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Difendere la teoria rivoluzionaria è difendere l’avvenire del proletariato
Il Partito Comunista - 1977, n. 31, 40
Come è nostro costume, e modo di lavorare, diamo un ampio riassunto della relazione che, sul tema della conoscenza come presupposto per la battaglia storica del partito, è stata tenuta dalla nostra riunione intersezionale del 1° Gennaio 1977.
«Come la filosofia trova nel proletariato le sue armi materiali, così il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali, e non appena il lampo del pensiero sarà penetrato profondamente in questo ingenuo terreno popolare, si compirà l’emancipazione dei tedeschi a uomini. L’unica possibile liberazione pratica della Germania è la liberazione dal punto di vista di quella teoria che proclama l’uomo la più alta essenza dell’uomo. In Germania l’emancipazione dal medioevo è possibile unicamente in quanto sia l’emancipazione dai superamenti parziali del Medioevo. In Germania non si può spezzare nessuna specie di servitù senza spezzare ogni specie di servitù. La Germania radicale non può fare la rivoluzione senza compierla dalle radici. L’emancipazione del tedesco è l’emancipazione dell’uomo. La testa di questa emancipazione è la filosofia, il suo cuore è il proletariato. La filosofia non può realizzarsi senza la soppressione del proletariato, il proletariato non può sopprimersi senza la realizzazione della filosofia. Quando saranno state soddisfatte tutte le condizioni interne, il giorno della resurrezione tedesca verrà annunziato dal canto del gallo francese». (Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione).
Se questo era vero nella seconda meta delI’Ottocento, è evidente che oggi non si può spezzare nessuna specie di servitù senza spezzare ogni specie di servitù materiale. Se la Germania del tempo è la chiave di volta per l’emancipazione del proletariato, non solo tedesco, oggi la Germania abbraccia tempi e spazi ben più vasti, dal Nordafrica alla Palestina, dovunque l’emancipazione dal colonialismo è possibile unicamente in quanto sia insieme l’emancipazione dai presunti o reali superamenti parziali del capitalismo imperialistico. La condizione di base, irrinunciabile per questa meta storica, è però la difesa della teoria rivoluzionaria; in caso contrario non ci sarà gallo né francese, né russo, né gallo e basta, ad annunciare la resurrezione.
Questo è un compito permanente del partito di classe, specialmente
nella difficile fase attuale della lotta, quando si fa spreco di falsa
modestia
e di aggiornamento dei cardini del marxismo per via “democratica” e
“pluralista”. Questi atteggiamenti hanno infestato da sempre il
movimento
operaio, e vengono da lontano, se già Lenin nella Prefazione alla prima
edizione
del suo Materialismo
ed Empiriocriticismo commenta sarcasticamente un’affermazione di
Lunaciarskj «forse noi sbagliamo, ma cerchiamo», tratta dai Saggi
intorno alla filosofia del marxismo, Settembre 1908, con queste
parole:
«Che
la prima metà della frase contenga una verità assoluta e la seconda una
verità
relativa, è ciò che mi sforzerò di dimostrare nel modo più
circostanziato, nel
libro che sottopongo all’attenzione del lettore. Per il momento osservo
soltanto che se i nostri filosofi non
avessero parlato a nome del
marxismo, ma a nome di alcuni ricercatori marxisti avrebbero dimostrato
maggior
rispetto per sé e per il marxismo. Quanto a me, sono anch’io in
filosofia uno
che “cerca”. E precisamente: nelle presenti note mi sono posto il
compito di
cercare come si sono smarriti coloro che presentano in veste di
marxismo
qualche cosa di incredibilmente confuso, intricato e reazionario».
L’esperienza
della prima rivoluzione proletaria
vittoriosa e la fondazione dell’Internazionale segnò per i comunisti di
tutto
il mondo la fine dei “ricercatori” marxisti isolati o indipendenti, sui
quali
già Lenin ironizza, e la difesa della sua dottrina diventa compito
collettivo
del partito, ed il compito pare immane poiché oggi non abbiamo a che
fare con
compagni “smarriti” come gli otzovisti alla Bogdanov o liquidatori
menscevichi
(siamo nella Russia del 1908) ma contro coscienti falsificatori, che
paludandosi dietro il “pluralistico” e “democratico” «forse sbagliamo
ma
cerchiamo», di fatto distruggono ogni possibile richiamo ai capisaldi
irrinunciabili della teoria marxista rivoluzionaria.
