrazioni continentali, tramite il nomadismo stagionale con carri trainati da animali, che custodivano tutte le risorse delle tribù, diverse grandi comunità divengono stanziali in ampi territori del Nord Europa adatti al pascolo e a una limitata agricoltura. Prima la divisione naturale del lavoro – secondo il sesso e l’età, con la caccia affidata agli uomini e la raccolta di frutta e radici alle donne – poi quella sociale – comunità intere o membri di essa dediti solo all’allevamento o all’agricoltura o ai mestieri – rese sempre più necessario lo scambio dei prodotti, fino ad allora creati e consumati all’interno delle stesse comunità.

Quando la produttività è tale che una famiglia può produrre meglio da sola molto di quello che consuma, il lavoro e la produzione in comune cessano di essere una necessità assoluta. A questa evoluzione non poteva più adattarsi nemmeno la proprietà comunitaria di tutte le condizioni di esistenza e la ripartizione egualitaria. Nasce così la proprietà privata come necessità economica e l’interesse familiare o individuale si viene a sovrapporre a quello della gens che è destinata a disgregarsi. Al regime gentilizio e di comunismo primitivo succede quello basato sulla comunità rurale o “marca” (in Russia “mir”) in cui gli strumenti di produzione diventano proprietà privata; la terra arabile viene divisa fra le famiglie mentre quella destinata al pascolo e al bosco rimane ancora proprietà comune.

I Germani fino ai tempi di Cesare vivevano ancora organizzati in gentes, cioè in comunità più o meno grandi unite dal vincolo della consanguineità, le quali possedevano in comune tutti i mezzi della produzione, gli oggetti del lavoro e i prodotti del lavoro. La terra era quasi tutta proprietà comune, ad eccezione dei pochi possessi di una aristocrazia guerriera; questa ineguaglianza di ricchezza è un prodotto del processo economico nel quale la guerra, in quanto una delle loro condizioni di esistenza, vi aveva giocato un ruolo molto importante. Da allora, fino a quando invasero l’Impero romano, lo sviluppo delle loro forze produttive aveva fatto grandi e rapidi passi avanti. La conquista delle terre romane affretterà il processo di disgregazione del sistema sociale delle gentes.

Un elemento di debolezza era costituito dal fiero antagonismo fra gentes, per cui queste popolazioni di solito non giungevano che a costituire entità locali di ridotte dimensioni, quando una tribù più potente delle altre assoggettava a sé, in una sorta di vincolo clientelare, gentes affini e limitrofe. Occorse molto tempo prima che giungessero a saldarsi in organismi più vasti e potessero così costituire un’autentica minaccia per Roma. Le loro carovane erano formate mediamente di 30-40 mila individui, difficilmente superavano la soglia dei 100 mila. In questi continui spostamenti il trattamento riservato ai popoli sottomessi variava secondo la resistenza che essi opponevano: dai casi di totale sterminio alla pacifica fusione. I vinti, che non venivano ridotti in schiavitù perché la schiavitù non era compatibile col nomadismo e questa si sviluppò solo dopo la conversione alla sedentarietà e all’agricoltura, quasi sempre venivano federati e arruolati.

Il segreto della forza militare dei germani risiedeva dunque nella loro organizzazione sociale fatta di uomini liberi, abituati al lavoro della rude vita naturale e temprati nella continua lotta con le tribù vicine. La totalità degli uomini idonei alle armi erano ordinati nelle Sippe, basate su vincoli parentali, che costituiva l’esercito che si schierava in battaglia adottando la formazione a cuneo. I capi militari, scelti in un primo momento per il maggiore valore guerriero e poi fra le famiglie più ricche e valorose, venivano eletti dalle assemblee popolari. Tutto ciò dava ai Germani, che invasero l’Impero romano essenzialmente con la fanteria, una coesione interna formidabile che la più severa disciplina non poteva assicurare alle legioni romane del tardo Impero.

I Germani però erano assai inferiori ai legionari per armamento: in genere assolutamente restii ad indossare qualsiasi tipo di corazza, talvolta avevano spade senza punta adatte solo a colpire di taglio.

La strategia militare adoperata dai Germani corrisponde a quella che Engels dimostra, sulla scorta delle più grandi battaglie della storia, essere la più efficace. Fu la felice combinazione dell’azione difensiva e di quella offensiva delle loro formazioni quadrate, effettuata in due tempi diversi e nelle condizioni più idonee: resistenza e durezza fino all’indebolimento dell’attaccante nella prima fase, rapida e compatta forza d’urto nella seconda. Il piano di battaglia era solitamente molto semplice e si basava sul coraggio e il valore dei singoli trascinati dagli ancor più valenti loro capi. Concepivano la guerra come uno scontro diretto fra singoli guerrieri e non avevano alcuna esperienza negli scontri contro muri di pietre e negli assedi di fortezze, contro le quali si fermava il loro impeto.

Più volte i Romani, sotto Augusto, tentarono di estendere il loro dominio sui territori occupati da quelle libere tribù ma sempre furono respinti: o in seguito a rivolte o ad azioni di guerriglia o in regolare scontro in campo aperto, come in quella famosa battaglia di Teutoburgo (9 d.C.), durata tre giorni, che Engels considera “una svolta fra le più decisive della storia”. Infatti da allora i Romani, considerando una vittoria sui Germani troppo onerosa, rinunciarono del tutto ai loro piani espansionistici oltre il Reno e il Danubio. Nei due secoli successivi non restarono che contatti affidati a mercanti e missionari, eccetto le due guerre minori per il controllo regionale del Danubio contro i Marcomanni (167-180 d.C.), vinte dalle legioni romane, pur decimate dalla peste che era scoppiata tra i ranghi e che poi avrebbe condotto a morte un quarto circa degli abitanti dell’impero. Durante questo periodo le forze produttive dei Germani seguirono uno sviluppo proprio ed assai accelerato, mentre quelle romane decadevano. Nel terzo secolo essi furono già in grado di iniziare l’offensiva; nel quarto divenne quasi irresistibile e nel quinto pose fine all’Impero con grandi invasioni: Ostrogoti in Italia, Visigoti in Spagna, Franchi in Gallia, ecc.

Notizie più dettagliate sull’organizzazione sociale dei popoli del Nord le abbiamo dalle cronache sui Longobardi: questi entrarono in Italia nel 568 attraverso il passo Predil nel Friuli sotto la guida di Alboino, che aveva preparato con estrema cura l’invasione riunendo per la prima volta molte gentes in un embrione di governo centrale; attaccò città importanti: Cividale, Verona, Pavia e Spoleto con spedizioni di diversi gruppi armati. Quei Longobardi erano circa 250.000, di cui circa un quinto, 50.000, guerrieri; tra questi gli arimanni erano i guerrieri più importanti, posti al comando di territori più difficili, e gli adalingi i nobili. Le altre due classi erano gli aldii, i semiliberi, obbligati a coltivare le terre dei guerrieri e dei nobili, e, sotto tutti, gli schiavi. I nobili e i guerrieri erano divisi in fare, stirpi, che raggruppavano diverse famiglie imparentate fra loro; le fare erano riunite in centurie e a capo di più centurie c’era un duca. Sopra tutti il re che per governare si serviva di funzionari chiamati gastaldi, dei duchi e di nobili meno importanti, legati fra loro e col re dalla fedeltà personale. Il sistema delle gentes, come si vede, non si era modificato col passare dei secoli.

Ad ogni invasione si apre un nuovo periodo di lotte sanguinose e di contrasti più vari: economico-sociali, militari, giuridici e religiosi. È un processo storico di formazione dell’ossatura della società feudale che sorge sulle rovine della vecchia, in cui l’economia, sempre più ruralizzandosi, sposta la popolazione verso la campagna, come già si era verificato durante il Basso Impero.

Le varie ondate di barbari accelerarono il processo evolutivo verso la nuova organizzazione sociale, sempre più basata sulle grandi proprietà terriere conquistate con la guerra e modificarono profondamente la stessa organizzazione gentilizia dei conquistatori. Questi infatti, seguendo i loro vecchi usi, impossessatisi delle terre pubbliche dell’Impero e di quelle private dei latifondisti, ne tennero per sé solo un terzo, quelle meglio coltivabili, lasciarono le altre ai vecchi proprietari, e gestirono in proprietà comune con loro il bosco, il pascolo e le acque.

Ma la dispersione su una vasta area geografica del numero relativamente limitato dei Germani, portò all’allentamento dei legami di parentela dei clan; la classe dei liberi e la loro assemblea popolare scomparvero mentre l’aristocrazia militare, divenendo ancor più un’aristocrazia terriera, si innalzava sempre più. I capi militari, appoggiandosi al loro seguito di guerrieri, si trasformarono progressivamente in re con sempre più estesi poteri. Ma gli organi militari non potevano da soli sostituire completamente le strutture e le funzioni del vecchio Impero. La nuova monarchia barbara dovette appoggiarsi anche ad elementi dell’aristocrazia romana, delle cui conoscenze tecnico-economiche e di governo, senz’altro più progredite, non poteva fare a meno. Così si formarono i primi Stati feudali, detti romano-germanici. Anche qui si conferma la nostra tesi che il legame tra forze produttive e rapporti sociali non si interrompe mai.

Sotto questi regni, specie sotto la dinastia merovingia dei Franchi, si andava sviluppando, in mezzo a lotte continue, tra il V e VIII secolo, un duplice processo di concentrazione della proprietà terriera. Un processo dall’alto: i re erano costretti a fare sempre nuove concessioni di terra (feudi) ad elementi del loro seguito (vassalli). Un processo dal basso: i piccoli contadini rovinati dalle continue lotte preferivano cedere i loro fondi a grandi signori, a chiese, a conventi, per riceverli in concessione (beneficium), con l’obbligo di prestazioni personali come già era iniziato sul finire del tardo Impero.

Da ciò risultava da una parte l’indebolimento dell’autorità regia di fronte a quella della nobiltà terriera, dall’altra lo scadere dei produttori liberi nella condizione di semi liberi e di servi della gleba. La fisionomia della società feudale si andava facendo sempre più chiara: la popolazione divisa nelle due classi distinte dei servi e dei signori, la prevalenza della campagna sulla città, il frazionamento del potere politico fra i feudatari. Questi già nel 614 fecero giurare al re merovingio Clotario II un documento per il riconoscimento dei loro diritti.

Esteriormente sembra che nulla sia cambiato nel trapasso dal modo di produzione schiavistico a quello feudale perché le classi fondamentali della società, grandi proprietari e contadini oppressi, sembrano essere rimaste le stesse. Ma non è affatto così. Nella Storia della Germania moderna, Mehring così si esprime: «La nuova società, signori e servi, era una stirpe formata da veri uomini, se confrontati con i loro predecessori romani. Il rapporto fra grandi e potenti proprietari e contadini asserviti, che per il mondo antico era stato l’ultimo gradino della decadenza, ora invece era il primo gradino di una nuova generazione».
 

7. Formazione e nascita del potere temporale e fondiario della Chiesa

Dopo l’azione eversiva svolta dalle prime comunità cristiane in seno alla società schiavistica, il cui successo fu dovuto alla rivoluzionaria ed efficace predicazione dei primi Padri, il Cristianesimo subì profonde trasformazioni interne. In seno alle prime comunità, organizzate secondo un comunismo primitivo di consumo, s’era pian piano affermata quell’aristocrazia che è il clero. Questo, sorto dalle necessità di direzione e di guida delle comunità, finì poi per sovrapporsi ad esse. Le comunità stesse finirono per differenziarsi e, nella suprema istanza dei loro Vescovi che era il Concilio, finirono per predominare i vescovi delle comunità più ricche e più importanti: fu così che il Vescovo di Roma divenne il capo della cristianità.

L’editto di Milano del 313 emanato dall’imperatore romano Costantino segna l’inizio della formazione del potere temporale della Chiesa con la concessione, tramite la controversa “donazione”, di grandi privilegi materiali ma soprattutto di estese proprietà terriere, principalmente attorno a Roma e nel Lazio, sottratte agli avversari sconfitti o al demanio pubblico, in cambio dell’appoggio politico. Lo scopo era conservare e difendere l’unità dell’Impero: il sostegno della Chiesa, già grande forza organizzata, veniva ora richiesto e utilizzato per rafforzare la barcollante unità statale. L’imperatore però pretese a garanzia di tanto contratto di intervenire negli affari interni della Chiesa, atteggiamento detto “cesaropapismo”. Convocò infatti a Nicea nel 325 un concilio dei vescovi per dibattere e condannare la dottrina di Ario, la cui ulteriore diffusione ed eventuale scissione dogmatica avrebbe fortemente minato l’unità e la potenza della Chiesa. Tale integrazione nella gestione del potere statale fu poi ribadita da Teodosio I, l’ultimo imperatore degno di questo nome, nel 391, quando il Cristianesimo diventò unica religione di Stato; si capovolse la situazione ed i pagani cominciarono ad essere perseguitati (pagani così detti in modo dispregiativo perché gli antichi culti si conservano soprattutto nei “pagi” i villaggi di campagna).

Ma fu il definitivo spostamento della capitale da Roma a Costantinopoli, voluta da Costantino, che di fatto rese il vescovo di Roma l’autorità più alta nell’antica città dei Cesari; tra il V e il VI secolo, aveva accresciuto il suo potere e stabilito definitivamente il suo primato tra gli altri vescovi. Roma diventerà, man mano che “il patrimonio di san Pietro” aumentava considerevolmente, sempre più la città del Papa, non senza forti scontri con la grande nobiltà e proprietà fondiaria, laziale prima, feudale e imperiale poi. Ma fu nel 728, con la donazione alla Santa Sede della città di Sutri da parte del re longobardo Liutprando, che ufficialmente iniziò il potere temporale della Chiesa con la nascita dello Stato pontificio, che via via cresceva in estensione e potere mediante donazioni varie, guerre e confische. Vescovi e papi divennero quindi anche capi politici delle popolazioni loro sottomesse e dovettero occuparsi, oltre alle cure spirituali, della produzione dei beni materiali, la loro distribuzione, dell’amministrazione delle grandi proprietà e della macchina statale, stipulare alleanze per aiuti militari, trattando almeno alla pari con le altre potenze statali, e organizzando la difesa contro gli invasori.

