Partito Comunista Internazionale Indice La Teoria marxista della Conoscenza
 
 
Sulla "Difesa della Vita"
Riunione di Bolzano, 26-27 settembre 1987




Riassunto del Rapporto ("Il Partito Comunista", n. 158 del 1987)
 

Nel pomeriggio del sabato si passava all’esposizione delle relazioni iniziando con un argomento insolito ma non per questo non centrale né esterno alla scienza della rivoluzione: dire la nostra circa il dibattito in corso fra borghesi e chiese sulla riproduzione umana e le sue necessità. Ovviamente lo scopo che ci diamo non è quello di far prediche ai singoli né tantomeno indicare una giusta strada a classi e regimi in dissoluzione, ma vogliamo indagare il rapporto storicamente determinato Vita umana-Capitale, che non è oggi altro che quello fra Capitale variabile e Capitale costante, cui contrapponiamo il Comunismo come possibilità di futuro per la specie.

Prima di tutto riconosciamo nelle biotecnologie un ramo della produzione capitalistica a particolarmente alta composizione organica, cioè temporaneamente ad alti tassi del profitto, e con mercato in estensione; come le armi. La moltiplicazione della vita è concepita solo come moltiplicazione dei profitti. Tutto il dibattito fra moralisti di tutte le tinte è in fondo giustificato solo dalle intricate questioni ereditarie, le stesse che fecero scrivere ai primi giuristi borghesi che «il figlio nato nel matrimonio ha per padre il marito», e siamo sempre lì.

La fantasia «scientifica» borghese, asservita al profitto e immiserita e isterilita dalla specializzazione moderna, riesce ad immaginare solo il bestiale, il disumano, da Frankestein al Dr. Faust, mentre restituisce alle chiese il monopolio dell’umano in generale, della «difesa della vita». Ma Vita è sinonimo di Lavoro e siamo solo noi, comunisti, a difenderlo, in teoria e nella pratica: solo noi lottiamo per la riduzione drastica della giornata lavorativa e per il lavoro obbligatorio per tutti. Solo chi avrà queste carte in regola potrà un giorno parlare davvero della vita e dei suoi problemi; gli altri difendono o sono allevatori e commercianti di schiavi. Nelle società divise in classi la difesa della vita è questione dei partiti rivoluzionari.

Venendo alle querelle fra Tecnologia e Teologia, che tanto affascinano ma che ci lasciano ugualmente schifati, vi scopriamo dietro solo l’angustia del piccolo borghese piccolo proprietario e capo famiglia, nell’esempio massimo americano, che già chiama il figlio maschio col suo stesso nome e che vorrebbe fatto su misura a sua immagine. La borghesia come classe resta tendenzialmente sterile, nonostante i suoi ausili tecnologici.

Ovviamente la Scienza è per noi obiettivo insufficiente in quanto il vero mandante è il Capitale, che oggi si illude di potersi riprodurre la parte variabile. Ma le società di classe sono storicamente incapaci di pianificare la vita come ogni attività particolare. E vita è rivoluzione.
 
 

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Sulla "Difesa della Vita"
("Il Partito Comunista", nn.161 e 162 del 1988).
 

La mentalità borghese non è in grado di riconoscere rivoluzioni se non nello stretto ambito delle cose «Tecnologiche», né si cura di conoscere approfonditamente le cause degli stessi sussulti che la costringono a rivoluzionarsi costantemente sotto la spinta delle forze produttive; non solo, ma per mascherare e mistificare per ragioni ideologiche questi processi, tende ad elaborare delle giustificazioni che ormai non sfiorano più il «sublime» come è avvenuto in altre fasi storiche, ma semplicemente il grottesco e il mostruoso. Ciò è dimostrato dalla grande diatriba che si è accesa nell’ambito della possibile produzione in vitro di esseri di varia natura, assemblati per ragioni di ricerca scientifica, sulla spinta delle curiosità che la malata mente borghese ha elaborato nell’ambita modernità.

Contro certe terrificanti possibilità si è lasciata la parte dell’isterica reazione critica nelle mani della tradizionale Etica religiosa; il pensiero borghese è arretrato in questo terreno su tutta la linea, in modo rinunciatario e passivo che la dice lunga nelle sue storiche illusioni, da Kant in poi, di fondare un comportamento umano autonomamente capace di giustificarsi e di progettarsi. La chiave di lettura d’una così apparentemente inestricabile matassa la può possedere solo un organismo che non persegua interessi esclusivi di classe, ma che veda dialetticamente la prospettiva storica e si ponga come suo fondamentale scopo quello di perseguire il bene della specie umana: nella nostra ottica storica il Partito di classe è da identificarsi in questo strumento necessario e capace d’una visione così elevata. Senza far ricorso a categorie astrattamente logiche o metafisiche che pretendano di spiegare l’uomo fuori della sua reale e sociale dimensione, secondo la teoria marxista dell’antropologia e della vita, ogni spinta della conoscenza verso una migliore autocomprensione non è determinata da una pura e semplice speculazione sulla struttura ideale o trascendentale della natura umana, ma dalla interazione dell’uomo in carne ed ossa con l’ambiente che lo determina e che egli contribuisce a modellare per la soddisfazione dei suoi bisogni. L’individuazione in questa esigenza di facoltà diaboliche da parte delle gerarchie della società di classe non è un fenomeno del ventesimo secolo: basti pensare che la passione per la verità è stata bollata come trasgressione fin dai primordi dalle religioni, oppure nel mito di Prometeo del pensiero greco. Le società di classe non hanno mai saputo dare una spiegazione razionale dello sviluppo umano, della sua lotta e integrazione nell’ambiente naturale e sociale: è più facile per le classi consolidate al potere demonizzare il cambiamento, vedere nella tensione verso la rottura dei vecchi involucri sociali una tentazione pericolosa per la specie umana, in vista della consacrazione del passato sulla base di sanzioni sacrali o divine.