Ad ogni fase e congiuntura storica della moderna lotta di classe il partito si è trovato ad adempiere a questo compito primario, a dover impugnare l’arma della critica non in astratto, fuori del tempo e dello spazio, ma in rapporto alle false concezioni della realtà propagate dal nemico di classe. È così che si è potuto far riferimento al marxismo come un punto di vista opinabile, relativo, liberamente interpretabile, perché si è preteso di leggere la sua visione del mondo come una “filosofia” tra tante, come un modo di contemplare la realtà, quando proprio Marx ha decretato la fine di questa metafisica in nome della trasformazione rivoluzionaria della storia e della natura.
Così Lenin fu costretto a riportare di più l’accento sul materialismo piuttosto che sulla storia, mentre Marx ed Engels, i quali si sono formati alla scuola di Feuerbach «... rivolsero naturalmente maggiore attenzione al completamento della filosofia del materialismo in atto, cioè non alla gnoseologia materialistica, ma alla concezione materialistica della storia. È per questo che Marx ed Engels mettono l’accento più sul materialismo storico che sul materialismo dialettico».
Il partito comunista si trova oggi di fronte ad una marea di scuole e controscuole per le quali l’idealismo addirittura prekantiano è la regola, a correnti scientifiche e filosofiche che negano perfino la natura (ne parleremo in seguito). Figuriamoci allora quanto necessaria è la difesa della teoria in una realtà in cui si è costretti a navigare assolutamente contro corrente, e dove forse solo il cuore del proletariato, per sua necessità, non potrà non riconoscerci. Noi assistiamo oggi all’estrapolazione di dati scientifici per reintrodurre per la finestra quello che è stato cacciato dalla porta, alla giustificazione della religione come risposta all’impotenza e alla teorizzazione dell’inconoscibilità del mondo fisico, in esplicita in funzione anti-proletaria dell’armamento dogmatico o democratico (che è peggio) delle Chiese.
Nella nostra azione, convinti assertori della conoscibilità del mondo e della sua trasformazione rivoluzionaria, dobbiamo fare i conti con una concreta e storica congiuntura della lotta di classe, che non ci illudiamo di invertire semplicemente con sermoni dottrinari, ma che comunque ci impone di non rinunciare all’arma della critica la più tagliente possibile.
Oggi la stessa demistificazione della teologia di Hegel operata da Feuerbach, maestro riconosciuto del marxismo, è ridicolizzata come espressione di mistico amore per l’uomo: le scienze naturali borghesi a base di biologismo e di etologia tendono a stravolgere la pur esaltante formula “homo homini deus” nella ferina “homo homini lupus” e a darle legittimità dimostrandola con i dati delle ricerche più avanzate, in realtà cattiva filosofia e proiezione degli avvelenati rapporti di classe.
Non è certamente facile riaffermare che il marxismo, demistificando a sua volta lo “homo homini deus” di Feuerbach, ha definitivamente escluso l’immagine astratta e definitiva di una essenza umana da adorare, perché il feticismo di questo atteggiamento è dal marxismo sostituito con la tensione per la realizzazione di un assetto umano-sociale naturale che è il socialismo, per noi l’inizio della storia contro la preistoria schiavistica, feudale, capitalistica.
È questo l’assoluto – relativo ad una data fase storica – al quale tendiamo, con buona pace di tutti i metafisici pre-Hegeliani e i biologisti dei nostri giorni.
Il marxismo nega l’amore per l’uomo considerato nei suoi rapporti sociali esistenti. Il marxismo non ama l’uomo sfruttato in quanto sfruttato, ma in quanto potenzialmente libero dallo sfruttamento, non il proletariato in quanto proletariato, ma il proletariato in quanto negatore di sé stesso e cuore della società-specie.
È l’intellettualismo piccolo-borghese, che per i suoi sensi di colpa tende a vedere l’umanità vera nella umanità sofferente, nella classe operaia, nei suoi sacrifici. Niente di più bolso e più nocivo. Da qui gli appelli a vivere le sofferenze delle masse, e farsi umili tra gli umili, ad andare a scuola dalla classe, e falsità di questo genere.