In questo processo inizialmente fu molto importante l’esperienza del sistema delle abbazie e dei grandi monasteri, vere unità produttive. «Durante tutto il Medio Evo i monasteri restarono istituti modello di economia agricola» (Mehring). I re erano d’accordo nel sostenere la Chiesa per essere a loro volta appoggiati dal successore di Pietro.

La Chiesa d’Oriente si separerà da quella di Roma con lo scisma di Fozio nel VIII Concilio ecumenico, nel 870, e definitivamente nel 1054 con Michele Cerulario.
 

8. Il sorgere delle due massime potenze medioevali: Chiesa e Impero

La nuova classe dominante risultava quindi dalla fusione di due aristocrazie: quella germanica e quella della popolazione assoggettata. Quest’ultima poi era composta di elementi laici ed ecclesiastici, vescovi, monasteri, ecc. Questo processo di amalgama non si è svolto in modo graduale ed incruento. Siccome la Chiesa nel suo insieme era la maggior proprietaria terriera (un terzo delle terre erano sue), tali contrasti si sono svolti sotto la patina religiosa: i barbari erano seguaci della erasia di Ario o pagani, mentre i romani erano cristiani, seguaci del Papa romano.

Il segno della avvenuta alleanza, cioè della composizione dei contrasti di interessi, non poteva essere che quella della conversione dei barbari al cristianesimo. Un tale evento significava ovviamente il rafforzarsi delle monarchie barbare, della loro stabilità politica, la maggior durata dei loro regni ed anche il predominio sulle altre. Alla conversione di Clodoveo e dei suoi sudditi si deve la prima affermazione della monarchia franca. Grazie a tale alleanza queste due potenze, monarchia e Chiesa romana, poterono riunire tutte le sparpagliate forze feudali ed organizzare la difesa militare della società feudale dagli attacchi degli Arabi che, sbarcati nel 711 in Spagna ed occupatala tutta, si erano riversati minacciosi in Francia, dove a Poitiers furono fermati da Carlo Martello.

La vittoria militare, in cui si afferma il nuovo esercito feudale basato sulla cavalleria, mette un punto fermo sugli interessi della nuova classe dominante e porta alla costituzione dell’Impero che, insieme alla Chiesa, costituirà il maggior organo di potere. Il carattere di queste due potenze politiche, Chiesa ed Impero, non può che presentarsi universalistico: il loro compito più importante è quello della difesa militare dell’Europa occidentale dalle invasioni musulmane e di altri barbari, mentre essa muove i primi passi della sua formazione e del suo sviluppo. Se in un primo tempo sono la dinastia Carolingia ed il Sacro Romano Impero ad organizzare la ripresa contro il minaccioso mondo islamico, in un momento successivo tale compito se lo assumerà la dinastia degli Ottoni ed il Sacro Romano Impero della nazione germanica contro le irruzioni degli Ungari ed Avari nella memorabile battaglia di Lechfeld nel 955.

Se è vero infatti che le invasioni dei barbari sono state salutari per la nascita della nuova società feudale, è altrettanto vero che l’irruzione continua di nuove popolazioni sotto la spinta di movimenti migratori di vari popoli (Sassoni, Ungari, Unni, Avari) avrebbe impedito a tale società di stabilizzarsi, crescere e svilupparsi.

L’impero medioevale, vero mosaico e aggregato di popoli, non ebbe nulla di simile allo Stato accentrato che fu quello romano. Le sue strutture politico-amministrative furono molto diverse: non una burocrazia stipendiata ma una gerarchia che viveva di rendite di terre ricevute in concessione a conti, marchesi, vescovi e missi dominici, tutti legati dal vincolo personale di fedeltà all’imperatore tipica della vecchia concezione germanica del popolo come esercito. L’esercito imperiale all’ordine di guerra veniva ad organizzarsi attraverso tutta una serie di movimenti di tale complesso gerarchico formato dai signori feudali, che dovevano mettere a disposizione le loro rispettive forze militari costituendo un indefinito mosaico di formazioni che rifletteva quello analogo e variegato della società civile: l’esercito era quindi formato da fanti e cavalieri secondo le loro personali disponibilità.

In epoca carolingia i cittadini dovevano provvedere al proprio equipaggiamento e mantenimento in base al loro patrimonio fondiario misurato sulla base del manso, ovvero l’estensione del terreno sufficiente a mantenere una famiglia. Al di sotto dei 4 mansi si era esonerati dalla chiamata alle armi, latifondisti e grandi monasteri dovevano fornire un numero di soldati pari al numero dei mansi diviso per 4; al di sopra dei 12 mansi c’era l’obbligo dell’armatura completa. Chi si sottraeva al servizio militare pagava un’ammenda di 160 soldi pari al costo di un soldato. Era esonerato chi entrava negli ordini religiosi, con l’obbligo però di designare in sua vece un laico e provvedere al suo armamento e sostentamento. Molti piccoli proprietari per sottrarsi agli obblighi di leva preferivano rinunciare ai loro appezzamenti, porsi sotto la protezione dei latifondisti e scendere da uomo libero a una sorta di servo della gleba scardinando così il loro vecchio ordinamento sociale.

In questo frammentato Impero fu l’autorità centrale che svolse un suo ruolo storico molto progressivo nei primi tempi dell’Alto Medioevo, il che spiega la sua lunga secolare durata e, quando esso diventerà conservatore e reazionario, la sua sopravvivenza, sia pure fittizia e nominale, alimentata del passato. Se per quasi un secolo, dalla fine secolo IX alla fine del X, l’imperatore cedette il posto al particolarismo feudale, lo si deve sia al fatto che durante quel lasso di tempo mancarono gravi pericoli esterni, sia alla crisi di adolescenza, cioè di crescenza, delle forze feudali aspiranti a raggiungere la massima autonomia: solo col Capitolare di Kiersy dell’877, i feudatari maggiori si fecero riconoscere il diritto all’ereditarietà dei feudi.

Questa impalcatura imperiale servì sempre gli interessi generali della classe feudale, tanto nella fase di evoluzione quanto in quella di decadenza. Nella fase iniziale, Impero e Chiesa costituivano quasi un organo unitario con due capi: l’uno temporale e l’altro spirituale. Successivamente queste due forze vennero in contrasto e riempirono i secoli con il fracasso delle guerre combattute per il predominio e per la direzione della società feudale nel suo insieme. Tali violente lotte terminarono con la vittoria del Papato come testimonia la pesante umiliazione dell’imperatore Enrico IV sopportata nel 1077 a Canossa, di fronte al papa Gregorio VII.

«Uno dei motivi principali della superiorità dimostrata dal Papato nei confronti dell’Impero, era la forza maggiore che il papato sapeva dispiegare nella lotta contro i nemici esterni. In tal modo esso diventò molto più necessario dell’Impero ai popoli cristiani» (Mehring). Ma occorre aggiungere che non furono soltanto le ragioni di ordine militare che dettero la supremazia politica alla Chiesa, il cui ruolo storico è davvero secolare. Da quando divenne la religione ufficiale dell’Impero, la Chiesa, benché avesse da tempo esaurito ogni sua funzione eversiva dell’antica società schiavista, non cessò di diffondere alcune delle sue idee vagamente comunistiche, necessarie per la consolazione delle diseguaglianze sociali. Intanto si affermava sempre più come potere politico durante il Medio Evo in cui svolgerà un ruolo di primo piano, e non certo come istituto di beneficenza. I funzionari di cui ebbero bisogno i regni romano-barbarici e l’Impero li fornì soprattutto il Clero, che era il solo a saper leggere e scrivere. Ma, a parte queste funzioni sociali, il potere politico della Chiesa Medioevale poggiava su una solida base economica: la rendita fondiaria delle sue terre e la decima, unica imposta generale dei tempi.

Quanto abbiamo detto circa il ruolo storico per l’Impero, va ripetuto per la Chiesa. Anche essa, in quanto forza politica, dovrà decadere dopo che una nuova realtà sociale si sarà sviluppata nel seno della vecchia società feudale, con quelle forze politiche e militari che faranno infine trionfare la nuova.
 

9. Sviluppo della società feudale. Sua espansione militare

Grazie alla difesa armata dell’Europa che le forze feudali seppero esprimere, le forze produttive poterono compiere i primi passi sulla via dello sviluppo che, manifestatosi per la prima volta nel secolo XI, non conoscerà più soste nei successivi, sospinto anche da un continuo aumento della popolazione. Gli abitanti dell’Europa passarono da 42 a 46 milioni fra il 1000 e il 1050; nel 1100 erano 48, arrivarono a 50 milioni verso il 1150, 61 nel 1200 per crescere ancora fino a 69 milioni verso il 1250. Purtroppo alla prima carestia del 1313 ne seguirono altre; la terribile epidemia della peste nera iniziata nel 1348 ed altre fino al 1384 svuotarono le campagne e le città di tutta l’Europa al punto che i censimenti dei principali Stati intorno al 1500 registrano popolazioni ancora nettamente inferiori; emblematico il caso dell’Italia dove la popolazione fu quasi dimezzata: da 9,5 milioni del 1340 ai 5,5 del 1500!

All’economia naturale di autosufficienza, in cui agricoltura e artigianato erano intimamente associati, grazie a tutto un sistema di monopoli feudali, seguirono man mano una maggior divisione sociale del lavoro, una più elevata produttività ed un estendersi degli scambi ed un aumento della popolazione. Le colture agricole migliorarono e se ne introdussero delle nuove; si estese l’allevamento, specie dei cavalli per i bisogni militari. I mestieri seguirono lo stesso generale sviluppo e si specializzarono sempre più grazie al perfezionamento continuo degli utensili artigiani.

Naturalmente, questa evoluzione fu assai lenta e si svolse in mezzo a mille ostacoli. Il motore di tale sviluppo risiedeva nella comunità di marca, formata da uno o più villaggi aventi in comune la proprietà dei pascoli, del bosco e delle acque. Essa costituiva anche la base del comune cittadino medioevale: infatti la sua popolazione formata in prevalenza da artigiani e commercianti era organizzata rispettivamente in corporazioni e gilde, cioè in organismi svolgenti funzioni tecniche, economiche ed anche militari. Essendo queste le basi economiche del regime feudale, non c’è da meravigliarsi dell’isolamento politico delle varie comunità e della fragilità del potere statale impersonato dal re, il quale, in mezzo ai feudatari, altri non era che un primo fra eguali, in quanto la sua proprietà era solo maggiore di quella di ciascun signore.

Le forze feudali pur così sparpagliate sentirono ugualmente il bisogno di espandersi. La fame di terre aveva già prodotto varie crisi interne al sistema: lotte fra grande feudalità e monarchia, tra feudalità laica ed ecclesiastica, tra piccola e grande feudalità. Come i maggiori signori feudali anche i minori tendevano ad ottenere il riconoscimento del diritto ereditario dei feudi e degli altri privilegi. Era quindi necessario uno sbocco che risolvesse in qualche modo queste varie spinte espansive, ma occorreva pure vincere ostacoli di natura militare.

Ancora una volta la Chiesa, mettendosi alla testa delle forze militari feudali, assolverà un nuovo compito generale dell’intera società, riuscendo a riunire sotto il suo unico comando tutte le forze sparpagliate. Grazie alla sua alleanza con i Normanni, liberò la Sicilia dagli Arabi e con ciò ripristinò l’unità del bacino del Mediterraneo ristabilendo la navigazione e gli scambi dell’Occidente con l’Oriente. Da allora i porti della Francia, dell’Italia, Pisa, Genova e Venezia, e della Spagna conosceranno uno sviluppo mercantile sempre crescente, finché la conquista di Costantinopoli da parte dei Turchi nel 1453 non li costringerà a circumnavigare l’Africa. Oltre a queste importanti azioni militari, i Normanni, sempre aiutati dalla Chiesa, seppero mettere a punto, nello stesso periodo, altre e più organizzate spedizioni militari: celebre quella che li portò a sbarcare in Inghilterra dove, dopo la vittoria di Hastings nel 1066 da parte di Guglielmo I il Conquistatore, il feudalesimo, dalla Francia, sua culla originaria, si trapiantò e si diffuse nell’isola, creando però molti piccoli proprietari liberi, gli yeomen, i quali, più tardi, le assicureranno un rapido sviluppo economico e militare.

Cominciarono pure in questo periodo le Crociate in Terra Santa: oltre ai Normanni, sempre più spinti per fame di terra ad uscire dal loro paese d’origine, vi parteciparono prima i feudatari tedeschi, francesi e italiani, poi gli stessi imperatori e monarchi. Con le Crociate il feudalesimo si diffuse nel vicino Oriente. Nel settore occidentale abbiamo infine le lotte dei cavalieri spagnoli per la Riconquista dell’intero paese dalle mani degli Arabi.

Sempre la Chiesa, pur corrosa essa stessa dalle lotte interne prodotte dagli interessi dei diversi vescovi, seppe guidare questo moto espansivo che, in certe sue fasi, ebbe tutto il carattere di un imperialismo feudale: si ricordi l’Impero “latino” in Oriente, caduto nel 1261. Trovando nell’interno stesso del suo organismo plurisecolare, ma non ancora vecchio, le energie per ristabilire l’unità del comando, la Chiesa seppe suscitare e diffondere quell’idea passionale e quella mistica della Guerra Santa, chiamando alle armi la intera cristianità.
 