è in un certo senso naturale che le società di classe non abbiano una conoscenza della specie e tanto meno dunque della loro origine; eppure sono proprio queste forme di società che hanno preteso di dare una spiegazione totale della vita. La nostra posizione non intende condannare questa pretesa, ma da quando l’avvento sulla scena della storia moderna del proletariato come classe ha partorito la teoria rivoluzionaria ogni concessione all’ideologia borghese e reazionaria di spiegare la vita secondo le sue anguste esigenze diventa una colpa grave nei confronti della specie: soltanto una società senza classi può superare le classiche dicotomie tra questo mondo ed altri presunti, tra interno ed esterno, tra oggettivo e soggettivo. Una organizzazione sociale che giustifica le divisioni di classe e opera per la loro eternizzazione non solo inconsapevolmente e per sua interna e inevitabile dinamica, ma scientemente e violentemente, non è in grado di conoscere e di accettare una versione della vita che privilegi le sue ragioni, la sua integrale difesa, e faccia di ciò la vera religione pensabile e possibile.

L’esempio classico che è ormai sotto gli occhi di tutti, dallo scienziato biologo al semplice uomo comune, è appunto la querelle che s’è andata drammatizzando con lo sviluppo della ingegneria biomolecolare sulla possibilità di costruire la vita in laboratorio, minando o saltando quei passaggi che sono stati definiti fino ad oggi «naturali».

Generalmente l’approccio a questa complessa problematica vede da una parte i fautori della ricerca scientifica a tutto campo; e dunque anche nella sperimentazione di metodologie capaci di fornire una visione completa dei meccanismi e delle dinamiche biologiche, compresa la sperimentazione di forme di vita da allevare in laboratorio, fino alla possibile manipolazione di dati generici; dall’altra, in nome del diritto divino o di quello «naturale», quella degli ineffabili sacerdoti della vita come dono, imperscrutabile e irriconoscibile, e dunque assolutamente non speculabile. Nell’ambiente propriamente speculativo sulla questione fa la parte del leone la teologia morale, appannaggio delle Chiese, che agiscono ancora oggi in un regime di quasi monopolio, per esplicita ammissione (con rammarico impotente) degli «scienziati» di varia provenienza ideologica.

In verità la polemica viene da lontano ed ha conosciuto asprezze di grande rilievo storico: si tratta di delineare alcune caratteristiche e risultati per comprendere la ragione dell’attuale torpore che accompagna l’agguerrita ricerca sul terreno pratico-tecnologico.

Risaputamente, almeno nel vecchio mondo europeo da cui si è formata la moderna organizzazione capitalistica del lavoro, per irradiarsi e conquistare alle sue ragioni il mondo intero, realizzando il mercato mondiale ed i suoi rapporti, lo scontro risale alla cosiddetta «era copernicana» allorché il confronto tra le vecchie impostazioni e relazioni tra Scienza e Religione, vede l’affermazione del metodo scientifico fondato da Galileo, Copernico, Cartesio ed altri non meno grandi nel cammino della rivoluzione umana.

Lo spirito metafisico e la difesa dogmatica d’ogni aspetto della cultura tradizionale venne scosso dalle fondamenta; le anticipazioni teoriche generali e le ragioni ideologiche delle tensioni che hanno matrice di classe vedranno la loro affermazione politica e generale con i grandi eventi della rivoluzione inglese nella metà del ’600 e con quella francese nella fine del ’700. Il mondo feudale, di cui la chiesa è la struttura portante sul terreno ideologico, vede restringere il suo dominio e la sua ingerenza, e dunque si chiude in una difesa aspra ed intransigente della sua forma organizzata e strumenti di controllo, specie nella seconda metà del ’500, con la controriforma. In quella fase di grande tensione sociale e di grande passione nell’ambito della ricerca teorica e morale, lo sguardo degli scienziati sembra rivolto prevalentemente ai cieli, ma ad uno sguardo più completo è rivolto ad una sistemazione delle conoscenze funzionali alle nuove esigenze della vita sociale, da quelle direttamente produttive a quelle mediate e sovrastrutturali nelle sue diverse istanze, compreso l’inevitabile rapporto con la teologia. L’erosione del potere e delle condizioni della vita sociale perdurano per ben tre secoli cruciali segnati non semplicemente, come fanno mostra di credere, et pour cause, i moderni gradualisti, da un confronto ideale, ma da duri colpi inferti dalle giovani e fresche forze produttive capitalistiche all’apparato feudale. Un bilancio molto chiaro di questo processo è leggibile nel documento denominato Sillabo della Chiesa Cattolica che, perduta irreparabilmente la sua centralità non solo in Italia ma in Europa, per arginare la pressione in tutti i campi si chiude a riccio secondo gli schemi Tridentini, almeno sul piano dottrinario e disciplinare, e denuncia tutti gli «errori moderni» dallo scientismo al razionalismo, al positivismo, al liberalismo, al socialismo, e finalmente al comunismo.

