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COMUNISMO
n. 68 - giugno 2010
Presentazione.
LA NEGAZIONE COMUNISTA DELLA DEMOCRAZIA [RG106]: (continua dal numero scorso) Dalla Lega dei Comunisti alla Prima Internazionale: Il Manifesto del Partito comunista, 1848 - Derive piccolo-borghesi - Evoluzione del democratico potere borghese - Dalla doppia rivoluzione alla negazione della democrazia - Proletari e comunisti nella Associazione Internazionale.
IL MOVIMENTO OPERAIO NEGLI STATI UNITI D’AMERICA [RG105]: (9/19) Gli anni della Prima Internazionale (continua del numero scorso - Indice): Le lotte dei disoccupati e i socialisti - I Molly Maguires - Le lotte degli occupati - Accenni di azione politica indipendente - La International Labor Union (continua).
IL MARXISMO E LA QUESTIONE MILITARE: [RG101] [Indice del lavoro] - Parte terza (VI - continua dal numero scorso) A) Il capitalismo - Borghesia e proletariato: 1. Prime rivoluzioni borghesi e proletariato nascente - 2. Contadini e proprietà privata - 3. Contadini e proprietà comune - 4. Le cause della rivoluzione borghese - 5. Equilibrio delle forze alla vigilia della rivoluzione - 6. Le forze politiche rivoluzionarie e la loro evoluzione - 7. Il problema delle alleanze - 8. La presa della Bastiglia e la “grande paura” (continua).
LA CRITICA DELLA RELIGIONE IN MARX E IN ENGELS: 1. Religione e “filosofia” - 2. Religione e Storia - 3. Religione e Rivoluzione - 4. Impotenza della critica alla religione in sé.
Dall’Archivio della Sinistra:
 - NOSTALGIE ASTENSIONISTE? Stato Operaio, 28 febbraio 1924.
 - CHE COSA VALE UNA ELEZIONE, L’Unità, 16 aprile 1924.
 - UNO SCANDALO, L’Unità, 23 aprile 1924.
 - BORDIGA, SUI TITOLI E LE “PASTETTE”, L’Unità, 6 maggio 1924.
 - UN “INESORABILE... SVILUPPO” - Commento al decreto-capestro, Prometeo, giugno-luglio 1924, n.6-7.
 - IL DELITTO - Delitto fascista? No: delitto padronale, semplicemente, Prometeo, giugno-luglio 1924, n.6-7.
 - LA GIUSTIZIA IN MARCIA, Prometeo, giugno-luglio 1924, n.6-7.

 
 
 
 
 

Tra le tante laide menzogne che il regime del Capitale diffonde senza sosta per dimostrare che, alla fine, l’umanità vive in quello che è, o potrebbe essere con un po’ di buona volontà, il migliore dei mondi possibili, c’è sicuramente quella dell’economia “verde”, e dello sviluppo “sostenibile” che con quella fa coppia obbligata.

L’ideologia del processo capitalistico “buono”, quello che non distrugge l’ambiente ma giova al benessere dell’umanità, ha un modo caratteristico e costante di presentarsi nella sua pratica realizzazione. Individuato il terreno favorevole all’affare, un certo settore della produzione investe nel comparto che promette margini “interessanti” – non certo per il bene dei popoli, ma per una questione di profitto, profitto nobilitato dall’etichetta “in favore dell’ambiente”.

Per dimostrarne la ragionevolezza, la convenienza economica e il futuro sereno e sicuro che deriverebbero da queste ricette se praticate con scrupolo e costanza, schiere entusiaste di giovani anime candide sono finanziate e messe al lavoro dalle grandi imprese distruggi-ambiente per produrre studi, elaborare strategie, propugnare le loro utopistiche visioni di un capitalismo dal “volto umano”. Ciechi come talpe si illudono di tappare col dito la voragine di rovine e lutti che un modo di produzione senza freni né coscienza di umano benessere semina per il mondo intero.

Alla fine il risultato è che i disastri si sommano ai disastri. Dove non arrivano le guerre locali a seminare lutti e distruzioni (faranno la “guerra verde”, a “bassa emissione di CO2”?), ci pensa la assoluta, paranoica esigenza di profitto ad oltrepassare ogni limite di equilibrio naturale. Al capitalismo giovano le catastrofi, ne ha bisogno e ci si ingrassa.

Salvo poi a “chiedere i danni”. A chi? al Capitale? Giammai! La “giustizia” cerca il “responsabile”. Come se questo borghese individuo, ammesso che sia condannato (il che succede quasi mai) abbia scontato la pena (idem) e pagato il civile “risarcimento” (idem, vedi Bophal), potesse eliminare ed annullare come mai accaduti i colpi devastanti inflitti al mondo in cui viviamo e nel quale vivranno le generazioni future. Potenza del denaro nell’economia mercantile: tutto ha un “prezzo”, anche la vita, e finanche i più terribili disastri.

Il tutto è, ovviamente, accompagnato dal controcanto dell’economia sostenibile e del profitto a favore dell’ambiente!

Metafora della follia a cui porta l’avidità di profitto è l’esplosione sulla piattaforma petrolifera della British Petroleum nel Golfo del Messico il 20 aprile scorso.

La ricerca ipotizza e propone nuove fonti energetiche “rinnovabili” che dichiara “a basso impatto ambientale”, e anche dal quale settore il capitale studia di trarre profitto, ed inevitabilmente generare nuovi squilibri e nuovi disastri. La produzione dei bio-carburanti ne è un esempio.

Ma, per ora, la forsennata fame di energia del capitalismo, per mantenere ed aumentare – come il calante tasso del profitto comanda – la produzioni di merci, congruente con il suo immane apparato produttivo, non può fare a meno dei combustibili fossili, e del nucleare. E la fame di idrocarburi è così spietata che il petrolio viene cercato ed estratto in condizioni sempre più critiche, tecnicamente difficili e rischiose per il sistema ambientale.

Morti e feriti nello scoppio e nell’affondamento non contano niente nella contabilità capitalistica dell’evento: i proletari, come uomini non esistevano da vivi, non esistono da morti. Dal pozzo, falliti tutti i tentativi di bloccarlo, continua, a due mesi di distanza l’efflusso di petrolio. Quanto ne esce, nonostante le stime propalate dalle diverse fonti, probabilmente nessuno lo sa. E delle quali si parla sempre meno man mano che passano le settimane.

Ma tutto quel petrolio che continua a fuoriuscire, incurante degli sforzi umani per bloccarlo, ha un “prezzo” da registrare in contabilità. Quando governo statunitense, BP, Halliburton e soci si saranno messi d’accordo, la transazione economica si farà con soddisfazione più o meno di tutti; e magari con qualche sconto, per non deprimere troppo le Borse nel comparto delle commodities e dei futures.

È un disastro dalle conseguenze non calcolabili, nel medio periodo, ma soprattutto nel lungo, capitato per ironia della sorte proprio quando la litania dello sviluppo sostenibile è diventata un cantico mondiale.

Questo modo di produzione diffuso ormai alla scala mondiale ha nella forma finanziaria senza più limiti il suo vero motore, e non è da essa separabile con una operazione ideologica, o peggio, etica. Più la crisi del mondo capitalistico si approfondisce ed estende, mentre questo mostro tenta di sopravvivere con la truffa e l’estorsione per arginarla, moltiplicando in un gioco di specchi senza fine segni di valore, più la finanza distrugge la stessa economia di produzione di beni, più prendono fiato e spazio le imbelli ideologie di un capitalismo depurato dalla tara della finanza “cattiva”, che farebbe aggio sulla produzione “buona”. Sarebbe tutto così semplice: eliminata o riformata quella, l’altra avrebbe modo di dispiegarsi in tutta la sua salvifica potenza a vantaggio dell’umanità intera. Un capitale finanziario “buono”, che sappia accontentarsi di una rendita “equa”, un capitale industriale che si dedichi a produzioni “sostenibili” e “sicure” ricavandone un equo profitto è il sogno delle schiere di “riformatori”, preti ed opportunisti che rifuggono inorriditi dal marxismo e dal comunismo.

Perso il lume razionale della scientifica teoria rivoluzionaria, è comodo e facile rifugiarsi nei sogni di un possibile mondo migliore conquistato con buona volontà, buone leggi e banale raziocinio.

Ma tutto questo si scontra con la realtà di un capitalismo che, nonostante sia evidente lo stato comatoso del suo impero globale e proprio per questo, è insofferente ad ogni freno, tanto nel campo della produzione quanto della finanza; un capitalismo che investe energie immense nella produzione di armi mentre costringe miliardi di esseri umani ad un’esistenza di stenti, di fame e malattie; usa le tecniche più avanzate per depredare il pianeta di ogni risorsa senza alcun progetto per il domani dell’umanità. Solo si appresta a distruggere, con una nuova guerra imperialista a scala mondiale, gli immani quantitativi di merci che intasano i mercati globali, compresa la merce forza-lavoro, per tentare di insufflare nuova vita nel suo decrepito organismo.

Questo lo chiamano progresso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


La negazione comunista della democrazia
Rapporto esposto a Sarzana, gennaio 2010

(Continua dal numero scorso)
 

Dalla Lega dei Comunisti alla Prima Internazionale

Il Manifesto del Partito comunista, 1848

Il rifiuto della democrazia, in ogni sua accezione, da parte del movimento proletario, fin da suoi primi albori, è centrale e fondamentale.

Prima che venisse costituita la Lega dei Comunisti, fondata a Parigi da militanti ed esuli di diversi paesi, le varie organizzazioni operaie, che erano in generale segrete, ad imitazione della carboneria, come programma avevano quello di spingere al limite estremo i principi enunciati dalla rivoluzione borghese: uguaglianza, libertà, fratellanza. Ma ben presto si venne a delineare una netta spaccatura tra questa ideologia borghese e la nuova teoria che avrebbe guidato il movimento proletario anticapitalista. Il primo esempio di partito classista fu appunto la Lega dei Comunisti, che adottò a suo principio basilare quello che non vi può essere moto sociale rivoluzionario senza una autonoma teoria rivoluzionaria. E fu appunto per la Lega dei Comunisti che Marx ed Engels redassero il Manifesto del Partito Comunista, che venne adottato dopo essere stato approvato all’unanimità.

Il Manifesto, al quale ancora oggi stiamo ben ancorati, formula una teorica completa della storia sociale umana ed un programma definito di lotta per la trasformazione rivoluzionaria della società e ne indica i passaggi e gli strumenti. Il Manifesto non si presenta come prodotto di un pensatore geniale, ma, già allora, viene indicato come emanazione di una entità collettiva, il Partito Comunista. «Le affermazioni teoriche dei comunisti – vi si legge – non si basano assolutamente su idee, su principi che siano stati inventati o scoperti da questo o quel riformatore del mondo. Esse sono solamente espressioni generali dei rapporti reali della attuale lotta di classe, di un movimento storico che si sta svolgendo sotto i nostri occhi».

L’ideologia della borghesia rivoluzionaria, ben prima del conseguimento della sua vittoria, aveva prospettato il futuro Stato post-feudale non come un organo di classe ma popolare, fondato sulla soppressione di ogni disuguaglianza davanti alla legge, pretendendo che ciò fosse sufficiente a garantire reale uguaglianza per tutti i membri della società. Del tutto all’opposto, il partito comunista, sul piano teoretico immediatamente denuncia la democrazia come ideologia propria ed adeguata al dominio borghese, e sul piano dell’azione politica proclama apertamente che lo Stato della rivoluzione comunista sarà Stato di classe, cioè uno Stato che, finché le classi esisteranno, sarà adoperato da ed a profitto di una sola classe: il proletariato. Le altre classi saranno, di principio e di fatto, messe fuori dallo Stato e “fuori legge”. La classe operaia, per dirla con Lenin, pervenuta al potere “non lo dividerà con nessuno”.

Engels, nella prefazione all’edizione tedesca del Manifesto del 1872, scriverà: «La Lega dei Comunisti, associazione internazionale degli operai, che nelle circostanze di quei tempi poteva essere solo segreta, nel congresso tenutosi a Londra nel novembre del 1847 dette ai sottoscritti l’incarico di stendere un dettagliato programma teorico e pratico del partito, destinato ad essere reso pubblico. Nacque così il presente Manifesto». Il Manifesto nasce dunque come documento programmatico di un partito, che non si rivolge all’umanità, ma ad una determinata classe. Nel Manifesto i termini vengono immediatamente messi in chiaro e non possono sorgere equivoci: «La storia di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, insomma oppressi e oppressori, sono stati sempre in reciproco antagonismo, conducendo una lotta senza fine, a volte nascosta a volte dichiarata, che portò in ogni caso o a una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o alla totale rovina delle classi in lotta (...) La moderna società borghese, nata dalla rovina della società feudale, non ha fatto sparire gli antagonismi di classe; essa ha solo creato, al posto delle vecchie, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta».

Nel Manifesto Marx non si limita a dichiarare questo concetto di sfuggita ma ribadisce: «Le armi con le quali la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono oggi contro di essa. La borghesia però non solo ha fabbricato le armi che la distruggeranno; ha generato anche gli uomini che ne faranno uso: i moderni operai, i proletari».

Mai potrà esistere società in cui le differenti classi sociali possano convivere in una situazione di collaborazione e di pace sociale. Ne scaturisce una lotta sociale, che non si incanala però nel gioco dei meccanismi elettorali e rappresentativi democratici. Leggiamo ancora dal Manifesto: «Il proletariato passa attraverso vari gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia inizia fin dalle sue origini (...) Gli operai cominciano a costituire coalizioni contro i borghesi; si riuniscono per difendere il loro salario. Giungono a fondare organizzazioni permanenti e in tal modo preparano i mezzi per occasionali ribellioni. A volte la lotta sfocia in sommosse. Di quando in quando gli operai riportano la vittoria, ma solo temporanea. Il risultato vero e proprio della loro lotta non è il successo immediato, bensì l’unione sempre più estesa degli operai».

È questo un concetto di fondamentale importanza e costituisce un punto fermo della nostra dottrina e solo della nostra dottrina: per difendere i loro interessi immediati gli operai si coalizzano e fondano organizzazioni, ma queste assumono una importanza di gran lunga maggiore dei risultati delle lotte rivendicative che dirigono. Questo perché la finalità storica del proletariato non consiste nel lottare per la sua “partecipazione” alla società borghese ed ai suoi “benefici”, obiettivo del proletariato è la distruzione di questa società.

La emancipazione del proletariato potrà avvenire solo con metodi antidemocratici. Marx, il 5 marzo 1852, in una lettera a Weydemeyer, precisava: «Per quello che mi riguarda, a me non spetta né il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna né quello di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto tempo prima di me degli storici borghesi avevano descritto lo sviluppo storico di questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano esposto l’anatomia economica delle classi. Quello che io ho fatto di nuovo è stato dimostrare: 1) che l’esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2) che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletariato; 3) che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi».
 

Derive piccolo-borghesi

Metodi antidemocratici significa quindi non solo extra-parlamentari, ma senz’altro statali e dittatoriali. Solo un teorico piccolo borghese come Proudhon poteva metterlo in discussione. Marx, ironizzando, gli rispondeva: «La classe operaia non deve costituirsi in partito politico; essa non deve, sotto alcun pretesto, avere azione politica, perché combattere lo Stato è riconoscere lo Stato: il che è contrario ai principi eterni. Gli operai non devono fare scioperi, poiché sforzarsi per far crescere il salario o impedirne l’abbassamento è come riconoscere il salario: il che è contrario ai principi eterni della emancipazione della classe operaia» (Articolo del 1873, Pubblicato in italiano nell’Almanacco Repubblicano 1874).

Bakunin non era da meno di Proudhon quando, nella sua profonda ignoranza, in Stato ed Anarchia, scriveva: «Abbiamo già manifestato la nostra profonda ripugnanza per la teoria di Lassalle e di Marx, la quale raccomanda ai lavoratori – se non come ideale finale, almeno come principale scopo immediato – la creazione di uno Stato popolare, che, secondo la loro spiegazione, non sarà altro che il proletariato “elevato al grado di ceto dominante”. Domandiamo: se il proletariato sarà il ceto dominante, su chi dominerà? Questo significa che rimarrà ancora un altro proletariato, il quale sarà sottomesso a questo nuovo dominio, a questo nuovo Stato (...) Se vi è Stato, vi è inevitabilmente dominio e di conseguenza anche schiavitù; un dominio senza schiavitù, aperta o dissimulata, è inconcepibile; ed ecco perché noi siamo nemici dello Stato».

Marx, nei suoi appunti al testo dell’agitatore russo, scriveva: «Questo significa che, fino a quando esistono altre classi, e particolarmente la classe capitalista, fino a quando il proletariato lotta contro di essa (giacché, quando giunge al potere, i suoi nemici e la vecchia organizzazione della società non sono scomparsi) deve adoperare dei mezzi violenti, cioè dei mezzi governativi; esso stesso rimane ancora una classe, le condizioni economiche su cui si basa la lotta di classe e l’esistenza delle classi non sono ancora scomparse, ma devono essere violentemente eliminate o trasformate, e il processo della loro trasformazione dev’essere violentemente accelerato».

Riportiamo le convenzionali critiche di Bakunin – che gli sono ovviamente sopravvissute e infestano ancora per ogni dove – per mettere in evidenza le puntualizzazioni di Marx.

Scrive Bakunin: «Che cosa significa: proletariato elevato a ceto dominante?». Risponde Marx: «Significa che il proletariato, invece di lottare a piccoli gruppi contro le classi economicamente privilegiate, ha acquistato una potenza e una organizzazione sufficiente per poter applicare nella lotta contro di esse dei mezzi generali di costrizione; ma non può applicare che dei mezzi economici che eliminino il suo carattere specifico di salariato e, di conseguenza, lo eliminino come classe. Con la sua vittoria completa finisce quindi anche il suo dominio, perché finisce il suo carattere di classe».

Bakunin: «Forse che tutto il proletariato sarà a capo del governo?». Marx: «Forse che, per esempio, in un sindacato tutti gli iscritti fanno parte del comitato esecutivo? Forse che nella fabbrica cesserà ogni divisione del lavoro, con tutte le varie funzioni che ne derivano? Forse che, nell’ordinamento di Bakunin dal basso in alto, tutti saranno in alto? Forse che tutti i membri della comunità gestiranno contemporaneamente gli interessi comuni della regione?».

Bakunin: «Quindi il risultato è: governo della stragrande maggioranza delle masse popolari da parte di una minoranza privilegiata. Ma questa minoranza, dicono i marxisti [dove?, annota Marx] sarà formata di lavoratori. Si, forse di ex-lavoratori, i quali, però, cessano di essere dei lavoratori». Marx: «Non più di quanto un fabbricante cessa oggi di essere capitalista quando è membro di un consiglio comunale».

A Bakunin che dice: «I marxisti sentono questa contraddizione e, riconoscendo che il governo (...) sarà una vera dittatura, si consolano col pensiero che questa dittatura sarà provvisoria, di breve durata», Marx risponde: «No, mon cher! Il dominio di classe degli operai sugli strati del vecchio mondo che lo combattono durerà fino a quando non saranno distrutte le basi economiche dell’esistenza delle classi».

Si tratta infatti di arrivare a distruggere il sistema capitalista nelle sue stesse basi economiche e sociali.

Nel Manifesto leggiamo: «Il proletariato instaura il proprio dominio attraverso l’abbattimento violento della borghesia (...) In senso proprio il potere politico è il potere di una classe organizzata per l’oppressione di un’altra classe. Se il proletariato, nella sua lotta contro la borghesia, si riunisce necessariamente in classe, attraverso la rivoluzione si impone come classe dominante e, in quanto classe dominante, distrugge violentemente gli antichi rapporti di produzione».
 

Evoluzione del democratico potere borghese

Dopo l’esperienza della Comune di Parigi Marx torna ad esplorare la involuzione del dominio borghese nella sua raggiunta forma perfetta e compiuta di democrazia repubblicana.

«La Comune in particolare ha fornito la prova che la classe operaia non può mettere semplicemente le mani sulla macchina dello Stato così com’è e metterla in movimento per i suoi propri fini (...)

«La gigantesca scopa della Rivoluzione francese del secolo decimottavo spazzò tutti i resti dei tempi passati, sbarazzando così in pari tempo il terreno sociale dagli ultimi ostacoli che si frapponevano alla costituzione dell’edificio dello Stato moderno, elevato sotto il Primo Impero, il quale a sua volta fu il prodotto delle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia moderna.

«Durante i successivi regimes (...) il carattere politico [del governo] cambiò di pari passo con le trasformazioni economiche della società. A misura che il progresso dell’industria moderna sviluppava, allargava, accentuava l’antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, lo Stato assumeva sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per l’asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe. Dopo ogni rivoluzione che segnava un passo avanti nella lotta di classe, il carattere puramente repressivo del potere dello Stato risultava in modo sempre più evidente.

«La rivoluzione del 1830, che fece passare il potere dai grandi proprietari fondiari ai capitalisti, lo trasferì dai più lontani antagonisti degli operai ai loro antagonisti più prossimi. I borghesi repubblicani che avevano preso il potere statale in nome della rivoluzione di febbraio, se ne valsero per i massacri di giugno, allo scopo di convincere la classe operaia che la repubblica “sociale” significava repubblica che assicurava la loro soggezione sociale, e per convincere la massa monarchica della classe borghese e dei grandi proprietari fondiari che poteva tranquillamente lasciare ai borghesi “repubblicani” le cure e gli emolumenti del governo.

«Dopo la loro unica eroica impresa di giugno i repubblicani borghesi dovettero però retrocedere dalla prima fila alla retroguardia del “partito dell’ordine”, combinazione formata da tutte le frazioni e fazioni rivali della classe appropriatrice nel loro antagonismo ormai aperto con le classi produttrici.

«La forma più adatta per il loro governo comune fu la repubblica parlamentare, con Luigi Bonaparte presidente. Esso fu un regime di aperto terrorismo di classe e di deliberato insulto alla “vile multitude”. Se, come diceva Thiers, la repubblica parlamentare era il regime che “meno divideva” (le differenti frazioni della classe dirigente), essa apriva un abisso tra questa classe e l’intero corpo della società, escluso dalle sue ristrette file. Gli impedimenti posti ancora al potere statale sotto i precedenti regimi dalle divisioni fra le frazioni della classe dirigente, furono rimossi dalla loro unione; ed ora, in vista della minaccia di sollevamento del proletariato, esse usarono del potere dello Stato senza riguardi e con ostentazione, come strumento pubblico di guerra del capitale contro il lavoro».
 

Dalla doppia rivoluzione alla negazione della democrazia

Ci si potrebbe obiettare che più di una volta e Marx e Lenin hanno impiegato, come sinonimo di “socialismo”, il termine “democrazia proletaria”, quindi in senso opposto e di negazione della “democrazia borghese”. In essi questa dialettica tende ad indicare che solo il socialismo, distruttore della democrazia, ne realizzerà quelli che comunemente vengono presentati come suoi fini sociali: l’eliminazione di ogni genere di oppressione fra le classi opposte.

E questo è l’uso che della parola democrazia si fa nel Manifesto: «Il primo passo della rivoluzione operaia è l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia». Lo conferma il passo precedente: «La rivoluzione comunista è la rottura più radicale con i rapporti di proprietà tradizionali», e quello successivo: «Il proletariato si servirà del suo dominio politico per togliere gradualmente dalle mani della borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante».

Marx nei suoi scritti, e Lenin anche nell’azione, hanno sempre preconizzato come unico mezzo per il trionfo del proletariato non l’impiego degli strumenti maggioritari e democratici concessi dalla classe dominante, ma l’affermazione della dittatura rivoluzionaria e lo schiacciamento violento della controrivoluzione borghese.

Esiste una lettura di Marx che ne fa un democratico, un liberale e perfino un patriota. Altri denunciano la malafede tipica dei comunisti che mentre parlano di libertà e democrazia preparano invece la conquista violenta del potere e l’instaurazione della dittatura. Entrambe queste letture (ammesso siano oneste) sono completamente fuori strada, frutto di una visione statica della società. Al contrario, noi che leggiamo la storia nel suo dinamico divenire, sappiamo quali siano i passaggi necessari al raggiungimento delle nostre finalità e queste finalità e i relativi mezzi non sono stati mai nascosti, anzi enunciati in tutta chiarezza.

Uno dei trapassi delle rivoluzioni storiche è quello democratico. Disamina in merito un nostro articolo del 1948: «Non esiteremo a ricordare che Marx, nel 1848, fu a Colonia contro l’organizzazione specificamente operaia di Gottschalk e Willich e a favore del movimento democratico che aveva per organo la “Nuova Gazzetta Renana”, e nella stessa epoca fu favorevole a una guerra contro la Russia. Sulle tracce del corso seguito dalla rivoluzione francese del 1792/93, e in funzione di un movimento rivoluzionario suscettibile di esprimersi in una vittoria non del proletariato, ma della borghesia, Marx impostava una tattica tesa a facilitare il trionfo della classe che la storia chiamava al timone della società e a rinviare ad un secondo tempo l’affermazione dell’autonomia della classe proletaria. Quanto alla Russia, pensava che il suo ruolo corrispondesse a quello dell’Austria nei confronti della Francia rivoluzionaria. Ne consegue forse che Marx, il fondatore della teoria della classe proletaria, fosse divenuto l’apostolo della “verità eterna” della democrazia? “Olla putrida”, rispose Marx a Bakunin quando questi presentò al congresso della Prima Internazionale l’insieme di rivendicazioni democratiche che avrebbero dovuto servir di base alla sua azione».