10. La cavalleria

I Germani, che invasero l’Impero romano, lottarono essenzialmente con la fanteria in formazioni quadrate, disposte a cuneo nel caso di attacco concertato con molti reparti. Tuttavia, le nuove condizioni incontrate durante le invasioni modificarono, insieme alla loro organizzazione sociale, anche il loro esercito. Progressivamente essi passarono alla cavalleria e lasciarono il servizio a piedi agli abitanti delle regioni conquistate. La funzione della fanteria divenne sempre meno importante e disprezzata, mentre l’arma decisiva della battaglia diventò la cavalleria: il guerriero della società feudale è ora il soldato a cavallo.

Dato l’altissimo costo dell’armamento del cavallo, delle armi difensive (elmo, giaco di maglia, e poi corazza, scudo, ecc.) e offensive (spada, lancia, ecc.), cavaliere poteva diventare solo il proprietario fondiario; ai tempi di Carlo Magno solo uno su cinque uomini liberi era in grado di sostenere tali spese. La cavalleria quindi non è solo l’arma combattente fondamentale ma identifica direttamente la classe dei feudatari. Sia come arma militare sia come ordine feudale, la cavalleria subì col tempo una profonda evoluzione. La sua composizione sociale andò man mano cambiando a causa della particolare specializzazione guerriera e di altre necessità: dapprima aperta a tutti i ricchi poi accusò la tendenza a trasformarsi in casta ereditaria, per cui solo il sangue contava e non più il patrimonio. Le differenze di ricchezza fecero sì che i cavalieri passarono al servizio dei più facoltosi per difendere il feudo, in cui il centro della vita sociale era il loro castello.

Il continuo progresso nell’agricoltura, per esempio nella rotazione triennale e nell’estensione delle colture di avena, significò maggior produzione di cavalli, meglio selezionati, correttamente nutriti e più forti; il perfezionamento nella lavorazione dei metalli, bronzo e ferro, significò miglior armamento del cavaliere, tutte concause che determinarono un’evoluzione della tecnica di combattimento della cavalleria stessa.

L’introduzione della staffa, seguita a quella della sella, apportò una sostanziale modifica, trasformando il cavaliere da arciere in lanciere. La lancia infatti prima aveva una forza d’urto che utilizzava solo quella del braccio; con la staffa, invece, ad essa si somma anche la forza del cavallo lanciato in corsa. Così la tattica della battaglia ne risultò del tutto trasformata: agli attacchi a distanza si sostituì lo scontro violento del corpo a corpo; le armi e l’armatura divennero più pesanti, perfino il cavallo fu corazzato. La battaglia venne decisa con la carica a cavallo, con la quale, riuscendo a sbalzare di sella l’avversario, lo si metteva fuori combattimento perché, gravato com’era dall’armatura, non poteva più rialzarsi. Altra differenziazione: il cavaliere pesantemente armato e quello con armatura leggera. Di qui la nuova unità tattica della cosiddetta “lancia”, composta di 3, 6 o 8 uomini, dei secoli XIV e XV: il cavaliere, con pesante armatura e a cui era affidata la funzione decisiva nel duello, è seguito da altri con armatura leggera, e da arcieri, che possono considerarsi piuttosto come dei fanti montati in quanto il cavallo serve loro sostanzialmente come mezzo di trasporto.

Il progressivo e infine rapido sviluppo delle forze produttive produsse continui miglioramenti nel sistema militare con la costruzione di castelli e fortezze sempre più massicci e imponenti, veri capolavori di ingegneria militare, per conquistare i quali, oltre al consueto uso dell’inganno e del tradimento, erano necessarie nuove armi e macchine per l’assedio ancora più potenti. Lo stesso per l’armamento del fante cui venne fornita la balestra, derivata dall’antica balista romana, per forare le robuste corazze dei cavalieri; essa lanciava dardi pesanti con una forza d’urto così devastante, producendo terribili e incurabili lacerazioni, che in seguito una bolla papale ne proibì l’uso nelle battaglie tra eserciti europei, ma non contro gli infedeli!

Non staremo qui a seguire le continue modifiche tecniche e organizzative dei sistemi di armamento succedutisi e le conseguenti strategie militari rese possibili dall’altrettanto sviluppo sociale e produttivo: tutto mutò poi profondamente con il progressivo uso delle armi da fuoco.

Quanto al carattere delle guerre feudali combattute soprattutto con la cavalleria, il Mehring osserva nella sua Storia dell’arte militare che, se è vero che il feudalesimo rimbomba continuamente del fragore delle armi, è pur vero che le campagne militari sono di breve durata e gli eserciti sono minuti; Engels afferma che le grandi battaglie feudali impegnavano da 800 a 1000 cavalieri. Inoltre, pur ammettendo che la strategia utilizzata puntava all’annientamento e alla morte dell’avversario (Ermattungsstrategie) occorre riconoscere che questa distruzione non riguardava che i militari.

La borghesia rivoluzionaria, con Napoleone, istituisce, è vero, la Niederwerfungsstrategie, ovvero la strategia che mira alla sola sconfitta militare, solo rendendo inoffensivo l’avversario; ma questo scopo puramente militare è in ultima analisi frustrato dalle necessità del tutto nuove della guerra borghese-capitalistica, che mira essenzialmente a distruggere un’immensa quantità di ricchezze, di cose e di uomini, per cui la Niederwerfugsstrategie si trasforma in un vero macello, in una Ermattungsstrategie alla scala di popoli interi.
 

11. Il declino delle forze medievali

Le Guerre Sante, svoltesi tutte sotto il segno della croce, ebbero tutte un carattere offensivo chiaro con obbiettivi territoriali ed economici ben precisi. Fra esse ebbero grande importanza anche quelle condotte dagli ordini religiosi e militari dei cavalieri teutonici che portarono alla colonizzazione germanica delle terre dell’Europa Nord-Orientale e dei Paesi Baltici. La evangelizzazione di questi popoli con la conversione al cristianesimo, significò il loro passaggio forzato al modo di produzione feudale.

Tutte queste guerre ebbero in seguito effetti di portata incalcolabile sulla evoluzione delle forze produttive perché svilupparono i germi di una nuova realtà economica e di grandi trasformazioni sociali che prepararono la dissoluzione della società feudale. Contribuì poi alla formazione di nuove forze politiche anche lo scontro militare fra Impero e Papato nella cosiddetta lotta delle investiture, come espressione delle contraddizioni in cui si andavano impigliando sempre più queste due massime potenze.

L’esito di tale duello, mentre non risolve i problemi che lo avevano generato, portò ad un indebolimento dei protagonisti. I Signori feudali ne approfittarono ma, divisi in Guelfi e Ghibellini (rispettivamente partigiani della casa di Baviera e di quella di Svevia per la successione al trono imperiale), entrarono in nuovi reciproci conflitti. L’indebolimento della classe feudale nel suo insieme venne sfruttato dalla nuova classe in ascesa: la Borghesia, organizzata nei Comuni, con l’inizio di quel processo che farà assumere alla città sempre più importanza rispetto alla campagna, che era stata la “sede della storia del medioevo” (Marx). I primi nuclei di borghesi si costituirono nei borghi intorno alle vecchie città, composti in prevalenza di mercanti e di artigiani organizzati in Arti e Corporazioni ricalcati sulla Costituzione di Marca. Il movimento comunale, fenomeno generale europeo dei secoli XIII e XIV, prese il suo avvio per dar corso ad un nuovo ciclo di lotte sociali e politiche che ebbero un vero sapore rivoluzionario. La lotta dei Comuni contro i poteri feudali, rivolta ad ottenere le “franchigie”, ad abolire i vincoli di servitù, ad eliminare gli ostacoli alla circolazione delle merci, ad assicurare la protezione di fiere e mercati, ecc., si combatté con tutti i mezzi, principalmente con il denaro e con le armi.

La lotta però non si svolse dappertutto nello stesso modo, le sue forme particolari dipendevano dalla realtà politica in cui si svolgevano. Così accadde che in Francia il Comune borghese si appoggiò alla monarchia, a sua volta in lotta contro i grandi feudali e già con tendenza nazionale, mentre in Italia non c’era altra via d’uscita che quella dello scontro frontale con l’Impero per strappargli diritti sovrani e regalie.

Nel 1176 il Barbarossa fu sconfitto dalla Lega dei Comuni nella battaglia di Legnano, ma quella prima vittoria militare di forze borghesi assicurò ai Comuni solo una relativa autonomia in seno all’Impero, che veniva ancora riconosciuto come autorità suprema alla quale si dovevano sempre certi tributi. La lotta non sboccò in una guerra di indipendenza nazionale e, a dire il vero, questo fine non era stato nemmeno proclamato dalla Lega, perché la situazione generale storico-politica ed economica non era ancora matura; inoltre lo Stato pontificio si sarebbe energicamente opposto a tale disegno. Gli anni seguenti provarono infatti che proprio la presenza di quello Stato nel centro della Penisola ne impedì la unificazione politica. Per la stessa ragione la Germania rimase spezzettata per secoli: essa infatti era la sede dell’altra grande potenza medioevale, l’Impero.

Ma, se la lotta fra la Chiesa e l’Impero ritardò la formazione nazionale in Italia e in Germania, favorì invece altre forze nazionali, in primo luogo quella francese. In una contesa interna all’Impero, l’elezione al trono imperiale di Federico II, cui non rimaneva estraneo il Papato, si inserirono le monarchie ostili di Francia e Inghilterra: la guerra feudale acquistò il carattere di guerra fra Stati, e la battaglia di Bouvines (1214) fu un po’ la prima vittoria nazionale francese. Al contrario la monarchia inglese ne restò indebolita e le rivolte nobiliari poterono strapparle la Magna Carta Libertatum, che un consiglio dei ribelli doveva far rispettare; essa rappresentò il primo abbozzo della Camera dei Lords, alla quale la monarchia, verso la fine del secolo XIII opporrà la Camera dei Comuni, ovvero delle città.

L’ora del crollo di Impero e Chiesa si stava avvicinando e, come spesso accade nella storia, si verifica proprio quando le loro anacronistiche manifestazioni di potere politico si facevano sempre più esasperate.

L’Impero, nell’ulteriore lotta contro la teocrazia di papa Innocenzo III, e contro i Comuni italiani sostenuti da Federico II, espressione contraddittoria, costui, del vecchio e del nuovo mondo che sorgeva, iniziò quel vero e proprio inabissamento cui giunse in pieno verso la metà del secolo XIV e dopo il quale resterà solo un nome con l’unica forza viva ridotta al massiccio austro-boemo-ungherese.

Il Papato invece sperimentò la ultima sua pretesa di dominio universale col Papa Bonifacio VIII il cui sogno teocratico svanì clamorosamente nello scontro con la monarchia francese verso la fine del secolo XIII. Il re capetingio Filippo IV il Bello, alla sua scomunica, dovuta anche alla sua tassazione del clero, rispose convocando per la prima volta gli Stati generali, in cui i delegati della borghesia figuravano accanto a quelli della nobiltà e del clero francese. Qui il ruolo nazionale della corona è ormai in pieno sviluppo e svolge un ruolo centralizzatore delle sparpagliate risorse feudali. L’obbligo imposto ai vassalli di prestare personalmente il servizio militare viene sostituito con il versamento di somme in denaro, che servono per ingaggiare le compagnie di ventura ritenute più preparate e sicure. Non tarderà molto che il potere regale diventerà assoluto.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra

Il discorso di Trotski che qui pubblichiamo è ripreso da un dattiloscritto rinvenuto tra le carte dell’archivio di partito della vecchia sezione di Napoli. Una annotazione a lapis all’inizio del testo avverte: “Negli Scritti Militari la traduzione è molto più ristretta e dunque meno precisa di questa”

Era stato battuto a macchina a Firenze nel settembre/ottobre 1965 ed inviato al Centro oltre che a Napoli e ai compagni che stavano allora lavorando sulla “questione militare”. In una lettera della sezione di Firenze del 6 ottobre, indirizzata a Milano e Napoli, si legge infatti: «Ho rintracciato tra l’altro in opuscolo del tempo il discorso di Trotski del 21 aprile 1918 a Mosca sul “Il potere dei Consigli e l’imperialismo internazionale” con passi notevoli sulla organizzazione e la funzione dell’esercito rosso. Ne faremo copia anche per Roger ed Elio, ai quali interesserà per la questione militare».

L’opuscolo in questione, con ogni probabilità, era quello edito nel 1921 a Città di Castello per la casa editrice “Il Solco”. Questo è quanto siamo in grado di dire circa le “fonti” del documento.

Uno dei compiti principali che il partito si è sempre posto è stato quello di arricchire il proprio archivio di quanta maggiore documentazione concernente il movimento operaio in generale e la tradizione della sinistra rivoluzionaria in particolare. Questo non certo con intenti “collezionistici” ma, al contrario, per disporre di strumenti atti ad avvalorare le nostre posizioni di dottrina e di programma e poterle riaffermare con sempre maggiore precisione, in breve, per utilizzarli come armi contro i nemici ed i falsi compagni di strada.

La lettura dell’intervento di Trotski ci riporta con la mente a quegli anni luminosi e terribili. La forza oratoria del capo dell’armata rossa infonde entusiasmo ed eroismo nelle masse proletarie degli ascoltatori. Trotski annuncia quella che sarà la futura società comunista finalmente affratellata senza più guerra, senza più classi, senza più sfruttamento, ma non nasconde le difficoltà e le grandi battaglie che i comunisti e il proletariato avrebbero ancora dovuto affrontare e superare, pena il ricadere inevitabilmente nella schiavitù del regime capitalista internazionale. Cosa purtroppo poi avveratasi.