Ma, ecco il punto che ci sta a cuore sottolineare, definisce con esattezza, spesso denigrata e sottovalutata dal cosiddetto «libero pensiero», la natura della sua infallibilità, delimitata, dopo le elezioni del caso Galilei ed altri, alle questioni di morale e costumi. La cattedra di Pietro viene definita infallibile soltanto in questa materia. L’ultimo baluardo da non lasciare nelle mani del mondo profano, scientifico, produttivo, filosofico ed altro è quello dei principi morali applicati alla vita, alla sua natura, alle sue origini, alla sua prospettiva.

Il positivismo ottocentesco, tutto preso dalla sua mania di sviluppo (le magnifiche sorti e progressive) tutto pervaso dalla fede nella scienza, crede di poter lasciare nelle mani della Chiesa il terreno astratto della morale, o meglio è convinto razionalisticamente che la scienza necessariamente travolgerà ogni residuo anche ideologico del passato.

Non è possibile qui non rivendicare il valore della battaglia ideologica e teorica, che mai i comunisti hanno considerato un lusso che il marxismo combatté contro tutte le scuole revisionistiche fiduciose nel corto respiro delle cosiddette «conquiste della tecnica e della scienza». La teoria marxista, nata in un sol blocco d’acciaio, come ebbe esattamente a rivendicare Lenin, non si illude di lasciare da un canto la polemica frontale contro le concezioni reazionarie, e nel denunciare le inevitabili collusioni con questo atteggiamento, tra il pensiero liberale già infiacchito e portato al cedimento e le vecchie forze, in direzione antiproletaria. Non per niente il "Manifesto del Partito Comunista", del 1848 inizia col classico «uno spettro si aggira per l’Europa, il comunismo». Così veniva esattamente intuito il moderno pensiero dagli scaltri gesuiti e dalle gerarchie feudal-chiesastiche: lo sfascio naturale del liberalismo non potrà che aprire il varco al comunismo. è così che tutte le correnti di pensiero che minacciano di scardinare ogni fondamento metafisico della natura e della vita, anche quando nacquero rivoluzionarie e ricche di promesse (non si dimentichi che Marx propose a Darwin di dedicargli "Il Capitale", e che quest’ultimo declinò tanto onore sostenendo di non occuparsi di filosofia e di teologia; oggi diremmo di... politica), poterono nel breve periodo essere tranquillamente aggirate, adattate, perfino rovesciate nel loro significato di fondo e di base, fino al punto che oggi sono il fondamento teorico dichiarato delle più becere correnti opportunistiche che hanno fatto dell’evoluzionismo delle origini una giustificazione del gradualismo in tutti i campi, un fondamento teorico del celebre motto del principe dei revisionisti «il movimento è tutto, il fine nulla». Ci riserviamo di ritornare sulla questione più tardi: per il momento siamo fieri di anticipare e di far vedere come «tutto è connesso» inesorabilmente.

Così le correnti reazionarie, spiazzate e battute sul terreno della pratica, si proponevano come depositarie della tradizione, a protezione dei segreti della vita, in una visione sacrale che alludeva alla volontà di costituire la Riserva Morale, a cui prima o poi avrebbero dovuto fare ricorso o tornare ad attingere i fautori del profano, di ritorno dalle conquiste dell’economia e della tecnica: non a caso, dopo le violente bufere suscitate da Darwin tra i codini inglesi, allorché sembrò evocarsi per un’altra volta un caso Galilei, la problematica evoluzionismo-fissismo ha continuato ad animare la cultura positivistica. Il cosiddetto grande pensiero viene sistematicamente messo fuori gioco da una diatriba che al contrario rimane sorda tra gli addetti ai lavori; basti pensare alle vicissitudini del gesuita Teilhard De Chardin che nel tentativo di integrare cristianesimo e teorie evoluzionistiche si trovò un muro sbarrato da parte delle gerarchie cattoliche. In questo clima solo gli esperti e gli appassionati della questione sono al corrente del documento Vaticano che prende posizione sulla natura della vita e rischia di riaprire antichi steccati. Come si vede, di fronte alla minaccia delle scienze nuove, dalla antropologia alla paleontologia, alla attualissima biologia molecolare e sociobiologia, la risposta delle correnti idealistico-religiose non accetta nessun argomento probante, ma si riferisce al dogma, pena lo scardinamento non semplicemente di una materia delicata, ma di un edificio che è riuscito ad essere salvato dall’inevitabile alleanza tra residuo feudale e capitalismo.

Appena il mondo borghese ha dovuto pensare ad arginare la pressione del proletariato rivoluzionario, ha cominciato a riattingere al deposito della tradizione: sono noti a tutti i ritorni di fiamma di varie forme di fondamentalismo, non solo in campo cattolico e protestante, ma nel cuore delle vecchie religioni monoteistiche, specie nell’ebraismo e nell’islamismo, che è uno dei temi più scottanti e più chiacchierati dell’attuale momento politico-ideologico. In questa situazione si assiste ad una evidente scollatura tra le capacità tecnico-ingegneristiche, capaci di sondare i segreti della vita e delle sue storiche origini, e la pochezza teoretica dei bioingegneri che, chiusi nel loro specialismo, sono facilmente ricattabili ogni volta che devono rispondere sul terreno morale. Proprio in queste circostanze noi comunisti tocchiamo con mano la miseria dello specialismo capitalistico, la sua presunzione quando si chiude nel terreno della neutralità della scienza, nella sua condizione di ricatto continuo da parte della «domanda» di nuove tecnologie e applicazioni da una parte, e di minaccia e intimidazione dalla parte dei cani da guardia della sacralità della vita. Nel frattempo le ragioni del capitale non hanno tregua, e, lungi da curiosità vagamente mefistofeliche, specie nell’ingenua ma caratteriale America del capitalismo ad ogni costo, i problemi della trasmissione della proprietà, che sembravano ormai esclusivi del mondo feudale agrario, reclamano un’attualità in nome dell’individualistico diritto al profitto.