Viceversa, o il partito è in grado di portare la sua più alta visione alla classe, oppure si mette alla sua coda, ed allora contribuisce soltanto al suo abrutimento ed alla adorazione dello status quo. In quanto l’essere umano non è una astrazione che sta al di sopra dell’individuo singolo, ma è nella sua realtà, l’insieme dei rapporti sociali, è falso, statico e reazionario il rispetto dell’uomo in quanto tale.
D’altronde già nel passato ciò era stato intuito, anche se spiegato in forma idealistica o religiosa; basti pensare al corpo mistico di San Paolo o alla morale rivoluzionaria degli stessi borghesi in fase di ascesa e di lotta contro il feudalesimo.
La frase “nella sua realtà” fa evidentemente riferimento non ad un concetto assoluto, ma ad “un certo grado” di realtà, cioè ad un concetto relativo. Per chiarire la cosa; la filosofia scolastica medioevale attribuiva a Dio il massimo grado di realtà – una realtà assoluta – in quanto solo la divinità era dotata della “pienezza dell’essere”, essendo tutti gli altri esseri esclusi da questa “totalità di esistenza”.
Nel 14° secolo, nella disputa passata nella storia della filosofia come “status ontologico degli universali” che si svolse tra “realisti” e “nominalisti”, era ancora al centro della discussione il concetto di realtà. I realisti, che derivavano le loro concezioni dall’idealismo di Platone, sintetizzavano la loro dottrina nell’affermazione “universalia sunt realia”, il che significava che all’universale è inerente l’esistenza prima – in senso logico – ed indipendentemente dall’individuo, per cui l’universale era riconosciuto come essere indipendente; come dire che innanzi ai cavalli (individui), stava la cavallinità (essenza, generale) che aveva una esistenza autonoma rispetto agli individui.
I nominalisti, al contrario, ritenevano che nel mondo reale non sussistesse alcunché di distinto dalle cose concrete particolari, che pure avevano determinate proprietà generali comuni (per questo Marx definì il nominalismo la prima espressione del materialismo). Il materialismo nega insomma l’esistenza di realtà al disopra degli individui che si muovono in un “campo sociale”, e le “generalità”, che sembrano sussistere oltre questo campo, non hanno esistenza autonoma. E questo vale anche, checché ne dicano tutti gli aggiornatori e miglioratori, anche per la specifica “realtà” che è il partito di classe; quando si fa riferimento, nella nostra dottrina e tradizione, alla integrazione tra singoli militanti ed insieme “organico”, cioè totalità dotata di funzioni particolari ma unitaria come essenza, non si allude ad una astratta e fideistica mistica di tipo moralistico, ma ad una unità collettiva, d’intenti, di volontà che si manifesta nell’azione e in un fine comune che va misurato nella realtà sociale.
Quando si è ridicolizzata questa realtà organica in nome della necessità della disciplina caporalesca, in nome dell’emergenza della situazione, del baratro di distanza che separa la realtà oggettiva dal partito, si è dimenticato che la conquista praticamente più preziosa del comunismo rivoluzionario fatto proprio dalla Sinistra Comunista è proprio questo modo di essere del partito nel suo organamento interno e nel suo modo di muoversi tattico. Né ci sembra un umanesimo cristianuccio o formale l’instaurarsi di rapporti interni che superando il formalismo esteriore, o almeno cercando di ridurlo a pura tecnica necessaria per agire in conformità dei fini comuni, comporta la prefiguraziorie del partito come comunismo che già vive nel bel mezzo degli avvelenati rapporti di vita borghese.
Nella nostra concezione la contraddizione che opporrebbe l’individuo al partito, l’individuo alla classe, l’individuo alla specie, non prevede l’insuperabilità tra la realtà presente ed empirica, e il cosiddetto regno dei fini, il tanto ironizzato Eden comunista.
Solo la velenosa polemica dei suoi nemici attribuisce al materialismo storico un tempo-spazio sociale e naturale senza contraddizioni e senza dialettica: esso ha invece semplicemente fatto riferimento alla società socialista come inizio della vera storia della specie umana, un assoluto-relativo che non ha niente a che vedere con l’escatologia messianica, un livello dialetticamente superiore di vita sociale.