Trotski mette in evidenza e ribadisce i gravi problemi che affliggono il nuovo regime, nessuno viene taciuto o sottovalutato. La necessità di un esercito rosso per la difesa dai nemici esterni ed interni; di una ferrea dittatura del proletariato sulle classi sconfitte, senza concedere loro nemmeno l’illusione di poter vantare dei diritti nel nuovo regime. Nemmeno questo era sufficiente, non bastava schiacciare le classi nemiche e difendersi dagli eserciti invasori: in attesa dello scoppio della rivoluzione in Europa, per poter conservare il potere era necessario che il proletariato vincitore si desse una rigida organizzazione e disciplina del lavoro.

Sono affermazioni queste che fanno storcere più di un naso avvezzo alle sensibilità democratiche o libertarie e, fortunatamente per noi, ce li tengono lontani.
 
 
 
 
 
 
 
 

Il potere dei Consigli e l’imperialismo internazionale
Discorso di Trotski tenuto a Mosca il 21 aprile 1918
 

I compiti del comunismo e i doveri del proletariato russo

Compagni! La dottrina comunista o socialista si è proposta come uno dei suoi più importanti compiti il raggiungimento, in questo reo e vecchio mondo, di un tale stato di cose che gli uomini debbano cessare dall’avventarsi l’uno contro l’altro. Uno degli obiettivi del comunismo o socialismo è la creazione di un ordinamento tale da rendere, per la prima volta, l’uomo degno del suo nome. Noi siamo abituati a ripetere che la parola “uomo” suona “orgoglio”. Lo dice Gorki. Ma, in verità, se gettiamo lo sguardo su questi tre anni e tre quarti di sanguinosa carneficina, si potrebbe ben esclamare: “L’uomo!”, ciò suona “vergogna, vergogna!”

Orbene, creare una tale forma, un tale ordinamento sociale, in cui non si abbia alcuna reciproca sopraffazione di popoli, è questo il semplice e chiaro compito che ci pone dinanzi la dottrina del comunismo. Ciò nonostante, voi vedete, o compagni, che il partito comunista, al quale io appartengo, il partito cioè che ha nominato l’attuale assemblea, il partito dei comunisti bolscevichi faccia appello all’esercito rosso. Invitandolo ad organizzarsi e ad armarsi. In ciò sembrerebbe, a prima vista, di scorgere una profonda contraddizione.

Da una parte noi propugniamo la creazione di rapporti sociali tali che a nessun uomo sia lecito di togliere ad un altro il più prezioso dei beni: la vita; ed è questo il più alto compito, e uno dei più importanti del nostro partito, del partito mondiale internazionale dei lavoratori. D’altra parte, invece, noi vi chiamiamo nell’esercito rosso e vi diciamo: Armatevi, unitevi, imparate a sparare e imparatelo così bene e con tanto impegno che nessun colpo abbia a fallire!

A prima vista sembra questa una contraddizione; si sente qualche cosa che contrasta con l’ordinamento vagheggiato. E vi sono stati effettivamente comunisti che hanno seguito altra strada, che si sono avvalsi di altri mezzi e, anziché rivolgersi agli oppressi con le parole infiammanti: “Unitevi!, Armatevi!”, si sono rivolti agli oppressori, agli sfruttatori, ai potenti con parole di persuasione, dicendo loro: “Disarmatevi! Cessate di opprimerci!”

Parlavano ai lupi e pretendevano di togliere loro i denti! Così predicavano, basandosi su errati concetti, gli utopisti, cioè i socialisti comunisti ingenui. I loro sforzi erano indubbiamente nobili in sommo grado, ricordano il grande utopista Leone Tolstoi, il quale, propugnando l’avvento di un migliore assetto del mondo, credeva che si sarebbe potuto pervenirvi con un rinnovamento intimo degli oppressori. Ma invece le mire degli oppressori, i loro sentimenti, i loro istinti seguitano a trasmettersi di generazione in generazione: essi succhiano con il latte materno la loro tendenza al potere, all’oppressione, al dominio e credono che tutte le altre masse, le masse dei lavoratori, siano create proprio apposta per servire di base e sostegno al prepotere del loro piccolo gruppo, di quel ceto, cioè, privilegiato, che viene al mondo, per così dire, con gli speroni al piede per montare a cavallo sul collo del popolo lavoratore.

Compagni! Eccoci alle radici della questione. Noi propugniamo la creazione dell’ordinamento comunista, in cui nessun odio di una classe contro altre deve esistere, perché nessuna classe deve prevalere: nessun odio deve esistere tra popolo e popolo, perché i popoli, vivendo tutti sulla medesima terra, devono avere tutti comuni occupazioni ed intenti.

Ma, mentre noi auspichiamo un simile assetto mondiale, diciamo ai lavoratori: “Finché questo non è raggiunto, pensate che siete voi la sola potenza capace di realizzarlo! E pensate bene – e noi in Russia lo sappiamo anche troppo per esperienza! – pensate bene che le classi mondiali dominanti non cederanno su questo campo un solo palmo di terreno senza combattere; esse si aggrapperanno ai loro privilegi, ai loro beni, al loro potere con i denti e con le unghie, fino all’ultimo alito e semineranno discordia, malumori, disordine, caos, scompiglio fra la folla dei lavoratori al solo fine di poter conservare il loro potere.

Noi, in Russia, abbiamo compiuto soltanto il primo passo, abbattendo il dominio politico della classe borghese e instaurando quello della classe lavoratrice. La borghesia non ha più alcuna forza presso di noi, il potere è tutto dei lavoratori. Dire che esso è cattivo è dire che la classe lavoratrice è mal conscia di quello che le incombe. Essa ha tutto il potere che le occorre, e ne ha quindi tutta la responsabilità. Il potere è costituito a Pietrogrado, a Mosca, e in altre città può, in quanto esso è conferito dai lavoratori, essere in qualsiasi momento da essi stessi ritolto, potendo essi convocare il Congresso Panrusso dei Consigli (Soviety); essi possono, quando vogliono, rieleggere i Consigli, il Comitato esecutivo centrale, il Consiglio dei Commissari del Popolo. È questa la potenza della classe degli operai e dei contadini, dei contadini poveri; è questa la base su cui noi poggiamo!
 

L’Assemblea Costituente e l’opera della Rivoluzione

Ci si dice: “Perché non cercate di conseguire questo potere mediante il suffragio elettorale universale, uguale, diretto, segreto, con la formazione di una Assemblea Costituente?”

È vero; noi parteggiavamo per essa. Noi fummo sempre del parere che la Assemblea Costituente fosse di gran lunga migliore del regime zarista, di gran lunga migliore dell’autocrazia, dell’impero di Plehwe, dei briganti di Stolypin, della nobiltà; l’assemblea Costituente è indubbiamente di gran lunga migliore di tutto ciò.

Ma che cosa è l’Assemblea Costituente, che cosa è il suffragio universale? È un referendum di tutta la popolazione, una richiesta fatta a tutti di esprimere la propria volontà. Tutti nel paese vengono interrogati: i lavoratori e gli oppressi, gli oppressori e i loro servi del ceto intellettuale, che sono avvinti anima e corpo alla borghesia, servendo ai loro fini. A ciascuno si domanda, con il sistema del suffragio universale: “Che cosa volete? Ditelo per mezzo del voto”. E se, nel marzo o aprile dell’anno scorso, Kerensky avesse convocato l’Assemblea Costituente, questo sarebbe stato indubbiamente un passo avanti. Lo Zar era abbattuto, la burocrazia rovesciata; il potere non era ancora nelle mani dei lavoratori, ma in quelle di Guckov, Miliukow e simili.

Se allora, per mezzo dell’Assemblea Costituente, si fosse chiesto al paese: “Che cosa volete voi, uomini della Russia?”, si sarebbe avuta una risposta nettamente in antitesi con quella che avrebbero desiderato la borghesia e i suoi servi, che erano al potere. Poiché la rivoluzione consiste appunto nella ribellione delle classi oppresse contro gli oppressori.

Che cosa è una rivoluzione? Evidentemente per i Krestownikow e per i Riabuscinski essa consiste nell’abbattere lo Zar, di mutare un paio di ministri. Se si contenta di questo non è una rivoluzione: è, per così dire, l’aborto di una rivoluzione. Questa è una falsa origine storica: la vera, la sana origine storica si ritrova allorquando la classe lavoratrice, sollevandosi, prende nelle sue mani tutto il potere del paese e si accinge a creare un nuovo ordinamento, in cui non vi sia più alcuno sfruttamento di una classe sull’altra, in cui tutti i mezzi di produzione, tutte le ricchezze del paese si trovino a disposizione e sotto il controllo dei lavoratori. La classe lavoratrice è allora come un signore in un buon regime economico: il signore, il proprietario sa quanto terreno ha, quanta sementa, quanto bestiame, quale è il suo inventario economico, quale pezzo di terra deve fino ad un dato momento seminare; egli sa tutto questo, tutto è ben regolato e messo a profitto.

Ma questo è il regime economico di un singolo, gli altri, che vivono accanto a lui, hanno anche essi la loro economia nella reciproca cooperazione. Ebbene noi vogliamo che la classe lavoratrice sia come un signore nei riguardi della propria terra, sicché esso sappia quanto terreno ha, di quante ricchezze naturali, di quanto rame, di quanto carbone, di quante macchine, di quanta materia greggia, di quante forze di lavoro, di quanto grano dispone: noi vogliamo che tutto ciò sia messo in valore, affinché, essendo tutto ben noto, il lavoro possa essere razionalmente distribuito. Il proprietario deve essere come un buon padrone, che sia al tempo stesso padrone e lavoratore. E l’economia comunista, vedete, altro non è che una società di compagni.

Dicono che questa sia una utopia. I nostri nemici affermano che tutto ciò non potrà mai avverarsi. Così parlano coloro cui tutto questo non conviene, o coloro che hanno venduto la propria anima alla classe dominante. Per essi l’ideale è irraggiungibile. Ma io, o compagni, vi dico che, se gli uomini non sono capaci di realizzarlo, allora tutto il genere umano non varrebbe davvero un centesimo: gli uomini resterebbero sempre bestie da soma, peggiori anzi di qualunque bestia, perché le bestie non conoscono divisione di classe, e fra esse non accade che un bue, per esempio, acquisti predominio su un altro o un cavallo su un altro.

Noi, invece, abbiamo sempre sostenuto che, se dobbiamo abbattere un simile organismo di classi, dobbiamo farlo per salire sempre più in alto; contro qualunque divisione di classi noi dobbiamo combattere; e, se non riusciremo in questa prova, cui ci siamo accinti ora che abbiamo in mano il potere; se si dovesse dimostrare che non siamo preparati, che non siamo capaci di assolvere il nostro compito, allora se, tutte le nostre speranze, tutte le nostre aspettative, i nostri piani, la nostra scienza, l’arte, tutto ciò che interessa l’uomo, tutti gli ideali nel cui nome egli combatte, non sarebbero che menzogne, e l’intero genere umano non sarebbe altro che un gran letamaio, quale esso appare dall’attuale carneficina che dura da quattro anni, in cui gli uomini si ammazzano l’un l’altro a decine di migliaia, a milioni, con il solo ed unico risultato di lasciare ogni cosa al punto di prima.

Anche per questo noi diciamo ai nostri nemici, che ci criticano: “Noi sappiamo benissimo che non siamo ancora al termine della nostra opera, che abbiamo ancora del cammino da percorrere, per il quale occorrono ancora molto lavoro e molti sforzi. Ma una cosa noi abbiamo compiuto: la preparazione. Se è necessario costruire un nuovo edificio, tutto deve rifarsi da capo.

Noi abbiamo tolto il potere alla borghesia e ci accingiamo all’impresa. Abbiamo cominciato con il tenere saldamente in mano il potere e dichiariamo a tutti i nostri nemici che questo potere non dovrà giammai cadere di mano alla classe lavoratrice!

Si parla dell’Assemblea Costituente. Torno su questo importante argomento. Che cosa è essenzialmente il suffragio universale, diretto, uguale e segreto? Che cosa è un semplice referendum, un appello alle urne? Se tentassimo l’esperimento che cosa succederebbe? Una parte dei cittadini voterebbe in un dato senso, un’altra in un altro. Ma qualche cosa bisogna fare. E poiché qualche cosa bisogna fare, è chiaro che le due parti si troverebbero in conflitto, operando ciascuna per fini opposti. L’Assemblea costituente può servire sì per un referendum dei diversi voleri, ma per l’opera creatrice della rivoluzione, no. Del resto il referendum noi l’abbiamo compiuto anche senza l’Assemblea costituente. Miliukow prima e Kerensky poi lasciarono passare i mesi, uno dopo l’altro, senza convocare l’Assemblea costituente. E che cosa sarebbe essa stata se anche si fosse fatto rivivere il suo cadavere, ammesso che esistesse al mondo un medicamento o una magia qualsiasi capace di tanto?

Ammettiamolo pure. L’Assemblea costituente è convocata. Che vuole dire ciò? Vuol dire che da un lato, alla sinistra, siederebbero i rappresentanti delle classi lavoratrici e direbbero: “Noi vogliamo che il potere serva alfine al dominio della classe lavoratrice e alla abolizione di qualsiasi oppressione e rapina”. Dalla parte opposta siederebbero i rappresentanti della borghesia, i quali vorrebbero che il potere tornasse, come prima, alla classe borghese. Essi parlerebbero con bel garbo e cautela, senza dire apertamente “classi borghesi”, ma “colte”, pur significando sostanzialmente la medesima cosa. Nel mezzo starebbero quegli uomini politici che oscillano costantemente fra la destra e la sinistra; i rappresentanti dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari di destra. Essi direbbero: “Il potere deve essere ripartito equamente fra l’una e l’altra parte”.