I fronti sui quali incessantemente si svolge la guerra del capitale sono due: da una parte fare pressione sul capitale variabile, ridurne per quanto possibile le pretese e le esigenze per aumentare i tassi di profitto; dall’altra assicurare attraverso i meccanismi sociali e familiari la trasmissione del patrimonio per garantire la sopravvivenza della classe dominante ed eternarne il dominio. Sul fronte della riduzione alla ragione della forza lavoro non abbiamo bisogno di insistere molto: soltanto noi marxisti rivoluzionari non abbiamo mai ceduto sul terreno teorico nel sostenere la tesi del valore-lavoro, e nel non concedere mai nulla agli avversari che hanno sempre tentato, ed anzi oggi si vantano di avere definitivamente smascherato questo dogma.

Non è casuale che l’infortunio capitato al professor Chiarelli di Firenze abbia toccato proprio questo punto: la notizia della pratica messa a punto di innesti che permetterebbero la produzione in vitro di sotto-uomini volontà (o meglio «libero arbitrio») e dunque soltanto capaci di eseguire e alleviare i «veri uomini» del lavoro di routine, esecutivo ed estenuante, ha fatto nei recenti mesi il giro del mondo, con penosi distinguo, ritrattazioni, condanne ed altre messe in scena. Ma il cattedratico ha parlato, e coscientemente o meno ha toccato il punto dolente della questione che ha mandato in bestia i benpensanti. Oh! Che cosa orribile, pensare a mostri docili e imbecilli, tutto lavoro, casa e... famiglia verrebbe la tentazione di dire. Se non fosse che il capitale dispone già di simili strumenti di vecchia produzione, dovremmo cominciare veramente a crederci. La realtà è che in tutti i campi, dalla vile economia di tutti i giorni ai laboratori di ricerca, l’ossessione della borghesia è sempre quella: togliere dalla testa della forza lavoro la possibilità sia pure remota di ribellarsi, risparmiare sugli strumenti di dominio, ottenere la più lubrificata formula che è l’ossessione dell’opportunismo, e cioè garantire burro e cannoni, e non essere ogni giorno di fronte al dilemma che generò i mostri alla Hess, l’autore del classico aut aut, «o burro o cannoni». In quest’ottica, la tentazione che ha sempre sollecitato la società di classe sembra prendere corpo. Mentre Greci e Romani si vantavano del loro sistema fondato sullo schiavismo, che permetteva ai proprietari di chiamare lo schiavo «strumento vocale» ed essere serviti, il moderno sistema del capitale potrebbe ottenere il risultato una vota per tutte, creando finalmente uno strumento rinnovabile all’infinito, riproducibile in via artificiale. Oh! Intendiamoci, non ci passa neanche per la testa di dar per buona, e cioè realizzabile alla scala sociale, una realtà di questo genere: e non per astratte ragioni morali, ma perché il capitale dovrà prima fare i conti con la vecchia (neanche più esistente, secondo alcuni) classe operaia, determinata a lanciarsi all’assalto del dominio borghese, quando sarà necessario, e decisa ad opporsi ad ogni bestialità proprio in nome della sua esistenza di classe, prima, e della specie, per conseguenza inevitabile.

Sul fronte invece della trasmissione dei rapporti proprietari fondati sul profitto capitalistico e garantito dalla famiglia monogamica (ormai plurigamica in via mascherata e legittimata dal divorzio e dalle rammendature del diritto borghese) la produzione in vitro sembra aprire ai borghesi, resi sempre meno fecondi dagli stress, dalle droghe e dagli egoismi della cultura ufficiale, delle prospettive insperate, che vengono camuffate dalla necessità di combattere le deficienze genetiche (che sarà veramente attuato dai costumi e dalla scienza nel comunismo) ma che al contrario rispondono alla preoccupazione più vera, quella di ottenere eredi, intelligenti ed efficienti, possibilmente della stessa natura del Padre, secondo metodo della clonazione, che in America è già una ripugnante pretesa. Ancora una volta una smentita alla mistificazione borghese e soprattutto opportunistica che sembra voler relegare da un canto l’astensione del proletariato negli assetti proprietari, sostenendo la tesi che oggi tutto è questione di «gestione» del capitale, di «management», e non di titolarità giuridica personale, di viventi e riproducentesi classi.

Le cose si mettono anche peggio quando la scienza della vita di questo tipo di società si avventura alla ricerca delle origini. Fatta salva la curiosità e la passione per la propria storia, che ha una dimensione non indifferente nella struttura teorica della nostra stessa visione del mondo, è anche sempre non inutile scoraggiare ogni tentativo borghese di darci una visione della vita biologica e delle sue origini. Prodotto della cultura rinascimentale che scopre l’uomo copernicano e la prospettiva storica come antidoto ad ogni possibile appiattimento nella concezione fissista e creazionistica, la borghesia anche quando ha nei suoi più cospicui ideologi difeso, addirittura instaurato una Ragione della Storia, davanti alle sue origini biologiche si è quasi sempre genuflessa alle versioni romanzate e metafisiche. Nonostante che l’etnocentrismo europeo oggi faccia ammenda delle sue esagerazioni e rispetti a suo modo e per i suoi interessi le favole dei popoli primitivi e dei selvaggi che credono nei miti, indecorosi per un evoluto civile occidentale, la sua versione dell’origine della vita non è certamente molto più organizzata, più consapevole e capace d’orientarlo nell’ambiente. Senza ripercorrere le nozioni classiche, che hanno almeno il merito etico dell’insistenza sul valore del «dono» della vita stessa, quando appare agli albori della moderna concezione scientifica in campo biologico il tentativo di sbloccare il fissismo in nome dello sviluppo, della dialettica tra vita e ambiente, il clima culturale complessivo si è progressivamente ripiegato, al punto che dopo un secolo circa di diatribe abbiamo l’onore di vedere risalire la corrente ad interpretazioni che cercano un fondamento sperimentale al neo-fissismo dei vari fondamentalismi anche di tipo laico.