Tornando al Manifesto: «In Germania il partito comunista lotta a fianco della borghesia, ogni qual volta questa assume una posizione rivoluzionaria contro la monarchia assoluta, contro la proprietà fondiaria feudale e il piccolo borghesume. Esso tuttavia non cessa neppure un istante di sviluppare tra gli operai una coscienza quanto più chiara dell’inimicizia e dell’antagonismo che divide borghesia e proletariato, affinché gli operai tedeschi possano subito rivolgere contro la borghesia le condizioni sociali e politiche che quella deve generare con il suo dominio, come altrettante armi affinché, una volta cadute le classi reazionarie in Germania, dia immediatamente inizio alla lotta contro la borghesia stessa (...) I comunisti dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente».

Come ebbe a dire Engels, riferendosi allo scritto di Marx Le Lotte di Classe in Francia: «Ciò che conferisce un’importanza del tutto speciale al nostro scritto è che esso enuncia per la prima volta la formula in cui l’unanimità dei partiti operai di tutto il mondo riassume brevemente la sua rivendicazione della trasformazione economica: l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte della società. Nel secondo capitolo, a proposito del “diritto al lavoro”, che viene designato come “prima formulazione goffa in cui si riassumono le rivendicazioni rivoluzionarie del proletariato”, si dice: “Dietro il diritto al lavoro sta il potere sul capitale, dietro il potere sul capitale sta l’appropriazione dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe operaia associata, e quindi l’abolizione del lavoro salariato, del capitale e dei loro rapporti reciproci”».

Fedeli seguaci della incorrotta dottrina marxista, fin dal riorganizzarsi della nostra corrente in Prometeo nell’aprile 1948, affermammo: «Le due formulazioni di Marx: “la costituzione del proletariato in classe” (Manifesto) e “la liberazioni dei proletari sarà opera dei proletari stessi” (Manifesto inaugurale della Prima Internazionale) possono apparire contraddittorie a chi abbia letto Marx con gli occhi del propagandista “popolare” o “parlamentare” della borghesia democratica; ma non presentano alcuna contraddizione per il proletariato il quale, da un secolo di lotte sanguinose, ha tratto l’insegnamento che solo la minoranza ferreamente inquadrata nel partito di classe è suscettibile di trasmettere alle masse la coscienza rivoluzionaria indispensabile per risolvere nella vittoria proletaria la crisi storica inevitabilmente preparata dal processo antagonico dell’economia capitalista (È noto che Lenin, nel suo Che Fare? parla – in opposizione agli antesignani degli attuali democratici, i tradeunionisti inglesi – della necessità di importare il socialismo fra le masse).

«Questa digressione ci è parsa utile [per dimostrare che] fra democrazia, quale ne sia l’attributo, e socialismo non vi è continuità ma opposizione; e affermare l’una significa escludere l’altro. Il partito di classe si fonda non sulla utilizzazione delle possibilità che la democrazia lascerebbe sussistere ma sulla pregiudiziale che queste possibilità, quando non si incastrano nel processo di sviluppo della classe borghese nella sua epoca rivoluzionaria (ai tempi di Marx la democrazia era indispensabile alla borghesia per abbattere la vecchia classe feudale), devono essere presentate per quello che sono storicamente divenute: delle maglie intese ad irretire fino all’ultimo cervello proletario nel quadro del dominio della classe borghese (la coscienza – ripetiamolo ancora una volta – è, come diceva Lenin, importata nel proletariato)».
 

Proletari e comunisti nella Associazione Internazionale

Marx nel Manifesto afferma: «I comunisti non sono un partito particolare contrapposto agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi diversi da quelli di tutto il proletariato. Non avanzano principi particolari su cui intendano modellare il movimento proletario (...) Il fine immediato dei comunisti è identico a quello di tutti gli altri partiti proletari: costituzione del proletariato in classe, abbattimento del dominio della borghesia, conquista del potere politico da parte del proletariato».

Quattro affermazioni ineccepibili. Ma, riguardo la prima e l’ultima, presto dovemmo rilevare che di “partiti proletari” che si dessero “il fine immediato della costituzione del proletariato in classe, dell’abbattimento del dominio della borghesia, della conquista del potere politico da parte del proletariato”, ne era rimasto uno solo, il nostro. Al 1848 l’evoluzione della lotta di classe non aveva ancora portato a compimento la sua opera di selezione e all’interno del movimento potevano convivere, sine effusione sanguinis, più partiti. Ma già nella prefazione all’edizione tedesca del Manifesto del 1872 Marx scriveva: «Le osservazioni sulla posizione dei comunisti nei confronti dei vari partiti di opposizione, pur essendo giuste ancor oggi nei principi generali, sono tuttavia invecchiate nei particolari, dato che la situazione politica è completamente cambiata e con il progresso della storia sono scomparsi quasi tutti i partiti che vi si trovavano menzionati».

La grave sconfitta subita dal proletariato europeo dopo il ’48 impegna i comunisti a valutare “le cause che determinarono necessariamente tanto lo scoppio ultimo, quanto la sconfitta”

La Prima Internazionale nasce ufficialmente nel settembre 1864, ponendosi come obiettivo la unificazione delle lotte operaie frammentate in tutta Europa.

Come scrive Engels nella Prefazione all’edizione tedesca del Manifesto del 1890: «Quando la classe operaia europea fu di nuovo sufficientemente consolidata per un rinnovato attacco al potere delle classi dominanti, nacque l’Associazione Internazionale degli Operai. Essa si proponeva di riunire in un unico grande esercito tutta la classe operaia combattiva d’Europa e d’America. Per questo non poteva prendere le mosse dai principi enunciati nel Manifesto. Doveva avere un programma che non chiudesse la porta alle Trade Unions inglesi, ai proudhoniani francesi, belgi, italiani e spagnoli ed ai lassalliani tedeschi. Questo programma – base per gli Statuti dell’Internazionale – venne delineato da Marx con una maestria riconosciuta persino da Bakunin e dagli anarchici. Per la vittoria finale dei principi esposti nel Manifesto Marx contava unicamente ed esclusivamente su quello sviluppo intellettuale della classe operaia che doveva necessariamente nascere dall’azione comune e dalla discussione. Le alterne vicende della lotta contro il capitale, le sconfitte, ancor più che i successi, dovevano per forza di cose mostrare a chi lottava l’insufficienza delle panacee usate fino a quel momento, dandogli la possibilità di comprendere più a fondo le condizioni effettive dell’emancipazione operaia. E Marx aveva ragione. La classe operaia, nel 1874, quando si sciolse l’Internazionale, era completamente diversa da quella del 1864, quando era stata fondata. Il proudhonismo nei paesi latini, il lassallismo, specifico in Germania, stava scomparendo e persino le Trade Unions inglesi, allora ultra conservatrici, si avvicinavano gradualmente (...) Il socialismo continentale, già nel 1887, era quasi unicamente la teoria enunciata nel Manifesto».

L’Associazione Internazionale era composta da diversissime società operaie, ma che facevano capo ad un unico centro dimostrando così la necessità, da tutti sentita, di una unificazione internazionale della lotta contro il capitale. Marx nell’Indirizzo Inaugurale espone il punto di vista comunista in maniera tale da potere essere accettato da tutte quante le componenti. Nello Statuto afferma che unico scopo dell’Associazione, centro di collegamento e cooperazione tra le società esistenti nei diversi paesi, è «l’emancipazione della classe operaia» che «non deve tendere a costituire nuovi privilegi e monopoli di classe, ma a stabilire per tutti doveri e diritti uguali e ad annientare ogni predominio di classe».

È un evidente passo indietro rispetto al Manifesto del 1848, ove, fra l’altro, non si rivendicano “diritti” o “doveri”. Ma il movimento operaio nel 1864 aveva acquistato un carattere di massa che richiedeva il conforto del marxismo né poteva essere abbandonato a sé stesso, anche se la coscienza dei suoi dirigenti era notevolmente immatura rispetto alla piccola avanguardia rivoluzionaria del 1848. Compito dei rivoluzionari comunisti era farlo progredire, sulla base della effettiva esperienza nella guerra sociale, fino al livello del Manifesto dei Comunisti.

«All’interno di questa grande associazione – scriveva Engels a Paul Lafargue il 19 gennaio 1872 – sono rappresentate le più diverse concezioni non solo dell’organizzazione futura della società, ma perfino dell’azione presente. L’Internazionale discute di queste questioni nel corso dei suoi congressi generali, ma non impone in nessun paragrafo dei suoi statuti alcun sistema, alcun criterio impegnativo per le sezioni. Vincolante solo il principio di fondo: liberazione della classe operaia tramite gli operai stessi (...) Comunisti e individualisti operano fianco a fianco e si può ben dire: non c’è nessuna concezione economico-sociale che non sia rappresentata nell’Internazionale (...) nonostante che l’Internazionale si presenti sempre compatta di fronte ai nemici esterni». È evidente come la Prima Internazionale, ai nostri occhi, si presenti come una forma ancora non differenziata di partito e di sindacato.

Ma il fatto stesso che Marx si trovasse ad essere di fatto il dirigente della Internazionale significa che il movimento, sia pure istintivamente e inconsciamente, riconosceva nel marxismo la sua naturale dottrina. Questo perché, come abbiamo visto citando il Manifesto, il marxismo non è una delle tante scuole proletarie succedutesi nel tempo e nello spazio, ma è la definitiva teoria del proletariato, che comprende tutte le precedenti, ingenue, utopiche, parziali.

Certo tutto questo non sempre si è ottenuto attraverso una spontanea evoluzione e superamento delle differenti concezioni politiche. Spesso Marx ed Engels dovettero impegnare tempo ed energie per arginare deviazioni di matrice piccolo borghese, mazziniane, proudhoniane, bakuniniste. Queste, usando il più delle volte i borghesi mezzi truffaldini della calunnia e della facile demagogia, spesse volte ammantata di rivoluzionarismo estremo, tentavano di imporsi per far derivare l’Internazionale su posizioni interclassiste.

«Le Sette – scriverà Marx nelle “Pretese scissioni dell’Internazionale” – all’inizio un volano per il movimento, diventano un impedimento nel momento in cui non sono più coerenti con i tempi e diventano dunque reazionarie. Ne sono una prova le sette in Francia ed in Gran Bretagna, e recentemente i Lassalliani in Germania, i quali, dopo anni di sostegno all’organizzazione del proletariato, sono semplicemente divenuti degli strumenti della polizia (...) In contrasto con le organizzazioni fantastiche e rissose delle sette, l’Internazionale è l’organizzazione reale e militante della classe proletaria in tutti i paesi, solidale nella lotta comune contro i capitalisti, i proprietari fondiari e il loro potere di classe organizzato nello Stato. Perciò gli Statuti dell’Internazionale riconoscono soltanto le semplici organizzazioni operaie che perseguono tutte lo stesso scopo e accettano tutte lo stesso programma, un programma che si limita a tracciare le grandi linee del movimento proletario e ne lascia l’elaborazione teorica all’impulso dato dalla necessità stessa della lotta pratica, oltre allo scambio di idee che si svolge nelle sezioni, ammettendo nei suoi ranghi e nei suoi congressi tutte le convinzioni socialiste».

Noi possiamo quindi già affermare:
     1) La Associazione Internazionale dei Lavoratori fu il partito di classe, della sola classe proletaria, in quel determinato momento storico, e non un raggruppamento interclassista di forze e movimenti “di sinistra”.
     2) Allo stesso tempo possiamo affermare che tale prima espressione formale e a larga scala del proletariato già operava secondo un modulo suo proprio, di sicura marca post-borghese, assunto spontaneamente e dalla corrente marxista riconosciuto, accolto come proprio e sempre praticato. Lo stile di lavoro che anche la Prima Internazionale nei suoi anni migliori naturalmente utilizzò, e che possiamo oggi riconoscere dai verbali dei suoi incontri, dalla sua corrispondenza e in generale dal tipo di rapportarsi fra centro, gruppi locali e militanti, già corrispondono a quella necessaria forma di relazione interna della compagine comunista che successivamente la Sinistra definirà come centralismo organico.

L’Associazione si fondava sul postulato, da tutti dato per primitivo e indiscusso, della unità internazionale del movimento per il fine comune della emancipazione della classe operaia, che tende ad una strategia e ad una disciplina unica mondiale ed ha necessità di riflettersi in un unico suo centro organizzativo, il Consiglio Generale con sede a Londra. È parimenti da tutti data per necessaria e scopo del movimento la ricerca, con metodo fraterno e razionale, cioè non come risultato di uno scontro fra forze nemiche, della via migliore al fine, e la certezza che questa ricerca avrà esito positivo e univoco.

Quando, in particolare dopo la sconfitta della Comune di Parigi, si vennero introducendo nell’Internazionale lotte di frazione utilizzanti, come da parte degli anti-autoritari, qualunque mezzo pur di prevalere nell’organizzazione o per spezzarla, tali atteggiamenti, e non meno delle stessi errori di dottrina e di tattica che propugnavano, suscitarono lo sdegno di Marx di Engels e da essi furono denunciati e combattuti come dei veri tradimenti del partito, della sua natura e della sua causa.

Chi sono stati i traditori interessa poco. Come le rivoluzioni mai sono state e mai saranno opera di singoli individui, ma incontenibili manifestazioni di bisogni e necessità di classe generati dal sistema economico vigente, così le contro-rivoluzioni sono espressione di rapporti di forza svantaggiosi per la classe rivoluzionaria e non opera di disertori venduti al nemico.

Nel 1851, scrivendo in “Rivoluzione e Controrivoluzione in Germania”, Marx annotava: «Non è possibile figurarsi una più clamorosa sconfitta di questa patita dal partito, o meglio dai partiti rivoluzionari del continente, su tutti i punti della loro linea di battaglia. Ma con ciò? (...) Se infatti siamo stati battuti non ci resta che ricominciare da capo. E per fortuna la brevissima tregua che ci viene concessa, tra la fine del primo ed il principio del secondo atto del dramma, ci lascia il tempo per compiere un lavoro utilissimo: lo studio delle cause che cagionarono necessariamente tanto lo scoppio ultimo quanto la sconfitta; cause che non sono da ricercarsi negli sforzi accidentali, oppure nell’ingegno, nelle debolezze, negli errori, nei tradimenti di alcuni capi, sebbene nello stato sociale generale e nelle condizioni esistenti nelle singole nazioni in convulsione (...) Quando andate ad indagare sulle cause del trionfo della contro-rivoluzione, vi imbattete sempre in questa comoda risposta che vi risuona da tutti i lati, che fu il signor Tale o il cittadino Talaltro che “tradirono” il popolo, la quale risposta può essere vera o no, secondo le circostanze, ma in nessun caso può servire a spiegare cosa alcuna: può soltanto mostrare come avvenne che il popolo si sia lasciato tradire. Quale deplorevole spettacolo invero quello di un partito di cui tutto il bagaglio politico si riduce alla semplice conoscenza di un solo fatto: che del cittadino Tal dei Tali non bisogna fidarsi».

Le sconfitte, quindi, ci devono servire come insegnamento per comprenderne le cause. Non a caso nella bandiera del partito nostro di oggi, tra le altre cose, sta scritto “restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario”, né mai ha imputato l’ultima tragedia storica del proletariato, la controrivoluzione che ha preso il nome da Stalin (a confronto quella del 1848 fu una bazzecola), al tradimento dell’individuo Stalin. Stalin lo abbiamo sempre considerato, traditore certamente, ma solo strumento, esecutore di rapporti di forze materiali russe ed internazionali che, a livello mondiale, riuscirono a schiacciare l’avanzata rivoluzionaria scatenatasi nel primo dopoguerra.
 

(continua)

 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America
Capitolo 9, esposto a Torino nel settembre 2009.


(Continua del numero scorso)


(Indice)


Gli anni della Prima Internazionale (segue)
 

Le lotte dei disoccupati e i socialisti

Le sezioni dell’Internazionale furono l’anima delle lotte dei disoccupati che si scatenarono nel primo anno di crisi. Già nell’ottobre del 1873 il Consiglio Federale del Nord America diffuse un manifesto nel quale proponeva ai proletari gli obiettivi sui quali lottare, dopo essersi organizzati e aver espresso delegati su basi territoriali: «1) Il lavoro deve essere dato a chiunque sia capace e desideroso di lavorare, ai salari normali e sulla base delle otto ore; 2) ai proletari e alle loro famiglie in effettiva difficoltà deve essere anticipato denaro o prodotti, sufficienti per il sostentamento di una settimana; 3) non deve essere permesso alcuno sfratto dalle abitazioni a causa di mancato pagamento della pigione, dal 1° dicembre al 1° maggio 1874».

I raduni e le conferenze si moltiplicarono, sempre frequentate da grandi numeri di proletari, con parole d’ordine che il “New York Times” non esitò a definire “decisamente comuniste”. Alla direzione del movimento si posero anche i sindacati, e numerose furono le dimostrazioni, seguite da petizioni, nelle varie città dell’Unione. In qualche caso si ebbero successi, come a Chicago, dove si riuscì a far scucire a un Comitato responsabile del soccorso alle vittime del grande incendio del 1871 i soldi risparmiati in favore dei disoccupati; va detto che il detto Comitato non era entusiasta della soluzione, e solo la minacciosa pressione di migliaia di dimostranti sotto le finestre convinse i responsabili. Agli inizi del 1874 però il movimento cominciò a non essere più ascoltato dai politici, e dopo alcune bastonature di massa da parte della polizia perse il vigore iniziale; nell’autunno dello stesso anno era praticamente finito.

Se le sezioni dell’Internazionale fossero state unite forse la disintegrazione del movimento avrebbe potuto essere evitata. Ma il movimento socialista era lungi dall’essere un corpo omogeneo. Gli operai tedeschi, che continuavano ad arrivare in America a causa della repressione seguita alla fine della guerra franco-prussiana, portavano con sé le divisioni che esistevano in Germania tra marxisti e lassalliani, e la crisi non fece che acuire il conflitto fra queste due anime del movimento in America.

La questione fondamentale riguardava la strada da seguire per l’organizzazione della classe operaia. Per i lassalliani la disintegrazione dei sindacati era ulteriore prova che l’unica via era l’organizzazione dei proletari sul piano politico; le dimostrazioni dei disoccupati non avevano per loro nessuna utilità, a meno che non fossero uno strumento per accelerare la nascita di un partito del lavoro.

I marxisti naturalmente non rigettavano l’attività politica; ma, oltre a considerare politiche tutte le forme di lotta di classe, ritenevano che i tempi non fossero maturi per la formazione di un partito. I sindacati, opponevano, sono il crogiolo del movimento operaio, ed era compito delle sezioni dell’Internazionale aiutarli a riprendersi e a fondarne di nuovi. In questo senso le lotte contro la disoccupazione dovevano essere sostenute perché, oltre ai possibili benefici diretti che potevano discenderne per i proletari in difficoltà, favorivano la acquisizione di una prima coscienza di classe, e mostravano l’importanza della sua organizzazione.

Le lotte operaie ebbero dei successi immediati, che favorirono un riavvicinamento, nel senso che i lassalliani cominciarono a ripensare il loro atteggiamento verso i sindacati. Ma furono successi poco sfruttati, anche per l’immaturità dei comunisti locali: i tedeschi tendevano a vedere il movimento come se fosse stato quello tedesco, senza cogliere le differenze, che non erano da poco. «I tedeschi – scrive Engels a Sorge il 29 novembre 1886 – non sanno come usare la loro teoria quale leva per mettere in moto le masse americane; la maggior parte di loro non comprende proprio la teoria, e la trattano in modo dottrinario e dogmatico, come qualcosa da imparare a memoria, che così facendo risolverà tutti i problemi senza altro fare. Per loro è un credo, e non una guida all’azione. Inoltre, per principio non imparano l’inglese. Così le masse americane hanno dovuto cercarsi la strada da sé».

Comunque il riavvicinamento ci fu, e si concretò formalmente nel luglio 1876, quando i delegati di 19 sezioni americane dell’Internazionale si incontrarono in Philadelphia e disciolsero l’Associazione Internazionale degli Operai. In altre relazioni abbiamo approfondito le vicende generali dell’Internazionale, che, trasferita come sede centrale in America nel 1874, non appariva più adatta in quella forma ai compiti che si era data, mentre in Europa stavano velocemente sviluppandosi forti partiti socialisti su base nazionale. Vale la pena di leggere la dichiarazione finale della conferenza:

     «Ai membri dell’Associazione Internazionale degli Operai
Compagni
     «La conferenza generale dei delegati riunita a Philadelphia ha sciolto il Consiglio Generale dell’Associazione Internazionale degli Operai, e quindi il legame esterno dell’Associazione ha cessato di esistere.
     «”L’Internazionale è morta!”, griderà di nuovo la borghesia di tutti i paesi, strombazzando il suo disprezzo e la sua gioia per le decisioni della conferenza, che essa considererà la prova della sconfitta del movimento internazionale dei lavoratori. Non ci facciamo sconcertare dalle grida dei nostri nemici! Tenendo conto della situazione politica in Europa, abbiamo abbandonato l’organizzazione dell’Internazionale, ma, in suo luogo, vediamo i suoi principi riconosciuti e difesi dai lavoratori progressisti di tutto il mondo civile.
     «Lasciamo ai nostri compagni europei un po’ di tempo per recuperare le forze e provvedere alle faccende nei loro paesi e, fra non molto, essi saranno senza dubbio in grado di abbattere tutte le barriere che li separano gli uni dagli altri e li allontanano dai lavoratori delle altre parti del mondo.
     «Compagni! Voi che vi siete proclamati membri dell’Internazionale con tutta la vostra passione e il vostro amore, troverete il mezzo per allargare la sfera dei suoi partigiani, anche senza organizzazione. Recupererete nuovi militanti, che lavoreranno per la realizzazione degli scopi della nostra Associazione.
     «I compagni d’America vi promettono che avranno cura di salvaguardare quanto è stato ottenuto dall’Internazionale in questo paese, finché circostanze più favorevoli uniranno di nuovo i lavoratori di tutti i paesi in lotte comuni, e il grido risuonerà più forte che mai: Proletari di tutti i paesi, unitevi!».
Pochi giorni dopo, nella stessa città, le organizzazioni socialiste si riunirono per fondare un nuovo partito, che si chiamò Working Men’s Party of the United States, la parola “socialista” essendo evidentemente ancora troppo ardita. Nella piattaforma adottò l’atteggiamento dell’Internazionale verso i sindacati, concedendo ai lassalliani che l’organizzazione rimanesse nazionale. La pace però durò ben poco, e le polemiche ripresero presto sugli stessi binari.
 

I Molly Maguires

Un’idea delle condizioni operaie, e della eterogeneità delle situazioni dell’umanità che nel nuovo mondo produceva secondo i dettami del modo di produzione capitalistico, dovuta alla varietà di ambienti e di provenienze, si può avere dalla breve vicenda dei Molly Maguires, un fenomeno più pittoresco che significativo, ma che resta un episodio della lotta di classe a pieno titolo, pur nella sua elementare spontaneità.

Secondo la leggenda il movimento prese le mosse da una donna con quel nome, che in Irlanda era a capo del Free Soil Party, un partito clandestino che minacciava i proprietari terrieri rei di sfruttare troppo, se non di espellere dalla terra i contadini poveri: la pena era sempre la stessa, la morte.

Il movimento emigrò negli Stati Uniti con i tanti irlandesi che vi si trasferirono negli anni ’50 del secolo: solo irlandesi potevano farne parte, e prese il nome di Ancient Order of Hibernians. Lo scopo dichiarato era quello di un sodalizio di mutuo soccorso, ma ben presto sembra che i metodi adottati in Irlanda fossero applicati anche negli USA, e in particolare nelle zone carbonifere della Pennsylvania, dove era concentrata la maggior parte degli irlandesi.

Di certo le condizioni di lavoro nelle miniere erano tali da far covare risentimento verso i padroni e i loro tirapiedi. Le paghe erano basse; i sorveglianti cercavano sempre di truffare sul peso i minatori, che lavoravano a cottimo; non c’erano misure di sicurezza, e i minatori morivano a centinaia ogni anno; per non parlare degli abusi comuni a tutti gli operai.

I Molly Maguires erano anche attivi come dirigenti sindacali, e sembra che oltre ai padroni fossero loro bersaglio anche i dirigenti sindacali giudicati pusillanimi. Uno dei sindacati coinvolti nel “long strike” del 1875 era guidato da loro.

Non è rimasto molto di certo sull’attività dei Molly Maguires, se non quanto sulla stampa borghese. E pochi si alzarono a difenderli quando molti operai, accusati di essere dirigenti del movimento, furono arrestati e processati per degli omicidi avvenuti negli anni ’60 e ‘70. E a dire il vero oggi molti storici negano che una organizzazione con quel nome sia mai esistita negli Stati Uniti. Tutta l’istruttoria si basò sulla testimonianza di una spia padronale, dell’Agenzia Pinkerton, e di testimoni accuratamente istruiti. Ciononostante durante il processo l’inconsistenza delle prove fu messa in grande evidenza, ma ciò non evitò la forca ai minatori accusati. In un libro di uno storico, pubblicato un secolo dopo, si legge: «L’indagine e i processi dei Molly Maguires hanno costituito una delle più aperte rinunce alla legalità della storia americana. Una società privata iniziò le indagini attraverso una agenzia investigativa privata; una forza poliziesca privata arrestò i presunti colpevoli; gli avvocati della compagnia mineraria li incriminarono. Lo Stato si limitò a fornire la sala del tribunale e il boia». Un giornale dell’epoca riassume bene il profilo degli accusati, e implicitamente rivela la ragione della persecuzione: «Che cosa hanno fatto? Quando il prezzo dato al loro lavoro non gli andava bene si organizzavano e proclamavano uno sciopero».