Il borghese, che teme la fine delle contraddizioni del suo campo sociale, proietta la sua ostinata e violenta determinazione a sbarrare il passo al proletariato, in movimento e in lotta per la trasformazione reale della società, e a conservare questo mondo che, nonostante tutto, continua ad essere per lui il migliore dei mondi possibili. La metafisica classica, e le metafisiche borghesi moderne comunque camuffate, cadono tutte nel dogmatismo: o di aver già definito, anche nel suo formalismo, la realtà futura fino al punto di aver previsto una stucchevole casistica classificatoria tipica del modo di pensare scolastico (basti far riferimento alle minuziose descrizioni dell’Aldilà, di cui La Divina Commedia di Dante è un esempio sublime), o di negare ogni possibilità di riferimento al futuro che riescono ad immaginare soltanto come un Nulla terrificante e vuoto. La società comunista non è la semplice proiezione, magari rivista e corretta nei suoi aspetti eccessivi, della società borghese, ma la sua negazione, né pretende di essere il regno dell’assoluto, in cui Pensiero ed Essere coincideranno pienamente.
«L’identità di pensiero ed essere, per esprimermi hegelianamente, corrisponde pienamente al suo esempio del cerchio e del poligono. Ovvero entrambi, il concetto di una cosa e la sua realtà, corrono l’uno accanto all’altro come due asintoti, avvicinandosi sempre più e tuttavia non coincidendo mai. Questa differenza di entrambi è proprio la differenza che fa sì che il concetto non sia senz’altro, immediatamente, la realtà, e la realtà non sia immediatamente il suo proprio concetto. Ma il fatto che un concetto abbia la natura essenziale del concetto, che quindi non coincida senz’altro prima facie con la realtà, dalla quale ha prima dovuto essere astratto, non toglie che egli sia pur sempre qualcosa più di una finzione, a meno che Lei non consideri delle finzioni tutti i risultati del pensiero, poiché la realtà corrisponde loro solo molto indirettamente, e anche allora in modo solo asintomaticamente approssimativo» (Engels a Schmidt il 12 marzo 1895).
Le concezioni filosofiche teoriche in genere che finiscono per considerare finzioni i risultati del pensiero, hanno attaccato e tentato di distruggere il senso di causalità, di oggettività e di verità, proponendo come magra e penosa contropartita la consolazione della fede in un Assoluto astratto e dogmatico non meglio identificato e che reintroduce i più disumani e folli fantasmi del passato.
«Il sapiente è compenetrato dal senso di causalità per tutto ciò che avviene» (Einstein; da Religione e Scienza). Questa è la base per conoscere la realtà, non solo quella naturale ma anche quella sociale.
«Il materialismo, in pieno accordo con le scienze naturali, considera come dato primordiale la materia, e come dato secondario la coscienza, il pensiero, la sensazione; la sensibilità è connessa, in una forma chiaramente espressa, unicamente alle forme superiori della materia... soltanto a determinati processi che si svolgono nella materia organizzata in un determinato modo. In realtà rimane da indagare, e poi ancora da indagare, in che modo la materia, che supponiamo essere del tutto priva di sensibilità, si lega a un’altra materia composta degli stessi atomi (o elettroni) e dotata nello stesso tempo di una ben chiara facoltà di sentire. Il materialismo pone nettamente questo problema come ancora insoluto e con ciò incita a risolverlo, incita a nuove ricerche sperimentali» (Lenin).
Questa è la nostra risposta, come si vede molto meno “dogmatica” di quanto si potrebbe pensare, di fronte alla riaccesa polemica che infuria tra i cosiddetti “epistemologhi” borghesi ed opportunisti sulla questione del valore della scienza, se cioè sia neutrale, valida per tutti, o essa stessa un prodotto storico e come tale il dialettico rispecchiamento, sul piano conoscitivo, di interessi parziali e di classe.
Il problema, pratico e teorico, ha sempre vivamente tenuta impegnata la teoria rivoluzionaria comunista, mentre borghesia ed opportunismo a fasi alterne e contraddittorie hanno ora esaltato le conquiste scientifiche sperimentali, ora hanno preferito farle precedere da fumisterie idealistiche, soggettivistiche e strumentalistiche.