Il nostro punto di vista sulla questione si ispira alla più cristallina delle forme scientifiche, e cioè alla fiducia nella ricerca senza apriorismi metafisici e nello stesso tempo alla affermazione per la quale la chiave di lettura delle leggi oggettive della natura non sta fuori della natura e dell’uomo, ma nella natura e nell’uomo: in una parola, non demordiamo dalla posizione prometeica per la quale le leggi dell’universo non possono essere estranee e ostili all’uomo per definizione, ma possono essere ostili all’uomo-individuo una volta che egli si chiude nel suo soggettivismo, non maturi una sua integrazione nella specie e non accetti di vivere e di trasformare in meglio questa sua realtà.

Dunque, nel campo dell’origine della vita, che avrebbe la pretesa di presentarsi come l’apriti sesamo di tutti gli enigmi, o ripetiamo stoicamente e un po’ cinicamente che le origini sono sempre incerte, oppure, senza la pretesa di incrociare l’ora X, non siamo estranei ad una concezione generale che finalmente sembra trovare cultori sia pure isolati e decisi anche nell’attuale universo scientifico. Del resto, l’intuizione di Giordano Bruno (non per niente l’audace fu bruciato vivo nel 1600) è che viviamo in una infinità di mondi possibili, dove tutto è centro e tutto è periferia.

Il materialismo storico ha sempre negato alla scienza borghese di potersi occupare validamente dei cieli senza essere capace di affrontare i suoi problemi terrestri, ma non è estraneo a guardare lontano, anzi rivendica una passione rigorosamente antisoggettivistica, e dunque non antropocentrica, non geocentrica. Il tentativo galileiano di depurare la scienza da ogni antropocentrismo è un classico che rivendichiamo. Ed allora per tornare al nostro punto, ci sembra piuttosto ovvio non escludere che quello che chiamiamo vita sia un fenomeno appunto «cosmico», la cui speculazione è soltanto intuita e soltanto agli inizi. Ma proviamo a sentire qualche esperto in materia (Hojle). Su questa base potrebbero cadere tutti i miti sul popolo eletto e sugli etnocentrismi di varia provenienza; ma soprattutto verrebbe smentito ciò che a noi piace e ci conferma, ogni pretesa di diritto di natura fondato su una lettura metafisica e astratta. Non è casuale infatti che dopo aver opposto alle concezioni del passato il proprio metodo fondato sulla pratica e sulla realtà sperimentale lo spirito borghese ha nel corso del tempo recuperato i ferri vecchi, li ha rilucidati a nuovo e li brandisce in sostanziale alleanza con i vecchi nemici proprio in nome dell’assolutezza della vita e della storia, d’una nozione del diritto, della politica, dell’economia, per non parlare della sovrastruttura più sofisticata e sublime che non ammette sviluppo evoluzione cambiamento, che invece postula la sua verità, la sua ferrea legge, che sta a cuore come sempre a tutte le classi conservatrici. La ricerca delle fonti della vita e delle sue regole in una versione aprioristica e assoluta ha generato concezioni aberranti che come sempre ha avuto lo scopo di impedire alle classi dominate la loro emancipazione.

La vecchia e ormai ipocrita tensione fra scuole idealistiche o razionalistiche che si rinfacciano l’oggettivismo o il soggettivismo viene a trovare così una smentita sperimentale: la famosa tesi di Marx a Feuerbach, per la quale la soluzione dell’enigma non è un problema scolastico, ma pratico, trova la conferma nel riconoscimento che la vita cosciente è lo sviluppo della natura inconscia e viceversa, in un processo di integrazione che nell’uomo tende a farsi sempre più consapevole, capace d’un progetto, d’un piano nazionale, alla condizione che non urti contro limiti di classe, che cioè non sia una pia recitazione di norme universali contraddette dalla pratica filistea, ma una necessità che si impone alla specie nella sua unità per la sua stessa possibilità di svilupparsi e di realizzare l’integrazione ottimale e la vita nella sua totalità. E d’altronde i risultati ideologico religiosi che hanno sempre accompagnato la lotta delle classi da quando la storia è diventata storia della lotta di classe, non hanno avuto altra fantasia e alternative che quella di rivendicare la propria esclusiva validità, contro quella degli altri, in nome d’una predilezione ed elezione da parte d’un Ente superiore. Anche quando è stato razionalizzato dalla borghesia rivoluzionaria questa operazione non è riuscita che a creare un nuovo Ente astratto che doveva e poteva mascherare le irrisolte tensioni di classe, ed ha cominciato subito a mietere le teste riottose che intuivano il comunismo come l’unica possibile, radicale e consequenziale soluzione dell’enigma.