Si trattò quindi di una campagna orchestrata per terrorizzare il movimento sindacale dei minatori. Forse l’epitaffio migliore è quello tributato trenta anni dopo da Eugene Debs: «Protestarono tutti la propria innocenza, e tutti morirono da eroi. Nessuno tradì il minimo segno di debolezza o di paura. Nessuno aveva l’animo dell’assassino. Erano tutti ignoranti, rozzi, goffi, figli della miseria, flagellati dal corso impetuoso degli eventi e del destino (...) Lo scopo primo dell’organizzazione dei Molly Maguires era resistere, armati delle loro elementari conoscenze, alle ingiustizie di cui erano vittime insieme ai loro compagni di lavoro, proteggere se stessi dalla brutalità dei padroni. I loro metodi erano drastici, ma ricordiamoci che la loro sorte era dura e abbrutente, che erano i figli abbandonati della povertà, il prodotto di un ambiente ingiusto (...) Gli uomini che morirono come criminali sulla forca erano dirigenti sindacali, i primi martiri della lotta di classe negli Stati Uniti».

Solo poche settimane dopo l’ultima impiccagione, avvenuta nel giugno 1877, sarebbe scoppiato il grande sciopero ferroviario.
 

Le lotte degli occupati

La classe operaia americana non prese con rassegnazione l’attacco a occupazione e salari derivato dalla depressione, la più prolungata che si fosse mai vista, fino ad allora. Le lotte furono decise, soprattutto nei settori tessile, minerario e dei trasporti. Queste terrorizzavano il padronato, che conosceva bene le condizioni di vita della classe operaia, e che aveva fresca memoria di quanto solo pochi anni prima era stato capace di fare il proletariato parigino. Lo spettro del comunismo, prima ancora che nelle menti degli operai, aleggiava nei peggiori incubi dei borghesi.

Le prime lotte di una certa estensione furono quelle verificatesi a Fall River, nel Massachusetts, in seguito a un tentativo padronale di ridurre i salari del 10%. Più di tremila operai parteciparono allo sciopero, che ebbe inizialmente un esito positivo; sennonché in autunno i padroni tornarono all’attacco di una classe operaia sfiancata, che dopo 8 settimane di sciopero dovette arrendersi senza condizioni.

Nello stesso anno, il 1875, vi fu un altro lungo sciopero tra i minatori della Pennsylvania (“The long strike”), ed anche questo fu sconfitto da una combinazione di fame, intervento statale, spietatezza dei giudici. Ma sulla sconfitta influì anche la divisione dei minatori in due sindacati, che tennero posizioni diverse, e la determinatezza padronale, che per tre anni preparò l’attacco che poi risultò vincente. I capi del sindacato erano descritti come «agitatori stranieri, membri della Comune e emissari dell’Internazionale»; e il sindacato, una «organizzazione dispotica, davanti alla quale il povero lavoratore si deve inginocchiare come un cagnolino al guinzaglio, e rinunciare alla propria anima».

Ma l’evento più significativo di quegli anni, che lasciò nella memoria della borghesia una permanente paura, fu una serie di scioperi che si verificò nel corso del 1877, nell’ultimo periodo della crisi, che per l’estensione e la durezza ha ricevuto diversi nomi: “I grandi scioperi del 1877”, “Il grande sciopero ferroviario”, “La grande insurrezione”.

Tutto cominciò il 16 luglio a Martinsburg, nel West Virginia, quando si seppe che la compagnia ferroviaria locale aveva ridotto i salari del dieci per cento, la seconda riduzione in otto mesi. Non c’erano più margini per gli operai: molti erano disoccupati, moltissimi lavoravano solo poche ore, il pagamento del salario a volte ritardava di mesi, la fame era compagna costante delle loro famiglie. I padroni volevano tra l’altro distruggere i pochi e piccoli sindacati dei ferrovieri, d’altronde estremamente remissivi e tutt’altro che agguerriti; i sindacalisti erano sulle liste nere, non si accettavano trattative con le Unions, e le spie della Pinkerton erano così attive che gli operai evitavano persino di parlare tra di loro.

La grande insurrezione in realtà era stata preceduta da un periodo di apparente inerzia dei lavoratori. Il direttore generale di una delle compagnie ferroviarie scriveva il 21 giugno: «L’esperimento della decurtazione dei salari è stato un successo per tutte le compagnie che l’hanno fatto negli ultimi tempi, e non ho motivo di temere che vi possano essere agitazioni o resistenza da parte dei dipendenti se la cosa è condotta con la dovuta fermezza da parte nostra e se loro si rendono conto che la debbono accettare di buon grado o andarsene». Proprio il giorno dello sciopero a Martinsburg il governatore della Pennsylvania affermava che lo Stato da anni non conosceva la tranquillità di quel periodo. Entro pochi giorni sarebbe stato al centro della rivolta.

Il 16 luglio 40 ferrovieri entrano in sciopero e bloccano un treno merci. La polizia non riesce a farli desistere. Il giorno dopo arriva un distaccamento della milizia: nel tentativo di far partire il treno c’è il primo scontro, e un operaio è ucciso da un soldato. A questo punto i militari desistono, anche perché non trovano nessuno disposto a manovrare il treno, e si ritirano.

Intanto lo sciopero si estende a tutta la linea, la Baltimore & Ohio, fino a Baltimora, nel Maryland. Il governatore, deluso dalla Guardia Nazionale che, composta in gran parte da ferrovieri, ha fraternizzato con gli scioperanti, si rivolge al Presidente Hayes perché invii truppe federali: il Presidente lo accontenta. Si tratta della prima volta in cui truppe federali sono utilizzate per reprimere uno sciopero in tempo di pace sul territorio metropolitano degli Stati Uniti. Il generale French, che comanda le truppe, arresta i capi dello sciopero e informa Washington che tutto è ormai tranquillo. Ma il generale si sbaglia. Lo sciopero si è ormai esteso al resto del West Virginia, all’Ohio, al Kentucky, a battellieri, minatori e altre categorie, tutti uniti dalle condizioni disumane di vita e dall’attacco padronale. A Baltimora gli operai cercano di impedire la partenza dei soldati, i quali sparano, ne uccidono 12 e feriscono molti altri.

La repressione è capillare: chi cerca di convincere un crumiro è immediatamente arrestato, qualsiasi gruppo di operai che cerca di fermare un treno è fatto bersaglio del fuoco dei soldati. Il 22, dopo arresti ed uccisioni, con l’attività congiunta di esercito, truppe private, milizia, polizia, stampa e tribunali, sulla Baltimore & Ohio lo sciopero è domato.

Ma intanto il fuoco si è esteso: le ferrovie di Pennsylvania, New York, New Jersey, Ohio, Missouri, Illinois e California sono bloccate dallo sciopero.

A Pittsburgh la lotta è particolarmente dura: gli operai rifiutano un accordo ridicolo di un sindacato giallo, e si organizzano in un sindacato segreto, la Trainmen’s Union, un sindacato che finalmente comprende tutte le categorie di ferrovieri, e non solo i macchinisti, spesso gelosi solo dei propri interessi. La tattica della lotta è simile a quella adottata a Martinsburg. Il Governatore decide di inviare la milizia da Philadelphia, contando su una certa rivalità di campanile. La manovra riesce, sulla popolazione che non recede i soldati sparano e fanno 20 morti e 29 feriti. Di fronte all’eccidio, invece di scoraggiarsi la folla aumenta per l’afflusso di lavoratori di tutti i mestieri, anche dai dintorni, e anche della milizia locale; la rabbia è incontenibile, edifici e materiale rotabile sono dati alle fiamme; le truppe devono ritirarsi. Altri morti, 11, si hanno a Reading, sempre in Pennsylvania.

Hayes chiede alle truppe di proteggere Washington. La stampa dà l’allarme: «Pittsburgh saccheggiata (...) nelle mani di uomini dominati dal diabolico spirito del comunismo» (“New York World”). Giornali, prelati, funzionari pubblici, tutti denunciano lo sciopero come un’altra Comune di Parigi: «una insurrezione, una rivoluzione, un tentativo di comunisti e vagabondi di sottomettere la società, di mettere in pericolo le istituzioni americane». I giornali chiedono a chiara voce spargimento di sangue. Gli scioperanti, dice il “New York Tribune”, conoscono solo la logica della forza; inutile quindi mostrare pietà verso «la marmaglia ignorante dalle bocche affamate». Per il “New York Herald” la folla «è una bestia selvaggia, da abbattere». Il “New York Sun” raccomanda una dieta di piombo per gli scioperanti affamati, mentre “The Nation” invoca l’uso di cecchini. È di questo periodo la famosa affermazione del miliardario Jay Gould: «Darei un milione di dollari per vedere dittatore o imperatore il generale Grant».

Ciononostante, dopo Pittsburgh la milizia, ovunque fu usata, fraternizzò con gli scioperanti e si dimostrò quindi inservibile, se non controproducente.

A Chicago una battaglia di strada tra polizia e scioperanti, il 26, si conclude con 12 operai uccisi a sciabolate; gli operai successivamente riescono a prevalere per qualche giorno, per poi soccombere di fronte alle forze riunite della reazione.

Il Working Men’s Party, di recente ricostituito, aveva avuto scarsi contatti con i ferrovieri prima dello sciopero. Ma sin dai primi giorni è molto attivo nel tentativo di estendere la lotta geograficamente e tra le categorie. Oltre a sostenere le lotte tenta anche di dare loro contenuti di interesse generale, come le otto ore e l’abolizione delle leggi antisindacali. A Chicago ha un ruolo di primo piano. A St. Louis il partito riesce a organizzare direttamente gli scioperanti: il 29, anche se parte del padronato aveva concesso gli aumenti salariali richiesti, lo sciopero è totale, e gli operai sono padroni della città.

La reazione però non si fece attendere, e le forze congiunte dei borghesi, che si tassarono di 20.000 dollari per armare una forza di mille mercenari, della milizia, della polizia a cavallo, delle truppe federali e di altri volontari ebbe ragione dei proletari: i loro quartieri furono devastati, i capi arrestati a decine e condannati a forti multe e pene detentive. Il 2 agosto lo sciopero era terminato.

Come era da aspettarsi, dato il livello di organizzazione dei proletari americani, il grande sciopero risultò in una sconfitta. Non del tutto però, perché in molti casi i padroni concessero effettivamente aumenti, o rinunciarono alle decurtazioni. Ma di certo l’operaio medio americano aveva guadagnato almeno due lezioni fondamentali: in primo luogo si era reso conto della grande forza che la classe era in grado di esprimere quando si muoveva unita; e inoltre che questa grande forza poteva risultare in niente senza una organizzazione che le desse continuità, collegamenti, capacità di resistenza. Da qui nascerà la spinta decisiva verso la formazione di sindacati nazionali, capaci di muovere grandi masse e di sostenere, grazie alle quote degli iscritti, gli scioperanti per periodi prolungati.

Meno profonda fu invece l’esperienza politica, a causa della scarsa penetrazione nella classe del Working Men’s Party. Esperienza che invece Marx sperava si consolidasse, come scrive il 25 luglio 1877 in una lettera a Engels: «Cosa ne pensi degli operai degli Stati Uniti? È la prima rivolta contro l’oligarchia del capitale associato che si è sviluppata dalla fine della Guerra Civile, e sarà naturalmente schiacciata, ma può fornire un punto di partenza per la creazione di un serio Partito Operaio negli Stati Uniti. Inoltre vi sono due circostanze favorevoli. La politica del nuovo Presidente farà diventare i negri alleati militanti degli operai, così come accadrà con i contadini dell’Ovest – i cui mugugni sono ormai ben palesi – dopo gli enormi espropri di terra (terra fertile) a vantaggio delle compagnie ferroviarie, minerarie, ecc. Quindi una tempesta non da poco si sta incubando da quelle parti, e il trasferimento del Centro dell’Internazionale negli Stati Uniti può, post festum, rappresentare un’opportunità eccezionale». Engels risponde a stretto giro di posta: «È stato un piacere questo affare dello sciopero in America. Il modo in cui si sono gettati nel movimento non ha eguali su questo lato dell’oceano. Solo dodici anni sono passati dell’abolizione della schiavitù, e già il movimento raggiunge tali livelli!». Purtroppo, da un punto di vista politico, le speranze dei nostri maestri non si sarebbero avverate.

Anche i padroni trassero le loro lezioni: gli operai possono essere molto pericolosi quando le loro condizioni divengono insopportabili. Ma, lungi dal migliorarle, i padroni appresero la necessità di un esercito permanente dislocato nel paese, di disporre di una milizia sotto il controllo dei capitalisti più eminenti, delle polizie private, anche a fini di spionaggio, delle cosiddette armerie nelle quali trincerarsi nei momenti difficili, una specie di fortezze che negli anni successivi furono costruite nel centro di tutte le città americane, e che sono ancor’oggi visibili con tanto di spesse muraglie e feritoie per il tiro e, chissà, ancora utilizzabili.
 

Accenni di azione politica indipendente

La lunga crisi determinò nei proletari il diffuso convincimento che i sindacati sono incapaci di rispondere appieno ai loro problemi, di risolverli. D’altronde la rapida disintegrazione dei partiti politici formatisi sotto la guida della National Labor Union ebbe lo stesso effetto nei riguardi dell’impegno politico indipendente. Per qualche anno quindi la classe operaia ondeggiò tra il disinteresse e il tiepido sostegno a movimenti che avevano ben poco in comune con i suoi obbiettivi di classe.

Uno dei movimenti politici che cercò di attirare a fini elettorali le simpatie operaie fu il “greenbackismo”, che vedeva la soluzione di tutti i mali nell’emissione forzosa di valuta cartacea e in altre misure economiche; un movimento che si basava soprattutto sugli agricoltori e sulla piccola borghesia urbana. Il Working Men’s Party, ancora nel 1876 ammoniva gli operai a non farsi incantare da questa “novità”, e le sue sezioni a non farsi coinvolgere nelle campagne del Greenback Party. Lo ripeteva una risoluzione adottata al congresso delle sezioni americane dell’Internazionale, tenutosi a Philadelphia nell’aprile 1874. Un’altra importante risoluzione sull’azione politica rifiutava «qualsiasi cooperazione o collegamento con i partiti politici formati dalle classi possidenti, si chiamino essi Repubblicani, Democratici, Indipendenti, Liberali, Associazioni di Agricoltori (Grangers), Riformatori, o qualsivoglia nome abbiano deciso di adottare». I socialisti rimproveravano al movimento dei Greenback di non avere nel programma quasi nessun interesse per gli operai, mentre si disinteressavano del tutto della sorte dei negri nel Sud, pur sempre una componente del proletariato che proprio in quegli anni stava tornando sotto il giogo dei proprietari terrieri grazie allo sciagurato compromesso tra Repubblicani e Democratici.

In seguito ad un rovescio elettorale in quello stesso anno, il Greenback Party aumentò le rivendicazioni filo-operaie, si fuse con l’appena nato United Labor Party per formare il Greenback-Labor Party e, anche se il Working Men’s Party continuò a tenerlo a distanza, ottenne nelle elezioni del 1878 oltre un milione di voti. Una vittoria effimera che, anche se seguita da qualche nomina a livello locale, non riuscì ad evitare lo sfaldamento del movimento che si concluse nel 1882.

Nel 1876 avevamo lasciato il Working Men’s Party riunito, ma già in preda alle polemiche tra lassalliani e marxisti. I primi sostenevano che, se gli operai non avevano nemmeno i pochi centesimi per iscriversi al Partito, come potevano pagare la tessera, molto più costosa, del sindacato? E non avrebbe questo fatto la concorrenza al partito? E se i sindacati potevano risolvere i problemi degli operai, a cosa serviva il Partito?

I marxisti risposero dai loro giornali che, anche se i sindacati non erano abbastanza grandi da includere tutti gli operai, era comunque compito dei socialisti favorirne il rafforzamento. Riguardo all’utilità del Partito, così argomentavano: «Il partito è utile per tutto. Può fare il lavoro che i sindacati attualmente non possono fare. Può agitare e studiare sulle questioni di economia. Può combattere gli errori del passato. Può far capire la necessità di unità e di azione. Può dimostrarsi il partito dell’intelligenza e della saggezza aiutando qualsiasi sindacato operaio, lavorando per l’avanzamento della classe, che può farsi solo nelle organizzazioni di classe. Può invitare le masse ad aderire ai loro sindacati, e spingere questi ad una azione centralizzata. Se vogliamo favorire l’arrivo di un futuro migliore dobbiamo lavorare per un presente migliore. Cerchiamo di non essere stupidamente egoisti solo perché il nostro partito non è l’intero movimento operaio. Esso ne è solo l’avanguardia». (“Labor Standard”, 6 gennaio 1877).

Ma la sconfitta degli scioperi del 1877, invece di mostrare quanto grande fosse il potenziale sinora inespresso della classe operaia, indusse i lassalliani a rafforzare la loro convinzione che l’unica arma vincente fosse quella della scheda elettorale. A che pro lottare con lo sciopero se quando si sta per vincere arrivano milizie, truppe, giudici e compagnia cantante a vanificare il risultato raggiunto? Solo conquistando il potere politico centrale, ovviamente attraverso l’urna, è possibile aspirare ad una società socialista. Forti di questa convinzione i lassalliani convinsero numerose sezioni a buttarsi nell’agone della politica elettorale; e in effetti nelle elezioni locali dell’autunno 1877 vi furono risultati incoraggianti in molte importanti città. Nella convenzione di Newark del Working Men’s Party (il 26 dicembre) i lassalliani presero il controllo del movimento, ne cambiarono il nome in Socialist Labor Party, e ne riscrissero il programma. Lo scopo principale del partito era adesso la mobilitazione della classe per l’azione politica. Il nuovo motto fu: “La scienza come arsenale, la ragione come arma, la scheda come proiettile”.

Anche nel 1878 vi furono successi elettorali, che però si dimostrarono effimeri l’anno successivo. D’altronde i successi erano stati determinati principalmente dall’ala marxista del partito, che aveva mobilitato i sindacati sui quali aveva influenza; dove i lassalliani erano in netta maggioranza i risultati elettorali furono sempre deludenti. Nel 1880 una spaccatura del partito divenne inevitabile, e l’occasione fu l’atteggiamento verso le elezioni presidenziali. La maggioranza scelse di fondersi con i Greenbackers, mentre l’ala marxista decise di appoggiare candidati socialisti indipendenti. Altri gruppi presero posizioni diverse, da un sindacalismo conservatore al terrorismo.

Il movimento operaio fu inoltre penetrato dalla componente anarchica, sino a quel momento poco sviluppata, per l’arrivo di numerosi socialisti espulsi dalla Germania dalle leggi del 1878. Nacquero così numerosi club Socialrivoluzionari, che si sarebbero federati nel 1881 in un Revolutionary Socialistic Party, dalle classiche posizioni dell’anarchismo, nonostante il nome.
 

La International Labor Union

Nonostante la lunga depressione degli anni ’70, e il drastico calo degli iscritti che ne conseguì, il movimento sindacale non scomparve; la ripresa che si verificò nel 1878, e che esplose un anno più tardi, a differenza delle analoghe situazioni seguite alle precedenti crisi trovò un embrione di organizzazione proletaria pronto a ripartire per la difesa delle condizioni dei salariati. E ce n’era ampiamente bisogno: la crisi aveva spazzato via gran parte delle conquiste del periodo seguito alla Guerra Civile, con orari di lavoro che superavano sempre le 10 ore al giorno, con punte di 12-13 in molti settori produttivi, soprattutto in quelli nei quali i sindacati erano assenti e tra i lavoratori non specializzati. I salari poi erano stati ridotti al punto che ancora nel 1883, dopo diversi anni di ripresa e di lotte vittoriose, erano inferiori a quelli del 1870.

I sindacati nazionali erano 18 nel 1880, e la metà proveniva da prima della crisi. Negli anni successivi questi sindacati ebbero una crescita rapida, anche se inizialmente i numeri assoluti rimasero bassi, al di sotto dei 50.000 iscritti nel 1883, mentre non è possibile calcolare quanti fossero gli iscritti a tutti i sindacati, anche locali; sicuramente molto pochi nel 1877-78.

L’esigenza di unione e coordinamento, assimilata grazie alle recenti esperienze, fu parzialmente soddisfatta in quegli anni dal sorgere di Central Councils e Trade’ Assemblies, antesignani di strutture tipo le nostre Camere del Lavoro anche se molto più informali; nella loro nascita e funzionamento ebbero un ruolo di primo piano i socialisti del Socialist Labor Party, che guidarono i lavoratori anche sul piano politico, in lotte per bloccare legislazioni reazionarie tese a annullare conquiste normative e politiche dei decenni precedenti, come l’annullamento della legge sulle cospirazioni.

Ovviamente queste iniziative non potevano considerarsi stabili, e la necessità di strutture più organizzate e permanenti era molto sentita. Inoltre le Trades’ Assemblies si limitavano nella loro attività quasi esclusivamente ai lavoratori specializzati. Il compito di superare questo limite fu assunto in questo periodo da due organizzazioni, la International Labor Union e i Knights of Labor.

Nonostante la sua breve vita la International Labor Union è importante come primo grande tentativo di organizzare in un unico sindacato tutti i lavoratori non specializzati, per poi farli confluire nei sindacati degli specializzati in una solidarietà nazionale senza limiti di nazionalità, sesso, colore della pelle, credo religioso e politico. La sua nascita risale agli inizi del 1878, e risulta dalla convergenza di dirigenti dell’Internazionale, disgustati dalla smania “politica” dei lassalliani, e di dirigenti del movimento per le otto ore, con lo slogan “Meno ore e più salario”. L’obbiettivo confessato era la costituzione di una organizzazione operaia di massa con il fine dell’abolizione del sistema salariale.

Gli obbiettivi sono riportati nella “Dichiarazione dei principi”: «Il sistema salariale è un dispotismo sotto il quale il salariato è costretto a vendere il suo lavoro al prezzo e alle condizioni dettate dal padrone (...) Essendo la ricchezza del mondo distribuita attraverso il sistema dei salari, la sua migliore distribuzione dovrà realizzarsi attraverso salari più alti (...) finché i salari si commisureranno a compenso del lavoro e non alle sue necessità; facendo così scomparire il profitto e rendendo la cooperazione, ossia il lavoro autogestito, il gradino naturale e logico tra la schiavitù salariata e il lavoro libero (...) Il primo passo verso l’emancipazione del lavoro è una riduzione delle ore lavorative; il maggior tempo libero derivato da tale riduzione avrà effetto sulle cause naturali che influiscono sulle abitudini degli uomini, aumentando i bisogni, stimolando l’ambizione, riducendo l’ozio e aumentando i salari».

Non è pensabile che i marxisti, guidati da Sorge, ritenessero veramente che riduzione delle ore di lavoro e aumento dei salari fossero la condizione per un passaggio, peraltro indolore, al socialismo. Sorge negli scritti che ci sono pervenuti non si pronuncia, ma anche se le due condizioni sopra citate sono sicuramente progressive nella lotta per il socialismo, lo scopo per cui i socialisti si unirono ai seguaci di Steward fu sicuramente la creazione di un organismo di massa, capace di affasciare e difendere tutta la classe operaia, nel quale i socialisti potessero svolgere la loro azione di propaganda e agitazione. D’altronde bisogna anche ricordare che all’epoca altri ben più nefasti movimenti politici, quali i Greenbackers e la Riforma Monetaria, avevano un certo seguito in ampi strati proletari.

La International Labor Union comprese anche la necessità di aprire ai negri del Sud. Ma la sua forza provenne principalmente dai lavoratori non specializzati del settore tessile, soprattutto donne. E fu tra le lavoratrici del tessile del New England che la Union raccolse i suoi maggiori successi negli anni 1878-80.

Negli anni successivi però i successi mancarono, e l’organizzazione perse forza fino a cessare di esistere nel 1883. L’esperienza di chi ne aveva fatto parte però non andò perduta, e sarà preziosa all’interno dei Knights of Labor.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Il Marxismo e la Questione Militare

[Indice del lavoro]
Capitolo esposto alla riunione di Torino nel maggio 2008.

(Continua dal numero scorso)
 

Parte terza

A) Il capitalismo - Borghesia e proletariato

1. Prime rivoluzioni borghesi e proletariato nascente

Dello sviluppo del primo Stato capitalista del mondo, nell’Italia del Sud nel 13° secolo, e del suo prolungamento nei Comuni cittadini, dove il mercantilismo crea le basi di una prima forma di produzione capitalistica, qui ci interessa delineare gli aspetti sociali:
     1) il capitale accumulato in Italia poggiava, prima che sul commercio, sulla grande proprietà fondiaria che controllava l’approvvigionamento delle città, ed era esportatrice di derrate alimentari;
     2) le ricchezze monetarie così accumulate si riversavano in una piccola industria, soprattutto tessile, che attingeva le sue materie prime prevalentemente nel Nord Europa (Inghilterra per la lana, Fiandra per il lino e per le tele grezze da trasformare e tingere), ed era quindi vitalmente legata al mercato internazionale sul quale tornavano i suoi prodotti finiti (fiere della Champagne);
     3) contrariamente agli artigiani, gli operai non lavoravano per una clientela diretta, ma per dei mercanti imprenditori, che possedevano gli strumenti di lavoro, disponevano del monopolio del lavoro salariato, fissavano arbitrariamente i salari ed i fitti, escludevano gli operai da ogni partecipazione alla vita politica, negavano loro il diritto di coalizione, punivano lo sciopero con la pena di morte. Nell’impossibilità di migliorare gradualmente e pacificamente le loro condizioni di vita, gli operai ricorrevano spesso alla violenza, di cui tutta la storia dei Comuni italiani è punteggiata. Abbiamo qui, in piccolo, una prefigurazione di quelle che saranno le condizioni invarianti di vita e di lotta del proletariato moderno.