AI suo sorgere la borghesia ha decapitato Dei e Re, sistemi filosofici reazionari e superstizioni. Quando le sue fortune storiche si sono oscurate per la pressione del proletariato, sempre più potente candidato a liberarsi dai suoi liberatori dal giogo feudale, la borghesia non ha avuto difficoltà a reimbarcare sul suo carro multicolore la vecchia mistica, il fideismo, le più sofisticate retroguardie e le più lambiccate avanguardie.
La produzione scientifica e filosofica naturalmente non è un generico riflesso condizionato dei rapporti di produzione e riproduzione; come ricorda Engels, in certe fasi storiche si può rilevare, secondo una valutazione molto generale, che profonde intuizioni “filosofiche” hanno perfino anticipato, pensato “preventivamente” una ricchezza di scoperte che la scienza sperimentale avrebbe poi verificato, come pure appare evidente che in altre fasi storiche le forze sociali progressive e rivoluzionarie hanno dovuto fare i conti con gli impedimenti frapposti dalla tradizione religiosa, filosofica, scientifica. Quando dunque nella fase attuale dello svolgimento della lotta di classe si ha l’impressione che vecchi fantasmi vengano riesumati contro la corretta conoscenza della realtà, di cui la teoria rivoluzionaria non può fare a meno per impostare in modo giusto la lotta trasformatrice della società e della natura, non basta ripetere che il nemico di classe fa ricorso ai vecchi arnesi per sbarrare il cammino al comunismo; è necessario determinare con sufficiente precisione quali sono i rapporti che si stabiliscono tra le condizioni economiche sociali di soggezione del proletariato al capitale, e le “forme” che tendono non solo a giustificare, ma a rafforzare e possibilmente ad “eternare” questo dominio.
È vero che il nome stesso di alcune correnti più “attuali” della dominazione ideologica di classe tradisce la propria origine che si pensava abbondantemente battuta e falsificata. Basta pensare al neo-positivismo, al neo-idealismo, e ci accorgeremo che, come si è preteso di cambiare i connotati del modo di produzione capitalistico facendo precederne il sostantivo da un più o meno nero e innocente neo, cosi nel campo filosofico e scientifico il nemico di classe, in mancanza di argomenti appropriati e attendibili, ha fatto precedere il nome delle vecchie elaborazioni con il solito neo.
Ma i comunisti rivoluzionari non sono disposti a farsi abbindolare da innocenti rivalutazioni o revivals, come si dice, senza aver prima combattuto e additato la natura peggiorativa e volgare tanto della pratica quanto della teoria borghese opportunistica. Come a suo tempo i Marx e gli Engels non ebbero timore di riconoscere il valore “scientifico”, cioè oggettivamente conoscitivo dell’economia dei classici Smith, Ricardo, Rodbertus, per mettere in rilievo lo spessore di falsità e di nessun valore di oggettività degli economisti volgari, a maggior ragione i comunisti rivoluzionari oggi non devono aver il minimo sentimento di inferiorità e di soggezione davanti alle filosofie ed epistemologie ultra-volgari degli ultra-involgariti epigoni.
Ma vogliamo passare ad alcuni esempi probanti per dimostrare che sappiamo, è il nostro metodo, andare oltre agli anatemi, pur necessari. Partiamo comunque da una base storica, non da un’illuminazione divina. La scienza borghese assume le caratteristiche del soggettivismo e della metafisica, più o meno evidente, quando la necessità di “conservare” i privilegi di classe fa aggio sulla naturale esigenza di strappare alla natura i suoi segreti per l’accrescimento delle forze produttive e l’accumulazione stessa del plusvalore. L’apparire sulla scena della storia del proletariato e del suo diagramma storico incarnato dal suo partito, comporta per la borghesia come classe dominante un doppio ordine di problemi: obbedire alla legge dell’espansione del proprio dominio di classe, favorendo la conoscenza «oggettiva della natura e della società», e nello stesso tempo impedire che tale conoscenza possa mettere in discussione sia sul piano teorico sia pratico tale dominio.
È per questo che lo scontro tra queste due contrastanti esigenze non segue una linea retta, o una curva continua, bensì assume un andamento segnato da rotture improvvise, da cadute e da riprese più facilmente rappresentabili da linee spezzate.