Ma, o compagni, il potere non è una pagnotta, che si possa tagliare in due o quattro parti, a piacere. Il potere è uno strumento con il quale una determinata classe afferma il proprio dominio. Un tale strumento o serve alla classe lavoratrice, o serve contro di essa. Non c’è via d’uscita. Finché vi sono due nemici – la borghesia e il proletariato, con il miserrimo ceto dei contadini – e finché questi due nemici si combattono reciprocamente non possono evidentemente adoperarsi da entrambi le medesime armi. Non è ammissibile che un fucile o un cannone serva contemporaneamente a due eserciti in conflitto fra loro. Così anche il potere statale è una determinata organizzazione che può servire o alla classe lavoratrice contro la borghesia, o, viceversa, alla borghesia contro la classe lavoratrice. I centristi, che domandano se il potere non si possa in qualche modo dividere in due, non sono che dei ciarlatani, che pretendono di avere in tasca la ricetta per far sì che il potere statale – il cannone – possa servire contemporaneamente alla classe lavoratrice e alla borghesia.

La storia, o compagni, non ci dà esempi di tali magiche ricette e se anche ce ne proponesse una la politica di Zeretelli e di Cernow, noi ben sappiamo che il loro cannone non sparerebbe che in una unica direzione: contro la classe lavoratrice. E noi non abbiamo alcun desiderio né alcuna inclinazione a tornare in un simile stato.

Compagni, noi dichiariamo al nostro partito comunista, al governo dei Consigli, che noi fummo effettivamente per l’Assemblea costituente, allorché questa rappresentava un passo avanti sotto lo zarismo; noi parteggiammo allora per un referendum; ma dopo che il popolo ebbe rovesciato lo Zar, allora noi dicemmo: “Ora voi avete portato a compimento l’impresa; è necessario che il potere sia assunto da quella classe che è chiamata a ricostruire la Russia su nuove basi: alla classe dei lavoratori”. E ciò dicendo non ci siamo, né vi abbiamo, in qualche modo ingannati.

Noi affermammo che infinite erano le difficoltà nel nostro cammino, colossali gli ostacoli, tremenda l’opposizione della classe borghese, e non solo da parte della borghesia russa, che di per sé stessa è debole, ma anche da parte della borghesia internazionale, poiché la borghesia russa altro non è che una diramazione delle classi borghesi di tutti i paesi. Queste si muovono in guerra fra loro, si urtano a vicenda, ma in sostanza sono compatte nella questione fondamentale: la difesa della proprietà e di tutti i privilegi che ad essa si connettono.

Vi ricorderete senza dubbio che fra di noi, fino a poco tempo fa, prima della rivoluzione, infiniti fossero i partiti nella classe borghese, fra i possidenti della grande e della piccola borghesia. C’erano i Cento Neri di destra, i nazionalisti, gli ottobristi, i progressisti di sinistra, i cadetti, etc. Un vero e proprio sciame di partiti. D’onde venivano? Precisamente da diversi gruppi di possidenti. Gli uni rappresentavano gli interessi dei grandi possidenti, gli altri quelli dei medi e dei piccoli; alcuni gli interessi dei capitalisti bancari, altri gli interessi dei capitalisti industriali, altri ancora gli interessi degli intellettuali laureati, professori, medici, avvocati, ingegneri, etc. In sostanza, dunque, anche la stessa borghesia, le stesse classi abbienti si dividono in gruppi, in sezioni, in partiti. Ma, non appena la nostra rivoluzione ha fatto sorgere in piedi i lavoratori, tutta la borghesia si è trovata compatta, i partiti sono tutti scomparsi, altro non restando che il partito dei cadetti, in cui si raggruppavano tutte le classi abbienti in lotta per la difesa della proprietà contro le classi operaie.

Lo stesso, o compagni, avviene anche nella borghesia internazionale. Essa scatena guerre orrende e sanguinose, ma appena la classe rivoluzionaria, la classe proletaria alza la testa minacciando le basi del capitalismo subito i borghesi cominciano a sostenersi l’un l’altro in tutti i paesi, per formare un campo comune contro il progredente spaventoso spettro della rivoluzione socialista, e per questo, vedete, noi consacriamo le nostre energie alla formazione dell’ordinamento comunista, in cui non vi saranno più lotte fra popolo e popolo. Ma finché a questo non saremo arrivati, bisogna tenerci pronti ad affrontare le più aspre difficoltà, a sostenere le più grandi battaglie, così all’interno del nostro paese, come ai suoi confini; poiché quanto più sarà esteso, quanto più sarà forte il movimento rivoluzionario, tanto più la borghesia di tutti i paesi stringerà le sue file. L’Europa sarà posta a ferro e fuoco dalla guerra civile, e la borghesia russa, appoggiandosi alla borghesia europea, a quella di tutto il mondo, compirà più di uno sforzo contro di noi. Per questo noi sosteniamo, se, che siamo in cammino verso la pace, ma verso una pace che non sarà raggiunta se non attraverso battaglie cruente delle masse lavoratrici contro gli oppressori, gli sfruttatori, gli imperialisti di tutti i paesi.
 

Questa via noi seguiremo fino alla fine!

Di tutto ciò, o compagni, dobbiamo renderci conto. Certo che chi pensa che già tutto abbiamo raggiunto, dimostra di non comprendere esattamente gli insegnamenti della storia. La storia non è una madre premurosa e tenera, che protegge la classe lavoratrice. È una cattiva matrigna che insegna loro, con l’esperienza del sangue, il modo per innalzarsi e conseguire i propri fini.

È questa la disgrazia dei lavoratori! Io dico spesso, e ripeto nei comizi ai compagni che hanno corta memoria. Essi si sentono facilmente portati alla conciliazione. Troppo facilmente dimenticano. Appena scorgono un barlume di miglioramento, appena ottengono qualche cosa, subito sembra loro che il più sia fatto e si sentono disposti alla generosità, si sentono disposti ad arrestare la loro opera e cessare la lotta; e intanto le classi abbienti non interrompono la loro campagna e contrappongono salda resistenza agli attacchi delle masse operaie. Una passività da parte nostra, una scissione, una incertezza vuol dire per noi esporre il nostro lato debole ai colpi della classe abbiente, vuol dire che domani o dopodomani, in un nuovo assalto, saremo sconfitti.

La classe dei lavoratori ha bisogno di vigorosa tempra, fermezza inesorabile e convinzione profonda che senza combattere ad ogni passo per il miglioramento del proprio destino, senza questa lotta instancabile, sono impossibili la salvezza e la liberazione.

Nelle file del partito comunista, noi chiamiamo, o compagni, anzitutto i lavoratori e in seconda linea tutti gli amici sinceri e fidati della nostra classe. Ma chi, o compagni, cela dubbi o incertezze nell’animo, resti lontano dalle nostre file. Per noi vale più un solo seguace fidato che dieci indecisi, poiché nello svolgimento della lotta questi trascinerebbero seco qualcuno dei nostri; e invece i compagni sicuri, uniti tutti in una sola schiera, muovono alla battaglia contro il nemico, essi trascinano anche gli incerti e i reticenti. Per questo noi vogliamo nelle file del nostro partito soltanto coloro che abbiano ben compreso come la nostra lotta contro gli oppressori di tutti i paesi sia inesorabile. Qui non c’è posto per centristi che si interpongano fra l’una e l’altra parte per proporre accordi. Nessuno deve ascoltare costoro. La borghesia non cederà mai spontaneamente il suo potere. Bisogna da parte nostra resistere e combattere, bisogna che noi ci sentiamo pronti alla battaglia fino alla fine!

È questo il compito essenziale del partito comunista, che appare attualmente come il partito direttivo dei Consigli, organi del potere. Esso si propone di riuscire a far sì che ogni suo addetto, ogni lavoratore sia spiritualmente temprato a dire a sé stesso: “Nella lotta che attualmente si svolge evidentemente anch’io forse soccomberò. Ma che cosa è in confronto di una vita da schiavi, senza un raggio di sole, sotto il tallone degli oppressori, la morte gloriosa di un combattente, che lascia la sua bandiera a nuove generazioni, morendo con la consapevolezza di non sacrificare la vita per gli interessi dei Re o degli Zar, per gli interessi degli oppressori, bensì per quelli della propria classe?” Dobbiamo insegnare ai nostri compagni a vivere fino all’ultimo anelito e a morire per gli interessi della classe lavoratrice, con la fede nell’animo. Ecco, vedete, a che cosa siete chiamati!
 

La guerra, la borghesia e la rivoluzione

Noi ben sappiamo contro quali ostacoli e difficoltà urtiamo nella nostra politica. La nostra rivoluzione è una conseguenza diretta della guerra, ma la guerra è una conseguenza del capitalismo, e noi, fin da lungo tempo prima della guerra, avevamo già presagito come il colossale incremento degli armamenti e la lotta fra le borghesie dei vari paesi per i profitti e per i mercati avrebbero dovuto terminare con una spaventosa catastrofe.

La borghesia tedesca addossa la colpa alla borghesia inglese, la borghesia inglese a quella tedesca, e così tutti si scaricano reciprocamente le responsabilità della sanguinosa guerra, proprio come fanno i pagliacci con i loro giochi nel circo. Noi avevamo presentito l’inevitabilità della guerra, inevitabilità non derivante dalla volontà di uno o due Re o ministri, ma da tutto l’insieme dell’ordinamento capitalistico. Questa guerra è un esempio per l’intero ordinamento capitalistico, per l’intero sistema borghese, economico e morale. E per questo, vedete, noi dicevamo al principio del conflitto che esso avrebbe suscitato un terribile movimento rivoluzionario fra le masse lavoratrici di tutti i paesi.

Mi è toccato, durante la guerra, di attraversare diversi Stati. Dapprima fui costretto a lasciare l’Austria per non esservi fatto prigioniero. Poi fui in Isvizzera, paese che trovandosi fra la Germania, l’Austria e la Francia, costituisce il punto d’incrocio delle vie di questi tre paesi in conflitto. Poi dovetti trascorrere un paio di anni circa in Francia e finalmente, allorché gli Stati Uniti d’America entrarono nel conflitto, mi recai colà. Da per tutto ho osservato la medesima cosa: in un primo momento la guerra stordisce le masse lavoratrici, le confonde, le tenta, ma poi le sconvolge, le spinge alla protesta, alla ribellione contro la guerra, contro l’ordinamento che porta ad essa, contro i dominatori.

Perché mai la guerra dapprima eccita lo spirito patriottico fra le masse lavoratrici? Per questo: perché malgrado che esistano i partiti socialisti-comunisti, esistono ancora, dappertutto, milioni di attivi lavoratori che non conoscono alcuna vita spirituale. E qui è proprio la nostra principale disgrazia: nell’esservi ancora milioni di simili lavoratori, che vivono automaticamente, automaticamente lavorano, mangiano e dormono, pur avendo appena appena quanto basta per mangiare e dormire e lavorando per ciò sopra le forze; costoro non pensano ad altro regime di vita che quello. La loro mentalità è così delineata; il loro cervello non sa pensare ad altro, la loro intelligenza, il loro pensiero, la loro coscienza dormono nella maggior parte del tempo e una volta ogni tanto, nei giorni di festa, bevono un po’ di grappa! [a queste parole una parte degli uditori si mise a ridere]

No, o compagni, tutto ciò non è affatto ridicolo. È questo il tragico destino di molti e molti milioni di lavoratori tormentati, condannati ad una simile vita dal sistema capitalistico, che sia maledetto dal momento che danna i lavoratori ad una così mostruosa vita!

Ma viene la guerra, il popolo è mobilitato, esce sulle vie, indossa la divisa militare. Gli vien detto: “Noi marciamo contro il nemico, vinceremo e allora tutto cambierà ”. E così nascono le speranze, gli uomini abbandonano l’aratro e il tornio. In tempo di pace non avrebbero certo pensato a niente, come bestie da soma, ma ora si propone loro un nuovo compito, essi si vedono d’attorno centinaia di migliaia di soldati, tutti sono eccitati, la musica militare suona, si promettono grandi vittorie e gli uomini sperano che qualche mutamento verrà davvero, che qualche cosa di meglio succederà, dato che niente di peggio potrebbe più immaginarsi.

Essi credono che la guerra sia una guerra di liberazione, che porterà delle novità. Anche per questo abbiamo osservato come in tutti i paesi, sul principio, senza eccezione, nel primo periodo della guerra si ha sempre uno slancio di patriottismo. La borghesia si sente più forte, perché dice: “Tutto il popolo è con me!”. Sotto la bandiera della borghesia marciano i bravi lavoratori dei campi e delle città. Tutto sembra fondersi in un solo sentimento nazionale. Ma poi la guerra compie la sua intima opera: esaurisce la terra, lascia il popolo senza tetto, arricchisce qualche gruppo di masnadieri, speculatori, fornitori militari, conferisce gradi ed onori a diplomatici e generali, e le masse lavoratrici si impoveriscono sempre di più; e le mogli, le madri, le operaie, si trovano ogni giorno dinanzi all’arduo problema, che si fa sempre più stringente, del come riempire la pentola per sfamare i bambini. E tutto questo provoca, fra le masse operaie, una colossale rivoluzione.