Il capitalismo mercantilista prosegue la sua marcia in Inghilterra mentre il suo sviluppo si blocca in Italia e Fiandra per cause storiche ed economiche. La guerra dei Cent’anni e la peste, che spopolò da sola mezza Europa, impediscono il rimborso delle gigantesche somme prese a prestito dai banchieri italiani, che quindi in gran parte falliscono, e chiudono ai mercanti lo sbocco sul mercato inglese. Analogo effetto hanno le lotte tra Papato e Impero e l’avanzata dei turchi e dei magiari in Oriente. Impotenti a resistere all’urto, le ricche repubbliche mercantili decadono, le città diventano preda di una piccola borghesia avida e reazionaria il cui peso sul proletariato è ancora più oppressivo di quello della grossa borghesia mercantile. Dominano le corporazioni, la regolamentazione dei mestieri soffoca lo sviluppo delle forze produttive, la miseria crescente dei salariati impedisce loro di prendere partito per il modo di produzione più progressivo.

L’asse dello sviluppo economico e sociale si sposta quindi verso il Centro Europa, dove sulla base del capitale mercantile divampa la lotta contro il feudalesimo: è esso la forza sociale che dirige i moti delle città e delle campagne contro i signori feudali, anche se non si insisterà mai abbastanza sul ruolo rivoluzionario che in questa lotta ebbe la classe contadina, unica classe asservita.
 

2. Contadini e proprietà privata

La lotta rivoluzionaria dei contadini segue e si conforma al grado di sviluppo sociale dei singoli paesi e dell’insieme dell’Europa, ma parte da basi diverse e tende verso fini diversi a seconda che la sua azione si fondi sul lotto di proprietà privata, che cerca di difendere contro le ingerenze della gerarchia feudale accaparratrice delle terre comunali, o invece sulla proprietà comune del suolo, che cerca di mantenere contro le usurpazioni dei feudatari.

In alcuni paesi il processo di eversione del sistema feudale e di proletarizzazione dei contadini fu più tipico.

1) In Svizzera il feudalesimo non poté mettere solide radici a causa dell’indipendenza dei suoi abitanti, disseminati in una regione aspra e montagnosa, favorevole allo sviluppo della proprietà privata. La resistenza permise ai contadini di trionfare contro le forze feudali straniere della Borgogna e dell’Austria. Ma della loro vittoria approfittarono socialmente gli artigiani e i mercanti, specie nella valle del Reno. Questi ben presto assoldarono la forza militare dei contadini stagionali, utilizzati in tutta l’Europa, come mercenari e come condottieri, dalle forze progressive in lotta contro la reazione feudale, come abbiamo già riferito nella parte precedente, sull’organizzazione della fanteria svizzera organizzata in falange.

2) In Inghilterra, dove uno strato contadino libero si era già formato nel corso del Medioevo, non senza lotte sanguinose, si sviluppa e si completa il trapasso avuto in Svizzera. Il capitalismo trova nell’isola un terreno particolarmente favorevole, per il livello raggiunto dalle forze produttive nel commercio e nell’artigianato. Il processo non si arresta e si estende: una gran parte dell’aristocrazia si imborghesisce e, nei secoli XVI e XVII, si allea coi fittavoli, con la burocrazia statale, con la finanza legata al commercio internazionale e con i manifatturieri. I beni della Chiesa e le terre dei free yeomanry, i liberi contadini, vengono confiscati a favore dei grandi affittuari, mentre lo sviluppo delle manifatture trasforma gli arativi in pascoli per le greggi, quando “le pecore mangiavano gli uomini”. Successivamente il Parlamento emana le leggi sulla recinzione delle terre comunali (enclosures), già in atto malgrado l’accanita resistenza contadina ed inizia il processo della loro espropriazione, condizione dello sviluppo della produzione capitalistica.

Parallelamente, nelle città, anche il ceto artigiano piccolo-borghese, già nerbo insieme ai contadini liberi dell’esercito di Cromwell, viene schiacciato con la forza o pauperizzato sotto il rullo compressore della manifattura. Ma la proletarizzazione avviene soprattutto nelle campagne, dove i lavoratori della terra espropriati attraverso un’offensiva di una violenza inaudita, si ripartiscono, in modo storicamente fecondo, fra salariati agricoli e dell’industria. In questo modo è nato, “nel ferro e nel fuoco”, il proletariato inglese.

3) In Francia, la rivoluzione del 1789 avviene in condizioni di maturità eccezionale. Anche qui il capitalismo si era sviluppato nell’agricoltura (non a caso la Francia è la patria del fisiocratismo), e affittuari e proprietari fondiari avevano cominciato ad allearsi per estendere nelle campagne la produzione e la distribuzione capitalistica. Questo processo incontra la resistenza accanita dei contadini, che riescono ad esprimere una violenza non minore, diretta sia ad abbattere le forme di sfruttamento feudale, sia a riappropriarsi delle terre comunali usurpate dai signori e dal clero. In tal modo i contadini impongono il libero accesso alla terra e allargano e generalizzano la proprietà particellare. Il prevalere degli interessi dei contadini fornisce alla rivoluzione francese le sue forze vive, ma al tempo stesso ritarda lo sviluppo capitalistico nell’agricoltura, e in parte anche nell’industria, gettando le basi delle tendenze piccolo-borghesi così tenaci nella Francia del secolo successivo.

La forza del contadiname francese si espresse ancora nella difesa delle conquiste della Rivoluzione, contro la reazione assolutistica all’interno, nell’edificazione dello Stato borghese militare e nella protezione della Repubblica contro gli attacchi dell’autocrazia feudale centro-europea, alleata col concorrente borghese britannico. Negli eserciti rivoluzionari e in quelli napoleonici la classe contadina francese seppe riportare vittorie clamorose scrollando in Europa i vincoli economici e politici feudali. Ma qui il limite insuperabile delle sue aspirazioni e del suo compito storico: chiuso entro l’orizzonte borghese, il contadiname parcellare assicura d’ora innanzi la stabilità sociale della borghesia capitalistica, che regna sull’insieme della società, e divenendo l’indispensabile ammortizzatore nei grandi scontri fra le classi e contrastando in modo deciso il crescere del giovane proletariato.
 

3. Contadini e proprietà comune

Altri movimenti contadini rivoluzionari in Europa hanno legato la loro azione non alla proprietà parcellare bensì alla difesa del possesso comune contro i feudali, come fu ad esempio in Germania il movimento di Müntzer, che non ebbe carattere piccolo-borghese. Solo la vittoria della controrivoluzione trasformò i contadini tedeschi in servi feudali, in piccolo-borghesi e in borghesi.

1) In Germania la rivolta dei contadini durò circa due anni (1524-25) e si estese a quasi tutto il paese. Il loro programma, condensato nei “dodici articoli”, mescolava idee di riforme religiose, sull’onda della predicazione di Lutero, e rivendicazioni di carattere economico e sociale in difesa delle proprietà comuni, secondo l’antica tradizione germanica, e contro i privilegi e gli abusi delle prestazioni gratuite di lavoro dovute ai signori feudali. Organizzati in bande armate di 5.000-10.000 uomini ciascuna, per un totale di oltre 40.000 combattenti, i contadini riuscirono inizialmente ad occupare alcune città costringendo molti nobili ad accettare le loro richieste. Quando però le rivolte dei contadini si estesero, si radicalizzarono e diventarono una vera e propria guerra, con violenze e saccheggi indistintamente contro tutte le proprietà ecclesiastiche e feudali, minando la stabilità dell’intero sistema sociale, i principi tedeschi, accantonate le divisioni politiche e le dispute religiose e appoggiati da Lutero, si unirono contro i contadini nella Lega Sveva. Le bande contadine non riuscirono a fondersi in un unico esercito, segno dell’assenza di un’unità politica centralizzata, e furono sterminate l’una dopo l’altra dalle truppe dei principi alleati. Avrà conseguenze di vasta portata, ben oltre il Cinquecento, la sconfitta e la sanguinosa repressione della Guerra contadina, in particolare nella sua manifestazione estrema, la rivolta di Müntzer, «questo rappresentante di una classe posta completamente al di fuori della società ufficiale, cioè dei primi elementi del proletariato che presentisce il comunismo» (Engels).

I contadini tedeschi vennero poi per secoli sottoposti ad un brutale sfruttamento, anche peggiore di quello in Russia, abbandonati totalmente alla mercé del signore feudale, del quale dovevano abbracciare anche la fede religiosa. Occorrerà che le forze rivoluzionarie di Napoleone, formate essenzialmente da figli di liberi contadini, calpestassero il suolo tedesco per infrangere questa situazione: il 14 ottobre 1806, in un sol giorno, tutto lo Stato prussiano volò in pezzi. I contadini festeggiarono la fine di un’era, ma, sul piano pratico, il contadino si vedrà ben presto carpire i frutti dell’emancipazione napoleonica: non solo il celebre editto del 9 ottobre 1807, che aveva abolito il servaggio feudale, restò lettera morta, ma quattro successive ordinanze dal 1808 al 1810 ne aggravarono le condizioni.

Solo quando Napoleone mosse guerra alla Russia ed ebbe bisogno di forze fresche, il nuovo editto del 14 novembre 1811 “raccomandò” a contadini e signori di accordarsi “pacificamente” per eliminare le corvées e gli altri oneri feudali; trascorsi due anni un’apposita commissione regia sarebbe intervenuta d’autorità. Ma, trascorsi i due anni, Napoleone era di ritorno duramente sconfitto a Lipsia: l’ordinanza del 16 maggio 1816 lasciò l’iniziativa della liquidazione dei carichi feudali alla discrezione dei signori, che ne approfittarono per riprendersi, con l’aiuto dello Stato assolutista, anche il poco che avevano perduto. Wolff, cui Marx dedicò Il Capitale, calcolava che l’insuccesso della violenza contadina avesse fruttato alla reazione, dopo il 1816, un miliardo di marchi.

Contro gli infami sistemi di riscatto dei carichi feudali, i contadini nel 1848 scatenarono di nuovo la loro violenza, soprattutto in Slesia dove distrussero castelli e bruciarono le carte relative agli accordi sulla liquidazione degli oneri feudali. Ma quando la nuova sconfitta consolidò il ministero reazionario Brandenburg-Manteuffel, l’editto del 2 dicembre 1848 ristabilì l’antico sistema di riscatto. Poco dopo, sotto la pressione della rivoluzione, nel marzo 1850 un’ordinanza prescrisse la trasformazione dei canoni fondiari in natura con canoni in denaro, aprendo la via all’introduzione del capitalismo in agricoltura. Così altri miliardi furono estorti e andarono a costituire il fondo di accumulazione che permise un rapido sviluppo anche dell’industria, il cui livello di esportazione sul mercato mondiale superò ben presto quello degli Stati Uniti, avvicinandosi a quello della Gran Bretagna.

2) La Russia, con le sue strutture arretrate, fungeva al tempo di Marx da gendarme reazionario in Europa, al soldo dell’Inghilterra. Per spiegarne la situazione sociale e le prospettive rivoluzionarie Marx dovette risalire alla storia del XII secolo, quando il feudalesimo russo indietreggiò di fronte all’ondata mongola. La proprietà comune vi rimaneva vivace e, come in Germania, le prospettive di rivoluzione borghese erano scarse. Ma il comunismo lì trovava invece un alleato potente nella comune agricola. Ecco quindi, nella Prefazione del 1882 all’edizione russa del Manifesto, questa grande ipotesi: «L’obscina russa, questa forma in gran parte già minata dell’antichissima proprietà comune del suolo, può passare direttamente alla forma comunista superiore di possesso collettivo della terra, o dovrà prima attraversare lo stesso processo di disgregazione che costituisce lo sviluppo storico dell’Occidente? La sola risposta possibile oggi è: se la rivoluzione russa diverrà il segnale di una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che le due rivoluzioni si completino a vicenda, allora l’odierna proprietà comune della terra in Russia potrà servire come punto di partenza ad uno sviluppo in senso comunistico».

In seguito Marx ed Engels osservarono lo sviluppo del capitalismo e la parallela dissoluzione della proprietà comune in Russia. Si sarebbe posta all’ordine del giorno una rivoluzione borghese pura e semplice? La risposta loro e poi dei bolscevichi fu netta: il proletariato russo, in stretto legame coi contadini, avrebbe preso su di sé il compito di una doppia rivoluzione, trovando il suo unico e vero appoggio nel proletariato dell’Europa progredita. L’Ottobre applicherà nelle campagne il programma agrario, borghese, dei socialisti rivoluzionari, ma sotto la direzione bolscevica e nel quadro della dittatura comunista, che si appoggia sulla forza della classe proletaria e sulla violenza rivoluzionaria dei contadini poveri. Economicamente, il contadiname comunista-primitivo russo non ha potuto essere salvato, ma il suo grande potenziale eversivo, sebbene in senso borghese, ha portato al potere il proletariato industriale e il suo partito comunista. La controrivoluzione staliniana abbasserà questa classe a un livello inferiore a quello stesso borghese, bloccandola nella forma piccolo-borghese dei kolchos e solo una parte del contadiname russo trapasserà in proletariato industriale.
 

4. Le cause della rivoluzione borghese

Nella Francia del XVIII secolo erano giunte a maturazione le contraddizioni che nei secoli precedenti si erano prodotte fra le forze produttive in sviluppo e tutto l’apparato giuridico e politico feudale. I reciproci effetti della rivoluzione agricola sull’industria e della rivoluzione industriale sull’agricoltura, cioè la trasformazione del capitale mercantile in capitale industriale e agrario, avevano già talmente trasformato la realtà economica che le vecchie sovrastrutture non le corrispondevano più, anzi impedivano la definitiva liberazione delle forze produttive.

La fondamentale condizione per tale liberazione era la completa mercificazione della terra. Così Marx: «Gli uomini hanno spesso fatto dell’uomo stesso, nella figura dello schiavo, il materiale originario del denaro, ma non lo hanno fatto mai della terra. Questa idea poteva affiorare soltanto in una società borghese già perfezionata; essa data dall’ultimo trentennio del XVII secolo e la sua attuazione su scala nazionale venne tentata soltanto un secolo più tardi nella rivoluzione borghese dei francesi» (Il capitale, vol. I).

La monarchia francese che dal secolo XIV più di tutte le altre europee si era messa al servizio del capitale, divenuto la nuova potenza sociale rivoluzionaria, si era conquistata meriti storici indiscutibili; ma successivamente, specie nel XVI secolo, aveva invertito la rotta, sbarrando la strada all’ulteriore sviluppo economico e sociale. Con sforzi secolari aveva unito le varie province attraverso legami più o meno stretti creando così le condizioni più favorevoli alla loro fusione in una più vasta economia di mercato, tipica della nazione moderna. Occorreva fare gli ultimi e importanti passi per liberare la società dalle pastoie feudali: dogane interne, differenti monete ed unità di misure, ecc.

Ma ciò richiedeva il sacrificio dei privilegi della nobiltà e del clero, e della stessa monarchia che, come potere politico, mai come allora si trovava in una posizione di assoluto dominio sull’equilibrio sociale delle sue classi fondamentali: nobiltà e borghesia. Non erano possibili ulteriori e più coraggiose riforme per iniziativa delle forze politiche dominanti, e in modo particolare della monarchia, ormai terrorizzata dall’uso della violenza. Solo la violenza rivoluzionaria delle masse sfruttate del popolo, proletariato in testa, poteva farla finita una volta per sempre con il passato, essendo escluso che le forze del privilegio trasferissero il potere politico alla classe borghese, che deteneva già quello economico.

Circa le cause contingenti, che sono quelle cui in genere gli storici danno molto peso, ne diamo qui solo un cenno critico. Certamente la crisi finanziaria dello Stato ebbe la sua importanza nel precipitare gli eventi, e spinse gli stessi aristocratici contro re Luigi XVI per costringerlo a riparare le falle, e ovviamente non a loro carico. Ma attribuirle l’importanza che le si dà è un errore perché il grave deficit del bilancio statale fu esso stesso un prodotto, un effetto caratteristico delle vere e più profonde cause del dramma cui abbiamo fatto cenno più sopra. Rendere poi prime responsabili, come fanno i più incalliti storici idealisti, le nuove dottrine filosofiche, è semplice idealismo e non è il caso di insistervi. Certamente quelle idee ebbero la loro importanza e nessuno più di noi le considera meno efficaci delle non metaforiche armi, ma esse in verità non nacquero nelle teste dei pensatori rivoluzionari di quel tempo se non per riflesso di una realtà materiale in movimento che reclamava la rimozione di ogni ostacolo.
 

5. Equilibrio delle forze alla vigilia della rivoluzione

Qual era il rapporto di forza fra le classi in lotta, quale la posizione del potere politico dello Stato in mano alla monarchia del secolo XVIII e fino all’apertura della crisi del 1789? La risposta ce la dà Engels, ne: L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato: «Poiché lo Stato è nato dal bisogno di contenere gli antagonismi di classe, essendo al tempo stesso nato dal conflitto delle classi, esso è, come regola generale, lo Stato della classe più forte, della classe economicamente dominante che, grazie ad esso, diventa la classe dominante anche politicamente ed acquista così nuovi mezzi per opprimere e sfruttare la classe oppressa. In via di eccezione, vi sono però periodi in cui le classi in lotta raggiungono un equilibrio di forze tale che il potere statale acquista una certa indipendenza di fronte a queste classi ed appare una specie di arbitro fra di esse. Tale è il caso della monarchia assoluta fra il XVII ed il XVIII secolo che mette in posizione di equilibrio la nobiltà e la borghesia; tale il caso del Bonapartismo del Primo e del Secondo Impero e di Bismarck in Germania».

Anche Lenin in Stato e Rivoluzione cita questo passo di Engels (le traduzioni non coincidono perfettamente) ed aggiunge alla serie del “casi eccezionali” anche quello prodotto in Russia fra il Febbraio 1917 e l’Ottobre: «Tale, aggiungiamo noi, il governo Kerensky nella Russia repubblicana, dopo che esso è passato alle persecuzioni contro il proletariato rivoluzionario nel momento in cui i Soviet sono già impotenti a causa dei loro dirigenti piccolo-borghesi, e la borghesia non è ancora abbastanza forte per scioglierli senz’altro».
 

6. Le forze politiche rivoluzionarie e la loro evoluzione

L’unico partito che avesse una certa consistenza in Francia prima della rivoluzione era quello della borghesia. La sua fisionomia ed il suo carattere non hanno nulla di comune con gli attuali partiti borghesi: era allora un partito sovversivo ed oggi è per la conservazione; i partiti che la rappresentano ricevono tutto l’appoggio che necessitano dallo Stato, che a sua volta è da questi sostenuto e difeso.

Il partito della borghesia era allora organizzato per Clubs e Circoli che formavano una rete di centri di propaganda rivoluzionaria legati fra loro da una vasta ed intensa corrispondenza. Tali Circoli, che facevano capo ad un Comitato Centrale residente a Parigi, erano all’inizio composti di pochi membri, quasi tutti uomini della classe colta e possidenti disposti ad aprire i loro forzieri per finanziare la loro attività, rivolta essenzialmente all’agitazione della media e della piccola borghesia. In seguito, nel corso della rivoluzione, quando lo richiederà la necessità di contrapporre una seria ed efficace resistenza alle forze monarchiche ed agli stessi borghesi moderati della timorata Assemblea, i Clubs faranno appello alle masse popolari, le quali già per proprio conto si andranno organizzando in “società popolari”, e poi, con la riforma amministrativa dei grandi centri, in “sezioni”.

La storia poneva all’ordine del giorno la rivoluzione borghese e, in questa fase, il ruolo della classe borghese è incontestabile; a confermarlo sta la funzione direttiva che essa svolse. Le due forze fondamentali della rivoluzione, il governo rivoluzionario e l’esercito rivoluzionario, furono diretti dai suoi più audaci rappresentanti politici e militari. Ma tale funzione non fu per un coraggio di classe che tanto Lenin quanto Marx non hanno mai riconosciuto alla borghesia. Può sembrare strano che questa classe, il cui modo di produzione è il più rivoluzionario della storia, non debba presentare una corrispondente decisione sul piano dell’impiego della forza armata. Ciò si spiega non con ragioni misteriose o spirituali, ma semplicemente per determinazioni sociali e storiche. Come classe, la borghesia è priva di risolutezza nell’azione militare, per due ragioni fondamentali:

1) Dietro l’esperienza della seconda rivoluzione inglese del 1688 (quella del 1648 fu violenta e portò alla decapitazione di Carlo I), la borghesia francese s’immaginava e sperava di poter fare la sua rivoluzione in modo quasi legalitario, con la sola pressione di argomentazioni illuministiche sia sulla monarchia sia sui vecchi ordini privilegiati e attraverso un compromesso politico con questi. La “convenienza” di un simile percorso seduceva la sua mentalità affaristica mentre la sua anima bottegaia risultava poco disposta a scegliere strade più irte di difficoltà e di incognite. Il suo spirito filisteo le impediva di riconoscere il ruolo che la storia le assegnava e la dittatura di classe che doveva imporre. A questa azione la borghesia perverrà solo quando, spinta dalla logica ferrea della lotta in cui si troverà impegnata, ma né prima né dopo la conquista del potere la teorizzerà mai.

2) La borghesia aveva paura che la violenza da compiere sulle forze conservatrici potesse far staccare la classe proletaria dal proprio fianco per vedersela contrapporre da una posizione autonoma e reclamare non solo il crollo delle vecchie classi sfruttatrici ma anche delle nuove. La borghesia aveva cioè paura che la rivoluzione avrebbe educato e fatto decidere il proletariato ad usare la sua violenza per stabilire un ordine economico in cui essa non avrebbe avuto alcun diritto di proprietà o produrre una situazione di caos che poteva ugualmente compromettere le sue aspirazioni di dominio.

Oggi noi sappiamo che questa paura della “plebaglia”, della “canaglia”, sarà ben giustificata in tempi successivi (dal 1848 in poi), quando le premesse economiche e politiche della rivoluzione socialista saranno più mature.

Qui possiamo notare come il processo di sviluppo della lotta portasse ad una specie di decantazione delle forze rivoluzionarie: le prime a promuovere offensive dimostreranno presto timore dell’ampiezza e dell’asprezza assunte dalla lotta, e saranno ben presto sostituite da altre più radicali che, a loro volta, saranno scavalcate da altre ancora più risolute, tanto nell’azione militare quanto in quella di governo. Questi slittamenti sempre più a sinistra saranno provocati dall’intervento energico e risolutivo delle masse, all’avanguardia delle quali il proletariato.

Commentando sulla “Nuova Gazzetta Renana” la fallita rivoluzione in Germania del 1848, Marx così caratterizza questa situazione: «Per noi febbraio e marzo potevano avere il significato di una vera rivoluzione solo se divenivano non la conclusione ma, al contrario, il punto di partenza di un lungo movimento rivoluzionario in cui, come nella grande rivoluzione francese, il popolo avesse continuato a svilupparsi solo attraverso le sue lotte, in cui i partiti si fossero sempre più nettamente distinti fino a coincidere completamente con le grandi classi – borghesia, piccola borghesia, proletariato – in cui il proletariato conquistasse una dopo l’altra le singole posizioni in una serie di giornate di battaglia».

Il proletariato è in un primo periodo confuso con le altre classi inferiori e appoggia la borghesia contro la monarchia e la reazione feudale: è una forza ancora popolare, uno “stato”, un “ordine” della società. Durante questa fase, la sua lotta si confonde con quella di altri gruppi sociali: i contadini, gli artigiani e gli altri strati borghesi e piccolo borghesi. Ma intanto per la prima volta il lavoro si separa completamente dalla terra e dagli altri mezzi di produzione.

In un secondo periodo è ancora il proletariato, a fianco della piccola borghesia, a spingere la grande borghesia ormai al potere a portare a termine la sua stessa rivoluzione e alle più coraggiose riforme. Infine, in un terzo periodo, quando la grande borghesia si sente pienamente vittoriosa e sicura contro le forze del passato interne ed esterne, il proletariato, ergendosi con Babeuf contro la nuova classe al potere, si rende del tutto autonomo dalle altre classi e si contrappone al nuovo ordine con un’altra lotta e con le sue rivendicazioni storiche. Il proletariato, ricevute le armi dalla borghesia, gliele rivolge contro!
 

7. Il problema delle alleanze

Data la struttura locale e nazionale della borghesia ed i suoi interessi antagonistici, le sue lotte si muovono in modo sinuoso e contraddittorio; le diverse rivoluzioni borghesi, pur avendo la stessa natura, non presentano gli stessi caratteri per il fatto che avvengono successivamente nello spazio, nel tempo, con diverse condizioni di maturità delle forze produttive locali e generali e forme sociali di produzione differenti.

Poiché i proletari si trovano coinvolti nella maggior parte delle lotte rivoluzionarie borghesi, il loro obiettivo segue, in questa fase, il corso tortuoso del moto borghese. Assistiamo quindi a situazioni storiche che possono sembrare, a chi non abbia una visione chiara del necessario corso della storia, paradossali, ingarbugliate, assurde, perfino contro natura.