La borghesia ha teso a realizzare un suo cervello di classe capace di aggregare in anticipo anche nel piano teorico le sue contraddizioni: lo Stato, che nell’insuperata definizione hegeliana è l’Idea stessa. Ma quando ha creduto di aver tutto previsto ha dovuto far ricorso all’arsenale, accuratamente accumulato e preordinato per la “soluzione totale” della violenza di classe, ieri le navi da guerra del Kaiser, oggi la bomba al neutrone, ultimo grido dell’atomica ecologica!
A dirimere la questione della superiorità del Pensiero e della Scienza sulla forza bruta, sulla violenza, non sono mai state le dispute ideali, ma prove storiche di ferro e di fuoco: il 1848 europeo, la Comune di Parigi, la Rivoluzione d’Ottobre.
Per questo, di fronte all’astratta questione se la scienza sia o no indifferente nei confronti dei presunti “altri aspetti della realtà”, come si esprimono goffamente gli ideologi borghesi e opportunisti, cominciamo col rispondere che la società borghese e le società precedenti quella borghese non sono state e non sono in grado di impostare in forma generale il rapporto materia-conoscenza, non potendo che esprimere aspetti parziali di questo rapporto. La borghesia rivoluzionaria ha vagheggiato, non possiamo negarlo, una soluzione a livello di specie umana del rapporto uomo-natura, ma la sua concreta esperienza storica ha smentito la sua attitudine a svilupparlo in modo soddisfacente. D’altro canto che valore avrebbe l’affermazione nostra, del marxismo rivoluzionario, che viviamo nella preistoria e che solo il comunismo sarà l’inizio della possibilità reale di approntare piani generali di rapporto e di conoscenza della realtà?
Non c’è dubbio comunque che il tentativo più abile, per quanto datato, di ridurre l’oggettività della materia a opinione o a ipotesi fine a se stessa – nello scenario attuale dei rapporti di classe a livello mondiale, bruciati ormai i fasti dell’idealismo classico e meno classico fino agli pseudo-concetti di Don Benedetto Croce – è la concezione “strumentalistica” della scienza. Già il cardinale Bellarmino suggerì a Galilei di accettare una interpretazione soltanto strumentalistica della teoria copernicana. Osiander aveva scritto: «Non occorre che tali ipotesi siano vere. Basta che diano luogo a calcoli concordanti con le osservazioni». E Bellarmino: «Galilei agirà con prudenza se, senza pretese di verità, si limiterà a dire che, supponendo che la Terra si muova e il Sole stia fermo, rendiamo meglio conto dei fenomeni». Un Mach ante litteram! Ecco gli antesignani dell’empiriocriticismo. La chiesa – nota Popper – riconobbe che il nuovo Sistema era uno «strumento più utile dell’antico per i calcoli astronomici» e «la riforma gregoriana del calendario ne fece pieno uso pratico».
Non sono in pochi oggi ad affermare con sussiego che la scienza fondata da Osiander, Bellarmino e dal vescovo Berkeley ha avuto la meglio. Ma, e pensiamo d’essere in buona compagnia, Einstein e altri la rifiutano.
Galilei e la fisica classica presuppongono, al dire dei moderni “strumentalisti”, una metafisica “essenzialista”, secondo cui la descrizione in termini geometrici-matematici coglie la vera realtà al di là di una esperienza sensibile che è solo apparenza. «Ma questa metafisica – ammette lo stesso “razionalista” critico Popper – non era oscurantista come lo strumentalismo: spingeva lo scienziato a cercare verità più profonde e realtà sconosciute aldilà dell’esperienza immediata. L’esigenza “realistica” (Popper rifiuta di dire “materialistica” come tutti i materialisti timidi e timorosi di compromettersi col marxismo, di cui sono appunto negatori decisi) di scoprire la realtà al di là del dato sensibile va conservata abbandonando la metafisica essenzialistica senza cadere nello strumentalismo. Sebbene non si possa dire definitivamente che una descrizione teorica è vera, molte teorie efficaci (o credute tali) sono state confutate attraverso confronti con la “realtà”».
È evidente da queste argomentazioni quanto sia preoccupato l’“epistemologo” moderno della efficacia delle teorie scientifiche, in linea d’altronde con l’urgenza delle forze produttive capitalistiche di ottenere risultati possibilmente subito, infischiandosene della dimensione conoscitiva oggettiva, che al contrario il marxismo non schifa e di cui si interessa precipuamente, negando alla scienza borghese la capacità e il potere di stabilire una valida equazione tra azione e scienza.