La rivendicazione del diritto uguale è stata da noi riconosciuta come rivoluzionaria, ma solo come referente storico che poteva sospingere il proletariato a combattere contro il feudalesimo, senza illudersi di allearsi per sempre con i più preparati e agguerriti rappresentanti della borghesia. La conferma del fallimento storico del diritto uguale la troviamo infatti nella nostra lettura della storia dei diritti stessi, nell’enunciazione di forme che, mano a mano che il sistema capitalistico si dispiega e si complessifica cioè raggiunge la sua maturità naturale cioè formale e sostanziale, si manifestano sempre più chiaramente come vuoto guscio incapace di essere riempito. Non è casuale che dopo la lapidaria richiesta di giustizia uguale per tutti, la fonte d’ogni fattispecie giuridica che dovrebbe garantire ad ogni vivente la sua possibilità di sviluppo senza impedimento delle stesse condizioni per gli altri, si sia frantumato in una miriade di schegge e di frammenti tra loro in contrasto; quello che il professore accademico chiama ormai giungla giuridica, quella produce le «gride» di sempre.

Ed allora, come il gambero, di passo indietro in passo indietro, oggi si è scoperto finalmente il «diritto alla vita», come se questa realtà elementare che non sappiamo come definire se non essendo dentro ad essa, viene assimilata ad una delle tante rivendicazioni, come quella al lavoro, alla equa retribuzione e ad altre proudhonate di questo genere. La vita di cui la borghesia non ha neanche la pallida idea di cosa essa sia, verrebbe finalmente garantita da tutte le sue più brutali e subdole istituzioni, che la proclamano sacra e inviolabile, dichiarando di tutelarla in tutte le sue forme e senza discriminazioni. In realtà, poiché il diritto nasce vecchio, le sistemazioni e le dichiarazioni giuridiche non sono che la sanzione d’un dato di fatto che la borghesia e la sua cultura non può assolutamente smentire: al modo di produzione capitalistico la vita umana non può che interessare che come merce, come capitale variabile la cui quintessenza consiste nella proprietà scoperta da Marx nelle sue opere, quella di valorizzare il capitale, di accrescerlo indefinitamente, essendo appunto prassi, cioè lavoro, capacità di trasformazione della realtà, e dunque l’unica effettiva ricchezza, la ricchezza che dialetticamente si accompagna e si sposa alla povertà, alla scarsità, e la rende realtà umana, la cristallizza, la realizza. Date determinate condizioni economiche e sociali, il lavoro umano, mentre è capace di sovvertire e trasformare profondamente queste condizioni, lo può far già all’interno di determinati limiti, come ricorda correttamente la famosa introduzione di Marx alla "Critica all’Economia Politica"!!

In questo modo, essendo la vita umana il capitale variabile che tutto trasforma e che tutto fa diventare oro per il capitale come per re Mida diventa oro tutto quello che tocca, non può essere che l’oggetto della perenne tortura per il Capitale morto o costante quell’enorme accolta di merci il cui interesse e dannazione è quello di aumentare, di crescere a dismisura, di reificare appunto la vita. In questo senso allora tutte le buone intenzioni borghesi (e di buone intenzioni è lastricato l’inferno) di rispettare l’uomo, di valorizzare la vita si scontrano con le sue stesse interne e insanabili contraddizioni. La politica, il diritto, la sovrastruttura diciamo così più vicina alla struttura economica, non possono che venir dopo a giustificare il già determinato con la velleità di operare al di sopra e contro i dati stessi, manipolandoli o sottomettendoli: il contrario esatto della tesi marxista per la quale può essere assecondata solo sottomettendosi ad essa, conoscendone profondamente la trama, riconoscendone le esigenze, soddisfacendole senza egoismi, affermando le sue ragioni. Non si può salvar l’anima all’uomo se prima non si è aiutato a soddisfare le sue esigenze di vita, se non dandogli da mangiare se ha fame, da bere se ha sete, un ricovero se non lo ha. Chi pretendesse di non vedere quest’uomo in carne ed ossa, questa merce tutt’affatto particolare, e di farne l’uso che vuole nel senso della soddisfazione di un fine che non è l’uomo stesso, con questo atteggiamento lo sottoporrà ad una legge disumana, estranea alla natura della realtà vitale.

è inutile che opportunismo e borghesia, specie se progressista, si straccino le vesti di sdegno al ricordo degli stermini, se non riconoscono d’essere essi stessi i difensori, ormai neanche più indiretti, della moderna schiavitù. I limiti dell’uso della merce variabile non possono essere il prodotto della sanzione del diritto o della eticità della politica, ma il rispetto della natura reale del lavoro che è alienato ogni volta che non valorizza sé stesso, ma il capitale, la montagna di merci che essa è in grado di elevare sopra di sé come la classica pietra di Sisifo.

L’interesse dunque del mondo borghese per la vita trasuda ipocrisia da tutti i pori, e va respinto e combattuto. Questi sono i capisaldi teorici su cui poggia la nostra visione della vita, una realtà che è la vita reale stessa, la cui essenza in quanto tale noi non tanto abbiamo rinunciato a definire, come si pretende da parte delle scuole spiritualistico-idealistiche, ma che è appunto in sé indefinibile indipendentemente dall’essere vissuta a livello sociale, fuori da ogni angusto punto di vita soggettivistico ed esistenzialistico, che esasperando in senso paradossalmente opposto la definizione ad essa data dalla tradizione metafisica ha finito per distruggere il senso comunistico e sociale di essa.