Così avviene che le due classi antagoniste per eccellenza, la borghesia ed il proletariato, abbiano interessi comuni contro forze sociali precapitalistiche, e quindi possano allearsi, per separarsi in seguito o approfittare l’una della vittoria dell’altra, in quella che noi chiamiamo rivoluzione doppia. In questa, la vittoria sulle forze assolutiste è strappata non dalla borghesia, che pur avrebbe interesse a farlo, ma dal proletariato, che più tardi può dalla stessa borghesia essere battuto senza che la sua sconfitta sia stata storicamente vana. In quanto dall’urto armato può dipendere la vittoria di una forza sociale o dell’altra, è evidente qui l’importanza che assume il gioco delle alleanze per l’affermazione e l’egemonia dell’una o dell’altra classe e dei relativi scopi.

È dunque vitale sapere se il proletariato si mette al servizio della borghesia come suo strumento, lasciandole la direzione ed i benefici del moto rivoluzionario, o se conserva la sua autonomia per realizzare le finalità sue proprie. Ma quando il proletariato può avere finalità sue proprie e disporre dei mezzi corrispondenti per realizzarli? Quando è divenuto una classe sociale opposta alla classe borghese, cioè quando si è sviluppata una nazione capitalistica evoluta.

Ricordiamo però che anche quando il proletariato lotta senza coscienza di classe e per scopi non suoi esclusivi e sotto l’ala della borghesia, esso prepara già il terreno del proprio sviluppo e della propria affermazione. Inoltre in quello stadio storico la borghesia è rivoluzionaria nel duplice senso che abbatte le forze reazionarie che intralciano lo sviluppo di una produzione moderna e nello stesso tempo favorisce la formazione sociale del proletariato liberando il lavoro da ogni vincolo feudale e opponendolo direttamente al capitale.

È quindi nell’ordine delle cose che il marxismo abbia il suo punto di partenza non nella prima rivoluzione proletaria, ma nel momento in cui la borghesia lancia il suo primo attacco rivoluzionario all’ancien régime: è da questo urto ad altissime energie che si sviluppa il suo programma.
 

8. La presa della Bastiglia e la “grande paura”

A Parigi gli eventi precipitarono il 27 aprile 1789: le truppe spararono sulla folla che protestava per la carestia; pochi giorni dopo, il 5 maggio, con la convocazione degli Stati Generali, un’assemblea consultiva di origine feudale, si apriva la crisi politica. Fu richiesta dagli stessi aristocratici: questa “rivoluzione aristocratica” non è che una delle tante contraddizioni presenti nell’ancien régime.

Nessuno dei tre Ordini che componevano tale specie di parlamento feudale, in ordine gerarchico, clero, nobiltà e borghesia o terzo stato, dimostrò di avere idee chiare e volontà precisa sul da farsi, e nessuno sospettava nemmeno ciò che riservava l’imminente futuro. Gli Ordini erano così composti, su una popolazione di Francia a quel tempo calcolata in circa 26 milioni: gli ecclesiastici, circa 130 mila tra alto e basso clero, erano il primo stato; la nobiltà, circa 400 mila fra quella “di spada”, delle antiche famiglie di tradizione militare, e quella “di toga”, ossia fatti nobili per aver svolto alti incarichi per la corona, costituiva il secondo stato. La nobiltà era riuscita ad ottenere dal re il privilegio che tutte le maggiori cariche ecclesiastiche, amministrative e militari fossero assegnate soltanto ai membri dell’aristocrazia. La parte restante della popolazione era raccolta nel terzo stato che comprendeva tutti i gruppi sociali produttivi, a loro volta così censiti: circa 20 milioni di contadini tra piccoli proprietari, mezzadri e braccianti; 1,5 milioni di artigiani e 2,8 milioni di commercianti, fabbricanti, proprietari terrieri, magistrati, funzionari e altre professioni liberali, riuniti nella borghesia. Come si nota non vi è alcuna rappresentanza dei servi (solo quelli del re erano 15 mila), dei dipendenti e dei salariati di ogni tipo.

La distribuzione della proprietà terriera rispecchiava il rapporto di potere fra le classi: il clero, benché fosse appena lo 0,5% della popolazione, possedeva il 10% della terra, mentre la nobiltà, 1,5% del totale, ne era proprietaria del 30%. La borghesia costituiva l’ 8,5% dei francesi e ne deteneva il 20%. La gran massa dei contadini, che col suo 74% rappresentava i tre quarti dell’intera popolazione, possedeva il 40% della superficie agricola. Inoltre solo sul terzo stato gravavano tutte le imposte, decime, dazi, gabelle sul sale e tutte le corvée reali.

Gli ordini privilegiati, che erano stati i primi a prendere l’iniziativa contro il re, si accorgeranno presto che nessuna riforma finanziaria di quelle proposte poteva risolvere la crisi. Ben presto quindi le discussioni sulla politica delle finanze cedono a quelle costituzionali e una questione apparentemente procedurale, sulla maniera di votare, porta alla rottura fra le parti. I rappresentanti del terzo stato fanno la prima rivendicazione di meccanismo democratico chiedendo la votazione per testa invece che per Ordine, forti del fatto che su 1.039 deputati eletti agli Stati Generali, 291 sono ecclesiastici, 270 nobili e 578 del terzo stato.

L’indecisione del Re, favorita dalle divisioni all’interno degli ordini privilegiati – si mettono con la borghesia parte dei rappresentanti del basso clero e alcuni nobili, come il marchese La Fayette comandante del corpo di spedizione francese inviato in soccorso della rivoluzione anticoloniale e borghese americana nel 1780 – porta già ad un virtuale sdoppiamento del potere con la trasformazione in Costituente dell’Assemblea Nazionale. Il re con un atto di forza reagisce e tenta di esautorare l’Assemblea e ripristinare il pieno assolutismo. Ma grazie al pronto intervento popolare il tentativo fallisce e l’Assemblea è salva. Conseguenza di questo fatto fu l’immediata creazione della Guardia Nazionale, inizialmente composta da volontari, il cui scopo era la difesa dell’Assemblea da eventuali colpi di Stato monarchici attuati dalla Guardia Regia; organizzata e comandata da La Fayette fu la prima e immediata struttura armata rivoluzionaria.

Il 14 luglio 1789 l’assalto da parte del popolo e la presa della Bastiglia, una fortezza nel cuore di Parigi usata come carcere degli oppositori, è il primo grande atto di violenza rivoluzionaria. La sua immediata eco nelle altre città fa insorgere tutta la Francia contro i poteri locali del re mentre nelle campagne si scatena la furia della rivolta contadina contro la reazione signorile, i loro soprusi e contro le proprietà terriere nobiliari ed ecclesiastiche. L’intera nazione è scossa e la “grande paura” che segue arma la rivoluzione, ovvero le classi oppresse, con le quali le stesse guardie regie passano a far causa comune. Il potere può dirsi ora veramente frantumato, e trasferito per metà in mano alla borghesia. Solo per metà, perché la borghesia non solo non spinge avanti e subito la rivoluzione, ma si rappacifica col Re. Ha essa stessa paura della violenza scatenatasi dalle viscere delle masse contadine ed urbane nelle quali l’odio di classe si è andato accumulando in lunghi secoli di servitù.

Sia a Parigi sia nel resto del paese la borghesia ha nelle mani i due organi fondamentali del potere: il governo municipale e la Guardia Nazionale. All’Assemblea Costituente non resta che prendere atto della realtà e, soprattutto nel tentativo di fermare la rivolta che si è estesa in pochi giorni in tutta la Francia, è costretta ad andare incontro alle esigenze dei contadini e nella sola notte del 4 agosto, con una coraggiosa decisione, abolisce tutti i diritti ed i privilegi feudali; due settimane dopo con la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo” consacra l’ordine borghese fondato non più sulla nascita e sul sangue, ma sul censo. Questa “coraggiosa decisione” non fu affrettata da un romantico e idealistico amore per una nascente moderna società democratica, e nemmeno per favorire lo sviluppo del capitalismo, ma, soprattutto, dalla “grande paura”, così nominata dagli stessi borghesi, prodotta da quella generale e violenta rivolta dal basso.

Si confermava grandiosamente allora in Francia la evidente legge storica che la violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova.
 

(Continua al prossimo numero)

 
 
 
 
 
 
 
 


La critica della religione in Marx e in Engels
 

Nella prefazione alla sua tesi di dottorato Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella d’Epicuro, il giovane Marx nel 1841 grida la professione di fede di Prometeo, citando il Prometeo incatenato di Eschilo (475 avanti Cristo): «Odio tutti gli Dei; essi mi sono obbligati, e da essi io subisco un trattamento iniquo». Questa è «la sua professione di fede, la sua massima contro tutti gli Dei del Cielo e della Terra, che non riconoscono per divinità suprema la coscienza che l’uomo ha di sé». Cita poi ciò che Prometeo risponde a Hermes, il servitore degli Dei: «Con una servitù uguale alla tua, sappilo chiaramente, non cambierei la mia sciagura. Preferisco essere legato a questa roccia che vedermi fedele messaggero di Zeus, padre degli Dei». E Marx: «Prometeo è il più nobile tra i santi e martiri del calendario filosofico».
 

1. Religione e “filosofia”

Nel 1844 Marx scrive in La critica del diritto di Hegel: «La critica della religione è la condizione preliminare ad ogni critica (...) Lottare contro la religione è lottare contro questo mondo, questa valle di lacrime, di cui la religione è il vapore spirituale. La religione è il sospiro dell’uomo sfruttato, il suo oppio per allontanare chimicamente la sofferenza, il suo paradiso artificiale! Una volta denunciata l’auto-alienazione dell’uomo nella sua forma sacra, l’uomo potrà smascherare l’alienazione nelle sue forme non sacre, e la critica del Cielo si trasformerà in critica della Terra!».

Nella storia del pensiero moderno la critica della religione è cominciata con la teoria materialista meccanicista, apparsa dapprima nel XVII secolo in Gran Bretagna con Bacon, Hobbes, John Locke, poi in Francia nel XVIII con Condillac (discepolo di Locke), Helvetius, D’Holbach, Diderot. Né La Sacra Famiglia, scritta nel 1844, Marx dichiarerà: «I francesi hanno dato al materialismo inglese lo spirito, la carne e il sangue, l’eloquenza. Gli hanno dato il temperamento che gli mancava e la grazia. Lo hanno civilizzato».

Nelle Tesi su Feuerbach, scritte nel 1845, Marx getta le basi del materialismo scientifico, del “nuovo materialismo” a venire, definendo così l’”antico materialismo”: «Il punto di vista dell’antico materialismo è la società “umana”, o l’umanità socializzata (...) La dottrina materialista che vuole che gli uomini siano dei prodotti delle circostanze e dell’educazione, e che, per, conseguenza, gli uomini trasformati siano dei prodotti di altre circostanze e di una diversa educazione, dimentica che sono appunto gli uomini che trasformano le circostanze e che l’educatore ha lui stesso bisogno di essere educato». Quindi: «I filosofi non hanno fatto altro che interpretare il mondo in differenti maniere, ora si tratta di trasformarlo». Il marxismo non è una “filosofia”, ma una interpretazione del mondo “al servizio della storia”, che fornisce la chiave per cambiarlo.

Per Marx ed Engels si tratta, in Germania in questa prima parte del XIX secolo, di combattere le vestigia idealiste.

Ciò che incalza la filosofia dell’epoca e riempie sempre più i sistemi idealisti di un contenuto materialista è il progresso impetuoso della scienza della natura e dell’industria. La dialettica idealista del filosofo Hegel all’inizio del secolo, tappa fondamentale della storia del pensiero moderno, generò diverse correnti, tra le quali quella di Bruno Bauer, che scrisse una storia, largamente copiata, del cristianesimo primitivo, successivamente quella di Ludwig Feuerbach, che si avvicina al marxismo, e infine il materialismo marxista che sviluppa la concezione materialistica della storia. Marx ed Engels mettono in evidenza le lacune della critica, ancora troppo segnata dall’idealismo hegeliano, senza negare gli immensi meriti di Bauer e Feuerbach in numerosi scritti. Basti ricordare che la famosa espressione di Marx: “La religione è l’oppio dei popoli” è tratta da Bauer!

Engels nel 1866 dichiara in Ludwig Feuerbach e la filosofia tedesca che il grosso della lotta contro la religione era portata in Germania dalla montante borghesia radicale. La rivista “La Gazzetta renana” fu espressione di una ala sinistra della scuola giovane-hegeliana, uscita con la scissione degli anni 1830-40. Il primo impulso fu dato dal libro di Strass del 1835 La vita di Gesù dove il Cristo è presentato non come un Dio ma come un, notevole, personaggio storico. Feuerbach costituisce l’anello intermedio tra la filosofia hegeliana e la concezione materialistica, che considera non l’idea ma la natura la sola realtà: nella sua opera L’essenza del cristianesimo rivendica appieno il materialismo. Scrive Engels: «La natura esiste indipendentemente da ogni filosofia; essa è la base sulla quale noi altri uomini, noi stessi prodotti dalla natura, siamo cresciuti; niente è al di fuori della natura degli uomini, e gli esseri superiori creati dalla nostra immaginazione religiosa non sono altro che il riflesso fantastico del nostro proprio essere».

Rileggiamo qualche passaggio dell’Introduzione alla Critica della filosofia del diritto di Hegel scritta da Marx nel 1844 dove si afferma la premessa ad ogni critica: è l’uomo che crea la religione e non è la religione che crea l’uomo!

«L’uomo, nella realtà fantasmagorica del cielo, dove ha creato un superuomo, riflesso di sé stesso, non potrà trovare che l’apparenza di sé, il non-uomo, là dove egli deve necessariamente cercare la sua vera realtà. Il fondamento della critica irreligiosa è che è l’uomo che crea la religione e non è la religione che crea l’uomo.

«Certo, la religione è la coscienza di sé e il sentimento di sé che ha l’uomo che non ha ancora trovato sé stesso, o meglio, si è smarrito. Ma l’uomo non è un essere astratto nascosto in qualche parte fuori dal mondo. L’uomo è il mondo dell’uomo, lo Stato, la società. Questo Stato, questa società producono la religione, coscienza rovesciata del mondo, perché essi stessi sono un mondo alla rovescia. La religione è la teoria rovesciata di questo mondo, la sua summa enciclopedica, la sua logica sotto forma popolare, il suo punto di onore spirituale, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo complemento solenne, la sua consolazione e la sua giustificazione universale. È la realizzazione fantastica dell’essere umano, poiché l’uomo non possiede una vera realtà. Lottare contro la religione è dunque, indirettamente, lottare contro questo mondo, di cui la religione è il vapore spirituale.

«Il tormento religioso è, da una parte, l’espressione del tormento reale e, dall’altra, la protesta contro questo tormento. La religione è il sospiro della creatura oppressa, l’anima di un mondo senz’anima, è lo spirito di condizioni sociali da cui lo spirito è escluso. È l’oppio dei popoli. L’abolizione della religione, già benessere illusorio del popolo, è la conseguenza imposta dal suo benessere reale. Esigere che egli rinunci alle illusioni della sua situazione è esigere che rinunci a una situazione che ha bisogno d’illusioni. La critica della religione è dunque in germe la critica di questa valle di lacrime di cui la religione è l’aureola. La critica ha spogliato le catene dei fiori immaginari che le ricoprivano, non perché l’uomo porti delle catene senza fantasia, disperanti, ma perché egli getti le catene e colga i vivi fiori. La critica della religione distrugge le illusioni dell’uomo perché egli pensi, agisca, foggi la sua realtà come un uomo senza illusioni, pervenuto all’età della ragione, perché egli graviti attorno a sé stesso, vale a dire al suo Sole reale. La religione non è che il Sole illusorio che gravita attorno all’uomo finché l’uomo non gravita più attorno a sé stesso.

«Questo è dunque il compito della storia, dopo la sparizione della verità dell’Aldilà, di stabilire la verità del mondo di qua. È in primo luogo compito della filosofia che è al servizio della storia, una volta denunciata l’auto-alienazione dell’uomo nella sua forma sacra, smascherare l’auto-alienazione nelle sue forme non sacre. La critica del Cielo si trasforma in critica della Terra, la critica della religione in critica del diritto, la critica della teologia in critica della politica».

Marx risponde in una serie di articoli apparsi nel luglio 1842 sulla “Gazzetta Renana” a un reazionario cattolico, agente del governo prussiano, che se la prende con le posizioni anti-religiose del giornale di Marx. Per l’idealista l’apogeo delle nazioni che hanno raggiunto un’importanza storica superiore coincide con il massimo fiorire del loro senso religioso, e la loro decadenza con la decadenza della loro cultura religiosa. Ascoltiamo Marx: «È rovesciando esattamente l’affermazione dell’autore che si ottiene la verità; egli ha messo la storia a testa in giù. La Grecia e Roma sono sicuramente i paesi della più alta “civiltà storica” tra i popoli dell’antichità. L’apogeo della Grecia all’interno ha luogo all’epoca di Pericle, quello all’esterno all’epoca d’Alessandro. All’epoca di Pericle, i sofisti, Socrate (che si può definire l’incarnazione della filosofia), l’arte e la retorica avevano soppiantato la religione. L’epoca d’Alessandro fu quella d’Aristotele, che rigetta l’idea dell’eternità dello spirito “individuale” e il Dio delle religioni positive. E Roma adesso! Leggete Cicerone! Le filosofie epicuree, stoiche o scettiche erano le religioni dei Romani colti, quando Roma raggiunse il culmine della sua storia.

«Se la caduta degli Stati dell’antichità porta con sé la scomparsa delle loro religioni, non c’è bisogno di cercare spiegazioni altrove, poiché la “vera religione” degli antichi era il culto della loro “nazionalità”, del loro “Stato”. Non è la rovina delle religioni antiche che ha portato con sé la caduta degli Stati dell’antichità, ma la caduta degli Stati dell’antichità che ha portato con sé la rovina delle religioni antiche (...) Nel momento stesso in cui la caduta del mondo antico era imminente, si apriva la scuola di Alessandria che si ingegnava a dimostrare ad ogni costo la “verità eterna” della mitologia greca e il suo pieno accordo “con i risultati della ricerca scientifica”.

La scuola d’Alessandria rappresentò la filosofia nel momento agonico della società schiavista. Nei successivi decenni della nostra era, ad Alessandria, divenuta il centro della vita intellettuale dell’epoca, i filosofi si impegnavano a combinare la filosofia idealista greca con il misticismo orientale. Uno dei suoi principali rappresentanti fu Filone (20 a.C., 54 d.C.), il vero padre del cristianesimo secondo Engels, e poi Plotino.
 

2. Religione e Storia

Nel Manifesto del Partito Comunista del 1848, capitolo II, Marx ed Engels ricordano che le idee si trasformano con la produzione, e queste non sono che le idee della classe dominante. «Che cosa dimostra la storia delle idee se non che la produzione intellettuale si trasforma con la produzione materiale? Le idee dominanti di un’epoca non sono mai state altro che le idee della classe dominante. Quando si parla di idee che rivoluzionano interamente una società, si enuncia solamente il fatto che, nel seno dell’antica società, si sono formati gli elementi di una società nuova e che la sparizione delle vecchie idee va di pari passo con la sparizione delle antiche condizioni d’esistenza. Quando il mondo antico era al suo declino, le antiche religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel XVIII secolo le idee cristiane cedettero davanti alle idee dei Lumi la società feudale muoveva la sua ultima battaglia alla borghesia allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza, di libertà religiosa non fecero che proclamare il dominio della libera concorrenza sul piano del pensiero».

Per lottare contro la religione bisogna quindi saperci spiegare materialisticamente la sorgente della fede e della religione nelle masse. In primo luogo «la religione non guarda al Cielo ma alla Terra», come scriveva Marx a Ruge nel 1842. La religione non è quindi il frutto di un astratto spirito umano ed occorre superare la critica della religione in sé, per applicarci ad una critica delle condizioni di vita da cui nasce il bisogno di religione.

Ne L’ideologia tedesca Marx ed Engels nel 1845 spiegano chiaramente da dove vengono le idee e quale è il mezzo per cambiarle: «La produzione delle idee, delle rappresentazioni e della coscienza è innanzitutto direttamente e intimamente legata all’attività materiale e al rapporto materiale tra gli uomini, è il linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni, il pensiero, il rapporto intellettuale degli uomini appaiono qui ancora una volta come l’emanazione diretta del loro comportamento materiale. Così è per la produzione intellettuale, come si presenta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini gli artefici delle loro rappresentazioni, delle loro idee, ecc. (...) Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza (...) Questa concezione della storia ha dunque per base lo sviluppo del processo reale della produzione, e quindi dalla produzione materiale della vita immediata (...) Non si spiega la pratica con le idee, si spiega la formazione delle idee con la pratica materiale; si arriva pertanto al risultato che tutte le forme e i prodotti della coscienza possono essere risolte non grazie alla critica intellettuale, alla riduzione alla “coscienza di sé” o alla metamorfosi in “apparizione di spettri”, in “fantasmi”, in “pazzie”, ecc., ma unicamente al rovesciamento pratico dei rapporti sociali concreti da cui sono nate queste fandonie idealiste». Non la Critica ma la Rivoluzione è la forza motrice della storia, della religione, della filosofia e di ogni altra teoria.
 

3. Religione e Rivoluzione

Con la religione la specie umana ha dato una risposta fantastica alla sua incapacità di padroneggiare o di difendersi dalle forze esterne da cui dipende la sua sopravvivenza. Nelle società del paleolitico e del neolitico, che non conoscevano le classi né lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, i fenomeni naturali, pioggia, sole, tuono, tempesta, e gli elementi necessari alla loro sussistenza, piante, animali, divennero elementi religiosi sotto la forma del Totem, il generatore del clan, e con il quale il clan immagina legami di parentela, di dipendenza, ma non di dominio.

Con la fine del neolitico e l’apparire delle società di classe, dello schiavismo, le misteriose forze esterne, “celesti”, da cui dipende la sopravvivenza della classe oppressa, vennero a rappresentarsi in personaggi fantastici che avevano gli attributi e l’aspetto della terrestre classe dominante. La mitologia greca ne è una illustrazione perfetta!

A uno stadio più avanzato, con il monoteismo, che culmina nel cristianesimo, l’insieme degli attributi degli Dei è rappresentato da un solo Dio, riflesso dell’Uomo astratto.

In Socialismo utopico e socialismo scientifico, del 1892, Engels scriverà che, quando l’Europa stava uscendo dal medioevo, la borghesia emergente delle città costituiva in esse l’elemento rivoluzionario. Essa aveva conquistato nell’organizzazione feudale una posizione divenuta troppo stretta per la sua forza di espansione. Il feudalesimo doveva dunque essere distrutto. Ma il grande centro internazionale del feudalesimo era la Chiesa cattolica romana. La lunga lotta della borghesia contro il feudalesimo fu segnata da tre battaglie decisive: la Riforma protestante in Germania, col grido di guerra di Lutero e due grandi insurrezioni nel 1523 e nel 1525; il movimento calvinista in Inghilterra nel 1648; la grande rivoluzione francese del 1789-93.

Lo sviluppo incessante delle forze produttive crea tra gli uomini dei rapporti economici che evolvono per salti qualitativi con dei cambiamenti dei modi di produzione: comunismo primitivo - schiavismo - feudalesimo o il modo di produzione asiatico - capitalismo.

Gli uomini sono dominati dai rapporti economici come da una forza estranea che essi non comprendono e che modifica le loro relazioni, il loro modo di esistere e di pensare. Solo un “atto sociale”, la rivoluzione del proletariato, potrà permettere di prendere in mano i rapporti di produzione e di padroneggiare le forze esterne.

Allora soltanto la religione, specchio di queste forze, potrà sparire. Già nel 1874 Engels si beffa dei blanquisti che pretendevano nella Comune di Parigi del 1871 di trasformare per decreto i credenti in atei “per ordine del moufti”! Nel 1878 risponde nel suo Anti-Dühring al socialista piccolo borghese Eugène Dühring, “più bismarckiano di Bismarck”, che pensava di sbarazzarsi delle religioni e dei sacerdoti per legge: «La religione muore della morte naturale che le è prescritta», e non occorre che noi la aiutiamo «ad assurgere al martirio», prolungandone così la vita.

«Ogni religione non è che il riflesso fantastico, nel cervello degli uomini, delle forze esterne che dominano la loro esistenza quotidiana, riflesso in cui le forze terrestri prendono la forma di forze soprannaturali. All’inizio della storia sono le forze della natura soggette a questo riflesso che senza un seguente sviluppo passano, presso di differenti popoli, per le personificazioni più diverse e più varie. Questo processo è stato smontato dalla mitologia comparata, almeno per i popoli indoeuropei, fino alla sua origine nei Veda dell’India; poi nella sua continuazione è stato mostrato nel dettaglio presso gli Indiani, i Persiani, i Greci, i Romani e i Germani e, nella misura in cui abbiamo abbastanza documentazione, ugualmente presso i Celti, i Lituani e gli Slavi.

«Ma presto, accanto alle forze naturali, entrano in azione anche le forze sociali, forze che si ergono di fronte agli uomini, ugualmente estranee, inesplicabili, e li dominano con la stessa apparenza di necessità naturale che hanno le stesse forze della natura. I personaggi fantastici, nei quali non si riflettono inizialmente che le forze misteriose della natura, ricevono degli attributi sociali, divengono i rappresentanti delle forze storiche.