Non c’è dubbio per noi che all’inizio c’è l’azione e che dunque la scienza è il risultato dell’azione e del movimento; da qui l’interessata polemica secondo la quale il marxismo ricadrebbe, nella sua rivendicazione dell’oggettività della materia e del sapere, in una sorta di “essenzialismo” di tipo galileiano. Si dimentica naturalmente che quando il materialismo dialettico sostiene che la materia è movimento non intende cadere in una tautologia del tipo “tutto scorre” all’Eraclito o alla Cratilo, tanto cara ai tanti Lassalle contemporanei, per poter costruire il brillante aforisma del revisionista Bernstein «il movimento è tutto, il fine nulla», ma intende, senza negare l’oggettività e la verità dei rapporti, determinare e misurare il movimento naturale-sociale nel suo svolgersi, nelle condizioni concrete storiche e materiali.
Quando il marxismo riconosce che l’astrologia è “la scienza” di certe società del passato, o che la conoscenza delle fasi lunari del contadino è la “sua scienza”, non intende mettere sullo stesso piano le interpretazioni scientifiche di fasi storiche diverse; non è cioè disposto a fare d’ogni erba una fascio perché non teme – proprio in quanto non si chiude in una concezione “essenzialistica”, né in una strumentalistica, rivendicando la capacità e la necessità di prevedere oltre i dati sensibili e oltre le teorie già confezionate – di immaginare, partendo dai risultati stessi elaborati dalla borghesia nella sua fase creativa e rivoluzionaria, una concezione della realtà in cui il movimento eterno della materia non sarà una piatta relazione del “primo impulso” iniziale, di cui hanno bisogno tutti i “creazionisti” e gli idealisti più o meno camuffati, con l’inerte cosa in sé, ma quel determinato movimento materiale-ideale-storico di cui l’umanità-specie del comunismo non intende essere né un generico accessorio né un sussiegoso e soggettivistico centro, secondo le cialtronesche illusioni degli idealisti di ogni risma.
Quando noi spariamo le nostre purtroppo in questa fase contingente solo verbali batterie contro la scienza borghese, intendiamo sostenere che l’epoca dell’imperialismo putrescente del capitale è in grado di partorire solo scienza per il capitale, cioè per l’accumulazione di merci e di conoscenza il cui unico valore è la funzionalità ad una parte dell’umanità, alla borghesia, e non all’umanità in generale. D’altro canto le stesse umanitarie e pelose sirene della borghesia lo stanno ammettendo quando riconoscono che la cosiddetta Scienza con la S maiuscola sta producendo l’annientamento o la manomissione della realtà, il disastro ecologico, la distruzione della specie. Solo che, ruffiane e false quali sono, pretendono di attribuire le colpe di tutto ciò non al rapporto sociale dominante, quello capitalistico, ma alle macchine in quanto tali, secondo la classica inversione di soggetto-predicato già smascherata da Marx che è tipica di ogni processo feticistico, e particolarmente della pretesa capitalistica di attribuire alle cose poteri e intenzioni che sono al contrario in larga misura di una classe sociale putrida e incapace di vedere e di perseguire gli interessi dell’umanità.
La scienza e la conoscenza della realtà nei suoi rapporti interni è opera delle forze sociali per la loro possibilità di accomodamento o di trasformazione felice, conoscenza dei processi oggettivi senza i quali non c’è economia, né filosofia, a cui la stessa borghesia deve sottomettersi contro ogni pretesa di mistificazione ideologica. Noi sosteniamo quindi che scienza e conoscenza sono un risultato non definitivo, ma approssimativo e storico, e come tale relativo alle diverse fasi storiche e processi storici. Neghiamo che la conoscenza di questi oggettivi rapporti e processi possa essere neutrale nel senso di indifferente agli interni processi e rapporti in cui si articola la società divisa in classi; dunque neghiamo alla borghesia – che mai come oggi si manifesta parte egoista e cieca, sanguinaria e incapace di porsi obiettivi umani-generali – il diritto di presentarsi come l’autrice e la dispensatrice della vera scienza. Per questo ci battiamo per la sua fine violenta e per l’instaurazione del comunismo.