Dapprima, dunque, la guerra desta e lusinga false speranze, ma poi, una volta destatele, le fa crollare, sì che la classe lavoratrice si risente e comincia a domandarsi da che cosa derivi tutto ciò e che cosa significhi. Ma la borghesia non è stupida – non si può negarlo – essa ha già preveduto, fin dal principio della guerra, il pericolo e perciò ha sempre contenuto, finché le è stato possibile, la rivoluzione, con l’aiuto dei suoi zelanti generali. Così avvenne in Europa dopo la guerra franco-prussiana. Ma già nel primo periodo dell’attuale guerra, allorché sembrava che il patriottismo invadesse tutti gli animi, proprio nel tempo in cui io mi trovavo a Parigi, parlando con uomini politici della borghesia, sentii dire, qua e là, da essi stessi che il risultato di questa guerra sarebbe stato la grande rivoluzione. Costoro, questi uomini politici borghesi, confidano evidentemente di trovarsi pronti ad un tale evento.

Se leggiamo i giornali e le riviste dei mesi di agosto e settembre, o ottobre, 1914, cioè del primo anno di guerra, per esempio quel giornale inglese che si chiama “Economist”, vediamo che già, fino da allora, si prevede che il risultato finale della guerra in tutti i paesi che vi sono coinvolti, sarà il movimento socialista rivoluzionario. Si era ben compreso fin da allora l’ineluttabilità di tutto ciò, e ben a ragione; allo stesso modo di come avevamo ragione noi quando dicevamo che questa guerra avrebbe inevitabilmente portato la Russia alla rivoluzione e che questa rivoluzione, se potrà essere compiuta fino alla fine, porterà al potere le classi lavoratrici.

In Russia il capitale è formato dalle finanze dell’Europa occidentale. Prendendo per esempio la Francia, vediamo come là il capitale delle grandi industrie si sia formato a poco a poco, nel corso di molti secoli. Nel Medio Evo esistevano mano d’opera, piccole imprese, corporazioni, gilde, che si sviluppavano piano piano formando grandi e medie manifatture, etc., e la borghesia francese si trascinò dietro un intero codazzo di medie e piccole imprese. Queste esercitano la loro influenza politica.

E da noi?

Da noi si è infiltrato il capitale degli altri paesi, Francia, Germania, etc., e rapidamente ha impiantato fabbriche gigantesche in alcune parti della provincia di Jekaterinoslaw e in tutta la Russia meridionale. Vi sono imprese vastissime, come a Pietrogrado, a Mosca e in altre città. Il capitale dell’Europa occidentale, impiantando tutte queste fabbriche, ha avvinto a sé la nostra borghesia, che si è così staccata dalle grandi masse popolari. Ed è questo un gran male per essa. Strettamente legata all’immenso potere finanziario, essa non ha alcun potere politico. Da noi nessuna borghesia, a meno che non vi si comprenda il ceto dei campagnoli (dal quale in Russia sogliono i più escludere l’elemento proletario, le masse più povere ed affamate) ha esercitato una influenza speciale. E tutto il problema della rivoluzione si riduce a questo: con chi devono andare i poveri? Con la borghesia che l’inganna e li nutre di false speranze, o con la classe lavoratrice? Ecco la questione.

Non si è fatto questione di Cernow, Zeretelli o Kerensky, ma se gli eserciti dei contadini avrebbero seguito i lavoratori, se, cioè, i contadini sarebbero stati assorbiti dalla classe operaia o dalla borghesia.

Ora possiamo dire che, grazie ai Consigli dei deputati dei lavoratori, la questione è per tre quarti risolta, l’influsso della borghesia sul paese è quasi completamente annientato e i contadini poveri si uniscono alla classe lavoratrice per marciare con essa tanto più compatti quanto più forte e più cosciente diviene il proletariato cittadino; e di ciò si devono grazie solo ai compagni, al completo dominio ottenuto dalla nostra classe.

Il proletariato cittadino rappresenta da noi la minoranza della popolazione. La grande maggioranza è formata di contadini. Conseguentemente, se le masse contadine non appoggiassero i lavoratori urbani, la nostra classe non potrebbe conservare il potere. Ma tutto ciò significa che la classe dei lavoratori di città combatte non solo per sé, ma si erige anche a tutrice degli interessi delle grandi masse del popolo e dei contadini e l’operaio diverrà, nel senso letterale della parola, l’eroe popolare, allorché comprenderà e sarà in grado di portare a compimento la sua opera.

Nelle altre rivoluzioni, in cui la borghesia aveva il comando supremo, essa trascinava dietro di sé le masse dei contadini. Così fu al tempo della rivoluzione del 1848 nella vecchia Germania, così fu, senza eccezione, in tutte le rivoluzioni del XVII e XVIII secolo. Così fu sempre, ma adesso, o compagni – e qui sta l’immensa trasformazione, il colossale progresso – adesso la classe lavoratrice ha da noi per la prima volta tolto alla borghesia la preminenza e la prevalenza spirituale, si regge su basi proprie ed ha, inoltre, strappato dalle mani della borghesia e attirato a sé la massa dei contadini. In ciò sta l’incomparabile conquista della rivoluzione russa. In ciò sta la protezione della rivoluzione russa.

Per questo gli organi rivoluzionari, i Consigli dei deputati operai e contadini, hanno destato l’odio della borghesia di tutti i paesi. Fin dal principio della rivoluzione, nei primi giorni di essa, allorché a New York i giornali ne riportarono le prime notizie, i giornali borghesi l’accolsero con simpatia. Si era detto allora che Nicola II fosse in trattative di pace con la Germania.

Intanto l’America si accingeva ad entrare nel conflitto e, dopo un mese e mezzo, anzi, dopo tre settimane, vi entrò effettivamente. I giornali riportarono che lo Zar era stato impiccato, che si era formato un ministero di Miliukow e Guckow, e tutto ciò valse ad attirare la simpatia di tutta la stampa borghese. Ma quando cominciarono a giungere le notizie che a Pietrogrado si era costituito il Consiglio dei deputati degli operai e dei soldati e che qualche conflitto era sorto tra questi e Miliukow e Guckow (e c’era pure il Consiglio di Kerensky e Cernow), allora i giornali cambiarono tono. Cominciarono subito i primi conflitti fra i Consigli ed il governo e si affermò il carattere operaio e di classe dei Consigli.

Subito si vide la stampa borghese di tutti i paesi rivolgersi di colpo contro la rivoluzione russa ammonendo Miliukow e Guckow del terribile pericolo che sarebbe derivato alla Russia ed a tutto il mondo se i Consigli fossero riusciti ad afferrare stabilmente il potere. E, poiché noi ci trovavamo in America, e criticavamo aspramente, in comizi di operai stranieri, Miliukow e Guckow e la loro politica, predicendo che i Consigli degli operai e dei soldati avrebbero conservato il potere, allora tutta la stampa borghese scrisse che noi ci recavamo in Russia per dare il potere a losche bande. La cosa andò tanto oltre che una nave da guerra inglese ci fece prigionieri insieme con un piccolo gruppo di sei uomini, al Canada, e ci tenne in prigionia assieme a dei marinai tedeschi, sotto l’accusa di voler andare in Russia per togliere il potere a Miliukow e Guckow e darlo ai Consigli degli operai e dei soldati.

Ciò avvenne nel marzo del 1917, cioè nel primo mese della rivoluzione. La borghesia inglese e americana sentiva già che il potere dei Consigli rappresentava per essa un colossale pericolo. Ma in pari tempo, quanto più appariva chiaro agli operai americani che la rivoluzione russa non era affatto una ripetizione delle vecchie rivoluzioni, in cui gli uni si rifanno a spese degli altri e gli uni e gli altri, poi, finiscono con il restare sopra le classi lavoratrici; che la rivoluzione russa era tale da far salire in alto gli oppressi per ricostruire l’edificio sociale – quanto più gli operai si persuadevano di questo, tanto più viva parte prendevano alla nostra rivoluzione e tanto più grande si faceva il loro entusiasmo.

E se la nostra rivoluzione non ha avuto, con quella sollecitudine che ci aspettavamo nei primi giorni, un inevitabile contraccolpo in Germania, Francia e Inghilterra, la colpa è in gran parte degli stessi lavoratori, i quali hanno favorito la politica dei centristi, compromettendo così la rivoluzione russa agli occhi delle classi lavoratrici di tutto il mondo.

Molti capi di masse operaie speravano che la nostra rivoluzione avrebbe subito portato alla conclusione della pace generale e tanta ne era la convinzione che, se il governo che c’era allora di Kerensky e Miliukow o qualsiasi governo che si fosse trovato al loro posto, si fosse rivolto a tutti i popoli con l’offerta di immediate trattative di pace, lo slancio delle masse lavoratrici e dei poveri in favore della pace sarebbe stato grandissimo e noi avremmo trovato un seguito immenso.

Ma, anziché far questo, noi [ossia il governo russo, quello nato dalla rivoluzione di febbraio - n.d.r.] appoggiammo la politica degli ex diplomatici zaristi, non pubblicammo i trattati segreti, e preparammo invece l’offensiva che fu effettuata il 18 giugno e terminò con una spaventosa e micidiale disfatta e ritirata.

Le masse operaie di tutti i paesi, che avevano atteso che la rivoluzione russa si fosse manifestata nella sua piena grandezza e avesse segnato qualche cosa di nuovo, furono spinte a ritenere che nulla fosse mutato di quello che era prima: gli stessi alleati, la stessa guerra, la stessa offensiva in nome degli stessi fini briganteschi. E la borghesia di ogni paese se ne valse criminosamente per svisare e imbrattare il carattere e lo spirito della nostra rivoluzione. La stampa borghese scrisse: “In questo consiste dunque la rivoluzione: che appena un governo è abbattuto e rimpiazzato da un altro, il nuovo dichiara subito che un’altra politica non è possibile. Di conseguenza non c’è ragione di abbattere i vecchi governi, dal momento che i nuovi non fanno che quello che facevano essi. E allora la rivoluzione altro non è che una follia, una inutile spesa, una vuota illusione”. E gli animi dei lavoratori così divennero freddi verso la rivoluzione russa.

L’offensiva del 18 giugno, l’offensiva di Kerensky, fu il più terribile colpo per la rivoluzione russa e per la classe operaia di tutti i paesi. E se ora noi raccogliamo la pace di Brest Litowsk, la più opprimente delle paci, è questo sì, da una parte, il risultato della politica dei diplomatici zaristi, ma è anche il risultato della politica di Kerensky e dell’offensiva del 18 giugno. Sono stati i burocrati ed i diplomatici dello Zar, quelli che ci hanno scaraventato nella guerra, hanno devastato i beni del popolo e lo hanno derubato; erano costoro quelli che mantenevano le masse nell’ignoranza e nella schiavitù; ma sono stati del pari i centristi: Kerensky, Zeretelli e Cernow, che parteggiavano per la vecchia politica e l’hanno seguita fino all’offensiva del 18 giugno. I primi, i diplomatici zaristi, devastarono materialmente il nostro paese, i secondi lo devastarono spiritualmente, e noi siamo costretti a scontare oggi la cambiale di Brest Litowsk. Cioè la cambiale zaristica. La cambiale di Kerensky.

È questo il più infame delitto che getta sulla classe operaia una grande responsabilità per le colpe dell’imperialismo internazionale e dei suoi servi. Gli stessi uomini vengono ora a noi e ci rinfacciano: “Voi avete firmato il trattato di Brest Litowsk”. Si, lo abbiamo firmato, lo abbiamo firmato a denti stretti, perché conoscevamo la nostra debolezza. Noi siamo troppo deboli per spezzare il laccio che ci serra il collo. Si, noi abbiamo sottoscritto come un lavoratore affamato acconsente a denti stretti a vendere a metà prezzo sé stesso ed il lavoro della propria moglie ad un signore dissanguatore, perché non ha alcun mezzo per vivere. In questo modo abbiamo noi dovuto sottoscrivere la più opprimente e spaventosa pace. In essa cogliamo il frutto dell’opera delittuosa dell’imperialismo internazionale e dei suoi servi. Scontiamo la cambiale che porta le firme di Nicola II, Miliukow e Kerensky. Ecco la cambiale che noi abbiamo scontato!
 

Necessità di una forte organizzazione statale

Ma ciò, o compagni, non significa affatto che noi dobbiamo quietarci: non significa affatto che, dopo aver trovato i colpevoli e le cause storiche, dobbiamo accontentarci. Niente affatto! Noi siamo deboli, sì, siamo deboli, ed è questo il nostro principale delitto storico, poiché la storia ci insegna che non si deve essere deboli. Con le prediche e le belle parole non si salva nessuno. Guardate il Portogallo (potrei prendere ad esempio tutta l’Europa, dal principio alla fine); il piccolo Portogallo non voleva la guerra, ma l’Inghilterra ve lo ha costretto. Che cosa è il Portogallo? Il vassallo, lo schiavo dell’Inghilterra. E la Serbia? La Germania ha dilaniato anch’essa. La Turchia è alleata della Germania. Ma che cosa è essa adesso? La Turchia è la schiava della Germania. La Grecia? Chi l’ha costretta a prender parte alla guerra? Gli Alleati. Essa non voleva, questa piccola e debole terra, ma gli Alleati ve l’hanno cacciata per forza. La Romania non voleva entrare nel conflitto e in special modo non lo volevano le umili classi del popolo, ma ciononostante gli Alleati hanno trascinato anch’essa. E tutti questi paesi adesso sono schiavi della Germania o dell’Inghilterra. Perché? Perché sono deboli, perché sono piccoli. E la Bulgaria? Tentennava, il popolo non voleva la guerra. Io mi trovavo là durante la guerra balcanica e so quanto la Bulgaria sia esausta. Il popolo non voleva la guerra, ma la Germania ve lo ha costretto e la Bulgaria ha impugnato le armi. Ed ora che cos’è la Bulgaria? Non ha né volontà, né voce propria: è anch’essa schiava della Germania.