Per questo motivo le diatribe attuali sulla Bioetica non approdano a nulla, poiché pretendono di definire la natura della vita in astratto, fuori dal suo contesto pratico e sociale, dimenticando che è la stessa dinamica della scienza che pone dimensioni continuamente diverse alla definizione. Si pensi alla liceità della soppressione della vita stessa al suo nascere o al suo tramonto, e si pensi a rapportarla alla speculazione storica che su di essa non ha mai finito di sbizzarrirsi. Per i Soloni islamici dell’università El Azhar del Cairo l’essere umano non è tale se non dopo il terzo mese del concepimento, mentre per le scuole occidentali esso è tale dal momento stesso del concepimento, pur nella distinzione tra il suo essere in sé ed il suo essere psicologico e sociale. Quanto più le condizioni della vita reale dominata dal capitale della sua logica impediscono lo svolgimento della vita stessa, tanto più la speculazione si incaponisce nella sua astratta determinazione. Nel campo della «costruzione» in vitro della vita il dibattito verte particolarmente non tanto sulla possibilità di sperimentazione, che sono in atto come abbiamo ricordato, ma sulla liceità del concepimento al di fuori dell’atto sessuale e d’amore; così i costruttivisti si trovano a fare i conti con la rivendicazione da parte dei reazionari della creazione di vita come possibile unicamente da un rapporto sociale elementare, in un certo senso. Nella totale deficienza della speculazione borghese, il riconoscimento che la vita è all’origine un fatto sociale, rialzano la testa quelle correnti che nel loro sovrano rispetto per la vita non hanno mai arretrato di fronte alla tortura e allo sterminio, alla «guerra santa» e alla depressione di classe come modo normale di perpetuazione del dominio.

Soltanto la nostra ferma sia pure flebile voce è in grado di rivendicare la natura sociale della vita dal suo sorgere al suo sviluppo, con la differenza che non basta – infatti la neghiamo – la sanzione sacrale che tabuizza e non spiega, né difende e sviluppa, poiché soltanto la dialettica materiale biologica-spirituale non è scindibile, ma si afferma proprio nel perseguimento della pienezza della vita sociale che soltanto il comunismo è in grado di definire e di perseguire praticamente.

Naturalmente non siamo sordi all’obiezione che viene correntemente sollevata: sì, ma nel mentre il comunismo è al di là da venire, che fare in rapporto alla pratica tecnologica che minaccia di rendere la vita dell’uomo un assemblaggio di pezzi ed una produzione tra le tante, sia pure di particolare natura? La difesa della vita umana anche dal punto di vista contingente non è possibile nell’osservanza dei precetti, ma nella lotta contro il capitale, sia nel senso delle sue prospettive e dei suoi fini, sia nel senso della sua pratica quotidiana, che non è in un momento diverso da quella. Diciamo senza mezzi termini che i proletari, per definizione, non hanno da trasmettere alcuna eredità o proprietà, se non quella del loro patrimonio storico e di classe, che coincide con quella della specie e che dunque le sperimentazioni di cui sopra (è statisticamente e socialmente provato) non li riguardano se non in minima misura: che il desiderio di vita del proletariato coincide con quello dei diseredati di tutte le latitudini, indipendentemente dal sesso, dal colore della pelle, dal credo filosofico e religioso e via di seguito, e che dunque non si pone a livello individuale.

Ciò che spaventa di più la borghesia in questa avventura ancora abbastanza oscura e confusa è la perdita della propria identità e senso di appartenenza: noi come comunisti abbiamo sempre affermato in modo perentorio che uno dei limiti più evidenti della borghesia come classe è la mancanza di una effettiva identità, «coscienza di sé», anche se il termine un poco ci ripugna. Pur nell’ammissione dialettica che la portata storica di questa compagine sociale è stata quella di aver abbattuto con violenza le vecchie bardature feudali e l’involucro angusto della economia chiusa della curtis, non abbiamo però mai ammesso che la borghesia abbia saputo dare un assetto teorico e organizzativo valido, proprio perché velleitario nella tensione tra il suo essere bourgeais e la sua aspirazione ad affermarsi come citoyen. Nello scontro, o tagliente dilemma, nonostante sprazzi di ferro e di fuoco, ha finito di vincere il bourgeais con il suo filisteismo, la sua effettiva mancanza d’ avvenire e di senso della specie, il suo originario esser «latro» come recitavano i moralisti medioevali. Di fatto l’accanimento e l’ipocrisia nel fare uso del proletario fino dagli albori del modo di produzione capitalistico è preminente in rapporto alle glorie e ai meriti della borghesia: per questo la sua condanna sta in qualche modo nelle sue origini.

Solo qualche spirito solitario ha saputo pensare in grande, ad una grande economia, ad una grande politica, capace di imporre una effettiva razionalità alle forze della natura e a quelle sociali: per il resto ha vinto ampiamente lo spirito mercantile e bottegaio, il tanto esaltato, specie di questi grami, tempi, pragmatismo, il vivere alla giornata, e il vedere come Luigi XV e l’après moi le déluge. Se questo è l’orizzonte teoretico complessivo e diciamo pure medio della borghesia si comprende come anche in rapporto alla vita e alla sua teoria di base il borghese non sappia decidersi tra il costruire il proprio futuro in grande, contro le angustie delle ragioni proprietarie e patrimoniali, e il rifugiarsi nella mistica della madre natura, intoccabile e sacra, ora alma mater, ora matrigna perfida e ingrata. Si è avuto notizia recente d’un grande piano concepito dal Nobel Dulbecco, che avrebbe l’ambizione di determinare non la conoscenza di qualche cromosoma o genio, ma una mappa complessa della vita, che permetterebbe di intervenire nella messa a punto d’una umanità sana, correggibile secondo un piano razionale, e non a caso, come succede per sua ammissione oggi. Ecco un ulteriore esempio di velleità che ci permettiamo di definire impossibile nell’ambito delle attuali contraddizioni di classe. Abbiamo avuto ragione ampiamente nel giudicare la sbornia missilistica e la pretesa di colonizzare il cosmo; ci permettiamo di prevedere lo stesso sfacelo, non perché manchi l’intelligenza in quanto tale ma perché gli interessi contrastanti metteranno in crisi simili pensamenti.