«A uno stadio ancora più avanzato dell’evoluzione, l’insieme degli attributi naturali e sociali dei numerosi Dei è riportato su un solo Dio onnipotente, che a sua volta non è altro che il riflesso dell’uomo astratto. Così è nato il monoteismo, che fu nella storia l’ultimo prodotto della filosofia greca volgare al suo declino, che trovò la sua incarnazione già pronta nel Dio nazionale esclusivo degli Ebrei, Jahvè. Sotto questo aspetto, comodo, maneggevole e suscettibile da ogni adattamento, la religione può sussistere come forma immediata, vale a dire delle emozioni degli uomini nel rapportarsi con forze estranee, naturali e sociali, che li dominano finché gli uomini sono sotto il dominio di queste forze.

«Nella società borghese attuale, gli uomini sono dominati dai rapporti economici creati da loro stessi, dai mezzi di produzione prodotti da loro stessi, come da una forza estranea. Dunque sussiste la base effettiva dell’azione religiosa riflessa, e con essa, il riflesso religioso stesso. E anche se l’economia borghese permette di gettare uno sguardo sul concatenamento causale di questa dominazione estranea, ciò non cambia affatto la questione. L’economia borghese non può impedire le crisi in generale, né proteggere il singolo capitalista dalle perdite, dai debiti senza copertura e dal fallimento, o il singolo operaio dalla disoccupazione e dalla miseria. Il proverbio è sempre vero: l’uomo propone e Dio dispone (Dio, vale a dire il dominio estraneo del modo di produzione capitalistico).

«La semplice conoscenza, per quanto vada più lontano e più in profondità di quella dell’economa borghese, non basta a sottomettere le forze sociali al dominio della società. È necessario anzitutto un atto sociale. Quando questo atto sarà compiuto, quando la società, con la presa di possesso e il maneggio pianificato dei mezzi di produzione, si sarà liberata e avrà liberato tutti i suoi membri dalla servitù in cui sono tenuti presentemente da questi mezzi di produzione prodotti da loro stessi, ma che si ergono di fronte ad essi come una forza estranea opprimente; quando l’uomo cesserà di proporre solamente, ma anche disporrà, è solo allora che sparirà l’ultima forza estranea che si riflette ancora nella religione, e quindi sparirà il riflesso religioso stesso, per la semplice ragione che non avrà più niente da riflettere».

Engels conclude: «Soltanto la conoscenza reale delle forze della natura caccia gli Dei o il Dio da una posizione dopo l’altra (...) Questo processo ora è così avanzato che può essere teoricamente considerato come terminato».
 

4. Impotenza della critica alla religione in sé

Teoricamente... ma il bisogno di religione non può sparire che con il cambiamento dei rapporti di produzione: le classi dominanti utilizzano la religione allo scopo di difendere i loro interessi terreni.

Lenin nel 1905 spiega già con chiarezza che «l’unità della lotta effettivamente rivoluzionaria della classe oppressa per crearsi un paradiso in terra» è ben più importante che «l’unità d’opinione dei proletari sul paradiso del cielo» (Socialismo e religione, dicembre 1905). I comunisti marxisti, vuol dire, irreligiosi dalla nascita e necessariamente, non hanno nel loro programma la parola d’ordine, interclassista e portatrice di confusione, propria del razionalismo borghese del XVIII secolo e piccolo borghese oggi, della “soppressione” delle religioni, ma quella della soppressione materiale dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’abolizione del lavoro salariato e della proprietà privata!

Ne Il Capitale Marx ci spiega che gli uomini saranno liberi dalla religione in una società in cui essi si assoceranno liberamente, allorquando domineranno la loro propria dinamica sociale: «Una società dove il prodotto del lavoro prende generalmente la forma di merce e dove, di conseguenza, il rapporto in generale tra i produttori consiste nel comparare i valori dei loro prodotti e, in questa ottica, a comparare l’un l’altro il proprio lavoro privato a titolo di lavoro umano eguale, una tale società trova nel cristianesimo con il suo culto dell’uomo astratto, e soprattutto nelle sue espressioni borghesi, protestantesimo, deismo, ecc., il complemento religioso più adeguato.

«Nei modi di produzione dell’antica Asia, dell’Antichità in generale, la trasformazione del prodotto in merce non gioca che un ruolo subalterno, che peraltro acquista più importanza a mano che le comunità si avvicinano alla loro dissoluzione. Popoli mercantili propriamente detti non esistono che negli interstizi del mondo antico, alla maniera degli Dei di Epicuro, o come gli ebrei nei pori della società polacca. Questi vecchi organismi sociali sono, riguardo ai rapporti di produzione, infinitamente più semplici e più trasparenti della società borghese; ma essi hanno per base l’immaturità dell’uomo individuale – a cui la storia non ha ancora reciso per così dire il cordone ombelicale che l’unisce alla comunità naturale di una tribù primitiva – o delle condizioni di dispotismo e di schiavitù (...)

«In generale il riflesso religioso del mondo reale non potrà sparire che allorquando le condizioni del lavoro e della vita pratica presenteranno all’uomo dei rapporti trasparenti e razionali con i suoi simili e con la natura. La vita sociale, di cui la produzione materiale e i rapporti che essa implica formano la base, non sarà liberata dalla nebbia mistica che ne nasconde l’aspetto che il giorno in cui in essa si manifesterà l’opera di uomini liberamente associati, agenti coscientemente e artefici della propria dinamica sociale. Ma ciò esige nella società un insieme di condizioni di esistenza materiale che non possono essere esse stesse che il prodotto di un lungo e doloroso sviluppo».

Nella Critica della filosofia di Hegel Marx aveva affermato: «Senza dubbio l’arma della critica non può sostituire la critica delle armi, la spinta materiale non può essere abbattuta che dalla spinta materiale. Ma anche la teoria diviene un spinta materiale di cui s’impossessano le masse. La teoria può essere compresa dalle masse quindi dimostra ad hominem (sulla base dell’uomo), e procede a delle dimostrazioni ad hominem e quindi diviene radicale. Essere radicale è prendere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso. La prova evidente del radicalismo della teoria tedesca, e dunque della sua energia pratica, è che essa ha per punto di partenza l’abolizione risoluta e positiva della religione.

«La critica della religione arriva ad insegnare che l’uomo è l’essere supremo per l’uomo, vale a dire all’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti sociali che fanno all’uomo un essere umiliato, asservito, solo, spregevole, rapporti ben caratterizzati da questa esclamazione di un francese in occasione di un progetto di tasse su cani: “Poveri cani, vi vogliono trattare come degli uomini!”

«Allo stesso modo, storicamente, l’emancipazione teorica ha per la Germania un significato specificatamente pratico. Il passato rivoluzionario della Germania è in effetti teorico, è la Riforma (...) Lutero ha spezzato la fede nell’autorità restaurando l’autorità della fede (...) Alla vigilia della Riforma, la Germania ufficiale era il valletto più sottomesso di Roma. Alla vigilia della Rivoluzione è il valletto più sottomesso, ben meno che di Roma, della Prussia e dell’Austria, il valletto dei nobilotti di campagna e dei filistei. Sembra peraltro che una difficoltà essenziale sbarri la strada ad una rivoluzione tedesca radicale. Le rivoluzioni hanno in effetti bisogno di un elemento passivo, di una base materiale. La teoria non si realizza in un popolo che nella misura in cui essa è la realizzazione dei suoi bisogni (...) Non è sufficiente che il pensiero tenda a realizzarsi, bisogna anche che la realtà tenda a divenire pensiero».

Parlando della situazione tedesca, in cui il proletariato non è sufficientemente affermato in ragione del debole sviluppo industriale, Marx afferma che il ruolo d’emancipatore potrà essere assunto solo da una classe della società civile costretta dalla sua situazione immediata, dalla necessità materiale, dalle sue stesse radicali catene: «una classe della società civile che non sia una classe della società civile (...) che possieda un carattere di universalità per l’universalità delle sue sofferenze e non rivendichi un diritto particolare, perché gli hanno fatto subire non una ingiustizia particolare ma l’ingiustizia in sé (...) che non possa emanciparsi senza emanciparsi da tutte le sfere della società e senza emancipare in seguito a ciò tutte le altre sfere della società, che sia, in una parola, la perdita totale dell’uomo e non possa quindi riconquistarsi essa stessa senza una riconquista totale dell’uomo. Questa dissoluzione della società realizzata in una classe particolare è il proletariato».

Noi, ancora, con Marx, aspettiamo la sollevazione di questa classi di barbari!
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


Dall’Archivio della Sinistra
Fingi che quattro mi bastonin qui,
E lì ci sien dugento a dire: Ohibò!
Senza scrollarsi o muoversi di lì;
E poi sappimi dir come starò
Con quattro indiavolati a far di sì,
Con dugento citrulli a dir di no
(Giuseppe Giusti)


Gli articoli che vengono ripubblicati sono tutti del 1924. I primo quattro hanno come oggetto le elezioni e l’atteggiamento che un partito comunista rivoluzionario avrebbe dovuto tenere in tale occasione.

Il fascismo, al potere ormai da più di un anno, non aveva in parlamento che una risicata pattuglia di 35 deputati, eletti nel 1921 solo grazie al democratico progressista Giolitti che li aveva accolti nelle liste del “Blocco Nazionale”.

Il PNF, divenuto partito di governo nel pieno rispetto delle regole democratiche, per mantenere il potere senza infrangere la legalità borghese aveva avuto bisogno di una nuova legge elettorale che, da partito minoritario, lo trasformasse in partito di maggioranza. Così nel 1923 era stato presentato al parlamento il disegno di legge Acerbo con il quale sarebbe stata attribuita una maggioranza dei 2/3 a quella coalizione politica che avesse raggiunto il 25% dei voti. La legge, manco a dirlo, venne tranquillamente votata, con la benedizione di Santa Madre Chiesa, da tutti i partiti democratici, da quegli stessi partiti democratici che l’anno precedente avevano votato la fiducia al governo Mussolini.

Si sapeva che scopo del fascismo sarebbe stato quello di trasformare le elezioni del 1924 in un plebiscito generale a favore del governo in camicia nera e si sapeva anche che, per raggiungere questo obiettivo, sarebbe stato impiegato qualsiasi mezzo, legale ed illegale, compresi i brogli, comprese le violenze di ogni tipo per fugare dalle urne gli elettori antifascisti e soprattutto comunisti. Del resto questi erano sistemi che da sempre erano stati messi in atto, anche se il fascismo li usò con metodo più scientifico e con maggiore dispiegamento di forze: proprie e statali.

Gli attentati contro la libertà elettorale non furono inventati di certo da Mussolini, anzi, avevano costituito speciale titolo di benemerenza politica proprio di Giolitti che li aveva utilizzati, specialmente nel Mezzogiorno, su vastissima scala, dove si conobbe la feroce istituzione dei mazzieri organizzati dalla mafia, quando i questurini dimostravano di non essere sufficientemente adeguati alla bisogna.

Quindi non è che un grossolano falso storico quello di presentare Mussolini come violatore delle libertà democratico-elettorali. Gramsci, nella seduta parlamentare del 16 maggio 1925, rivolto a Mussolini, ebbe a dire: «Fate come facevano nel Mezzogiorno i mazzieri giolittiani che arrestavano gli elettori di opposizione».

La violenza fascista non arrivò al punto di impedire in maniera totale la partecipazione e la “libera” espressione dei cittadini votanti. Nel Rapporto sul Fascismo esposto dalla Sinistra al V congresso dell’Internazionale Comunista si afferma: «È noto che il terrore fascista non si è spinto fino a rendere completamente impossibile all’opposizione l’esercizio del diritto di voto. Il governo fascista ha manovrato con una certa abilità, perché si sapeva che, eliminando ogni possibilità di voto per l’opposizione, le elezioni avrebbero perso immediatamente ogni significato politico. Il governo si è dunque limitato ad influenzare nel suo interesse i risultati».

Infatti il Partito Comunista ed il Partito Repubblicano riuscirono perfino a guadagnare dei seggi in parlamento: 2 i repubblicani, 4 i comunisti.

Quanto appena detto non significa che il fascismo non avesse esercitato violenza e terrore; infatti è verissimo che nel corso di tutto il periodo elettorale si assistette ad un clima di violenza mai precedentemente verificatosi. Ma ciò per i comunisti rivoluzionari non significava che le elezioni dovessero essere disertate, soprattutto con le motivazioni addotte dai nuovi fautori dell’astensionismo versione 1924, i socialdemocratici, per mancanza di libertà e garanzie democratiche. Anzi, sarebbe stato proprio questo il momento, per il partito comunista, di mettere in pratica la tattica del parlamentarismo rivoluzionario come impostata dalla Terza Internazionale, ossia accettare di proseguire il confronto polemico anche in un’aula che si dimostrava finalmente priva di alcuna rappresentanza democratica e di potere reale. I comunisti non richiedono né si attendono altro tipo di parlamentarismo.

Chiaramente questa posizione della Sinistra, ormai fuori dalla direzione del partito italiano, venne amaramente inghiottita dai nuovi dirigenti propensi ad usare la scadenza elettorale con altri intendimenti; ossia i soliti usati ed abusati dal vecchio partito socialista e sempre fieramente condannati ed avversati dalla corrente rivoluzionaria: il bloccardismo e la presentazione di liste con uomini illustri che potessero attrarre il voto dell’elettorato.

Fu solo grazie all’intransigenza nostra, e all’ostinato anticomunismo di Giacomo Matteotti, che venne evitata la formazione dell’infausto blocco che, su proposta della Direzione del PCd’I, avrebbe dovuto vedere coalizzati i tre partiti “proletari”: PSU, PSI, PCd’I.

Nel gennaio 1924 i tre partiti ebbero una serie di incontri per discutere della proposta comunista, incontri durante i quali il PCd’I di volta in volta attenuava le proprie posizioni fino ad arrivare a proposte prettamente democratiche. Ciò, fortunatamente, non valse a nulla. Matteotti il 28 gennaio ammetteva che poteva condividerne «la lettera, ma non accettarne lo spirito». Il che, tradotto in parole povere, significava che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, non vi sarebbe stata possibilità di intesa tra comunismo e socialdemocrazia. A quel punto i delegati del PCd’I si dichiaravano anche pronti ad accettare l’astensionismo proposto dai socialdemocratici, «purché si trattasse di azione proletaria con programma comune». Ma Treves ribatté che non avrebbe «accettato un blocco proletario neppure per l’astensione», l’astensione avrebbe dovuto abbracciare non solo i partiti proletari, ma anche i gruppi ed i partiti borghesi, con un significato puro e semplice di protesta.

Fallita la trattativa a tre il PCd’I propose il blocco a due con il PSI ed il 31 gennaio inviava una lettera ai massimalisti in tal senso. In questa ultima lettera le posizioni comuniste venivano ancor di più ammorbidite; in essa infatti si legge: «Durante la campagna elettorale verrà presentato ai lavoratori, in relazione all’esame della situazione della loro classe in Italia, il problema dei mezzi per riconquistare le libertà perdute e per garantirsi, una volta raggiunto tale obiettivo, da ogni ritorno offensivo possibile della reazione fascista-borghese». Il PSI, manco a dirlo, rifiutò la proposta. Allora, pure di fare il blocco, ci si rivolse alla frazione socialista “terzinternazionalista” e con i “terzini” venne finalmente realizzata la tanto agognata “Unità Proletaria”.

A tale riguardo, nello Schema di Tesi, presentato dalla Sinistra in vista della Conferenza Nazionale di Como, si afferma: «Nelle elezioni politiche si è voluto, ancora una volta, sperimentare la tattica sfatatissima degli inviti agli altri partiti politici e, fallita questa, costruire un’alleanza coi terzini e dare una parola d’unità, mentre ci siamo alleati e uniti solo con una organizzazione fatta da noi stessi, o per dir così, colla nostra immagine riflessa allo specchio. Questo ha reso necessaria nella formazione delle liste e del nuovo gruppo parlamentare una elasticità di criteri che sarebbe apparsa scandalosa 10 o 15 anni fa alla sinistra del vecchio partito socialista: uomini politici hanno potuto scegliere a sangue freddo la lista ove collocare il loro nome, emettendo o rinnegando una professione di terzinternazionalismo. Anche se questo avesse condotto ad un vantaggio elettorale sarebbe stato da condannare: ma invece il successo del partito non è stato successo di una alleanza ma dei comunisti taglientemente definiti tali dalla stampa avversaria, mentre noi stavamo sotto la foglia di fico di una cosiddetta unità. La formola stridente: fascismo o comunismo, e l’attitudine di opposizione di estrema sinistra presa ripudiando per principio ogni largo o stretto, vero o fittizio, blocco elettorale, ci avrebbe dato un successo elettorale ancora maggiore. La attitudine diversa minaccia di rivalorizzare lo stupido feticcio della unità falsa ed equivoca, di far dimenticare ciò che la nostra dottrina e la situazione insegnano al proletariato: considerare come impotenti e controrivoluzionari i partiti del socialismo opportunista».

Circa la proposta di presentare come capolista l’illustre uomo politico Amadeo Bordiga, reduce dal clamoroso processo, non potendo riportare per intero la lunghissima lettera di risposta, del 18 febbraio 1924, ci bastino queste due brevi citazioni: «Nulla considero di più filisteo ed opportunistico per gli elettori e gli eletti di questo tradizionale fatto: pochi mesi di carcere portano di conseguenza che alla prima occasione la “vittima” presenti al proletariato la nota, e la riscuota sotto forma di voti (...) Caso mai si presentino quelli che sono vittime sul serio». «Chi finisce nella carriera parlamentare è quasi sempre, agli effetti della lotta rivoluzionaria e dei suoi quadri, un elemento svuotato e liquidato».

Gli ulteriori tre articoli, tratti dal fascicolo del giugno-luglio 1924 di Prometeo, e scritti nel pieno della crisi Matteotti, con le masse proletarie in ebollizione, i fascisti in fuga e gli oppositori aventiniani sostenitori di fatto del governo Mussolini, intendono riproporre quelle che sono le tipiche posizioni di ogni partito rivoluzionario, ed in particolare se marxista, riguardo al potere, alla “legalità” ed alla dittatura di classe. I punti trattati erano, naturalmente, rivolti al proletariato perché non cadesse nel tranello borghese di impegno per la restaurazione delle cosiddette libertà democratiche. Ma, allo stesso tempo, e soprattutto, erano rivolti alla nuova centrale del partito che, nel giro di un solo anno aveva dimenticato (non vogliamo dire, tradito) le basi stesse su cui nel gennaio del 1921, a Livorno, si era costituito il Partito Comunista d’Italia. Il PCd’I, diretto dal gruppo centrista, nel corso della crisi Matteotti piegò sui più sfacciati atteggiamenti interclassisti, dimostrandosi l’unico, tra tutto il variegato arco politico, a credere e ad impegnarsi in difesa della legalità democratica borghese. Dal leniniano uso rivoluzionario del parlamento borghese, si arrivò alla sua tutela, proponendo addirittura la costituzione di un Anti-Parlamento, veramente democratico, legalitario, interclassista.

Se i nuovi dirigenti del PC non riuscirono a portare a compimento ciò che solo 20 anni dopo saranno in grado di fare, ciò dipese unicamente, oltre che dall’opposizione interna della massa del partito orientata a sinistra, dall’atteggiamento di tutte quante le Opposizioni aventiniane, socialisti compresi, che, di fronte al pericolo dell’incognita proletaria, decisero di sostenere il traballante governo Mussolini, anche a costo dei propri interessi personali e della stessa vita, ma in funzione della sopravvivenza della propria classe: la borghesia.
 
 
 
 
 
 
 
 

NOSTALGIE ASTENSIONISTE ?

Stato Operaio, 28 febbraio 1924
 

Non si potrebbe neppure concepire una attitudine pratica di compagni del Partito Comunista per la astensione elettorale. Non è solo questione di disciplina di partito: basta riflettere che le opinioni di vari compagni espresse nel 1919 e 1920 per la tattica astensionista avevano un senso solo come proposta avanzata alla Internazionale, la cui applicabilità era comprensibile solo in base a precise deliberazioni, per i vari paesi della Internazionale medesima. Nessuno di noi pose in dubbio nel 1921 che il Partito Comunista fondato sulla base delle decisioni del 2° Congresso della Internazionale Comunista dovesse intervenire nella lotta elettorale di allora.

Non è neppure il caso di riaprire il dibattito sulla questione per dire se le tesi astensioniste di allora sono ancora affacciabili in teoria. Certo è che quelle tesi sostenute da un gruppo di compagni insistevano su un doppio ordine di premesse: una situazione internazionale preludente ad una offensiva del proletariato, e il regime di larga democrazia vigente in un gruppo importante di paesi: ognuno sa che tanto internazionalmente, quanto nel campo politico italiano, quelle condizioni, se forse non si devono dire capovolte, si sono però modificate in senso opposto a quello da cui scaturivano le nostre condizioni.

La nostra tesi astensionista non aveva puro valore contingente, ma giustamente il compagno Grieco ha fatto vedere come oggi non sussistano i pericoli affacciati dagli astensionisti nel 1919, quando Nitti scongiurò l’addensarsi della burrasca rivoluzionaria grazie al diversivo elettorale spalancato davanti al partito socialista.

Oggi la situazione è tutt’altra e ognuno sa il perché. Non ci minaccia la sciagura di centocinquanta onorevoli proletari o sedicenti tali.

Non mi fermo ad esaminare tutti i problemi dalla presente campagna elettorale: mi basta constatare che i pericoli gravissimi di allora sono da essa del tutto allontanati.

Mi preoccupa solo, attraverso le manifestazioni di alcuni compagni per una tesi contingente di astensione – non certo per un’attitudine pratica di astensionismo dalla lotta dei partiti – il fatto che queste nostalgie, più che riportarsi alle ragioni rivoluzionarie da noi altra volta accampate per la tesi astensionista, si riportano evidentemente ad apprezzamenti, a stati d’animo, a premesse ideologiche, che sanno ben poco di comunismo; e sarebbe questo un inconveniente non minore della formale indisciplina.

Chi vuole essere sincero deve riconoscere che il ragionamento che sbocca nella conclusione: avremmo fatto meglio ad astenerci, non può essere che questo; non andiamo alle elezioni perché non si fanno in piena libertà, non tradurranno nei risultati la espressione legittima della volontà degli elettori, non ci daranno la soddisfazione di raggiungere cifre confortanti di voti e di eletti; ed anche: se ci astenessimo, faremmo un dispetto al fascismo svalutandolo all’estero.

Perché tutte queste ragioni mancano di un carattere classista e comunista?

Non è da comunisti lasciare intendere che in regime di democrazia e di libertà le elezioni traducano la effettiva volontà delle masse. Tutta la nostra dottrina si leva contro questa colossale menzogna borghese, tutta la nostra battaglia è contro i fautori di essa, negatori del metodo rivoluzionario di azione proletaria. Il meccanismo liberale di elezioni non è fatto che per dare una necessaria e costante risposta: regime borghese, regime borghese...

Ciò che si deve denunciare nella degenerazione elettoralistica è il metodo a fondo “sportivo” di raggiungere alti risultati numerici, che afferra tutti i partecipanti e talvolta anche noi. Le nostalgie astensioniste di oggi mi sembrano derivare proprio dalla morbosità dell’elezionismo per l’elezionismo.

Noi invece andiamo – la Internazionale lo esige, e non è agli astensionisti che deve riuscire più ostico questo compito – non come a quella esercitazione del cretinismo parlamentare, che tanto ricorda le manie per Spalla o per Girardengo, ma come ad un momento ed a un episodio della incessante lotta di classe. La degenerazione dell’elezionismo in collaborazionismo di classe è oggi meno difficile da evitare. La istintiva antipatia rivoluzionaria per la contesa schedaiola ha oggi tutti i motivi per essere fatta tacere.

Io non dico, si badi, che dobbiamo accettare le elezioni come una disfida da raccogliere sul terreno della violenza: la opportunità di accettare le provocazioni di tale natura si decide con ben altri coefficienti di strategia politica, che oggi certo la escludono. Ma, non potendo parlare di trasformazione della campagna elettorale in guerra di classe, dobbiamo almeno guardarci severamente da attitudini politiche che facciano smarrire alla massa il senso della necessità della soluzione rivoluzionaria avvenire, come avverrebbe per la astensione – e soprattutto per quella forma ultracretina di essa che potrebbe accumunarci alle prefiche riformiste piangenti sulla perduta libertà, come sulla perduta occasione di avere esse, anziché il fascismo, il merito di recidere i garretti al proletariato.

Ed è forse di carattere classista l’argomento basato sul preteso danno che una vasta astensione recherebbe alla fama del fascismo all’estero? Mai più. Questo vorrebbe dire solo illuderci che la borghesia estera possa aiutarci a liberarci dal fascismo, mentre un buon comunista sa che il borghese estero non può che rallegrarsi delle opere del fascismo in Italia e se non trova buono di imitarlo a casa sua è solo per i suoi interessi e non certo perché lo scandalizzino le violazioni della democrazia pura. Forse vogliamo imparare i metodi di lotta rivoluzionaria dal “Corriere della Sera” o dai fogli nittiani? Un tale astensionismo puzzerebbe di bloccardismo, ossia della forma purulenta della sifilide elettorale.