L’Austria-Ungheria è un paese assai più povero della Germania e assai più devastato e non ha ora alcuna voce propria. Essa segue la Germania: la Germania impartisce gli ordini al suo governo. Perché? Perché la Germania è forte. Chi ha la forza ha anche la ragione! Questi sono, vedete, la morale, il diritto e la religione dei governi capitalistici.

Nel nostro campo, nel campo degli Alleati, chi è il padrone? L’Inghilterra. Chi deve sempre ubbidire? La Francia. La Russia ubbidisce ad entrambe perché è più povera dell’Inghilterra e della Francia.

Da tutto ciò appare chiaro come quanto più durerà la guerra, tanto più duramente sarà esautorata la Russia e tanto meno potrà essere autonoma. Alla fine dei conti noi dovremo inevitabilmente stare sotto il tallone di qualcuno: o sotto quello della Germania o sotto quello dell’Inghilterra, perché noi siamo deboli, perché noi siamo poveri, perché noi siamo esausti. La questione è solo quella di sapere quale sarà il tallone che ci calpesterà.

Noi abbiamo detto e seguitiamo a dire che non vogliamo star sotto ai piedi di qualcuno, né sotto ai tedeschi, né sotto agli inglesi. E perciò cerchiamo di conservare la nostra indipendenza appoggiandoci alla rivoluzione della classe lavoratrice in tutti i paesi.

Ma in pari tempo – e appunto perché noi speriamo nello sviluppo della rivoluzione in tutti i paesi – noi diciamo che occorre raccogliere le forze e riportare l’ordine nello Stato, ricostituire l’economia e creare la forza armata della Repubblica dei Consigli Russi, l’esercito rosso degli operai e dei contadini. Questo è, o compagni, il compito principale che noi non abbiamo ancora assolto, e che assolveremo e per il quale soprattutto ci siamo riuniti.

Io dicevo che noi abbiamo conquistato il potere per la classe lavoratrice, e che esso non le verrà tolto. Ma il potere in mano ai lavoratori non è che uno strumento, un arnese. E se non sappiamo adoperarlo a cosa serve? Se noi prendiamo gli utensili di un carpentiere senza saperli maneggiare, che cosa ce ne facciamo? È come se non avessimo nulla. È necessario che la classe dei lavoratori, conquistato il potere statale, impari a servirsene per l’organizzazione dell’economia su nuove basi.

Dicono alcuni: “Perché vi siete presi il potere senza imparare prima a servirvene?”. E noi rispondiamo: “Come avremmo potuto imparare l’arte del falegname se non avevamo in mano alcun arnese del mestiere? Per imparare ad amministrare un paese bisogna avere in mano il potere. Nessuno ha mai imparato ad andare a cavallo stando seduto in una stanza. Per imparare a cavalcare bisogna sellare il cavallo e montarci sopra. Probabilmente il cavallo si impennerà e più di una volta vi getterà a terra. Ma noi ripeteremo la prova fintantoché non avremo imparato”.

Dunque, o compagni, coloro che affermano non essere necessario assumere il potere, non sono altro, evidentemente – conformemente al loro spirito – che difensori degli interessi borghesi. Essi dicono: “La classe lavoratrice non deve avere il potere. Questo è un diritto ereditario delle classi borghesi e colte. Esse hanno capitali, università, giornali, cultura, biblioteche, tutto: perciò debbono avere anche il potere statale, mentre i lavoratori manuali, le masse operaie debbono prima imparare a governare”.

Benissimo! Ma dove dovrebbero impararlo? Nel laboratorio, nella fabbrica, durante il quotidiano lavoro infernale?

No, signori, scusate! Questo infernale lavoro nei laboratori e nelle fabbriche ci ha insegnato che noi abbiamo il dovere di prendere il potere in mano nostra. Questo abbiamo imparato. E questa è pure una grande scienza. È una scienza immensa, che la classe operaia ha studiato nei laboratori e nelle officine per interi decenni, e durante questo periodo di studio ha prestato la sua opera infernale fino a giungere ad assistere alla fucilazione di operai di intere fabbriche, all’eccidio di Lena [L’oratore qui allude ad un conflitto sanguinoso avvenuto nella primavera del 1912 fra gendarmi e operai del distretto di Lena].

Tutto questo cammino essa ha percorso ed alla fine ha conquistato il potere. Ora impareremo a valercene per organizzare l’economia e instaurare l’ordinamento che ancora non abbiamo. Ecco il nostro compito precipuo.
 

L’organizzazione e la disciplina del lavoro

Ho detto che è necessario mettere sotto controllo il paese e tenere registri di tutto. Ciò faremo per mezzo dei Consigli e dell’Organizzazione centrale dei Consigli dei deputati operai, il Comitato esecutivo centrale. Ed anche per mezzo dei Consigli dei Commissari del popolo. Noi dobbiamo registrare tutto, come dei ragionieri, affinché si sappia dappertutto quale potere abbiamo, quali tesori, quanti operai, quanta materia greggia, quanto grano, quanti falegnami, quanti sarti, e tutto sia razionalmente ripartito, come in una tastiera di pianoforte, di modo che ogni strumento economico funzioni proprio come i tasti di un piano e si possa sapere quanto abbiamo, dove e come lo abbiamo. E si possa così, per esempio, in caso di bisogno, dislocare una data quantità di operai metallurgici da un posto ad un altro. Il lavoro deve essere sano, coordinato ad uno scopo, non solo, ma anche intensivo. Ogni operaio deve lavorare intensamente per 6 o 7 ore nel corso delle 24, ma tutto il rimanente tempo deve poter passarlo da libero cittadino o in occupazioni intellettuali. È un compito grande, ma non è semplice, e occorre studiarlo bene. Bisogna tenere conto di tutto, tutte le provviste che si hanno devono essere elencate, tutto deve essere controllato e registrato.

Sappiamo che vi sono una quantità di laboratori e di fabbriche che non servono a niente. Fra noi regnano la disoccupazione e la fame, perché non tutti sono al loro posto. Vi sono fabbriche che compiono lavori inutili, ma ve ne sono altre che compiono lavori indispensabili e mancano del materiale necessario, che si trova altrove. Noi abbiamo tesori colossali, di cui non sappiamo nulla. Ci sono usurai che hanno accumulato nei villaggi milioni di pud di cereali, come, per esempio, nelle province di Tula e Kursk e anche in quella di Orel. Milioni di pud di cereali si trovano nelle mani di costoro e non ce li consegnano, né noi siamo ancora riusciti a persuaderli che non abbiamo alcuna intenzione di scherzare su certi argomenti, trattandosi qui di vita o di morte della classe lavoratrice.

Ma se noi avessimo una organizzazione, nessuno strozzino potrebbe certo sottrarre dei cereali a dei lavoratori affamati e l’approvvigionamento sarebbe compiuto infinitamente meglio.

I compagni ferrovieri sanno quali e quanti fra gli impiegati ferroviari, specialmente fra i più elevati in grado, ma anche fra i minori, speculano trasportando di contrabbando merci e prodotti di ogni specie, tanto che spariscono interi vagoni.

Da che cosa proviene un simile disordine? Eredità del passato. Non abbiamo ancora, è vero, l’educazione che si converrebbe, ma d’altra parte siamo stati guastati dalla guerra. C’è una inversione completa di tutti i concetti. L’operaio ragiona così: “Dal momento che nel paese si sta così male, a che pro affaticarmi tanto? Sia che io lavori più o meno, meglio o peggio, la condizione delle cose non migliora”.

Ma, o compagni, bisogna che facciamo chiaramente comprendere al nostro operaio, al nostro contadino, che non è questo il modo con cui si possono difendere i nostri interessi contro la borghesia.

Dal momento che abbiamo finalmente in mano il potere, il nostro compito non è altro che questo: organizzare da noi stessi l’economia nell’interesse generale del popolo. E conseguentemente deve essere ristabilito l’ordine del lavoro nelle officine e nelle fabbriche, affinché esso possa essere ristabilito dappertutto.

Che cosa vuol dire “ordine del lavoro”? l’ordine del lavoro, la disciplina rivoluzionaria non si hanno, come ognuno comprende, che restando ciascuno al proprio posto di onorato lavoro e alla sua vedetta a vigilare affinché la nostra classe possa conservare il potere e costruire l’economia generale, in modo da non precipitare, ma salire in alto e salvare tutto il paese. Deve succedere, in sostanza, come in una famiglia privata: quando la famiglia è unita costituisce una unità e ciascuno lavora per il benessere dell’intera famiglia.

Ma qui non si tratta di una piccola famiglia: si tratta del benessere di milioni di uomini. In tutti deve sussistere la medesima coscienza, la coscienza che la nostra Russia dei Consigli, la nostra Russia degli operai e dei contadini altro non è che una immensa famiglia in cui se vi è qualcuno fiacco o che distrugga materie prime o che sia indolente al lavoro, o che trascuri i propri arnesi del mestiere o danneggi macchine per negligenza o malvolere, costui porta danno all’intera classe lavoratrice, a tutta la Russia dei Consigli e conseguentemente alle classi lavoratrici di tutto il mondo.

È nostro compito creare subito una disciplina del lavoro, un solido ordinamento del lavoro. E quando noi saremo riusciti ad effettuare un tale sistema, che gli operai lavorino nei loro stabilimenti o nelle loro fabbriche tante e tante ore al giorno e possano poi dedicare in rimanente tempo ad occupazioni intellettuali, quando ciascuno compirà il proprio dovere al proprio posto, allora tutto questo costituirà pure l’ordinamento comunista. Ed è perciò indispensabile per la nostra salvezza, per il nostro paese, per la Russia e per la stessa classe lavoratrice, che ora è padrona in questa terra, stabilire una salda, ferrea, vigorosa disciplina dell’ordinamento del lavoro.

Non è questa, compagni, quella disciplina che vigeva al servizio della borghesia e dello Zar.

Alcuni dei vecchi generali, che noi abbiamo mantenuto, sotto il nostro controllo, per gli operai dell’esercito rosso, ci dicono: “Ma può esistere un disciplina fra voi, con il vostro regime? Non ci sembra possibile”. Ma noi rispondiamo: “Esisteva una disciplina nel vostro regime? Si, esisteva. Perché esisteva? Con voi c’era uno Zar, c’era una nobiltà e infinitamente più in basso c’erano i soldati, e voi tenevate a freno e in disciplina questi soldati. E questo è un miracolo! Il soldato era uno schiavo. Lavorava per voi, vi serviva contro sé stesso, per i vostri interessi sparava contro il proprio padre, contro la propria madre... E voi mantenevate una salda disciplina. E questo è un miracolo! Noi invece vogliamo stabilire una disciplina tale che il soldato non abbia a combattere che per sé stesso, non abbia a lavorare che per sé stesso, e in nome di tutto ciò noi vogliamo creare una disciplina del lavoro!”.

Io sono profondamente convinto, o compagni, che noi creeremo questo ordinamento comunque gracchino le nere cornacchie, creeremo questo ordinamento con le nostre forze riunite, perché senza di esso ci sta dinanzi il precipizio, senza di esso la nostra caduta è inevitabile.
 

L’ordinamento militare

Ed ora noi stiamo formando l’esercito rosso degli operai e dei contadini. Nel Comitato esecutivo centrale dei deputati degli operai e dei soldati e cosacchi è già stata approvata la legge sul servizio militare obbligatorio universale. Secondo questa legge ogni cittadino, nel corso di un determinato numero di settimane per ogni anno (sei od otto settimane, per un’ora al giorno) è obbligato a compiere l’istruzione militare sotto la guida di appositi istruttori.

Una questione ci si presenta, o compagni: dobbiamo noi estendere l’obbligo militare anche alle donne?

Facciamo una prova in questo senso: nel progetto di legge è detto che le donne possono compiere l’istruzione militare, come gli uomini, con gli stessi sistemi e con gli stessi principi, qualora lo desiderino. Ma, se una donna avrà compiuto la stessa preparazione degli uomini, con gli stessi sistemi e con gli stessi principi, allora, in caso di pericolo della Repubblica dei Consigli, essa sarà obbligata ad impugnare le armi, come l’uomo, quando il governo dei Consigli la chiami.

Voi sapete, o compagni, che noi stiamo formando i quadri dell’esercito rosso. Essi non sono numerosi, non rappresentano, per così dire, che l’ossatura dell’esercito. Ma l’esercito attuale non è costituito da quelle migliaia e migliaia di soldati rossi che ci sono e che hanno bisogno di disciplina ed istruzione, bensì da tutto il popolo dei lavoratori e dalle innumerevoli riserve di operai istruiti delle città e delle fabbriche e dai contadini della campagna. E qualora un nuovo pericolo ci minacci da parte della controrivoluzione o di un tentativo degli imperialisti, allora questa ossatura deve di colpo rivestirsi di carne e di sangue, deve cioè completarsi con le riserve dei lavoratori evoluti delle fabbriche e dei contadini dei campi.

Per questo, se noi da una parte istituiamo l’esercito rosso, dall’altra insegniamo a tutti gli operai e a tutti i contadini a non trascurare la preparazione generale alle armi.

Sul principio questa deve compiersi con circospezione: non vogliamo armare la borghesia. Alla borghesia, agli sfruttatori che non si rassegnano a rinunciare ai loro diritti e privilegi, non vogliano dare in mano alcuna arma. Noi diciamo: “Il dovere di ogni cittadino nello Stato, di ognuno senza eccezione, è di difendere il paese ogniqualvolta esso sia minacciato da un pericolo. Parlo del paese in cui governa l’onorata classe dei lavoratori, che non desidera nulla di straniero”.