L’umanità, contrariamente alle ipotesi del pensiero borghese, non è stata anticipata nei laboratori e nella scienza astratta, come si crede, ma dalle forze pratiche e sociali che hanno spinto in avanti e determinato laboratori e ricerca, scienza e filosofia. Questo è il ribaltamento teorico operato dal marxismo, che noi confermiamo. Non saranno i laboratori dei mostri borghesi a rivoluzionare la vita, ma la rivoluzione sociale a gettare le basi di quel tipo d’assetto sociale che potrà correggere gli alvei dei fiumi, rendere pacifiche bestie tigri e leoni, come dice bellissimamente Trotski, trasformare le spade in aratri, e via dicendo con queste che non sono favole, derise o raccontate con sufficienza dai cinici della borghesia ma possibilità pratiche e conosciute dal comunismo.

Quando il marxismo nell’analisi de "Il Capitale" individua nella merce lavoro, nel capitale variabile la pietra angolare sulla quale si eleva l’edificio del profitto, è fedele alle sue premesse di base e alle sue scelte di valore: e cioè mentre dal punto di vista della sua lotta si mette con sentimento e col cuore (nel senso più elevato e classico di questo termine... le ragioni del cuore di cui già parlava Pascal) e dunque fa della ragione del proletariato che ha a disposizione proprio ed esclusivamente la vita, l’unica ragione per la quale ha senso combattere, non si lascia travolgere dalla fraseologia edificante o ad effetto, e si rende conto che questo metro di misura, questo assoluto-relativo, nel modo di produzione capitalistico è soggetto alla pressione continua delle condizioni del mercato, il suo essere merce che varia in rapporto ad una serie complessa di fattori. Questa presa d’atto non è un’accettazione ed una rassegnazione fatalistica, ma un punto di partenza che permette di conoscere la struttura del capitale, il suo essere vampiro assetato di sangue proletario; ed è anche la premessa teorica che permette al marxismo di prefigurare un assetto sociale nel quale le ragioni della vita, del lavoro, non soggiacciono più a questo tipo di pressione, ma unicamente allo scambio con la natura, a sua volta adattata e migliorata, «integrata» all’opera umana.

Ecco, di fronte a questa operazione dialettica che vede possibile l’unione dell’assoluto, almeno come posizione, col relativo, e cioè l’essere col divenire, qualsiasi versione di pensiero borghese e reazionario si impunta, reagisce, si fa minaccioso e rigido, e brandisce le armi della critica insieme a quelle ben più poderose della reazione di classe. Il marxismo allora viene detto disumano, incapace di assumere i valori in astratto, nella loro validità categorica e disincarnata, come imperativi categorici di fronte ai quali tutto dovrebbe essere sacrificato, la vita stessa, appunto, e preferibilmente quella del proletariato che detiene solo questa «proprietà». Il nostro «relativismo» viene così accusato di dogmatismo, e tutti gli sforzi vengono rivolti alla ricerca di una filosofia che faccia da cappello, da introduzione e da giustificazione. Insomma non si digerisce il fatto che il relativismo marxista non ha niente a che vedere con la pura e semplice teoria logica delle relazioni, dal momento che poggia nell’assunto che quello che per il capitale è variabile e relativo e dunque manovrabile e comprimibile fino allo schiacciamento di classe, per il comunismo è invece da difendere come un assoluto, nel senso che non è carne da macello da gettare nella mischia per tattiche più o meno raccomandabili a livello scolastico; perché per il comunismo la difesa del capitale variabile, o della vita, nel momento contingente coincide con i suoi fini, che sono anche e soprattutto i fini della specie nella sua totalità. è su questo terreno che i veri comunisti sono in grado di smentire la controrivoluzione operante nel proprio campo e che ha visto attori fino a ieri compagni, da Stalin agli epigoni; proprio perché l’opportunismo, prima revisionista di vario tipo, e quello di matrice staliniano poi, si sono illusi di utilizzare la vita proletaria, di usarla e di manometterla, disgiungendo la tattica dalla strategia, i mezzi dal fine. Il comunismo di Marx e di Lenin non ha mai concepito la possibilità di fare mercato delle condizioni del proletariato nella norma specificamente borghese, sia sul piano economico immediato che su quello politico: non ha mai pensato di sacrificare il proletariato per scopi che non fossero la sua stessa vita, anche attraverso la sua vita stessa; cioè non ha concepito alleanze con classi nemiche abbandonando la propria autonomia organizzativa, accettando cioè di farsi strumento di altri interessi perdendo di vista il suo interesse storico, il suo fine.

Ecco dunque svelato il mistero dell’assoluto-relativo, della vita che è il valore unico della classe operaia ridotta a capitale variabile dal profitto, ecco dunque svelato il mistero di come la vita proletaria possa sacrificare se stessa, ma per se stessa e per la specie, fuori dagli universali kantiani della legge del dovere, fonte di equivoci borghesi di tutti i tempi, fino alla professione bernsteiniana di fede negli eterni valori che hanno comportato il tradimento per la causa del socialismo, ieri e oggi.