Ogni buon comunista non ha oggi altro dovere che combattere con questi argomenti classisti la tendenza di molti proletari alla astensione, derivato erroneo della loro avversione al fascismo. Facendo questo svolgeremo della magnifica propaganda e aiuteremo il formarsi di una coscienza decisamente rivoluzionaria, che servirà quando sarà venuto, segnato dalle situazioni reali e non dal solo nostro desiderio, il momento di boicottare, per abbatterla, la baracca oscena del parlamento borghese.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

CHE COSA VALE UNA ELEZIONE

L’Unità, 16 aprile 1924
 

La discussione se le elezioni italiane abbiano mostrato o meno il consenso della nazione col fascismo merita poche osservazioni dal punto di vista comunista, che ne spostano completamente la comune impostazione.

Consideriamo come pacifico, e dimostrato dallo stesso contegno degli organi ufficiali fascisti, che le elezioni hanno nociuto al fascismo e segnano per esso uno smacco, non certo decisivo, tutt’altro, ma uno smacco inatteso.

Ugualmente pacifico ci pare che le elezioni hanno aumentato il prestigio dei partiti estremi; e lo ammettono gli stessi autori di una curiosa tattica di astensionismo... legalitario.

Ma che dobbiamo noi dire dinanzi al dialogo polemico tra fascisti e oppositori, ove i primi citano le cifre a riprova della effettiva loro vittoria maggioritaria, i secondi replicano che le cifre sono artefatte da brogli e violenze, e senza questi coefficienti avrebbero dato torto al fascismo!

Noi dobbiamo rimettere la questione nei suoi termini classisti, se non vogliamo correre il pericolo che il successo elettorale rivalorizzi le sfatate illusioni socialdemocratiche, e ritardi lo smantellamento dei partiti socialisti di destra, che noi dobbiamo augurare che segua da presso quello delle opposizioni democratico-borghesi.

Che diavolo vale per noi questo consenso popolare, che i fascisti rincorrono malgrado tutte le loro vanterie antidemocratiche, e che gli oppositori vogliono individuare attraverso complicate discriminazioni dell’esito elettorale e delle circostanze “estranee” che avrebbero contribuito ad “alterarlo”?

Può adoperare questa parola del consenso chi si ponga dal piatto punto di vista del liberalismo borghese, che crede di aver risolti tutti i problemi dei rapporti tra gli aggruppamenti sociali con la balorda ipotesi della uguaglianza aritmetico-giuridica di tutti i cittadini, e i suoi banali procedimenti di “conta” delle coscienze politiche, che dovrebbero dare una idea delle forze politiche effettive con la stessa precisione con cui il numero dei capi di una mandria ci lascia prevedere il quantitativo delle bistecche.

Per noi questa “conta” non vale niente.

E non è che un indice molto vago per la effettiva indagine dei rapporti di forza delle classi opposte e dei Partiti che le rappresentano. Il numero degli aderenti non è che un elemento, ma mai il decisivo, potendo il suo peso essere completamente mutato dalla maniera in cui tutti i singoli sono tra loro collegati e organizzati. Quel che importa è la organizzazione, la disciplina, l’attrezzamento, l’armamento delle parti politiche. Più semplicemente esprime questo concetto la nota poesia di Giusti sui quattro che bastonano e i cento che se ne stanno a dire: ohibò!

Dalla teoria del voto espressione di coscienza, si passa alla pratica di tutta una serie di determinanti effettive del voto delle masse di elettori, tra cui è sciocco cercare un limite che separi le legittime dalle illegittime. Il caso estremo è dato dai voti prodotti da pastette e da violenza, ma tra questo e la “libera espressione della opinione del cittadino”, stanno e sono sempre state in pratica, con o senza fascismo, altre infinite forme. Abbiamo piccoli interessi di famiglia, di clientela, di cricca, di campanile; abbiamo il protezionismo dei deputati, abbiamo la corruzione. Il gioco di tutti questi fattori dipende dal grado di organizzazione dei contendenti. Non è una cosa molto diversa, per chi non sia accecato dai sofismi democratici, che un Comitato usi i suoi danari a stampare manifesti o a comprare elettori. Basta guardare un poco il fondo della cosa per capire che non vi è nel primo caso una giustizia violata nel secondo. Basta pensare che vi sono... proletarii e borghesi. Partiti dei ricchi e Partiti dei poveri. Idee che non hanno mezzi per propaganda, stomaci di affamati che poche lire possono irresistibilmente sedurre.

Questa è la realtà che si agita sotto la pomposa frase della consultazione delle coscienze, e tale realtà è determinata dalla esistenza di una disuguaglianza e da un dominio di classe, sia questo più o meno spinto nelle forme con cui difende il suo potere. Per questo noi non crediamo al suffragio universale come mezzo di affrancamento della classe lavoratrice.

Il proletariato è maggioranza nella società, ma comincia a comparire nelle votazioni solo quando una minoranza di avanguardia di esso sa organizzarsi. Dinanzi ai vari Partiti predomina la più pesante delle organizzazioni: il Governo.

Le elezioni, se qualche volta hanno cambiato un ministero, non hanno mai rovesciato né rovesceranno il regime di classe che le ha fatte. Le colossali cifre sono costruite dall’opera di minoranze, da una parte e dall’altra, ma cento volte meglio da parte di chi detiene il potere.

In Italia, e specie nel Mezzogiorno, abbiamo sempre avuta l’influenza decisiva nelle elezioni del favoritismo, della corruzione, della pastetta, delle camorre e dei mazzieri. Queste armi, adoperate dal Governo, gli hanno assicurato più grandi vittorie là dove i Partiti estremi non erano organizzati, come nel Sud. Queste armi sono state adoperate da tutti gli uomini e gruppi borghesi di Governo, dal liberale Giolitti al democratico Amendola. Oggi vi è il fascismo che le ha usate contro costoro. Il fascismo ha fatto molto di nuovo, ma è supremamente ridicolo far cominciare con esso la alterazione della purezza dei risultati elettorali. La differenza tra fascismo e vecchi partiti è tanto meno netta se si tiene conto che il fascismo non ha osato fare completo gettito dei metodi ipocriti e ingannevoli del parlamentarismo, coi quali gli agenti del capitalismo dominante riescono a illudere le masse, o gran parte di esse, di essere i loro esponenti e rappresentanti.

Per noi l’analisi delle elezioni si fa altrimenti. Bisogna distinguere tra Sud e Nord. Nel Nord il fascismo aveva dinanzi a sé, al suo sorgere, organismi sovversivi contro i quali era insufficiente la organizzazione statale borghese come era uscita dalla guerra. Il fascismo ha fatta una grande organizzazione politica, e a questa ha sottoposto la vecchia macchina statale. Inquadrando così anche gli elettori, come ha inquadrato gli organizzati economici, il fascismo ha migliorate le posizioni dinanzi ai Partiti rossi. Che lo abbia fatto con la violenza non è chi non lo sappia: la violenza è nella storia e nella politica un fattore naturale, mentre il dosamento del numero delle coscienze è un fattore irreale e immaginario. Facendo votare i suoi aderenti volontari o forzati, il fascismo ha dato la misura della sua forza: è grave per esso che non abbia, nelle circoscrizioni del Nord, con questo spiegamento di mezzi, tra cui non facciamo distinzioni astratte, ottenuta la maggioranza. Ma certo esso è una minoranza troppo più organizzata ed attrezzata e armata delle varie minoranze oppositrici, perché il rapporto delle forze politiche non gli resti favorevole.

Nel Sud il fascismo non fu condotto a percorrere la stessa via. Non vi erano grandi organizzazioni sovversive, e la macchina statale controllava sicuramente la vita politica. La borghesia non si organizzò largamente in fascismo non essendovene il bisogno. Il fascismo non ha dovuto che ereditare questa posizione. Così il fascismo-Stato-borghesia, ha avuto nel Sud una decisiva maggioranza.

Nel giudicare questo prevedutissimo fatto, si deve tener conto che il fascismo ha dovuto bloccare coi capi delle locali clientele politiche, e ha dovuto adoperare le truffe e le violenze in una dose decuplicata. Si potrebbe fare questo calcolo, e lo consigliamo ai vari Mondi: computare una frazione di voti fascisti nel Sud applicando lo stesso rapporto che danno le circoscrizioni del Nord tra i voti, alla lista nazionale e gli iscritti nel fascismo. Probabilmente si troverebbe che teoricamente, anche secondo le cifre di queste elezioni, il partito fascista in tutto il paese è stato messo in minoranza nettamente.

Ma a noi questo importa poco, perché la identità tra liberalismo borghese e fascismo, tra ministerialismo cronico e fascismo, sussiste completa, malgrado la diversa data di origine di queste manifestazioni di conservazione controrivoluzionaria. Queste forze agiranno di conserva sul terreno della lotta di classe, ecco quel che importa. Come ci interessa di concludere che chi ha la forza di fare imposizioni e truffe elettorali, viola i canoni della democrazia, ma si mostra attrezzato a lottare su altri terreni, con efficienza che i rivoluzionari dovranno ben calcolare.

In altri termini, non ci scandalizzano le violenze e pastette elettorali del fascismo. I lavoratori devono guardare in faccia la quistione. La concezione comunista della tattica elettorale e parlamentare, logicamente non esclude neppure da parte nostra la... pastetta. Se potessimo fare pastette e fugare elettori avversari dalle urne, sarebbe confortante, perché saremmo più vicini a poter spiegare forze mature per l’offensiva.

Da questo punto di vista realistico le elezioni attuali rappresentano per noi un risultato confortante. Il nostro Partito si è imposto in una atmosfera arroventata, e dinanzi al tentativo di livragarlo del tutto. Malgrado tutto, ha funzionato, ha fatte le operazioni elettorali, ha tirato fuori dei voti dalle urne. Il numero di questi sta a provare che esso è meno lontano dal potere scendere in lotta su altro terreno.

Ad esempio, in certe zone del Sud i nostri effettivi contingenti di compagni ex-simpatizzanti non hanno votato. I numerosi voti avuti sono di sconosciuti nostri seguaci. Là dove hanno girato le squadre fasciste di votanti – espediente che non ci orripila: cosa guadagneremmo se le squadre fasciste non votassero a ripetizione, ma si tenessero pronte però sempre a far fuoco su di noi? Non ripareremo mai con le schede la loro fucileria – sono venuti fuori, a sgradevole sorpresa avversaria, molti nostri voti. In parziale rivalsa di quelli che non erano potuti andare alle urne, taluni squadristi hanno dieci, cinquanta volte votato falce e martello. Questo significa più di cinquecento voti liberi e coscienti, confessati e comunicati dal “Mondo” e dal “Manchester Guardian”.

Il proletariato non rinunzia alla lotta, esso esiste, esso rimonterà il suo svantaggio. Il rapporto di forze [favorevole] al fascismo oggi è espresso bene dalle cifre elettorali: illudersi sarebbe contro-rivoluzionario. Nel Sud il fascismo è più malvisto e meno opprimente: però è forse ancora più aspro che nel Nord il compito di vincere le resistenze antirivoluzionarie. Ma il rapporto si modificherà irresistibilmente a nostro favore. Si tratta di resistere alla illusione democratica, su cui pure gioca il fascismo stesso, di contare tra i nemici le varie opposizioni di Sua Maestà, di lottare contro la criminosa illusione pacifista di unitarii e massimalisti.

Noi torneremo contro il fascismo non certo coll’obiettivo imbecille di elezioni avvenire “in ambiente di libertà”.

La democrazia ha fatto il suo tempo. Le oche liberali, e a coro con esse le stesse aquile oggi ostentanti un antiparlamentarismo borghese e reazionario, strilleranno ben altrimenti quando vedranno come tratterà la democrazia una rivoluzione non da operetta.

Lungi dal restaurare gli ideali su cui piangono i vari Amendola e Turati, la rivoluzione delle grandi masse proletarie di occidente li farà assistere ad una satanica girandola di calci nel culo a Santa Democrazia, mai vergine e sempre martire.

E soltanto quella si potrà chiamare Liberazione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

UNO SCANDALO

L’Unità, 23 aprile 1924
 

Lo ha dato il sottoscritto, col fare l’apologia della “pastetta” elettorale.

L’“Avanti!” ha voluto servirsi di un mio articolo di critica al fenomeno elettorale per le comodità della sua polemica evasiva della proposta del nostro partito per il Primo Maggio. L’“Avanti!” non apprezza abbastanza gli eventi che hanno voluto che il cretinismo massimalista fosse un poco risparmiato nelle polemiche.

L’indignazione e l’orripilamento prendono alla gola lo scrittore del foglio massimalista. Egli non discute, non ragiona più, dinanzi alla bestemmia contro la santità e la purezza dell’elettoralismo democratico; egli esorcizza soltanto. Bestialità, bestialità! Le nostre bestialità dovevano essere scoperte dalla redazione capeggiata da quel grande teoreta e stratega del marxismo che è il noto ex-repubblicano borghese, interventista massone, semifascista del dopoguerra [si tratta di Pietro Nenni, voltagabbana di mestiere - n.d.r.]: ecco una cosa inaspettata.

A me non preme il pettegolezzo sulla sincerità delle conversioni di costui e sui limiti delle sue oscillazioni politiche: mi basta constatare che cosa miserabile sia per un Partito che pretende di richiamarsi a tradizioni di azione proletaria classista l’aver dovuto affidare la direzione del più importante lavoro di critica e di propaganda socialista a chi è imbevuto di tutte le forme dell’antisocialismo e non potrà mai capire nulla dell’azione di classe.

Il premettere agli articoli le citazioni degli scrittori marxisti e il ruminare idiotamente certe formule rubacchiate alla critica comunista, non toglie che il capo degli scrittori dell’“Avanti!” sia un ignorante di socialismo, in quel senso in cui ignorante non è il lavoratore analfabeta passato per i Sindacati e le sezioni nostre, in quel senso in cui ignorante mille volte resta colui nel cui cervello fermentano i residui di cento ideologie e teologie borghesi, e che non troverà nei libri il modo di liberarsene, ammesso che prenda sul serio un simile compito da neofita, sotto i panni di sommo sacerdote.

Perché la bestia è evidentemente lo scrittore del giornale massimalista. Egli dice che non vi è lealtà né onestà, se la pastetta è nei nostri programmi, nel deprecare nella nostra stampa le violenze e pastette fasciste.

La pastetta non è nei nostri programmi, perché il nostro programma è di realizzare la dittatura del proletariato senza la ipocrita conservazione della democrazia che rinfacciamo alla dittatura fascista. La “pastetta” può essere ed è un indice di forza nella presente lotta elettorale, assai meglio del numero dei voti che si distribuirebbero nella gratuita ipotesi delle elezioni oneste e leali. Per questo noi saremmo lieti che le pastette e le legnate fossero da noi meno subite e più inflitte all’avversario: ciò indicherebbe che siamo meglio collocati per lottare contro di lui. Noi credevamo di scrivere una bestemmia per i giornali tipo “Mondo”, per cui è arabo l’A-B-C della critica marxista; constatiamo oggi che il massimalismo è sullo stesso piano di cretinismo democratico e parlamentare di quella gente, se per un istante ce lo fossimo scordato.

Per la stessissima ragione noi non “deprechiamo” (ché questo frasario, insieme a quello della lealtà e della onestà, lo lasciamo ai mazziniani andati a male), ma costatiamo e denunziamo al proletariato le violenze e le frodi elettorali fasciste, appunto perché esse servono a dimostrare a meraviglia la nostra tesi programmatica: che non colle elezioni, ma colla violenza rivoluzionaria si emanciperà il proletariato. Sì che chi non capisce una cosa tanto semplice è incommensurabilmente bestia! C’è forse un lavoratore, magari votante pel partito unitario, che non sia avvertito dal suo istinto che il suo “sogno” di classe è il rovesciamento esatto di quei rapporti che oggi realizza il fascismo? Noi denunziamo dunque le violenze di questo, proprio perché la violenza è nel programma nostro: logicamente denunziamo la pastetta, non perché essa suoni violazione di una immaginaria morale della lotta politica, ma perché prova come il fascismo tenga stretto nel pugno il potere e il prepotere, e come non si devono escludere colpi nella lotta contro di esso.

L’“Avanti!” svela la sua anima riformista e borghese col fare appello a quei principii di morale politica sovrastanti alle classi, che lo conducono a scandalizzarsi della mia apologia della pastetta. Ma come tutti i moralisti esso rigurgita di ipocrisia. Pastette gli onorevoli socialisti devono averne, nei loro tempi, fatta qualcuna: e se non ne hanno fatte nelle elezioni, probabilmente per opportunismo e vigliaccheria, ne hanno però fatte nei Congressi di Partito, e anche in forme indecenti. Costoro faranno bene a non erigersi a maestri di coerenza.

Costoro stiano ben certi che è con completa consequenzialità ai nostri principi e al metodo marxista che noi conduciamo la documentazione – non vittimisticamente imbecille, ma tendente al capovolgimento rivoluzionario dei rapporti attuali e al vittimizzamento della classe che oggi domina e opprime, in tutte le forme che saranno utili a debellarla – delle violenze elettorali fasciste: con ciò noi documentiamo la verità e la forza della nostra dottrina.

Il massimalismo tenta ingannare il proletariato dicendo di seguire quella stessa dottrina: ma alla prima occasione rivela di essere agli antipodi. Ed è il massimalismo in contraddizione quando “depreca” la violenza e la frode elettorale borghese, poiché non sa dare il vero valore marxista a tale “deprecamento”.

È nelle vostre colonne, signori dell’“Avanti!”, che quella documentazione è fuori di posto; sfuggendo voi alla nostra tesi rivoluzionaria, e non avendo almeno il coraggio di dire che vi identificate del tutto colla tesi della “Giustizia” e del “Mondo”, voi venite a documentare una cosa sola: quanto siete coglioni. Ipocriti e coglioni insieme.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

BORDIGA, SUI TITOLI E LE “PASTETTE”

L’Unità, 6 maggio 1924
 

Non ho avuto occasione di vedere che in ritardo l’”Avanti!” del 25 aprile che continua la polemichetta originata dalla mia apologia della pastetta (che si può chiamare paradosso ove sia accettato che paradosso significa una cosa vera e seria ma che tale non sembra ai fessi). Veramente ho per abitudine di lasciar cadere le polemiche quando divengono personalismi, in quei casi cioè in cui più si scaldano quelli cui preme la propria carriera e che trepidano per la quotazione del loro nome alla borsa delle azioni politiche. Avevo alluso alla posizione di Nenni perché offriva un argomento per dimostrare assurdo che il foglio massimalista, finito in quelle mani, parlasse di nostre bestialità e contradizioni.

Che le coglionerie e le contradizioni, more solito, fossero dalla parte dei massimalisti, restava stabilito non per il valore della mia firma ma per quello di ovvie osservazioni. Il resto importa assai poco: perché è verissimo che io non ho alcun titolo, mansione o carica direttiva o di altra natura nel mio Partito e scrivo col diritto di un semplice milite delle file proletarie: quello stesso che si contesta ad un Nenni. Se avessi titoli o meriti troverei ridicolo sciorinarli, anche perché il farlo diventerebbe troppo noioso, potendo avvenire ad ogni lunazione che qualche cane randagio inattesamente uscito da disparate file politiche cada tra i piedi al movimento operaio, e venga a chiederci.. le carte.

Il trafiletto dell’”Avanti!” contro di me può essere rilevato solo perché fornisce altri elementi per definire la sciocca mentalità massimalista. Il frasario scemissimo con cui si fabbricano questi pezzi tra il tragico e il dispettoso non può meritare altra considerazione da chi abbia un inizio di educazione politica rivoluzionaria, e tenga a cuore quella di chi legge.

Infatti: solo il massimalismo può voler giudicare la qualità di marxista dai titoli “accademici”. Costui pensa che le pagine di dottrina e di azione rivoluzionaria si scrivano ad ogni stagione, e si possano poi esibire come i certificati scolastici e i diplomi delle mostre campionarie.

Il massimalista considera la politica classista coi criterii e la misura del successo personale. Perciò per lui sono argomenti decisivi quelli del fallimento, della bocciatura. Le discussioni sulla strategia proletaria sono capite da lui come le prove cui si sottopongono gli aspiranti a posti messi a concorso. Egli pensa che se dovesse avere tanto magri orizzonti per il suo avvenire personale pianterebbe anche il massimalismo. Dominato da criterii di questa sorta, non capirà mai che vi sia chi non vuol passare dalla porta in situazioni in cui egli, il capo massimalista, non esita a ficcarsi dentro dalla finestretta della latrina.

Il massimalista se ne frega di essere bocciato nella sua politica – anzi, di più, di essere bollato come traditore – dai congressi della Internazionale, perché si assicura il compenso nella sua carriera di capo e nella relativa impunità da parte della borghesia: non può capire certo che vi sia chi si contenta e si contenterà mille volte di non andare colla maggioranza, solo perché crede suo dovere difendere le sue non improvvisate opinioni, ad esempio rifiutandosi di ammettere che si possa fare qualcosa di utile di un Partito che è giunto a subire il noto fenomeno nella direzione del suo giornale.

Ancora più incomprensibile per il massimalista è e sarà sempre che dopo un “clamoroso processo politico” non si sappia collocare al cento per cento la relativa pretesa “aureola del martirio”, ottenendone un congruo avanzamento di carriera: che non si pensi neppure a mandare in giro le cartoline con la effige dell’eroe, o ad altra simile speculazioncella.

Nemmeno capirà mai il massimalista che si possa lasciare per ordine del proprio Partito un qualunque posto di capo, senza gettare in faccia e contro il Partito stesso la influenza e la notorietà che si può avere acquistata; senza calpestare i proprii doveri verso di esso per non lasciar menomare, davanti si capisce ai cretini, la propria personalità e popolarità.

Dal suo punto di vista è giusto che il massimalista, in uno sfogo del cuore, trovi coglione chi regola secondo questi criterii a lui così estranei i propri rapporti con la milizia politica cui appartiene. Lui, il massimalista, fautore per la massa della politica più cogliona, coglione non è in quanto concerne i suoi personali interessi e fa assai meglio i proprii affari. È giusto prenderne atto, specie dinanzi alla autorevole, adamantina figura del sig. Nenni, vero esponente supremo di queste virtù caratteristiche del massimalismo italiano. È stata una vera fortuna per l’uno e per l’altro che si siano incontrati, nelle note commoventi ed edificanti circostanze!

* * *

Con altro tono ed altro stile anche il numero precedente del giornale massimalista si occupa di me e della pastetta. La contradizione tra i due polemisti arriva a questo: che io mi trasformo in sole ventiquattro ore dal “ripetitore delle tesi di Mosca” nel “bocciato dell’Università di Mosca”.

Il primo polemista ci tiene a difendere la qualifica di bestialità alle mie affermazioni. Allo scopo ne dice lui altre molte. Mi accusa di valutare la violenza proletaria con “equipollenza morale” (brrr! Ed io sarei il filosofante!) a quella fascista. Mi insegna che il comunismo non è vendetta da compiere ma giustizia sociale da instaurare... Senza perderci più tempo si vede chiaro che il massimalismo, quando gli serve di porsi contro i comunisti, adotta un linguaggio tutto turatiano. È il solito barcollamento da destra a sinistra.

Non si tratta di vendetta, né di porre sullo stesso piano di un metafisico e filosofico giudizio morale le due violenze, bensì di capire che per un certo periodo quella proletaria dovrà essere il capovolgimento di quella borghese, con lo scopo di creare una situazione opposta, ma senza esclusione di mezzi offensivi.

Credere che la distinzione tra l’azione di classe del proletariato e della borghesia si debba tradurre nei mezzi, e non stia invece chiarissima nei fini e nella direzione storica; ecco il solito errore dei socialdemocratici e tra essi dei massimalisti.

La cosa più imbecille è poi che il polemista massimalista sostiene che noi diamo argomenti al fascismo, mentre egli copia tutto un brano delle sue sciocchezze sui miei mattoni, il mio teoricismo, il turpiloquio, etc., proprio da uno dei fogli fascisti che al suo han fatto coro nello scagliarsi sul mio scandaloso articolo.

Io non devo ripetere che per me la violenza e la pastetta elettorale – si intende proprio prima della rivoluzione proletaria – sono, assai più delle cifre dei voti, indici logici e autentici per giudicare dei rapporti effettivi delle forze politiche e di quanto siamo vicini ad un mutamento di essi. Il gioco del fascismo lo fa chi gli fa la propaganda per il monopolio di tenere il coltello per il manico.

Noi abbiamo il diritto di augurare che presto si sia in grado di cominciare ad agire coi suoi stessi mezzi. Resti l’”Avanti!”, per scrupolo di antifascismo... morale, ad aspettare cogli altri fogli democratici il momento in cui, arrossendo per tante prediche, lasceranno il potere in omaggio a un mucchio di quei sudici foglietti che si chiamano schede.
 
 
 
 
 
 
 
 

UN “INESORABILE... SVILUPPO”
Commento al decreto-capestro

Prometeo, giugno-luglio 1924, n.6-7
 

Il provvedimento con cui il governo fascista manda ai prefetti del regno di procedere ad libitum al sequestro e alle consequenziali diffide, incriminazioni e... soppressioni di quei giornali e di quelle altre pubblicazioni periodiche di cui il governo stesso e i suoi amici potranno un giorno o l’altro sentirne il bisogno di liberarsi non ci sorprende né, tanto meno, ci commuove. Diremo anzi di più: per un residuo di mentalità legalitaria di cui ancora non eravamo riusciti a liberarci, un provvedimento sulla stampa noi lo aspettavamo da tempo, nel desiderio di veder regolati da una legge gli arbitrî e i soprusi che si sono sempre esercitati contro i nostri giornali. Anche desideravamo che il governo fascista assumesse direttamente e senza equivoci la responsabilità di tutte le illecite sottrazioni e requisizioni a cui la nostra stampa veniva continuamente sottoposta da parte dei suoi sostenitori, ivi compresi certi occhiuti ufficialetti della posta che sistematicamente si facevano un dovere di sequestrare le nostre pubblicazioni. L’attuale decreto, in quanto non precisa né molto né poco i limiti entro i quali un giornale si deve contenere per sottrarsi alle sanzioni comminate, posto che un nostro giornale sia disposto ad uscire così col permesso delli superiori, e in quanto, peggio ancora, chiama giudice ed arbitro assoluto un funzionario politico della diretta dipendenza del governo e del suo partito, non soddisfa a dire il vero il suddetto nostro desiderio di legalità e anzi si risolve, né più né meno, in una inaudita estensione dell’arbitrio. Ciò non ostante noi non protestiamo né per questa ragione specifica né per la portata ultra-reazionaria del provvedimento.