Ma la nostra borghesia non ha ancora rinunciato ai suoi diritti e al suo potere: la borghesia non è ancora disposta a dare tutto alla comunità. E così essa si agita, combatte, dirama i suoi agenti – i menscevichi e i socialisti rivoluzionari di destra – per propugnare l’Assemblea costituente. E così, finché la borghesia non avrà rinunciato alle sue pretese, al potere statale e al dominio del paese, finché non avrà compreso che noi abbiamo abbattuto, annientato per sempre lo spirito borghese, noi non daremo loro nelle mani alcuna arma. Ma stabiliremo anche che la borghesia, che non vuole con noi muovere all’assalto, debba scavare le trincee o compiere altri lavori.

Compagni, noi non dobbiamo ripetere gli errori delle precedenti rivoluzioni. Oggi si nota come la classe lavoratrice sia troppo conciliativa e troppo facilmente dimentichi la potenza della nobiltà, che per secoli l’ha tenuta schiava, l’ha derubata, l’ha spogliata e angariata. Tutto questo troppo facilmente dimentica la classe lavoratrice, incline a generosità e debolezza. Noi diciamo: “No, finché il nemico non è definitivamente schiacciato, le nostre mani non devono vestire guanti di velluto”.

Per istruire l’esercito rosso noi ci serviamo degli antichi generali; ma va da sé che noi scegliamo solo quelli che ci convengono e di cui possiamo fidarci. Taluni ci dicono: “E perché dunque chiamate i generali? Non è pericoloso ciò?”. E noi rispondiamo: “Senza dubbio, ogni cosa ha il suo lato pericoloso”. Ma noi abbiamo bisogno di istruttori che conoscano l’arte militare. Noi diciamo ai signori generali: “Ecco il nuovo padrone del paese: la classe lavoratrice. Essa ha bisogno di istruttori per preparare militarmente i lavoratori alla lotta contro la borghesia”.

Nei primi tempi i generali erano fuggiti, si erano nascosti nelle fessure, come le tignole, nella speranza che Dio avrebbe forse in qualche modo mutato le cose: il potere dei Consigli, pensavano, durerà una o due settimane e poi precipiterà, ed essi, i generali, potranno tornare al loro posto. E i generali si trascinarono dietro alla borghesia, che pensava parimenti che la classe lavoratrice, avuto in mano il potere, non lo avrebbe conservato più di un paio di settimane.

Ed ora vediamo come i sabotatori di ieri, a poco a poco, come tignole, escono fuori dai loro nascondigli, muovendo qua e là le loro antenne per tastare il terreno: non si potrebbe, dopo tutto, andare d’accordo con i nuovi padroni? E noi diciamo: “Siate i benvenuti, signori ingegneri! Noi vi invitiamo nelle fabbriche; insegnate agli operai a farle funzionare. Gli operai non ci riescono bene da soli; aiutateli, mettetevi al loro soldo, fate servizio al loro fianco. Fin’ora siete stati al servizio della borghesia: fate adesso servizio alla classe lavoratrice”.

E ai generali diciamo: “Voi avete appreso l’arte militare e l’avete appresa bene; avete studiato all’Accademia di guerra. È una scienza evoluta, una disciplina complessa, specialmente presso i tedeschi, che sanno in modo straordinario mettere in opera le più grandi macchine per l’assassinio e per la distruzione. E noi dobbiamo imparare, ma per imparare ci occorrono specialisti. Signori ex generali ed ex ufficiali, noi vi offriamo un posto!”

Ci si obietta che ciò è pericoloso e può essere causa di controrivoluzioni. Io non so; forse è anche possibile che qualcuno di costoro lo tenti, ma c’è un proverbio che dice: non si può trascurare il necessario per timore di un pericolo possibile. Dal momento che noi pensiamo di formare un esercito, non possiamo, per raggiungere questo fine, fare a meno di persone competenti. Se essi serviranno fedelmente sarà loro garantita la nostra protezione. Molti di essi, molti generali – io stesso ho parlato con loro – hanno compreso che ora è uno spirito nuovo quello che domina il paese, che adesso tutti coloro che vogliono proteggere, difendere e riordinare la Russia, devono servire fedelmente le classi lavoratrici. Ho conosciuto molti uomini nella mia vita e credo di sapere distinguere un uomo che parla con sincerità da un disonesto. Alcuni di questi generali dicevano, con piena lealtà, di avere compreso come le classi lavoratrici debbano costituirsi una forza armata e di voler sinceramente prestarsi a questo fine.

Ma per coloro che volessero servirsi dell’armamento per una congiura controrivoluzionaria, vi saranno speciali provvedimenti da prendere. Essi sanno benissimo che noi teniamo gli occhi aperti su tutto e, qualora volessero stornare l’organizzazione dell’esercito rosso degli operai e dei contadini per farla servire ai fini della borghesia, noi sapremmo ben far sentire loro il nostro pugno di ferro e ricordare loro le giornate di ottobre, essi possono ben cacciarsi in mente che, di fronte ad un tradimento, noi saremmo inesorabili contro di essi, come contro chiunque volesse volgere contro di noi la nostra organizzazione.
 

La rivoluzione mondiale ed i pericoli dell’imperialismo internazionale e della disgregazione interna

Perciò, o compagni, da questo lato non ho granché da temere. Io ritengo che noi ci teniamo abbastanza saldamente in piedi, che la potenza dei Consigli è abbastanza solida e che i generali in Russia non possono abbatterla, come non l’hanno potuto i Kaledin, i Kornilow e i Dutow. Il pericolo non è qui, ma in noi stessi, nella nostra interna disgregazione. E non solo da questo viene il pericolo, ma anche dal di fuori, dall’imperialismo mondiale.

Per la campagna contro l’interna disgregazione dobbiamo stabilire una ferrea disciplina, un saldo ordinamento del lavoro. Ogni singola parte si connette con il tutto. E contro la controrivoluzione, contro i tentativi controrivoluzionari esterni, contro l’imperialismo e il militarismo degli altri paesi, noi abbiamo, o compagni, un sicuro alleato: questo alleato è la classe lavoratrice europea e in particolare la classe lavoratrice tedesca.

Ci si osserva. “La lumaca striscia, ma quando perviene alla meta?”. È questa la principale obiezione che ci sia stata fatta sotto Miliucow e sotto Kerensky e che ci viene ripetuta ancor oggi.

Rispondiamo: “Si, è vero, la rivoluzione europea si svolge lentamente, assai più lentamente di quello che noi vorremmo, ma la nostra rivoluzione russa quando è essa scoppiata? Trecento anni hanno regnato i Romanow e hanno gravato sul collo del popolo. Lo zarismo, l’autocrazia russa, hanno rappresentato sempre, al cospetto di tutti i paesi, la parte del gendarme, soffocando le rivoluzioni e ogni moto di ribellione e permettendo a tutti gli sfruttatori di ogni parte del mondo di fare assegnamento sulla ferma protezione che dava loro l’autocrazia russa. Il nome della Russia era esecrato dai lavoratori dell’Europa occidentale. E sovente io ho dovuto, in Germania, come pure in Austria, e in altri paesi persuadere gli operai che c’erano due Russie: l’una, quella che stava in alto, costituita dalla burocrazia, dallo zarismo, dalla nobiltà; e l’altra, quella che stava infinitamente in basso, che andava sollevandosi lentamente, la Russia dei lavoratori, la Russia rivoluzionaria, quella per cui noi tutto sacrifichiamo. Ma le mie parole venivano accolte con scetticismo. Dov’era dunque questa seconda Russia, questa Russia rivoluzionaria?

Nel 1905 la rivoluzione fece capolino e scomparve. A ciò si adoperarono sempre gli pseudo-socialisti, o centristi, tedeschi e francesi. Essi dicevano che in Russia solo l’autocrazia e la borghesia erano forti, che la classe lavoratrice era debole, che non si poteva sperare in una rivoluzione in un simile paese, etc. etc. Così parlavano quei socialisti centristi, che andavano turlupinando i lavoratori russi e li coprivano di fango.

Ma la nostra classe lavoratrice russa, che ha sopportato per un secolo schiavitù, oppressione e umiliazione, ha dato per prima l’esempio di poter elevarsi in tutta la sua grandezza e rivolgersi a tutte le altre masse operaie del mondo, invitandole a seguire il suo esempio. E, se noi abbiamo dovuto, prima della nostra rivoluzione del febbraio e specialmente prima della rivoluzione dell’ottobre, tener bassa la fronte, se ci è avvenuto, durante la guerra di battere in ritirata e abbandonare città, l’una dopo l’altra, oggi noi possiamo affermare di aver diritto di sentirci orgogliosi di essere cittadini russi, perché noi, per primi, abbiamo inalberato la bandiera della rivolta e per primi abbiamo messo il potere nelle mani della classe lavoratrice.

È questo, o compagni, l’orgoglio della classe lavoratrice, e un tale orgoglio è pienamente legittimo. Ma esso non deve degenerare in presunzione. Negli altri paesi i lavoratori sono nella medesima via. Ma il loro cammino è più difficile. Essi hanno, sì, potenti organizzazioni, ma il loro movimento è più lento. C’è là un esercito colossale, ma c’è anche una ben più pesante soma da portare e per di più il nemico è più forte che da noi. Da noi lo zarismo era già disgregato, infiacchito, scosso in ogni punto, e noi non abbiamo fatto altro che dargli il colpo di grazia. Invece là, in Germania, come in Francia e in Inghilterra, la macchina statale è assai più forte. I manovratori di questa macchina sono gente assai più competente e abile e occorre perciò alla classe lavoratrice un assai maggiore sforzo per abbattere il governo borghese.

Noi, naturalmente, non possiamo che dolerci di ciò. Di fronte alla nostra legittima impazienza, questo movimento rivoluzionario procede troppo lentamente. Noi tutti vorremmo che la rivoluzione scoppiasse più prontamente e imprechiamo contro la lentezza della storia che accresce, sì, giorno per giorno, ma sempre troppo adagio, la ribellione delle masse operaie contro la fame e lo sfruttamento. Ma un bel giorno tutto ciò, tutte le angherie sopportate, tutte le maledizioni scagliate contro la borghesia e la classe dominante, un bel giorno tutto ciò scoppierà. Intanto, finché ciò non succede, finché queste proteste seguitano ad accumularsi nell’animo dei lavoratori è d’uopo attendere.

La classe operaia dell’Europa occidentale è più colta della nostra, meglio istruita, ha più ricche esperienze, maggiore preparazione di essa; e, allorché scatenerà la sua ultima battaglia contro gli oppressori, allora avrà nelle mani una granata di ferro, con cui comincerà a spazzar via dai suoi paesi tutta l’immondizia borghese e nobile. È questa la nostra più grande speranza.

La Russia è ancora destinata a vivere queste grandi giornate. Perciò se gli avvoltoi della borghesia e i socialisti del centro dovessero aver ragione e la rivoluzione non potesse scoppiare in Europa prima di un secolo o di parecchi decenni, ciò significherebbe che sarebbe giunto il giorno della fine della Russia come paese indipendente. Perché in ogni tempo, o compagni, colui che è debole e povero diventa inevitabilmente preda dei ladroni più forti, degli imperialisti e dei militaristi armati fino ai denti. È questa la legge dell’ordinamento borghese e non c’è scampo. Se Miliukow e Guckow fossero rimasti al potere, essi pure non avrebbero certo arricchito il nostro paese e l’avrebbero, anzi, sempre più devastato. Il fatto che in Russia la classe lavoratrice riesce a tenere in mano il potere è, per i lavoratori degli altri paesi, un forte sprone alla rivolta.

Ogni lavoratore in Francia e in Germania si dice: “Se in Russia, in un paese retrogrado, è possibile che la classe operaia conservi il potere e si ponga il compito di trasformare il paese, organizzando l’economia su nuove basi, stabilendo dappertutto la disciplina e l’ordinamento del lavoro, tanto più la storia impone a noi, lavoratori tedeschi e francesi, di prendere nelle nostre mani il potere per compiere la rivoluzione socialista di tutta la società ”.

Perciò, o compagni, combattiamo finché abbiamo con noi la forza degli operai e dei contadini, e non soltanto per noi, non soltanto per gli interessi della Russia, ma formiamo anche l’avanguardia delle classi lavoratrici di tutto il mondo per il compimento dei loro grandi destini.

Compagni, i lavoratori di tutti i paesi volgono a noi gli occhi pieni di speranza e di ansia, chiedendoci se anche noi non precipiteremo e macchieremo la bandiera rossa della nostra classe. Quando la controrivoluzione e la nostra disorganizzazione ci avessero abbattuti, ciò significherebbe che le speranze di tutte le classi lavoratrici degli altri paesi sarebbero perdute e la borghesia potrebbe dire loro: “Vedete come la classe proletaria russa era salita in alto e come invece ora è nuovamente precipitata e giace al suolo crocifissa e annientata?”

Per questo, o compagni, noi dobbiamo difendere la nostra posizione con raddoppiata e triplicata energia e combattere con centuplicato eroismo, perché ora non siamo solo i campioni della libertà per noi stessi, ma abbiamo nelle nostre mani i sogni dell’umanità per la liberazione del mondo. Contro di noi sta la borghesia di tutti i paesi. Con noi sono le speranze della classe lavoratrice.

Rafforziamoci sempre più, o compagni, stringiamoci l’un l’altro le mani per combattere fino alla fine, fino alla piena vittoria, per il dominio della nostra classe, e quando i lavoratori d’Europa ci chiameranno, allora correremo in loro aiuto, tutti, fino all’ultimo uomo, coi fucili in mano e con le bandiere rosse, muoveremo loro incontro in nome della fratellanza di tutti i popoli della terra, in nome del socialismo!