* * *

E non protestiamo per due motivi.

Primo: perché non abbiamo mai seriamente creduto alla esistenza dei famosi “immortali principî” dai quali, secondo si dice, deriverebbero per tutti i cittadini il diritto, tra gli altri, alla libertà di stampa. Quella degli “immortali principî” fu una grandiosa invenzione della borghesia quando questa al tempo della rivoluzione francese mossa in guerra contro la società feudale e le classi degli aristocratici e degli ecclesiastici che di quella erano esponenti. La borghesia, già cominciata a svilupparsi come classe economica a sé, sentì in quell’epoca il bisogno di affrancarsi anche politicamente per meglio consolidare il suo sviluppo ed inalberò allora la bandiera degli immortali principî. Ma, una volta conquistato per sé il predominio politico, era ben naturale che dovesse tendere a negare alla nuova classe da cui sapeva di dover essere un giorno scalzata quei diritti in nome dei quali essa medesima si era prima agitata. E in fatti, sebbene mai abbia avuto il coraggio di negare di diritto i suoi famosi immortali principî, ha sempre costantemente rifiutato di riconoscerli di fatto alla nuova classe che si ergeva contro di lei. Questa è stata la pratica costante di tutti i governi demo-liberali che in nome della borghesia hanno esercitato il potere politico. Se non ché, dinanzi al crescente sviluppo del proletariato che sempre più va acquistando coscienza di sé e del suo avvenire, la borghesia ha dovuto un bel giorno rinunziare al suo metodo liberale, che si manifestava pericoloso, ed organizzare la propria disperata difesa, creando a tale scopo un vero e proprio esercito. Questo è stato il fascismo, che della borghesia costituisce l’avanguardia militante.

In nome e nell’interesse della borghesia il fascismo ha appunto instaurato nel paese un regime dittatoriale; in nome e nell’interesse della borghesia esso ha diviso i cittadini in due campi distinti: patrioti e antinazionali, ai primi dei quali tutto è lecito mentre ai secondi tutto è proibito; in nome e nell’interesse della borghesia esso esercita la compressione di ogni movimento proletario. Ma un governo che sia pervenuto al potere attraverso la violenza e il compromesso, quando non riesce, per la sua antistoricità, a raccogliere attorno a sé il consenso delle masse e anzi ha la sensazione di non avere più con sé nemmeno coloro che già lo ressero per le tirande nei suoi primi passi, deve necessariamente tentare di mantenersi in piedi con le baionette e con i decreti-capesto. È questa per il fascismo una necessità storica che lo spinge, ad ogni giorno che passa, a sempre più invilupparsi nelle pastoie dell’armatura dittatoriale e a seguire alla rovescia il processo rivoluzionario. In questo appunto sta anzi la caratteristica differenziale tra la dittatura borghese e dittatura del proletariato. Quest’ultima, essendo la dittatura di una stragrande maggioranza su una esigua minoranza, dopo aver ridotta questa nell’impossibilità di nuocere col solo privarla dei mezzi economici che prima la rendevano onnipotente, è destinata, sia pur lentamente, a scomparire per far posto ad un regime effettivamente democratico; l’altra invece, essendo esercitata in nome di una minoranza contro la maggioranza, è costretta, se vuol reggersi in piedi, a mai disarmare, e anzi deve fatalmente andar sempre più accentuando il suo carattere dittatoriale, fino a quando la maggioranza che le è sottoposta non sarà riuscita a spezzarla per sempre.

Ora al fascismo è accaduto appunto questo. Il delitto Matteotti e gli scandali vergognosi che son venuti alla luce gli hanno dato in quest’ultimo mese un colpo non indifferente. Se gli organizzatori del delitto Matteotti avessero potuto anche lontanamente prevedere quale formidabile ondata di sdegno il loro crimine avrebbe sollevato dall’un capo all’altro del Paese e se i non affatto onnipotenti signori d’Italia potessero oggi disfare il già fatto, è certo che i primi avrebbero infrenato il loro istinto belluino o questo rivolto ad altre vittime più umili, ed è certo anche che i secondi rinuncerebbero volentieri ad almeno cinquant’anni di dominazione sui sessanta calcolati dall’ineffabile Michelino, pur di poter riportare la situazione a quella che era prima del delitto.

Ma poiché i primi non seppero antivedere e agli altri sfugge il dominio del passato, il governo fascista si è venuto necessariamente a trovare dinanzi a questo dilemma: o lasciar che l’ondata di sdegno continuasse a ingrossarsi e si allargassero gli scandali da cui sono stati investiti e sommersi già troppi degli dei e semidei dell’improvvisato Olimpo fascista e altri ancora potrebbero essere abbattuti, o tentar di opporre un argine alla sempre crescente marea di ostilità e un freno all’allargarsi degli scandali. Nel primo caso si sarebbe andati incontro al pericolo di vedere ad una ad una cadere sotto i colpi dei marosi le colonne tutt’altro che robuste che ancora si reggono in piedi a sostegno della impalcatura su cui il duce ha collocato il suo trono di cartapesta; nel secondo resterebbe ancora la speranza di poter riuscire a dominar la tempesta, contro, s’intende, la possibilità di esser sommersi d’un colpo e spazzati per sempre in un attimo.

Il governo fascista, davanti a questo dilemma, ha reputato più opportuno appigliarsi al secondo corno, e da un canto ha dato mandato a Farinacci di organizzare su per le varie piazze d’Italia alcuni rumorosi schieramenti di militi, nel duplice intendo di rincuorar certi troppo pavidi amici che al primo stromir di fronda si erano affrettati a gettare nel ripostiglio il distintivo fascista e insieme ammonire e infrenar gli avversari, dall’altra ha incaricato Federzoni di imbavagliare la stampa.

La decisione può piacere o non piacere ma è ferreamente logica da un punto di vista storico-dialettico, se pure in aperta contraddizione con i ripetutamente affermati propositi di normalizzazione. È anzi un tal poco rivoluzionaria, nel senso e nel modo in cui fu rivoluzionario l’assassinio di Matteotti. Con questo il fascismo volle liberarsi di uno dei capi della opposizione che più gli dava, per il momento, fastidio; con l’imbavagliamento della stampa vuole ora liberarsi dei non piacevoli strascichi del delitto. Non è improbabile che si tenti domani con nuovi gesti del genere di soffocare i movimenti oppositori a cui il decreto-bavaglio potrà dar luogo.

Quanto al decreto-capestro è chiaro che con esso il fascismo vuole impedire che la stampa di opposizione segua troppo da vicino lo svolgimento del processo, cosa questa che colpirebbe in doppio modo il fascismo: direttamente, concorrendo ad aggravare la posizione degli attuali imputati, il che potrebbe spingere qualche Dumini a fare – come già è stato minacciato – come Sansone; indirettamente, accrescendosi il discredito che già circonda il partito stesso. Il decreto-bavaglio potrebbe invece tutto accomodare, in quanto è certo che la sola minaccia che possa essere applicato varrà a tenere a freno certa stampa.

Ma nemmeno col decreto-capestro il governo riuscirà ad allontanare dal suo capo la tempesta. Sui delitti che interessano la massa – in quanto è certo che in Matteotti si è cercato di colpire un capo popolare – è la massa che giudica e si assume il compito di eseguire, quando che sia, la sentenza pronunziata. E il delitto Matteotti è stato giudicato insieme ai mille e mille altri delitti in cui caddero e Lavagnini e Di Vagno e Piccinini e Oldani.

In questo senso perciò il decreto fallirà al suo scopo. Tutt’al più varrà a provare ancora una volta quanto insinceri siano sempre stati i propositi di normalizzazione manifestati dal duce e accettati come oro colato da tutti, noi eccettuati, gli oppositori.

Per concludere su questo punto, il decreto sulla stampa non è che un necessario sviluppo (meglio si direbbe inviluppo) del regime. Ogni protesta cartacea contro di esso sarebbe perciò ridicola e comunque insufficiente. La lotta a parità di condizioni esiste soltanto nelle consuetudini sportive e nelle esercitazioni cavalleresche in cui due sangue-blu si battano per un futile motivo, con l’intesa di fare alt “al primo sangue”. Ma quando la lotta deriva da sostanziali contrasti economici e deve protrarsi fino a quando una delle parti in lizza non sia caduta per sempre; quando essa dura così da secoli, aspra, feroce, implacabile, allora è vano pretendere di prestabilire delle regole alla lotta stessa. Sarebbe la stessa cosa come pretendere che la borghesia si arrendesse senza combattere, in quanto è certo che a parità di condizioni non potrebbe resistere per più di un attimo. Ma la guerra è guerra, e ciascuna delle parti si avvale delle armi che ha. Il fascismo, avanguardia della borghesia, ne aveva già molte a sua disposizione contro una massa di inermi. Quelle non bastandogli, provvede ora a toglierci di diritto l’unica arma che ancora ci fosse rimasta, sebbene anche quella ci fosse stata tolta di fatto da tempo.

Ma il fascismo è in linea, come è in linea, checché se ne dica, Farinacci.

* * *

Chi invece non è niente affatto in linea è la cosiddetta ala sinistra della borghesia che, attraverso le sue oche liberali e demo-sociali, strilla a più non posso e protesta contro l’ultimo provvedimento fascista. Questi signori che auspicarono o accettarono di buon grado l’avvento fascista, giustificandone fino ad jeri tutti i crimini e tutti gli arbitrî, hanno oggi torto marcio a protestare, ed è questo il secondo motivo per il quale noi ci vorremmo astenere dal formulare una nostra protesta.

A noi quasi verrebbe voglia di protestare contro le proteste altrui. Perché non riusciamo a vincere la repugnanza di doverci trovare gomito a gomito nella lotta con questi nuovissimi zelatori della libertà che sono rimasti sempre beatamente assenti quando ad essere conculcata era soltanto la libertà altrui. Coloro che oggi protestano, e alla cui voce noi dovremmo aggiungere la nostra, non sono forse quelli stessi che ancora ieri applaudivano o passavano beatamente sotto silenzio tutti i soprusi e tutte le violenze compiute dai ricostruttori contro di noi ? Non hanno anzi, essi per i primi, incoraggiato persecuzioni e soprusi nella speranza di poterne trarre un vantaggio per sé e per le combriccole politico-finanziarie che li sostenevano ? Non hanno, i vari Giornali d’Italia, manifestato fin nei titoli il loro compiacimento per tutte le violenze compiute contro il proletariato ? Codesti messeri speravano, è vero, di potersi servire del fascismo come di qualche cosa da gettare, dopo l’uso, nella spazzatura. Speravano essi, in altre parole, di potere, attraverso il fascismo, consolidare le loro posizioni. Il fascismo ha fatto invece nei loro confronti come non di rado facevano certi eserciti di ventura i quali, dopo aver vittoriosamente condotto una guerra al soldo di questo o quello stato, finivano molte volte con l’impadronirsi direttamente delle città conquistate. Non solo, ma il fascismo, con i suoi eccessi e le sue intemperanze, mette oggi in serio pericolo la esistenza stessa della stato borghese. Ed ecco che la borghesia italiana insorge davanti al pericolo che si affaccia, tentando di gabellare la sua nuova manovra per una presa di posizione in difesa della libertà. La borghesia vuole salvarsi ad ogni costo e tenta, attraverso i suoi campioni liberali e demo-sociali, di rifarsi una verginità. Dopo avere invano tentato di ammansire con la sua astuzia il movimento fascista, essa tenta ora, per salvare sé stessa, di gettarlo a mare, convinta com’è della impossibilità in cui il fascismo stesso si trova di prolungare all’infinito il suo regime di violenza.

Questo giuoco non deve riuscire. Certo, alla borghesia farebbe assai comodo conservare i vantaggi procuratile dall’azione fascista in quattro anni di violenta reazione antiproletaria e crearsi contemporaneamente un alibi morale per non perdere il diritto all’eredità. Ma la borghesia italiana, auspicatrice e sostenitrice fino ad jeri di tutte le violenze commesse contro il proletariato, ha oggi il dovere di stringersi intorno al suo governo forte. La borghesia deve oggi, voglia o non voglia, prendere su di sé la sua parte di responsabilità per i delitti e gli arbitrî commessi e per quelli che ancora si commetteranno. Perché gli arbitrî di oggi sono la conseguenza degli arbitrî di jeri. Perché non si può contemporaneamente volere i risultati di una determinata azione e non volere l’azione stessa. Dal giorno in cui, in nome della borghesia, assunse violentemente il potere il fascismo ha trovato dinanzi a sé già tracciata la via da percorrere. Per questo chi l’ha comunque giustificato da principio deve giustificarlo fino alla fine, e risponderene direttamente domani davanti al proletariato.

Noi rifiutiamo per conto nostro certe equivoche alleanze dell’ultima ora e mettiamo in guardia il proletariato contro questo turpissimo giuoco.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

IL DELITTO
Delitto fascista? No: delitto padronale, semplicemente

Prometeo, giugno-luglio 1924, n.6-7
 

Il fascismo – malgrado le false o miserevoli definizioni dei suoi avversari borghesi – non è un organismo autonomo: esso è un espediente di reazione capitalistica, che fu prima brigantaggio statale, e divenne poi, con la complicità dei poteri pubblici, lo Stato brigante. Ma il fascismo come organismo dottrinario e politico non è mai esistito: esso è una pomposa violenza al servizio della classe padronale. La classe padronale mette il cuore e il cervello; il fascismo mette le mani. Il fascismo non crea le vittime: esso provvede soltanto i sicari.

Delitto padronale dunque, semplicemente. Attraverso le deplorazioni, le sconfessioni e le esecrazioni, attraverso le ipocrisie e le finzioni della opportunità politica, tutti abbiamo potuto notare e sentire le espressioni e le voci di una intima soddisfazione, né solo tra i fascisti, ma tra quanti, bravi patrioti e mercatanti e possidenti e ben pensanti, costituiscono la nobile e altiera falange dell’antibolscevismo nazionale.

Ce ne sono molti tra i deploratori che ne vorrebbero – senza rumore, però – mille al giorno di questi assassinii solo quando le convenienze impongono di chiamarli così – altrimenti sono ammonizioni e castighi esemplari e salutari.

Certi atti di vile atrocità, di gelida e spaventosa iniquità offendono anche l’animo più insano e indurito di criminale. Il delinquente ha anch’esso un suo senso di giustizia e una sua repugnanza a certo far male; ma nessuna pazza scellerataggine, nessuna viltà feroce repugna al ceto capitalistico, quando vuol custodire o difendere il suo privilegio minacciato. I responsabili dei delitti contro i lavoratori e i loro rappresentanti non sono soltanto i maneggiatori di mazza e di pugnale, i sicari e gli eccitati: sono soprattutto i dignitari, i signori, i magistrati, gli uomini di censo, di cultura e di toga, che da tali e tanti misfatti traggono motivi di aperta gioia o di soddisfazione serena.

L’altro giorno – quando più fremeva la curiosità e lo sdegno del mondo intorno agli uccisori di Giacomo Matteotti – dodici campioni del patriziato romano si iscrivevano al fascismo. Erano tra i più bei nomi dell’alto ceto patrizio, fiore di nobiltà e di mondanità, gentiluomini di corte e di sport, che sentivano il bisogno schietto ed aperto – e perciò nobile e generoso – di offrire un patronato, di assicurare una benigna approvazione a quei bravi giovani che per quatto anni avevano prestato l’opera loro alla purificazione della patria.

E del delitto molti altri si sarebbero a torto compiaciuti: perché misfatti, simili a questo, compiuti contro gli oppositori costituzionali e comunque legalitari della dittatura borghese servono solamente a spezzare i tendini di una futura resistenza contro il proletariato. Ma da un pezzo la borghesia italiana, folle di boria criminale, va colpendo furiosamente quelli che pure sarebbero i suoi ultimi ma non più deboli baluardi.

Gli operai e i contadini non accolgano come delitti fascisti i delitti eseguiti dal fascismo. Sono delitti padronali, che vanno messi tutti in conto della classe capitalistica e calcolati – quando sarà tempo – con gli interessi.
 
 
 
 
 
 
 
 

LA GIUSTIZIA IN MARCIA

Prometeo, giugno-luglio 1924, n.6-7

(...)

Ci appare il fascismo come il più feroce dei metodi di governo, e tanto più vergognoso se messo in rapporto al secolo in cui viviamo e alla completa assenza di ogni legge morale in tutti i suoi militanti assertori. La stessa maggioranza di quella borghesia, che li assoldò e ne guidò i primi passi dubbiosi, di quella borghesia che ha finto d’ignorare mille altri delitti non meno feroci dell’assassinio del deputato unitario di Rovigo o che ha tentato di giustificarli con i presunti diritti della rivoluzione di cartapesta, ha avuto uno scoppio di sdegno insorgendo con una formale per quanto platonica levata di scudi.

Possiamo però noi comunisti prestar fede a quest’ondata di sdegno? “Timeo Danaos, et dona ferentes”. Perché tanta parte della borghesia ha preso posizione di lotta contro i suoi bravi, che già tutto il loro zelo spesero nel difenderne le posizioni?

Facile a noi si presenta la risposta, abituati come siamo alla indagine severa e alla critica realistica dei fenomeni sociali. Finché il fascismo compiva la sua opera di demolizione delle conquiste proletarie, finché scannava nelle sue eroiche spedizioni gl’indemoniati comunisti irreducibilmente nemici, batteva la strada maestra dai suoi foraggiatori assegnatagli, le stragi di Torino e di Spezia di fronte alle quali impallidisce a dismisura il fosco delitto di Roma, non trovarono un cane di massimalista o un cristiano professore di Caltagirone, per tacere dei vari piagnoni della conculcata democrazia tipo Amendola o Turati, disposti a sbraitar dall’Aventino e a versare fiumi di parole contro l’incostituzionalità di taluni atti del fascismo. Ma quando questo dalla sua funzione di scherano è voluto assurgere al ruolo di nuova classe dominante, non solo politicamente, ma quel che più importa economicamente, e ha cominciato col riservare tutto per sé la preda del sopralavoro degli operai e contadini sotto forma di spremimento in grande stile dei suoi ex-padroni, di infiltrazione diretta in tutte le concessioni lucrose, nelle banche, nei consigli di amministrazioni, nelle speculazioni affaristiche, e si è rivolto “armata manu” non più contro i comunisti soltanto, ma contro esponenti grandi e piccoli, aperti o mascherati della borghesia, ed ha colpito Nitti, Amendola, Forni, Misuri, Bergamini, Matteotti, allora i giornali sono stati pagati non più per dire osanna ai ricostruttori e ai liberatori della patria dal bolscevismo, ma per gridare l’allarme contro il sovversivismo fascista, in nome dell’ordine e del buon nome d’Italia minacciati dall’ignobile regime. Perché, per chi non l’intenda, l’ordine e il buon nome della patria e tutti gli altri consimili paraventi non significa altro che il mantenimento dei propri privilegi e delle proprie posizioni di sfruttamento.

Dapprincipio si è avuta un’offensiva in grande stile a fondo contro il regime della cosiddetta rivoluzione, poi l’offensiva è rientrata e si è chiesto che la giustizia compia “tutta la sua marcia”, che sia piena ed intera, che il fascismo si “epuri” che si “ingrani” la milizia nell’esercito.

Cosa vuol dire tutto ciò ?

Niente altro che un armistizio per impedire l’entrata in campagna dell’unica armata capace di risolvere radicalmente il conflitto, dell’armata proletaria. Certo a nessuno sarà sfuggita la “saggezza” politica dei socialisti, l’avvedutezza tattica della Confederazione del Lavoro alleati toto corde con i borghesi delle varie tinte nel respingere come “provocatorio” l’ordine di battaglia lanciato dai comunisti. E l’armistizio, insincero da entrambe le parti, perché i fascisti sperano di riprendere cautamente tutte le posizioni perdute in questo infortunio, mentre i borghesi dell’altra riva, fidando sulla loro maggiore esperienza, pensano di liquidare a poco a poco il fascismo rimanendo di nuovo gli unici padroni, si trasformerà in alleanza o in nuovo conflitto a seconda della combattività della classe proletaria, a seconda cioè che questa avrà la coscienza di doversi battere da sola contro il capitalismo delle varie tinte o seguiterà passivamente ad esser preda dei vari contendenti.

Stante così le cose ci appare quanto mai ridicola la ingenua protesta al noto o.d.g. del Labour Party di quello strumento di classe che chiamasi potere giudiziario; a parte ogni empirica considerazione sulle precedenti acquiescenze per cui soltanto ora si tolgono dagli archivi impolverati i “dossiers” già messi a dormire delle “istruttorie collaterali”, appare evidente quale sia in tutta l’enorme e complessa lotta di classe, causa vivente e vitale, malgrado Rossoni, di tutti i fenomeni sociali, la ridicolissima presunzione d’indipendenza di un organo, quale la magistratura, la cui funzione al pari degli altri organismi borghesi è legata alla volontà dei padroni per il mantenimento di quel tale ordine, che come poco fa dicevamo è sinonimo di mantenimento dei privilegi acquisiti. Onde la giustizia in marcia procederà, si arresterà, andrà lenta o spedita a seconda che gli’interessi politici della parte più forte esigeranno per il “bene della patria” il funzionamento in un modo o in un altro di quest’organismo per la applicazione delle leggi borghesi.

È necessario qui chiarire che scrivendo la parola “giustizia” intendiamo riferirci a quella nominale e relativa del potere giudiziario, alla cui competenza sono stati assegnati alcuni ostaggi con il compito di non allargare il processo al regime, ma soltanto al delitto di soppressione, poi altrimenti detto di omicidio premeditato in persona di un membro del Parlamento.

Ma una giustizia circoscritta da limiti, imposti per di più da chi nessuno può vietarci di credere imputato, è mai giustizia? E se il processo necessario fosse proprio quello al regime, quale organismo sarebbe competente a render giustizia ?

Come si vede per i proletarii lo strombazzato corso della giustizia è frase vuota di senso. Quand’anche siano mandati all’ergastolo quindici o venti persone, quand’anche il processo si estendesse a tutto il fascismo e andassero al potere le opposizioni, sarebbe fatta giustizia ? Non esitiamo a dire di no.

Ben più profonde sono le cause delle ingiustizie sociali, ben più profondamente dovrebbe colpire la spada di Temi perché giustizia possa considerarsi fatta, ben altri tribunali che quelli ove siede il magistrato borghese son competenti a giudicare.

È tutto un regime marcio e vacillante che reggesi qua e là in Europa e nel mondo sui trampoli e con i puntelli forniti dalla socialdemocrazia e dal fascismo, callida e avveduta abbindolatrice delle masse la prima, truce e feroce martellator del proletariato il secondo; è tutto un cumulo di sozzure e d’iniquità di cui soltanto la Rivoluzione trionfante potrà render giustizia.

(...)

E giovani saranno gli esecutori della grande Giustizia, di quella “piena ed intera” che farà tremare tutti quelli che ora tale l’invocano, saranno i vindici i giovani nutriti di odio contro i massacratori dei padri, cresciuti all’ombra d’un religioso desio vano e d’un inestinguibile tormento. E come saranno terribili, falangi di novelli Tesei, quei giovani, che né cupidigia di laute prebende né desiderio di compenso muove, ma sete di grande giustizia! Essi ricercheranno le martoriate ossa paterne e nella febbrile ricerca demoliranno i privilegi del capitale, prostreranno al suolo gli ultimi bravi, innalzeranno sulle macerie un grande e meraviglioso edificio. Nella loro opera ciclopica in taluna pausa forse penseranno al movente, alla ricerca che li aveva fatti assurgere a giustizieri, ma rapiti dalla grandiosità della loro opera dimenticheranno l’odio e la vana ricerca per ammirare i frutti forse inaspettati in qualcuno della giustizia paga: la nuova umanità.

Niente dunque ci aspettiamo dalle istruttorie e dai processi in corso, nulla risolveranno delle vere cause dei delitti: Matteotti e le mille altre vittime più oscure rimarranno inutili finché la giustizia funzionerà agli ordini di quelli stessi che ordinarono le stragi. La giustizia per questa via non può essere in marcia.

Essa lo è e lo sarà, mano mano che nella classe proletaria si farà strada il pensiero di dover tutto demolire di questo infame regime, che i lavoratori sentiranno il bisogno di organizzarsi sotto le direttive rivoluzionarie tracciate da Marx ed attuate da Lenin, che il desiderio di questa nuova società libera dagli sfruttamenti diverrà irrefrenabile. Per mille sintomi abbiamo il motivo di credere che la classe lavoratrice è insofferente, che una parte di essa coscientemente tende verso la meta, che l’altra parte seguirà certamente la prima nella sforzo di liberazione.

Per questa via e per questa soltanto possiamo affermare che la giustizia è in marcia.